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lunedì 6 dicembre 2010

Gli Stati membri possono vietare il contemporaneo esercizio di lavoro dipendente e professione di avvocato.




Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE, della direttiva del Consiglio 22 marzo 1977, 77/249/CEE, intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati (GU L 78, pag. 17), della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica (GU L 77, pag. 36), nonché dei principi generali della tutela del legittimo affidamento e del rispetto dei diritti quesiti.
2 Detta domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Jakubowska e il sig. Maneggia in merito ad una domanda di risarcimento dei danni, controversia sfociata in un procedimento attualmente pendente dinanzi al Giudice di pace di Cortona, nelle more del quale, a carico degli avvocati che rappresentavano la sig.ra Jakubowska, è stata emessa una delibera di cancellazione dall’albo degli Avvocati di Perugia.
Contesto normativo
Il diritto dell’Unione
La direttiva 77/249
3 L’art. 1, n. 1, primo comma, della direttiva 77/249 così recita:
«La presente direttiva si applica, nei limiti e alle condizioni da essa previst[i], all’attività di avvocato esercitata a titolo di prestazione di servizi».
4 L’art. 6 della medesima direttiva prevede quanto segue:
«Ogni Stato membro può escludere gli avvocati dipendenti, legati da un contratto di lavoro ad un ente pubblico o privato, dall’esercizio delle attività di rappresentanza e di difesa in giudizio di questo ente nella misura in cui gli avvocati stabiliti in detto Stato non siano autorizzati ad esercitare tali attività».
5 Considerate le differenti versioni linguistiche di tale art. 6, e al fine di garantire che tutte queste versioni abbiano la stessa portata, i termini «ente pubblico o privato» che compaiono nella versione italiana di tale articolo devono essere intesi come riferiti alla nozione di «impresa pubblica o privata».
La direttiva 98/5
6 L’art. 3 della direttiva 98/5 così prevede:
«1. L’avvocato che intende esercitare in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi presso l’autorità competente di detto Stato membro.
2. L’autorità competente dello Stato membro ospitante procede all’iscrizione dell’avvocato su presentazione del documento attestante l’iscrizione di questi presso la corrispondente autorità competente dello Stato membro di origine. (...)
(...)».
7 L’art. 6, n. 1, della stessa direttiva così dispone:
«Indipendentemente dalle regole professionali e deontologiche cui è soggetto nel proprio Stato membro di origine, l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale d’origine è soggetto alle stesse regole professionali e deontologiche cui sono soggetti gli avvocati che esercitano col corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante per tutte le attività che esercita sul territorio di detto Stato».
8 L’art. 7, n. 1, di detta direttiva così prevede:
«Se l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale di origine non ottempera agli obblighi vigenti nello Stato membro ospitante si applicano le regole di procedura, le sanzioni e i mezzi di ricorso previsti nello Stato membro ospitante».
9 L’art. 8 della direttiva 98/5 così recita:
«L’avvocato iscritto nello Stato membro ospitante con il titolo professionale di origine può esercitare la professione come lavoratore subordinato di un altro avvocato, di un’associazione o società di avvocati, di un ente pubblico o privato, qualora lo Stato membro ospitante lo consenta agli avvocati iscritti con il titolo professionale che esso rilascia».
10 Considerate le differenti versioni linguistiche di tale art. 8, e al fine di garantire che tutte queste versioni abbiano la stessa portata, i termini «ente pubblico o privato» che compaiono nella versione italiana di tale articolo devono essere intesi come riferiti alla nozione di «impresa pubblica o privata».
La normativa nazionale
11 L’art. 3, secondo comma, del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore legale (Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia n. 281 del 5 dicembre 1933), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 (Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia n. 24 del 30 gennaio 1934), così dispone:
«[L’esercizio, in particolare, della professione di avvocato è] incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni (...) ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle Province e dei Comuni».
12 La legge 23 dicembre 1996, n. 662, recante misure di razionalizzazione della finanza pubblica (Supplemento ordinario alla GURI n. 303 del 28 dicembre 1996), come modificata dal decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, recante misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140 (GURI n. 123 del 29 maggio 1997, pag. 5; in prosieguo: la «legge n. 662/96»), prevede, al suo art. 1, commi 56 e 56 bis, quanto segue:
«56. Le disposizioni (...) di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno.
56 bis. Sono abrogate le disposizioni che vietano l’iscrizione ad albi e l’esercizio di attività professionali per i soggetti di cui al comma 56. Restano ferme le altre disposizioni in materia di requisiti per l’iscrizione ad albi professionali e per l’esercizio delle relative attività. Ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione».
13 La legge 25 novembre 2003, n. 339, recante norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato (GURI n. 279 del 1° dicembre 2003, pag. 6; in prosieguo: la «legge n. 339/2003»), entrata in vigore il 2 dicembre 2003, al suo art. 1 così dispone:
«Le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 56, 56 bis e 57, della legge [n. 662/96] non si applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni».
14 L’art. 2 della stessa legge ha il seguente tenore:
«1. I pubblici dipendenti che hanno ottenuto l’iscrizione all’albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della legge [n. 662/96] e risultano ancora iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto d’impiego, dandone comunicazione al consiglio dell’ordine presso il quale risultano iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. In mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell’iscritto al proprio albo.
2. Il pubblico dipendente, nell’ipotesi di cui al comma 1, ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno.
3. Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma l, il pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego e conseguentemente mantenere l’iscrizione all’albo degli avvocati.
4. Il dipendente pubblico part-time che ha esercitato l’opzione per la professione forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell’opzione presso l’Amministrazione di appartenenza. In tal caso l’anzianità resta sospesa per tutto il periodo di cessazione dal servizio e ricomincia a decorrere dalla data di riammissione».
Causa principale e questioni pregiudiziali
15 La sig.ra Jakubowska ha convenuto il sig. Maneggia dinanzi al Giudice di pace di Cortona per il pagamento di una somma di EUR 200 a titolo di risarcimento dei danni, in ragione del fatto che quest’ultimo aveva accidentalmente danneggiato l’automobile di sua proprietà.
16 Nell’ambito di tale controversia, la sig.ra Jakubowska si è fatta rappresentare dagli avv.ti. Mazzolai e Nardelli, iscritti all’albo degli Avvocati di Perugia. Questi ultimi, in quanto dipendenti pubblici con impiego a tempo parziale, rientravano nell’ambito di applicazione dell’art. 1, commi 56 e 56 bis, della legge n. 662/96.
17 Dopo l’entrata in vigore della legge n. 339/2003 e la scadenza del termine prescritto dall’art. 2, n. 1, della stessa, il consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Perugia, in pendenza del procedimento a quo dinanzi al giudice del rinvio, ha emesso due delibere che disponevano la cancellazione di detti avvocati da tale albo.
18 La sig.ra Jakubowska ha presentato una memoria nella quale chiedeva che i suoi avvocati fossero autorizzati a continuare a rappresentarla, adducendo che la legge n. 339/2003 è contraria al Trattato CE nonché ai principi generali della tutela dell’affidamento legittimo e del rispetto dei diritti quesiti.
19 In tale contesto, il Giudice di pace di Cortona ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le questioni seguenti:
«1) Se gli artt. 3, lett. g), [CE], 4 [CE], 10 [CE], 81 [CE] e 98 [CE] debbano essere interpretati in modo da ritenere che ostino ad una disciplina nazionale, quale quella risultante dagli articoli 1 e 2 della legge [n. 339/2003], che reintroducono l’incompatibilità all’esercizio della professione forense da parte dei dipendenti pubblici part time e negano agli stessi, pur in possesso di un’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, l’esercizio della professione disponendone la cancellazione dall’albo degli avvocati con provvedimento del competente consiglio dell’ordine degli avvocati, salvo che il pubblico dipendente opti per la cessazione del rapporto di impiego.
2) Se gli artt. 3, lett. g), [CE], 4 [CE], 10 [CE] e 98 [CE] debbano essere interpretati in modo da ritenere che ostino ad una disciplina nazionale, quale quella risultante dagli articoli 1 e 2 della legge [n. 339/2003] (...).
3) Se l’art. 6 della direttiva [77/294] (...) debba essere interpretato in modo da ritenere che esso osti ad una disciplina nazionale quale quella risultante dagli articoli 1 e 2 della legge [n. 339/2003] (...) laddove tale disciplina nazionale sia applicabile anche agli avvocati dipendenti che esercitano l’attività forense in via di libera prestazione dei servizi.
4) Se l’art. 8 della direttiva [98/5] (...) debba essere interpretato in modo da ritenere che esso non si applichi all’avvocato dipendente pubblico part time.
