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martedì 10 giugno 2014

Cassazione: Tutela della maternità







Cass. civ. Sez. lavoro, 03-11-2008, n. 26381

Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo


Con sentenza depositata il 13 dicembre 2004, la Corte d'appello di Napoli ha confermato integralmente la sentenza in data 16 gennaio 2003, con la quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva dichiarato la nullità del licenziamento comunicato, all'esito di una procedura di mobilità, dalla Industria @@@@@@@@ s.r.l. a T.L. con effetto dal 6 luglio 2001, quando la lavoratrice si trovava in stato di gravidanza.
In proposito, la Corte territoriale ha ritenuto applicabile alla fattispecie esaminata, in ragione della sua collocazione temporale, il divieto di collocamento in mobilità della lavoratrice madre a seguito di licenziamento collettivo, stabilito dal D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, comma 4, interpretato come assoluto prima della modifica a tale norma apportata dal D.Lgs. 23 aprile 2003, n. 115, art. 4, comma 2, che ha escluso dal divieto l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda.
In ogni caso, anche a voler ritenere che il divieto di licenziamento in caso di mobilità non fosse applicabile ove dovuto alla cessazione dell'attività dell'azienda, anche prima della entrata in vigore del D.Lgs. n. 115 del 2003, e ciò ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b) - interpretato dalla giurisprudenza prevalente nel senso che la relativa esclusione ricomprenda anche l'ipotesi di cessazione dell'attività del reparto cui è addetta la dipendente, purchè dotato di autonomia funzionale e nella impossibilità di una diversa collocazione della lavoratrice -, la Corte territoriale ha rilevato che la datrice di lavoro non aveva nel caso in esame fornito la prova, su di lei incombente, della effettiva soppressione integrale del reparto amministrativo cui era addetta la T. e comunque della autonomia dello stesso e ha confermato la sentenza di accoglimento di primo grado anche per queste due subordinate autonome ragioni.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la Industria @@@@@@@@ s.r.l., articolando tre motivi.
Resiste alle domande T.L. con proprio rituale controricorso.
La società ha altresì depositato una memoria difensiva ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione


1 - Col primo motivo di ricorso, viene dedotta la violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c..
In proposito, la ricorrente ricorda che il giudice di prime cure aveva anzitutto interpretato il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, nel senso che il divieto in esso stabilito non era applicabile in caso di licenziamento collettivo conseguente alla chiusura dell'azienda o del reparto cui la lavoratrice madre è addetta anche nel caso in cui si tratti di licenziamento collettivo con collocamento in mobilità ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, ed aveva escluso peraltro la ricorrenza nel caso esaminato di una tale fattispecie per difetto di prova da parte della società della autonomia funzionale del reparto amministrativo cui era addetta la T..
Poichè quest'ultima non avrebbe proposto appello incidentale per sostenere la natura assoluta del divieto di licenziamento antecedentemente alla modifica apportata alla norma citata dal D.Lgs. n. 115 del 2003, e quindi nel periodo in cui era stato operato il licenziamento della T., la società ricorrente sostiene che si sarebbe formato sul punto il giudicato interno, che la Corte territoriale non avrebbe rispettato con l'adottare una diversa interpretazione della norma indicata.
2 - Col secondo motivo di ricorso, la società deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., nonchè il vizio di motivazione della sentenza impugnata, con riferimento alla statuizione con la quale la Corte napoletana ha ritenuto non assolto l'onere probatorio gravante sull'impresa in ordine all'autonomia funzionale del settore amministrativo rispetto a quello produttivo.
La società aveva infatti ribadito in appello che l'intera funzione amministrativa era stata affidata ad una impresa esterna. Se la Corte territoriale avesse valutato tale situazione, non avrebbe pertanto potuto che concludere, secondo la difesa della società, nel senso della autonomia del reparto amministrativo rispetto a quello produttivo, del resto intuitiva anche sul piano logico.
3 - Col terzo motivo di ricorso, la sentenza impugnata viene censurata per violazione dell'art. 112 c.p.c., e art. 1362 c.c. e ss., nonchè per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., e per vizio di motivazione, con riferimento alla statuizione con la quale la Corte territoriale ha ritenuto il difetto di prova in ordine alla stessa cessazione dell'attività del reparto amministrativo cui era addetta la lavoratrice.
Secondo la società, infatti, un tale rilievo non sarebbe stato prospettato in appello dalla parte appellata e, comunque, la relativa valutazione costituirebbe il frutto dell'omessa considerazione di una circostanza decisiva rilevabile d'ufficio dalla lettura del verbale di esame congiunto L. n. 223 del 1991, ex art. 4, redatto il 4 aprile 2001, "prodotto in atti dalla stessa lavoratrice" e relativo alla procedura di mobilità che si era conclusa anche col licenziamento della resistente, dal quale si desumerebbe la soppressione dell'intero ufficio amministrativo, i cui dipendenti erano stati quindi in parte licenziati e in parte addetti a mansioni diverse, anche di tipo operaio.
La ricorrente conclude pertanto chiedendo la cassazione della sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge.
Il ricorso è manifestamene infondato.
La norma relativa al licenziamento delle lavoratrici madri vigente all'epoca del licenziamento collettivo della T. era quella di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, decreto contenente il "Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma della L. 8 marzo 2000, n. 53, art. 15".
Tale norma, proveniente, quanto al licenziamento, dalla L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2, dopo aver ribadito, nei commi 1 e 2, il divieto di licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza al compimento di un anno di età del figlio, con le eccezioni di cui al comma 3, tra le quali quella relativa alla "cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta", contiene al comma 4, una disposizione del seguente tenore:
"Durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, semprechè il reparto stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni".
Nel successivo Decreto 23 aprile 2003, n. 115 - emanato ai sensi della Legge Delega 8 marzo 2000, n. 53, art. 15, comma 3, come modificato dalla L. 16 gennaio 2003, n. 3, art. 54, (che aveva prorogato fino a due anni l'originario termine di un anno assegnato al Governo dalla L. n. 53 del 2000, art. 15, comma 3, per procedere all'eventuale emanazione, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui al comma 1, di disposizioni correttive del testo unico) -, l'art. 4, comma 2, ha inserito nel D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 4, dopo le ultime parole, le seguenti: "salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda di cui al comma 3, lett. b)".
La Corte territoriale, diversamente dal giudice di primo grado, ha interpretato la norma citata di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, comma 4, nel senso che questa avrebbe introdotto, successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo (pubblicato sulla G.U. del 26 aprile 2001) e fino alla entrata in vigore del D.Lgs. n. 115 del 2003, un divieto assoluto di licenziamento della "lavoratrice madre" a seguito di procedure di mobilità.
Conseguentemente, ha ritenuto nullo il licenziamento dell'appellata, comunicato con effetto dal 6 luglio 2001.
Sostiene al riguardo la ricorrente che, così giudicando, la Corte territoriale avrebbe violato gli artt. 112 e 324 c.p.c., in quanto sul punto relativo alla interpretazione della norma citata si sarebbe formato il giudicato interno, poichè alla diversa interpretazione del giudice di primo grado, secondo la quale la norma avrebbe implicitamente escluso dal divieto di licenziamento in mobilità, in particolare, l'ipotesi di cessazione dell'attività cui è addetta la lavoratrice, non aveva corrisposto da parte della appellata la proposizione di un appello incidentale per ribadire l'interpretazione che la Corte territoriale avrebbe fatto poi propria.
Al riguardo, va peraltro ricordato in via di principio che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio non ha ragione di discostarsi, la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha l'onere di proporre appello incidentale per chiedere il riesame delle domande e delle eccezioni respinte, ritenute assorbite o comunque non esaminate con la sentenza impugnata, essendo sufficiente la loro riproposizione nelle difese del giudizio di secondo grado, ai sensi dell'art. 346 c.p.c., onde evitare che le stesse si debbano intendere implicitamente rinunciate (cfr., da ultimo, Cass. 6 settembre 2007 n. 18691 e 24 maggio 2007 n. 12162).
Nel caso in esame si rileva che, come precisato e riprodotto dalla resistente nel proprio controricorso, a pag. 11 della memoria difensiva ritualmente depositata dalla sua difesa in sede di appello, era stato tra l'altro ribadito il richiamo al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, comma 4, in quanto espressamente statuente che "la lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223".
Dovendosi pertanto ritenere riproposte in appello dalla T. le proprie difese anche in ordine alla applicazione della norma indicata nella interpretazione di essa sostenuta con riguardo al periodo considerato, la pronuncia della Corte territoriale che quella interpretazione ha fatto propria non è affetta dal vizio denunciato.
Inoltre, quale che sia la corretta interpretazione della norma in parola, l'accertamento svolto in via principale dalla Corte d'appello sulla base di essa relativamente alla fondatezza della domanda della T. - e quindi con riguardo alla nullità del licenziamento in quanto intimato in violazione dell'art. 54 cit., comma 4 -, non essendo stato in alcun modo contestato nel merito dalla ricorrente, come rilevato anche dalla resistente a pag. 12 del controricorso e in particolare non avendo costituito oggetto di uno specifico motivo di ricorso per cassazione quanto alla interpretazione della norma di legge applicata, è divenuto definitivo, essendosi su di esso formato il giudicato, rilevabile anche d'ufficio in sede di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. 27 marzo 2007 n. 7500).
In ragione di quanto argomentato, il ricorso appare manifestamente infondato, con conseguente irrilevanza del secondo e terzo motivo dello stesso, in quanto attinenti ad autonome ragioni di conferma in appello della sentenza di primo grado.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al rimborso alla resistente delle spese di giudizio, così come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 35,00 per spese ed Euro 3.000,00 per onorari, oltre a spese generali, I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 18 settembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2008

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