5) Se i principi generali di diritto [dell’Unione] della tutela del legittimo affidamento e dei diritti quesiti ostino ad una disciplina nazionale quale quella risultante dagli articoli 1 e 2 della legge [n. 339/2003], che introducono l’incompatibilità all’esercizio della professione forense da parte dei dipendenti pubblici part-time e si applicano anche agli avvocati già iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima legge (...), prevedendo all’art. 2 solo un breve periodo di “moratoria” per l’opzione imposta fra impiego ed esercizio della professione forense».
20 In risposta ai quesiti scritti che sono stati posti dalla Corte ai rappresentanti ad litem della sig.ra Jakubowska, in applicazione dell’art. 54 bis del regolamento di procedura della Corte, l’avv. Nardelli ha prodotto, con lettera del 31 maggio 2010, un’attestazione del consiglio dell’Ordine degli Avvocati dalla quale risulta che egli resta formalmente iscritto all’albo di tale Ordine fino a che a quest’ultimo sia comunicata la data di notifica della delibera del Consiglio nazionale forense recante rigetto del ricorso dell’avv. Nardelli avverso la decisione di cancellazione che lo concerne.
21 Con la stessa lettera, il sig. Nardelli ha informato la Corte che l’avv. Mazzolai aveva rinunciato alla procura conferitagli nella causa principale. Inoltre, ha fatto sapere che la sig.ra Jakubowska aveva conferito una procura ad litem all’avv. Frigessi di Rattalma al fine di rappresentarla all’udienza dinanzi alla Corte.
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali
22 Preliminarmente, occorre rilevare che la circostanza che le questioni pregiudiziali non presentino alcun nesso con l’oggetto stesso dell’azione introdotta dalla sig.ra Jakubowska contro il sig. Maneggia non le rende irricevibili. Infatti, dette questioni mirano a consentire al giudice del rinvio di valutare la legittimità di una normativa nazionale la cui applicazione ha suscitato un incidente processuale nella causa principale. Dato che detto incidente fa parte di tale causa, è consentito al giudice interrogare la Corte in merito all’interpretazione delle norme del diritto dell’Unione che, a suo avviso, sono pertinenti al riguardo.
23 Senza rimettere in discussione la possibilità di un siffatto rinvio pregiudiziale, taluni governi che hanno presentato osservazioni alla Corte, nonché la Commissione europea, hanno nondimeno sollevato eccezioni d’irrecevibilità con riferimento alle questioni sottoposte dal Giudice di pace di Cortona.
24 I governi irlandese e austriaco sottolineano che tutti gli elementi della causa principale, relativi alla possibilità che i procuratori ad litem della sig.ra Jakubowska esercitino la professione forense, sono circoscritti all’interno di un solo Stato membro. I problemi di diritto dell’Unione sollevati dal giudice del rinvio sarebbero, quindi, meramente ipotetici e la domanda di pronuncia pregiudiziale dovrebbe, per questo motivo, essere dichiarata irricevibile.
25 Secondo il governo ungherese, la normativa italiana menzionata dal giudice del rinvio, comunque, esorbita dall’ambito di applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione relative all’esercizio della professione forense, dato che detta normativa nazionale riguarda i dipendenti pubblici, mentre le direttive 77/249 e 98/5 concernono l’esercizio di tale professione da parte di avvocati indipendenti o che lavorano in qualità di lavoratori subordinati di un altro avvocato, di un’associazione o di un’impresa.
26 La Commissione, per parte sua, reputa che la terza questione debba essere considerata come ipotetica e quindi irricevibile, poiché tale questione concerne l’esercizio della professione forense a titolo di prestazione di servizi, mentre la normativa in questione nel procedimento principale riguarda lo stabilimento in qualità d’avvocato.
27 La Commissione esprime anche dubbi quanto alla ricevibilità della quinta questione, alla luce del fatto che la normativa italiana con riferimento alla quale si domanda l’interpretazione di principi generali del diritto dell’Unione non è stata adottata al fine di dare esecuzione ad obblighi imposti alla Repubblica italiana da tale diritto.
28 Alla luce di queste varie eccezioni d’irricevibilità, va rammentato che le questioni pregiudiziali riguardanti il diritto dell’Unione beneficiano di una presunzione di pertinenza. Il rigetto di una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto della causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v. in tal senso, in particolare, sentenze 5 dicembre 2006, cause riunite C 94/04 e C 202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I 11421, punto 25, nonché 1° giugno 2010, cause riunite C 570/07 e C 571/07, Blanco Pérez e Chao Gómez, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 36).
29 Orbene, quanto alla prima, alla seconda e alla quarta questione, non risulta in modo manifesto che l’interpretazione richiesta non abbia alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto dell’incidente processuale intervenuto nell’ambito della causa principale o che la questione sollevata sia di tipo ipotetico.
30 Da una parte, occorre ricordare che una legge che si estende a tutto il territorio di uno Stato membro può, eventualmente, pregiudicare il commercio tra Stati membri ai sensi dell’art. 81 CE (v., in tal senso, sentenze 19 febbraio 2002, causa C 35/99, Arduino, Racc. pag. I 1529, punto 33, nonché Cipolla e a., cit., punto 45). Di conseguenza, la prima e la seconda questione, dirette a determinare se le norme del diritto dell’Unione in materia di concorrenza ostino ad una normativa nazionale quale la legge n. 339/2003, non sono manifestamente prive di pertinenza.
31 Dall’altra parte, per quel che riguarda la quarta questione, occorre rilevare che, come è stato sostenuto all’udienza dal governo italiano e dalla Commissione, la norma sancita dall’art. 8 della direttiva 98/5 non ha solo lo scopo di accordare agli avvocati iscritti in uno Stato membro ospitante con il loro titolo professionale ottenuto in un altro Stato membro gli stessi diritti di cui godono gli avvocati iscritti in detto Stato membro ospitante con il titolo professionale ottenuto nello stesso. Invero, tale norma garantisce anche che questi ultimi non subiscano una discriminazione alla rovescia, il che potrebbe accadere se le norme loro imposte non venissero applicate anche agli avvocati iscritti in detto Stato membro ospitante con un titolo professionale ottenuto in un altro Stato membro.
32 Pertanto, il fatto che il procedimento di cancellazione dall’albo degli Avvocati di Perugia, che è alla base delle questioni pregiudiziali, riguardi avvocati che esercitano la professione di cui trattasi in Italia con il titolo professionale ottenuto in tale Stato membro non comporta assolutamente che la quarta questione sollevata sia ipotetica. Al contrario, l’interpretazione richiesta dell’art. 8 della direttiva 98/5 aiuterà il giudice del rinvio a determinare se la legge n. 339/2003 crei una discriminazione alla rovescia in contrasto con il diritto dell’Unione.
33 La ricevibilità della quarta questione pregiudiziale non è, del resto, inficiata dall’argomento del governo ungherese secondo cui la legge n. 339/2003, riguardando i dipendenti pubblici, non disciplina nessuna delle situazioni di cui all’art. 8 della direttiva 98/5, che concerne solo gli avvocati che lavorano in qualità di lavoratori subordinati «di un altro avvocato, di un’associazione o società di avvocati, di [un’impresa pubblica o privata]».
34 Al riguardo occorre ricordare che la deroga richiamata dal governo ungherese – vale a dire l’inapplicabilità del diritto dell’Unione ai dipendenti pubblici – vale unicamente per gli impieghi che comportino una partecipazione all’esercizio di pubblici poteri e che presuppongano, pertanto, l’esistenza di un particolare rapporto con lo Stato. Per contro, le norme del diritto dell’Unione in materia di libera circolazione restano applicabili ad impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta (v. in tal senso, in particolare, sentenze 30 settembre 2003, causa C 405/01, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, Racc. pag. I 10391, punti 39 e 40, nonché 10 dicembre 2009, causa C 345/08, Pe?la, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 31).
35 Quanto, più precisamente, alla nozione di impresa pubblica che figura all’art. 8 della direttiva 98/5, secondo giurisprudenza consolidata, allorché un ente integrato nell’amministrazione pubblica esercita attività che presentano un carattere economico e non rientrano nell’esercizio di prerogative dei pubblici poteri, esso dev’essere considerato come una siffatta impresa (v., in tal senso, sentenze 27 ottobre 1993, causa C 69/91, Decoster, Racc. pag. I 5335, punto 15; 14 settembre 2000, causa C 343/98, Collino e Chiappero, Racc. pag. I 6659, punto 33, nonché 26 marzo 2009, causa C 113/07 P, SELEX Sistemi Integrati/Commissione, Racc. pag. I 2207, punto 82).
36 Da ciò consegue che l’ambito di applicazione della legge n. 339/2003 – la quale, letta in combinato disposto con il regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, cui fa rinvio, riguarda gli avvocati iscritti all’albo di uno degli ordini degli Avvocati della Repubblica italiana che hanno anche un rapporto d’impiego presso una pubblica amministrazione o un’istituzione pubblica soggetta a tutela o a vigilanza della Repubblica italiana o di un suo ente territoriale – coincide con quello dell’art. 8 della direttiva 98/5 per quanto concerne gli avvocati impiegati da un ente che, benché soggetto a vigilanza dello Stato italiano o di uno dei suoi enti locali, costituisca un’«[impresa pubblica]».
37 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, la domanda di pronuncia pregiudiziale dev’essere considerata ricevibile per quanto concerne la prima, la seconda e la quarta questione sollevate.
38 Quanto, per contro, alla terza questione, relativa alla direttiva 77/249 e, quindi, all’esercizio della professione di avvocato a titolo di libera prestazione di servizi, si deve necessariamente constatare che una risposta della Corte a tale questione non potrebbe essere utile al giudice del rinvio. Infatti, l’incidente sollevato dinanzi a tale giudice riguarda la questione se la cancellazione di avvocati dall’albo in applicazione della legge n. 339/2003 sia compatibile con il diritto dell’Unione. Come la Commissione ha giustamente fatto osservare, nel presente contesto viene in considerazione lo stabilimento in qualità d’avvocato e, quindi, la materia disciplinata dalla direttiva 98/5, e non l’esercizio della professione forense a titolo di libera prestazione di servizi.
39 Pertanto, la domanda di pronuncia pregiudiziale dev’essere dichiarata irricevibile per quanto concerne la terza questione sollevata.
40 Con riguardo, infine, alla quinta questione, dalla decisione di rinvio risulta che, con tale questione, il Giudice di pace di Cortona invita la Corte ad esaminare, basandosi sulla sua giurisprudenza relativa ai principi della tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto, la modifica in senso sfavorevole risultante, per coloro che vogliono esercitare contemporaneamente la professione forense e un impiego a tempo parziale presso un ente pubblico, dalla legge n. 339/2003, la quale ha posto fine al regime a loro più favorevole, introdotto dalla legge n. 662/96.
41 Orbene, senza che occorra statuire in merito all’argomento d’irricevibilità formulato dalla Commissione con riguardo a tale questione, basti constatare che, comunque, la Corte non può utilmente rispondervi, in mancanza degli elementi necessari per farlo.
42 Quanto al principio della certezza del diritto, per giurisprudenza consolidata una normativa che comporta conseguenze svantaggiose per i singoli dev’essere chiara e precisa, e la sua applicazione dev’essere prevedibile per gli amministrati (sentenza 14 settembre 2010, causa C 550/07 P, Akzo Nobel Chemicals e Akcros Chemicals/Commissione, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 100 e giurisprudenza ivi citata). Ebbene, né la decisione di rinvio né le osservazioni presentate consentono alla Corte di stabilire sotto quale profilo o per quale ragione la chiarezza o la prevedibilità della legge n. 339/2003 sarebbero messe in discussione.
43 Tutt’al più, il giudice del rinvio ha chiarito la questione relativa a tale principio spiegando che la legge n. 339/2003 produce effetti retroattivi, effetti cui osterebbe il principio della certezza del diritto. La pretesa retroattività della legge n. 339/2003 è, tuttavia, manifestamente contraddetta dalla constatazione, anch’essa contenuta nella decisione di rinvio, che l’entrata in vigore di tale legge non pregiudica il diritto di esercizio concomitante conferito, fino a tale entrata in vigore, dalla legge n. 662/96, considerato peraltro che la legge n. 339/2003 instaura un periodo transitorio di tre anni al fine di evitare che il cambiamento da essa introdotto sia immediato.
44 Relativamente al principio della tutela del legittimo affidamento, per giurisprudenza costante gli amministrati non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali (sentenza 10 settembre 2009, causa C 201/08, Plantanol, Racc. pag. I 8343, punto 53 e giurisprudenza ivi citata). Alla luce di questa giurisprudenza consolidata, una questione pregiudiziale quale la quinta questione sollevata nell’ambito del presente procedimento non può essere utilmente esaminata dalla Corte, in mancanza di una minima descrizione degli elementi dedotti nella causa principale per dimostrare che l’adozione della normativa ivi discussa configura un’ipotesi diversa da quella in cui il legislatore semplicemente modifichi, per l’avvenire, la normativa esistente.
45 Nel caso di specie, il giudice del rinvio si è essenzialmente limitato a spiegare che la legge n. 339/2003 modifica in modo particolarmente sostanziale e, per taluni, sorprendente il regime precedentemente in vigore in forza della legge n. 662/96. Ebbene, si deve constatare che il solo fatto che il legislatore abbia adottato una nuova legge e che quest’ultima sia considerevolmente diversa da quella anteriormente in vigore non offre alla Corte una base sufficiente per procedere ad un prudente apprezzamento della quinta questione.
46 Alla luce di quanto precede, la domanda di pronuncia pregiudiziale è irricevibile anche per quanto concerne la quinta questione sollevata.
Nel merito
Sulla prima e sulla seconda questione
47 Con la sua prima e la sua seconda questione, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se gli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE ostino ad una normativa nazionale, quale quella risultante dagli artt. 1 e 2 della legge n. 339/2003, che nega ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale, pur in possesso di un’abilitazione all’esercizio della professione forense, l’esercizio di tale professione, disponendone la cancellazione dall’albo degli Avvocati.
48 Se è pur vero che, di per sé, l’art. 81 CE riguarda esclusivamente il comportamento delle imprese e non le disposizioni legislative o regolamentari emanate dagli Stati membri, nondimeno tale articolo, letto in combinato disposto con l’art. 10 CE, fa obbligo agli Stati membri di non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, che possano rendere praticamente inefficaci le regole di concorrenza applicabili alle imprese (citate sentenze Arduino, punto 34, nonché Cipolla e a., punto 46).
49 La Corte ha, in particolare, dichiarato che si è in presenza di una violazione degli artt. 10 CE e 81 CE qualora uno Stato membro imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con l’art. 81 CE, o rafforzi gli effetti di tali accordi, oppure revochi alla propria normativa il suo carattere pubblico delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni di intervento in materia economica (citate sentenze Arduino, punto 35, nonché Cipolla e a., punto 47).
50 Orbene, il fatto che uno Stato membro prescriva agli organi di un’associazione professionale quali i consigli dell’Ordine degli Avvocati dei differenti fori di procedere d’ufficio alla cancellazione dell’iscrizione all’albo degli Avvocati dei membri di tale professione che siano anche dipendenti pubblici a tempo parziale e che non abbiano optato, entro un termine fisso, vuoi per il mantenimento dell’iscrizione a detto albo, vuoi per il mantenimento della relazione di lavoro con l’ente pubblico presso il quale sono impiegati, non è idoneo a dimostrare che tale Stato membro abbia revocato alla propria normativa il suo carattere pubblico. Infatti, i consigli dell’Ordine non hanno alcuna influenza per quel che riguarda l’adozione d’ufficio, prescritta per legge, delle decisioni di cancellazione.
51 Per motivi analoghi, non si può ritenere che una normativa nazionale come quella in questione nella causa principale imponga o agevoli accordi in contrasto con l’art. 81 CE.
52 Tali considerazioni non sono affatto inficiate né dall’art. 3, n. 1, lett. g), CE, che prevede l’azione dell’Unione europea per quanto concerne un regime che assicuri che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, né dagli artt. 4 CE e 98 CE, che mirano all’instaurazione di una politica economica nel rispetto del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.
53 Alla luce di quanto precede, occorre risolvere la prima e la seconda questione sollevate nel senso che gli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendone la cancellazione dall’albo degli Avvocati.
Sulla quarta questione
54 Come esposto nella decisione di rinvio, con la sua quarta questione, il Giudice di pace di Cortona domanda, in sostanza, se la possibilità lasciata dall’art. 8 della direttiva 98/5 allo Stato membro ospitante di disciplinare e, quindi, se del caso, di limitare l’esercizio di talune categorie di impieghi da parte degli avvocati iscritti in tale Stato valga anche nei confronti degli avvocati che desiderino esercitare uno di tali impieghi solo a tempo parziale.
55 Al fine di risolvere tale questione, giova rammentare anzitutto che, con l’adozione della direttiva 98/5, il legislatore dell’Unione ha inteso, in particolare, porre fine alle disparità tra le norme nazionali relative ai requisiti d’iscrizione come avvocato (sentenza 19 settembre 2006, causa C 506/04, Wilson, Racc. pag. I 8613, punto 64).
56 La Corte ha già precisato che, in considerazione di tale obiettivo della direttiva 98/5, occorre ritenere che essa proceda ad un’armonizzazione completa dei requisiti preliminari per l’iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante, requisiti essenzialmente limitati alla presentazione a tale autorità di un documento attestante l’iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro di origine (v., in tal senso, sentenza Wilson, cit., punti 65 67).
57 Tuttavia, come risulta inequivocabilmente dall’art. 6 della direttiva 98/5, l’iscrizione in uno Stato membro ospitante di avvocati che esercitano con un titolo ottenuto in uno Stato membro diverso assoggetta tali avvocati all’applicazione delle regole professionali e deontologiche in vigore nello Stato membro ospitante. Ebbene, tali regole, contrariamente a quelle relative ai requisiti preliminari per l’iscrizione, non sono state oggetto di un’armonizzazione e possono quindi divergere considerevolmente da quelle in vigore nello Stato membro d’origine. Del resto, come conferma l’art. 7, n. 1, della stessa direttiva, l’inosservanza di dette regole può portare alla cancellazione dell’iscrizione nello Stato membro ospitante.
58 Occorre constatare che l’art. 8 della direttiva 98/5 riguarda una categoria specifica delle regole professionali e deontologiche richiamate dall’art. 6 della stessa direttiva, vale a dire quelle che determinano in quale misura gli avvocati iscritti possono «esercitare la professione come lavoratore subordinato di un altro avvocato, di un’associazione o società di avvocati, di [un’impresa pubblica o privata]».
59 In considerazione degli ampi termini scelti dal legislatore dell’Unione, si deve ritenere che detto art. 8 ricomprenda tutte le regole che lo Stato membro ospitante ha introdotto al fine di prevenire i conflitti d’interesse che potrebbero, secondo le sue valutazioni, risultare da una situazione nella quale un avvocato sia, da una parte, iscritto all’albo degli Avvocati e, dall’altra, impiegato presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati, un’impresa pubblica o privata.
60 Il divieto imposto dalla legge n. 339/2003 agli avvocati iscritti in Italia di essere impiegati, anche solo a tempo parziale, di un ente pubblico rientra nelle regole di cui all’art. 8 della direttiva 98/5, almeno nei limiti in cui detto divieto concerne l’esercizio concomitante della professione forense e di un impiego presso un’impresa pubblica.
61 Del resto, il fatto che la normativa così introdotta dalla Repubblica italiana possa essere considerata restrittiva non è di per sè censurabile. La mancanza di conflitto d’interessi è, infatti, indispensabile all’esercizio della professione forense ed implica, in particolare, che gli avvocati si trovino in una situazione di indipendenza nei confronti dei pubblici poteri e degli altri operatori di cui non devono subire l’influenza (v., in tal senso, sentenza 19 febbraio 2002, causa C 309/99, Wouters e a., Racc. pag. I 1577, punti 100 102). Occorre, certo, che le regole stabilite al riguardo non vadano al di là di quello che è necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse. La proporzionalità di un divieto come quello imposto dalla legge n. 339/2003 non deve, tuttavia, essere esaminata nell’ambito della presente questione, che non riguarda tale aspetto.
62 Infine, come già constatato nell’ambito dell’esame della ricevibilità di tale questione, occorre sottolineare che l’art. 8 della direttiva 98/5 implica che le norme dello Stato membro ospitante si applichino a tutti gli avvocati iscritti in tale Stato membro, a prescindere dal fatto che essi esercitino con il titolo professionale ottenuto nello stesso Stato o con quello ottenuto in un altro Stato membro.
63 Con riserva di verifica da effettuare al riguardo da parte dei giudici italiani, non risulta che la legge n. 339/2003 si applichi esclusivamente agli avvocati di origine italiana e produca in tal modo una discriminazione alla rovescia. Certamente, gli avvocati presi in considerazione da detta legge sono quelli interessati ad esercitare un impiego presso enti soggetti a tutela o a vigilanza della Repubblica italiana o dei suoi enti locali. Tuttavia, almeno nei limiti in cui si tratta di impieghi presso imprese pubbliche, gli avvocati iscritti all’albo di uno degli ordini degli Avvocati della Repubblica italiana e sui quali incide quindi il divieto di esercizio concomitante di un tale impiego possono essere non solo cittadini italiani, bensì anche cittadini di altri Stati membri.
64 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la quarta questione sollevata dichiarando che l’art. 8 della direttiva 98/5 dev’essere interpretato nel senso che lo Stato membro ospitante può imporre agli avvocati ivi iscritti e che siano impiegati – vuoi a tempo pieno vuoi a tempo parziale – presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati oppure un’impresa pubblica o privata, restrizioni all’esercizio concomitante della professione forense e di detto impiego, sempreché tali restrizioni non eccedano quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse e si applichino a tutti gli avvocati iscritti in detto Stato membro.
Sulle spese
65 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara:

1) Gli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione dall’albo degli Avvocati.
2) L’art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, dev’essere interpretato nel senso che lo Stato membro ospitante può imporre agli avvocati ivi iscritti che siano impiegati – vuoi a tempo pieno vuoi a tempo parziale – presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati oppure un’impresa pubblica o privata, restrizioni all’esercizio concomitante della professione forense e di detto impiego, sempreché tali restrizioni non eccedano quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse e si applichino a tutti gli avvocati iscritti in detto Stato membro.

Tagli al 'comparto sicurezza' I poliziotti scendono in piazza. il 9 dicembre sarà effettuato un volantinaggio per i cittadini . Protesta i sindacati annunciano una manifestazione per il 13 dicembre





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Corte dei Conti - Sicurezza - La multa finanzia solo nuove attività di polizia locale

Direttiva 89/686/CEE Dispositivi di protezione individuale. «Direttiva 89/106/CEE – Prodotti da costruzione – Direttiva 89/686/CEE – Dispositivi di protezione individuale – Decisione 93/465/CEE – Marcatura “CE” – Dispositivi di ancoraggio anticaduta per attività su tetti – Norma EN 795»

SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)
21 ottobre 2010 (*)
«Direttiva 89/106/CEE – Prodotti da costruzione – Direttiva 89/686/CEE – Dispositivi di protezione individuale – Decisione 93/465/CEE – Marcatura “CE” – Dispositivi di ancoraggio anticaduta per attività su tetti – Norma EN 795»

Nel procedimento C‑185/08
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Rechtbank ‘s-Gravenhage (Paesi Bassi), con decisione 23 aprile 2008, pervenuta in cancelleria il 29 aprile 2008, nella causa
Latchways plc,
Eurosafe Solutions BV
contro
Kedge Safety Systems BV,
Consolidated Nederland BV,
LA CORTE (Terza Sezione),
composta dal sig. K. Lenaerts, presidente di sezione, dai sigg. D. Šváby (relatore), E. Juhász, G. Arestis e T. von Danwitz, giudici,
avvocato generale: sig.ra V. Trstenjak
cancelliere: sig.ra C. Strömholm, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 25 febbraio 2010,
considerate le osservazioni presentate:
–        per Latchways plc e Eurosafe Solutions BV, dall’avv. A. Mak, advocaat,
–        per Kedge Safety Systems BV e Consolidated Nederland BV, dall’avv. E. Schelhaas, advocaat,
–        per il governo dei Paesi Bassi, dalla sig.ra C. Wissels, in qualità di agente,
–        per il governo belga, dal sig. J.-C. Halleux, in qualità di agente,
–        per la Commissione europea, dai sigg. S. Schønberg e G. Zavvos, in qualità di agenti, assistiti dall’avv. F. Tuytschaever, advocaat,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 28 aprile 2010,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/106/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati Membri concernenti i prodotti da costruzione (GU 1989, L 40, pag. 12), come modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882 (GU L 284, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 89/106»), della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/686/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative ai dispositivi di protezione individuale (GU L 399, pag. 18), come modificata dal regolamento n. 1882/2003 (in prosieguo: la «direttiva 89/686»), nonché della decisione del Consiglio 22 luglio 1993, 93/465/CEE, concernente i moduli relativi alle diverse fasi delle procedure di valutazione della conformità e le norme per l’apposizione e l’utilizzazione della marcatura CE di conformità, da utilizzare nelle direttive di armonizzazione tecnica (GU L 220, pag. 23).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Latchways plc e la Eurosafe Solutions BV (in prosieguo, rispettivamente, la «Latchways» e la «Eurosafe Solutions»), da un lato, e la Kedge Safety Systems BV e la Consolidated Nederland BV (in prosieguo, rispettivamente, la «Kedge Safety Systems» e la «Consolidated Nederland»), dall’altro, in merito alla questione se il dispositivo di ancoraggio contro le cadute dall’alto in occasione di lavori effettuati sui tetti, prodotto dalla Latchways, nonché quello prodotto dalla Kedge Safety Systems, siano sicuri e se la marcatura «CE» possa o debba essere apposta su detti dispositivi.
 Contesto normativo
 La normativa dell’Unione
 La direttiva 89/106
3        L’art. 1 della direttiva 89/106 così recita:
«1.      La presente direttiva si applica ai materiali da costruzione nella misura in cui valgano per essi i requisiti essenziali relativi alle opere previsti all’articolo 3, paragrafo 1.
2.      Ai fini della presente direttiva, per «materiale da costruzione» s’intende qualsiasi prodotto fabbricato al fine di essere permanentemente incorporato in opere di costruzione, le quali comprendono gli edifici e le opere d’ingegneria civile.
(…)».
4        L’art. 2 della direttiva in parola sancisce:
«1.      Gli Stati membri prendono le misure necessarie per far sì che i prodotti [da costruzione] di cui all’articolo 1 destinati ad essere impiegati in opere [di costruzione] possano essere immessi sul mercato solo se idonei all’impiego previsto, se hanno cioè caratteristiche tali che le opere [di costruzione] in cui devono essere inglobati, montati, applicati o installati possano, se adeguatamente progettate e costruite, soddisfare i requisiti essenziali di cui all’articolo 3, se e nella misura in cui tali opere siano soggette a regolamentazioni che prevedano tali requisiti.
2.      a)     Qualora i prodotti [da costruzione] siano disciplinati da altre direttive comunitarie relative ad aspetti differenti e che prevedono l’apposizione della marcatura CE di conformità di cui all’articolo 4, paragrafo 2, questa indica, in detti casi, che i prodotti [da costruzione] si presumono soddisfare anche le disposizioni di queste altre direttive.
(…)».
5        L’art. 3 della predetta direttiva è del seguente tenore:
«1.      I requisiti essenziali applicabili alle opere [di costruzione] e suscettibili di influenzare le caratteristiche tecniche di un prodotto [da costruzione] sono enunciati in termini di obiettivi nell’allegato I. (…)
(…)
3.      I requisiti essenziali sono precisati in documenti (documenti interpretativi) destinati a stabilire i collegamenti necessari tra i requisiti essenziali di cui al paragrafo 1 e i mandati di normalizzazione, i mandati per orientamenti per il benestare tecnico europeo oppure il riconoscimento di altre specificazioni tecniche ai sensi degli articoli 4 e 5».
6        L’art. 4 della medesima direttiva dispone quanto segue:
«1.      Ai fini della presente direttiva per “specificazioni tecniche” si intendono le norme e i benestare tecnici.
Ai fini della presente direttiva per “norme armonizzate” si intendono le specificazioni tecniche adottate dal [comitato europeo di normalizzazione (CEN)] o [comitato europeo di normalizzazione elettrotecnica (Cenelec)] o da entrambi su mandato della Commissione, conferito conformemente alla direttiva 83/189/CEE [del Consiglio 28 marzo 1983, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche (GU L 109, pag. 8)], sulla base di un parere formulato dal comitato permanente della costruzione, e secondo gli orientamenti generali riguardanti la cooperazione tra la Commissione e i due organi suddetti, firmati il 13 novembre 1984.
2.      Gli Stati membri presumono idonei al loro impiego i prodotti [da costruzione] che consentono alle opere [di costruzione] in cui sono utilizzati, se adeguatamente progettate e costruite, di soddisfare i requisiti essenziali di cui all’articolo 3 qualora i suddetti prodotti rechino la marcatura CE che indica che essi soddisfano tutte le disposizioni della presente direttiva, comprese le procedure di valutazione di conformità previste al capitolo V e la procedura prevista al capitolo III. La marcatura CE attesta:
a)      che sono conformi alle relative norme nazionali in cui sono state trasposte le norme armonizzate, i cui estremi sono stati pubblicati nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. Gli Stati membri pubblicano gli estremi di tali norme nazionali;
b)      che sono conformi ad un benestare tecnico europeo rilasciato secondo la procedura di cui al capitolo III,
oppure
c)      che sono conformi alle specificazioni tecniche di cui al paragrafo 3 nella misura in cui non esistano specificazioni armonizzate: un elenco di tali specificazioni nazionali è redatto secondo la procedura prevista all’articolo 5, paragrafo 2.
(…)».
7        L’art. 7 della direttiva 89/106 è formulato come segue:
«1.      Per garantire la qualità delle norme armonizzate per i prodotti [da costruzione], tali norme sono elaborate dagli organismi europei di normalizzazione in base a mandati loro conferiti dalla Commissione (…).
2.      Le norme così stabilite devono essere espresse nella misura del possibile in termini di requisiti di prestazione dei prodotti [da costruzione] tenendo conto dei documenti interpretativi.
3.      Quando le norme sono state elaborate dagli organismi europei di normalizzazione la Commissione ne pubblica gli estratti nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, serie C».
8        Il punto 4 dell’allegato I della direttiva in parola è formulato nei seguenti termini:
«4.      Sicurezza nell’impiego
L’opera [di costruzione] deve essere concepita e costruita in modo che la sua utilizzazione non comporti rischi di incidenti inammissibili, quali scivolate, cadute, collisioni, bruciature, folgorazioni, ferimenti a seguito di esplosioni».
 La direttiva 89/686
9        L’art. 1 della direttiva 89/686 così dispone:
«1.      La presente direttiva si applica ai dispositivi di protezione individuale, qui di seguito denominati “DPI”.
Essa stabilisce le condizioni di immissione sul mercato e della libera circolazione intracomunitaria, nonché i requisiti essenziali di sicurezza cui i DPI devono soddisfare per preservare la salute e garantire la sicurezza degli utilizzatori.
2.      Ai sensi della presente direttiva, si intende per “DPI” qualsiasi dispositivo o articolo destinato a essere indossato o tenuto da una persona affinché essa sia protetta nei confronti di uno o più rischi che potrebbero metterne in pericolo la salute e la sicurezza.
Sono anche considerati DPI:
a)      l’insieme costituito da diversi dispositivi o articoli abbinati in modo solidale dal fabbricante per proteggere una persona nei confronti di uno o più rischi che possono presentarsi simultaneamente;
b)      un dispositivo o articolo di protezione solidale, in modo dissociabile o non dissociabile, di un dispositivo individuale non protettivo indossato o tenuto da una persona per svolgere una data attività;
c)      i componenti intercambiabili di un DPI, indispensabili per il suo buon funzionamento ed utilizzati unicamente per detto DPI.
3.      Viene considerato parte integrante di un DPI ogni sistema di collegamento immesso sul mercato con il DPI per raccordare quest’ultimo ad un dispositivo esterno, complementare, anche nel caso in cui tale sistema di collegamento non sia destinato ad essere indossato o tenuto in permanenza dall’utilizzatore durante il periodo di esposizione al (ai) rischio(i).
(…)».
10      L’art. 3 della direttiva in parola così recita:
«I DPI di cui all’articolo 1 devono rispondere ai requisiti essenziali di sicurezza previsti nell’allegato II».
11      L’art. 4, n. 1, della predetta direttiva è formulato nei seguenti termini:
«Gli Stati membri non possono vietare, limitare od ostacolare l’immissione sul mercato di DPI o componenti di DPI conformi alle disposizioni della presente direttiva e muniti della marcatura CE che dichiara la loro conformità a tutte le prescrizioni della presente direttiva comprese le procedure di certificazione di cui al capitolo II».
12      Il punto 3.1.2.2 dell’allegato II della direttiva 89/686 prevede quanto segue:
«Prevenzione delle cadute dall’alto
I DPI destinati a prevenire le cadute dall’alto o i loro effetti devono comprendere un dispositivo di presa del corpo e un sistema di collegamento raccordabile a un punto di ancoraggio sicuro. Essi devono essere progettati e fabbricati in modo tale che, se utilizzati nelle condizioni prevedibili di impiego, il dislivello del corpo sia il minore possibile per evitare qualsiasi impatto contro un ostacolo, senza che la forza di frenatura raggiunga la soglia in cui sopravvengono lesioni corporali o quella di apertura o di rottura di un componente dei DPI per cui possa prodursi la caduta dell’utilizzatore.
Essi devono inoltre garantire che al termine della frenatura l’utilizzatore abbia una posizione corretta, che gli consenta se necessario di attendere i soccorsi.
Nella sua nota informativa il fabbricante deve in particolare precisare i dati utili relativi:
–        alle caratteristiche necessarie per il punto di ancoraggio sicuro, nonché al “tirante d’aria” minimo necessario al disotto dell’utilizzatore;
–        al modo adeguato di indossare il dispositivo di presa del corpo e di raccordarne il sistema di collegamento al punto di ancoraggio sicuro».
 La decisione 93/465
13      Il punto I B dell’allegato della decisione 93/465 sancisce quanto segue:
«I principali orientamenti per l’apposizione della marcatura CE sono i seguenti:
a)      La marcatura CE concretizza la conformità a tutti gli obblighi che spettano ai fabbricanti in relazione al prodotto ai sensi delle direttive [dell’Unione] che ne contemplano l’apposizione.
(…)
b)      La marcatura CE apposta sui prodotti industriali attesta il fatto che la persona fisica o giuridica che ha svolto o fatto svolgere l’apposizione si è accertata che il prodotto è conforme a tutte le direttive [dell’Unione] totali che ad esso si applicano e che è stato sottoposto alle appropriate procedure di valutazione della conformità.
(…)
e)      Ogni prodotto industriale disciplinato dalle direttive di armonizzazione tecnica fondate sui principi dell’approccio globale deve essere munito della marcatura CE, fatte salve le eccezioni previste dalle direttive specifiche; si tratta non di derogare alla marcatura, ma di derogare a procedure amministrative per la valutazione della conformità, ritenute, in determinati casi, troppo complesse. Non vi saranno quindi eccezioni o deroghe alla marcatura, se non giustificate.
Soltanto la marcatura CE attesta la conformità dei prodotti industriali alle direttive fondate sui principi dell’approccio globale.
A questo titolo gli Stati membri si astengono dall’introdurre nella loro regolamentazione nazionale segni di marcature diversi dalla marcatura CE per quanto riguarda la conformità a tutte le disposizioni di cui alle direttive che prevedono tale marcatura CE.
(…)
i)      È vietato apporre ogni altra marcatura che possa trarre in inganno i terzi sul significato e sul simbolo grafico della marcatura CE.
(…)
l)      Gli Stati membri devono adottare tutte le disposizioni di diritto interno atte ad evitare ogni possibile confusione ed ogni abuso nell’impiego della marcatura CE.
Fatte salve le disposizioni della direttiva in questione relative all’applicazione della clausola di salvaguardia, ogni constatazione da parte di uno Stato membro di apposizione indebita della marcatura CE comporta per il fabbricante o il suo mandatario stabilito nell’[Unione europea] o, eccezionalmente, se le direttive specifiche lo prevedono, per il responsabile dell’immissione del prodotto in questione sul mercato [dell’Unione], l’obbligo di conformare tale prodotto e di far cessare l’infrazione alle condizioni stabilite da tale Stato membro. Nel caso in cui persista la mancanza di conformità, lo Stato membro deve adottare tutte le misure atte a limitare o vietare l’immissione del prodotto sul mercato o garantirne il ritiro dal commercio secondo le procedure previste dalle clausole di salvaguardia».
 La norma EN 795 e la pubblicazione dei suoi riferimenti nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee
14      La norma europea 795 (in prosieguo: la «norma EN 795»), intitolata «Protezione contro le cadute dall’alto – Dispositivi di ancoraggio – Requisiti e prove», è stata elaborata nell’ambito di un mandato conferito al CEN dalla Commissione e dall’Associazione europea di libero scambio. I punti 4.2 e 4.3.1.1 di detta norma precisano i requisiti tecnici che i dispositivi di ancoraggio della classe A1 devono soddisfare e sono intesi a rafforzare i requisiti enunciati al punto 3.1.2.2 dell’allegato II della direttiva 89/686.
15      Il punto 3.13 della norma EN 795 è formulato nei seguenti termini:
«3.13 Classi
3.13.1 Classe A
3.13.1.1 Classe A1
La Classe A1 comprende ancoraggi strutturali progettati per essere fissati a superfici verticali, orizzontali ed inclinate, per esempio pareti, colonne, architravi.
(…)».
16      Con la comunicazione della Commissione 2000/C 40/05 nel quadro dell’applicazione della direttiva 89/686, modificata dalle direttive 93/68/CEE, 93/95/CEE e 96/58/CE (GU C 40, pag. 7), i titoli e riferimenti della norma EN 795 sono stati oggetto di una pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, con l’avvertenza che «la presente pubblicazione non riguarda i dispositivi descritti nelle classi A (ancoraggi strutturali) (...) per i quali essa non conferisce presunzione di conformità alle disposizioni della direttiva 89/686/CEE».
 La normativa nazionale
17      La direttiva 89/106 è stata recepita nei Paesi Bassi con il regolamento di costruzione (Bouwbesluit) 16 dicembre 1991 (Staatsblad 1991, n. 680), sostituito dal 1° gennaio 2003 dal regolamento di costruzione 2003 (Bouwbesluit 2003, Staatsblad 2002, n. 410), in seguito più volte modificato.
18      La direttiva 89/686 è stata recepita nei Paesi Bassi con il decreto sui dispositivi di protezione individuale (Warenwetbesluit persoonlijke beschermingsmiddelen, Staatsblad 1992, n. 396), adottato in applicazione della legge olandese che disciplina segnatamente la qualità e la sicurezza dei prodotti, in seguito più volte modificato.
19      La norma EN 795 è stata recepita nei Paesi Bassi con la norma NEN 795.
 Causa principale e questioni pregiudiziali
20      La Latchways, concorrente della Kedge Safety Systems, produce e commercializza il Mansafe, un dispositivo di ancoraggio fissato sul tetto per mezzo di viti inserite nella costruzione del tetto presente sotto il rivestimento del tetto stesso. Su predetto dispositivo essa appone la marcatura «CE» ai sensi della norma EN 795.
21      Quanto alla Kedge Safety Systems, essa produce e commercializza il Kedge Safety, un dispositivo di ancoraggio che viene fissato al tetto facendo aderire un’apposita rosetta al rivestimento bituminoso. Essa rivendica per quest’ultimo la rispondenza alla norma EN 795.
22      Nel 2004 e 2005, la Consolidated Nederland, uno degli acquirenti del Kedge Safety, ha fatto testare due volte tale dispositivo da un organismo riconosciuto ed abilitato alla certificazione di DPI in base alle norme armonizzate. In queste due occasioni, quest’ultimo ha accertato che il Kedge Safety soddisfaceva la norma EN 795 in taluni punti relativi ai dispositivi della classe A1, ma ha espressamente indicato che le prove effettuate non giustificavano la marcatura «CE», né la dichiarazione di conformità alla direttiva 89/686.
23      Nel 2005 la Latchways ha fatto testare il Kedge Safety da altri due organismi autorizzati. Entrambi sono giunti alla conclusione che il Kedge Safety non aveva superato una parte del test previsto dalla norma EN 795, poiché, in specifiche condizioni di calore, esso si era staccato una volta sottoposto ad una forza statica di 5,68 kN, allorché il punto 4.3.1.1 della norma EN 795 impone una resistenza perlomeno pari a 10 kN.
24      Nell’ambito di un procedimento sommario la Latchways e la Eurosafe Solutions, il distributore olandese del Mansafe, hanno ottenuto dal Rechtbank Doordrecht il divieto, rivolto alla Kedge Safety Systems, di indicare che il suo dispositivo d’ancoraggio risponde alla norma EN 795, tranne in caso di utilizzo su tetti nuovi e in giorni senza sole, nonché di informarne i propri clienti.
25      Nell’ambito del procedimento principale, la Latchways e la Eurosafe Solutions richiedono il divieto di commercializzare il Kedge Safety senza la marcatura «CE», poiché tale prodotto rientra nel campo d’applicazione della direttiva 89/686. In subordine, esse chiedono di vietare alla Kedge Safety Systems e alla Consolidated Nederland di commercializzare detto prodotto per un uso su qualsiasi tipo di tetto, di rivendicare il fatto che quest’ultimo risponde alla norma EN 795 e di indicare che lo stesso prodotto è sicuro.
26      A titolo riconvenzionale, la Kedge Safety Systems e la Consolidated Nederland chiedono che alla Latchways e alla Eurosafe Solutions sia fatto divieto di apporre la marcatura «CE» sul Mansafe, di fare riferimento alla norma EN 795 e di proseguire la commercializzazione di tale prodotto. A sostegno delle loro richieste, la Kedge Safety Systems e la Consolidated Nederland deducono che le classi A, C e D della norma EN 795 rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 89/106 e che, quindi, la Latchways e la Eurosafe Solutions non possono rivendicare una dichiarazione di conformità del Mansafe ai sensi della direttiva 89/686.
27      Nutrendo dubbi in ordine alle direttive applicabili ai dispositivi in esame, alle modalità d’impiego della marcatura «CE», nonché alla natura della norma EN 795, con sentenza interlocutoria 18 luglio 2007 il Rechtbank ‘s-Gravenhage ha invitato le parti della controversia principale a pronunciarsi sulle questioni pregiudiziali che detto giudice intendeva deferire alla Corte.
28      Dopo aver preso conoscenza delle rispettive osservazioni presentate dalle parti della causa principale, il Rechtbank ‘s-Gravenhage ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se i sistemi di ancoraggio della classe A1, di cui alla norma EN 795 (intesi per restare durevolmente sul luogo), rientrino esclusivamente nel campo d’applicazione della direttiva 89/106 (…).
2)      In caso di soluzione negativa della prima questione, se siffatti sistemi di ancoraggio – eventualmente in quanto parti del dispositivo di protezione – rientrino nell’ambito d’applicazione della direttiva 89/686 (…).
3)      In caso di soluzione negativa della prima e della seconda questione, se, considerando anche l’allegato II della direttiva 89/686 (...), segnatamente il suo art. 3.1.2.2 – nei riguardi di un [DPI] rientrante nell’ambito d’applicazione di detta direttiva – occorra dichiarare che questo [DPI] di per sé soddisfa le condizioni fondamentali della direttiva stessa, o se al riguardo occorra considerare anche la questione se il sistema di ancoraggio – a cui è collegato il [DPI] in questione – sia sicuro nelle condizioni di impiego prevedibili, ai sensi dell’allegato II.
4)      Se il diritto comunitario, e segnatamente la [decisione] 93/465 (...), consenta che un marchio CE venga apposto facoltativamente su un sistema di ancoraggio quale quello di cui alla prima questione, come prova della conformità alla direttiva 89/686 (...) e/o alla direttiva 89/106 (…).
5)      Qualora la quarta questione venga risolta, in tutto o in parte, in senso affermativo, quale procedura occorra rispettare per stabilire siffatta conformità nei riguardi delle direttive 89/686 (...) e/o 89/106 (...).
6)      Se la norma EN 795, nei riguardi del sistema di ancoraggio di cui alla prima questione, debba essere considerata come norma di diritto [dell’Unione] – che deve essere interpretato dalla Corte (…).
7)      In caso di soluzione affermativa della sesta questione, se la norma EN 795 debba essere interpretata nel senso che il sistema di ancoraggio di cui alla prima questione deve essere testato (da un ente designato) nelle condizioni di impiego prevedibili (come temperature esterne, circostanze atmosferiche, invecchiamento del sistema di ancoraggio stesso e/o dei materiali con cui è agganciato, nonché del tetto).
8)      In caso di soluzione affermativa della settima questione, se esso debba essere testato applicando le restrizioni dell’uso (indicate nelle istruzioni per l’uso)».
 Sulle questioni pregiudiziali
29      Va constatato in via preliminare che la prima, la seconda e la terza questione vertono sull’applicabilità delle direttive 89/106 e 89/686 ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, quali definiti nella norma EN 795. Orbene, la soluzione di suddette questioni comporta necessariamente l’interpretazione, da parte della Corte, di questa norma, la cui natura giuridica e interpretazione costituiscono l’oggetto della sesta, settima ed ottava questione. Pertanto, occorre statuire anzitutto su queste ultime.
 Sulla sesta, settima ed ottava questione, relative alla natura giuridica della norma EN 795
30      Con la sesta, la settima e l’ottava questione il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se le disposizioni e le prescrizioni della norma EN 795, relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, facciano parte del diritto dell’Unione e, pertanto, possano formare oggetto di un’interpretazione da parte della Corte e, in caso affermativo, di interpretarle.
31      Va rammentato a tale proposito che, nell’ambito del ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri riguardanti i prodotti, in cui si inseriscono, segnatamente, le direttive 89/106 e 89/686, le istituzioni dell’Unione adottano direttive che definiscono i requisiti essenziali che devono soddisfare i prodotti rientranti nel loro campo di applicazione. Secondo la procedura prevista dalla direttiva 83/189, la Commissione conferisce poi mandato ad organismi europei preposti alla normalizzazione di elaborare le specificazioni tecniche che precisano i requisiti essenziali stabiliti dalle suddette direttive. Dopo l’elaborazione delle norme da parte dei suddetti organismi, la Commissione ne pubblica i riferimenti nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Tale pubblicazione ha lo scopo di conferire ai prodotti, coperti da una direttiva di armonizzazione tecnica e che soddisfano i requisiti tecnici definiti nelle norme armonizzate relative a detti prodotti, il beneficio di una presunzione di conformità ai requisiti essenziali della direttiva in parola.
32      Nella specie, dalla norma EN 795 si evince che essa è stata elaborata nell’ambito di un mandato conferito dalla Commissione al CEN, ai sensi del punto 3.1.2.2 dell’allegato II della direttiva 89/686. I riferimenti di suddetta norma sono stati poi pubblicati nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee nella comunicazione 2000/C 40/05. Tuttavia, quest’ultima indica espressamente che tale pubblicazione non riguarda i dispositivi descritti segnatamente nella classe A1 della norma EN 795, per i quali essa non conferisce alcuna presunzione di conformità alle disposizioni della direttiva 89/686.
33      Pertanto, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 123 delle sue conclusioni, le disposizioni della norma EN 795, relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, non possono essere considerate come specificazioni tecniche armonizzate. Per tale motivo e poiché essa riguarda i dispositivi di ancoraggio della classe A1, la norma EN 795 deve essere considerata una norma di natura tecnica emanata da un organismo di normalizzazione privato e sprovvista di ogni nesso con la direttiva 89/686.
34      Orbene, è di giurisprudenza costante che la competenza della Corte a statuire in via pregiudiziale è limitata all’esame delle sole disposizioni del diritto dell’Unione (v., in tal senso, ordinanza 16 gennaio 2008, causa C‑361/07, Polier, punto 9 nonché giurisprudenza ivi citata).
35      Poiché dai punti 32 e 33 della presente sentenza emerge che le disposizioni di cui trattasi non costituiscono disposizioni del diritto dell’Unione, si deve concludere, senza che sia necessario interrogarsi sulla natura giuridica delle norme armonizzate, che la Corte non può procedere all’interpretazione delle disposizioni della norma EN 795 relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1.
36      Di conseguenza, la sesta questione va risolta nel senso che le disposizioni della norma EN 795, relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 89/686, che dunque esse non rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione e che, pertanto, la Corte non ha competenza per procedere alla loro interpretazione.
37      In considerazione della soluzione apportata alla sesta questione, non occorre risolvere la settima ed ottava questione.
 Sulla prima, seconda e terza questione, relative all’applicabilità delle direttive 89/106 e 89/686 ai dispositivi di cui trattasi nella causa principale
38      Con la prima, la seconda e la terza questione il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se i dispositivi di ancoraggio della classe A1, definiti nella norma EN 795, rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva 89/106 o della direttiva 89/686.
39      Poiché la Corte non è competente ad interpretare le disposizioni e le prescrizioni della norma EN 795 relative a detti dispositivi, occorre prendere in considerazione i dispositivi di ancoraggio di cui trattasi nella causa principale, ossia il Mansafe e il Kedge Safety.
40      Tali dispositivi si presentano come un sistema di ancoraggio strutturale fissato al tetto di una costruzione su cui viene agganciato un DPI. Come emerge dalla decisione di rinvio, detti dispositivi di ancoraggio sono destinati a rimanere durevolmente fissati alla costruzione dopo la loro installazione e possono dunque essere usati ulteriormente, il che è stato confermato dalle parti interessate in udienza.
41      Per quanto riguarda, in un primo momento, l’applicabilità della direttiva 89/686 a questi stessi dispositivi, l’art. 1 di quest’ultima definisce l’ambito di applicazione della stessa provvedendo, ai nn. 2 e 3 del suddetto articolo, alla definizione della nozione di DPI.
42      Alla lettura sistematica di detti paragrafi emerge che la qualificazione di DPI presuppone che un siffatto prodotto sia – o quantomeno possa essere – indossato o tenuto dal suo utilizzatore durante il periodo della sua esposizione al rischio. Esso deve quindi costituire un prodotto mobile. Orbene, è pacifico che, per il loro utilizzo, dispositivi di ancoraggio come quelli in esame nella controversia principale sono fissati a un’opera di costruzione. Pertanto, i medesimi non sono destinati ad essere indossati o tenuti dai loro utilizzatori ai sensi della direttiva 89/686.
43      Va altresì constatato che la funzione di tali dispositivi osta alla loro qualificazione come «sistema di collegamento» ai sensi dell’art. 1, n. 3, della direttiva 89/686 e dunque alla possibilità che siano considerati parte integrante di un DPI. Invero, tali dispositivi non hanno affatto la funzione di collegare un DPI ad un «altro dispositivo esterno», ai sensi di predetto articolo, o ad un «punto di ancoraggio sicuro» ai sensi del punto 3.1.2.2 dell’allegato II della medesima direttiva. Al contrario, essi sono destinati a costituire un «dispositivo esterno», al quale viene agganciato un DPI.
44      Di conseguenza, in considerazione della loro natura e funzione, si deve concludere che dispositivi di ancoraggio come quelli in esame nella causa principale non possono rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva 89/686.
45      Tale constatazione non può essere inficiata dal requisito, enunciato al punto 3.1.2.2 dell’allegato II della direttiva 89/686, secondo cui nella nota informativa il fabbricante di un DPI deve precisare tutti i dati utili relativi alle caratteristiche necessarie del punto di ancoraggio sicuro al quale deve essere raccordato tale DPI.
46      Infatti, dall’art. 3 della direttiva 89/686 emerge che l’allegato II della medesima direttiva, nel suo insieme, e il punto 3.1.2.2 di tale allegato, in particolare, hanno unicamente lo scopo di definire i requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili ai DPI. L’obbligo posto a carico del fabbricante, di precisare le caratteristiche necessarie del punto di ancoraggio sicuro al quale deve essere collegato un DPI, non può quindi estendere il campo di applicazione di detta direttiva oltre i limiti definiti dall’art. 1 della medesima.
47      Alla luce delle considerazioni che precedono, la seconda questione va risolta nel senso che dispositivi d’ancoraggio come quelli in esame nella causa principale, che non sono destinati ad essere tenuti o indossati dal loro utilizzatore, non rientrano nel campo di applicazione della direttiva 89/686, né in quanto tali, né per il fatto di essere destinati ad essere collegati ad un DPI.
48      In considerazione della soluzione fornita alla seconda questione, non è necessario procedere alla soluzione della terza.
49      Per quanto attiene, in un secondo momento, all’applicabilità della direttiva 89/106 ai dispositivi di ancoraggio quali il Mansafe e il Kedge Safety, emerge dall’art. 1, n. 1, di tale direttiva che la medesima si applica ai materiali da costruzione nella misura in cui valgano per essi i requisiti essenziali relativi alle opere di costruzione ed elencati all’art. 3, n. 1, di detta direttiva. Al fine di individuare i requisiti essenziali applicabili a tali opere e tali da influenzare le caratteristiche di un prodotto da costruzione, quest’ultimo articolo rinvia all’allegato I della direttiva 89/106 che concerne, segnatamente, la sicurezza dell’impiego delle opere di costruzione.
50      In tale senso, l’applicabilità della direttiva 89/106 ad un prodotto in particolare presuppone la presenza di due condizioni, una relativa alla natura di tale prodotto e l’altra riguardante la funzione del medesimo.
51      Per quanto riguarda, in primo luogo, la natura dei prodotti soggetti alla direttiva 89/106, l’art. 1, n. 2, della stessa dispone che viene qualificato come «materiale da costruzione» qualsiasi prodotto fabbricato al fine di essere permanentemente incorporato in opere di costruzione.
52      Va anzitutto constatato che la direttiva 89/106 non definisce l’espressione «permanentemente incorporato». Pertanto e alla luce del significato corrente di questa espressione, nonché dello scopo della predetta direttiva, che è quello di garantire che le opere di costruzione soddisfino i requisiti essenziali enunciati nella stessa, occorre tenere a mente che devono essere qualificati come prodotti da costruzione i prodotti che fanno parte di un’opera di costruzione, il cui smontaggio riduce la prestazione del medesimo e il cui smontaggio o la cui sostituzione configura un’opera di costruzione.
53      Alla luce delle caratteristiche dei dispositivi di ancoraggio in esame nella causa principale, quali emergono dal punto 40 della presente sentenza, va constatato che tali dispositivi sono fissati al tetto in modo tale da fare parte dell’opera di costruzione, conformemente alla qualificazione di prodotto da costruzione ai sensi dell’art. 1, n. 2, della direttiva 89/106.
54      Per quanto attiene, in secondo luogo, alla funzione dei prodotti rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 89/106, il punto 4 dell’allegato I di quest’ultima enuncia che i prodotti da costruzione devono essere idonei alla realizzazione di opere di costruzione pronte all’uso in particolare per quanto riguarda la sicurezza dell’impiego, imponendo che esse siano concepite e costruite in modo che la loro utilizzazione o il loro funzionamento non comporti rischi inammissibili di incidenti quali scivolate, cadute, collisioni, bruciature, folgorazioni, ferimenti a seguito di esplosioni.
55      Nella specie, è pacifico che dispositivi di ancoraggio come quelli di cui trattasi nella causa principale mirano ad assicurare la sicurezza delle persone durante i lavoro effettuati sui tetti, prevenendo le cadute dall’alto che possono avvenire in occasione dell’uso del tetto o nell’ambito del suo funzionamento, in particolare ai fini della pulizia e della riparazione dell’opera di costruzione.
56      Pertanto, si deve giungere alla conclusione che siffatti dispositivi garantiscono la sicurezza dell’impiego o del funzionamento del tetto delle opere di costruzione, ai sensi del punto 4 dell’allegato I della direttiva 89/106.
57      Tale conclusione non può essere rimessa in questione dal fatto che il punto 4 dell’allegato I di suddetta direttiva, nella sua versione olandese, non riguarda le attività esercitate all’esterno dell’opera di costruzione e quindi quelle esercitate sui tetti. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, la necessità di un’interpretazione uniforme degli atti dell’Unione esclude che, in caso di dubbio, il testo di una disposizione sia considerata isolatamente e richiede, invece, che sia interpretato e applicato alla luce delle versioni redatte nelle altre lingue ufficiali (v., in tal senso, sentenza 20 novembre 2008, causa C‑375/07, Heuschen & Schrouff Oriëntal Foods Trading, Racc. pag. I‑8691, punto 46, nonché giurisprudenza ivi citata). Orbene, le altre versioni linguistiche, come quella tedesca, inglese e francese, non distinguono in alcun modo tra attività esercitate all’interno e quelle esercitate all’esterno dell’opera di costruzione.
58      Peraltro, da nessuna disposizione della direttiva 89/106 può essere desunto che si imporrebbe una lettura restrittiva della sfera di applicazione della medesima e che devono esulare da essa dispositivi come quelli di cui trattasi nella causa principale. Al contrario, alla luce degli obiettivi della direttiva in esame, risulta determinante per la sicurezza dell’impiego delle opere di costruzione, in particolare proprio per le persone che lavorano sui tetti, che, in occasione dell’utilizzo di un tetto, queste possano fare affidamento su dispositivi di ancoraggio fissati all’opera di costruzione e destinati a rimanervi permanentemente e che, una volta fissati, fanno parte di detta opera e che configurano dunque un prodotto da costruzione ai sensi della direttiva 89/106.
59      Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione nel senso che dispositivi di ancoraggio come quelli di cui trattasi nella causa principale, che fanno parte dell’opera di costruzione alla quale sono fissati al fine di garantire la sicurezza d’impiego o di funzionamento del tetto di tale opera, rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 89/106.
 Sulla quarta e quinta questione, relative all’interpretazione della decisione 93/465
60      Con la quarta questione, il giudice del rinvio desidera sapere sostanzialmente se la decisione 93/465 consenta l’apposizione facoltativa della marcatura «CE» su un prodotto che non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva, ai sensi della quale viene apposta, ma che risponde ai requisiti tecnici definiti dalla medesima e, in caso affermativo, quale o quali siano le procedure da osservare a tal fine.
61      A tal riguardo, va rilevato che la lettura congiunta dei punti I B, lett. a), b) ed e), dell’allegato della decisione 93/465 consente di affermare che la marcatura «CE» costituisce l’unico strumento che attesti, da un lato, la conformità di un prodotto ai requisiti essenziali fissati nella o nelle direttive di armonizzazione tecnica che si applicano ad esso e, dall’altro, l’assoggettamento di questo prodotto alle procedure appropriate di valutazione della sua conformità alle direttive summenzionate.
62      Peraltro, i punti I B, lett. i) e l), dello stesso allegato evidenziano la necessità di evitare ogni possibile confusione ed abuso nell’impiego della marcatura «CE», in particolare imponendo agli Stati membri l’obbligo di fare cessare ogni apposizione indebita di tale marcatura.
63      Ciò premesso, la marcatura «CE» può essere apposta unicamente su prodotti per i quali la sua apposizione sia specificamente prevista dalla normativa pertinente dell’Unione in materia di armonizzazione, ad esclusione di qualsiasi altro prodotto. Infatti, ogni diversa valutazione avrebbe come conseguenza di fare sorgere un rischio di confusione sul significato di detta marcatura. Del resto, per ovviare ai rischi connessi a una siffatta confusione, l’art. 30, n. 2, del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 9 luglio 2008, n. 765, che pone norme in materia di accreditamento e vigilanza del mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti e che abroga il regolamento (CEE) del Consiglio n. 339/93 (GU L 218, pag. 30) applicabile a partire dal 1° gennaio 2010, sancisce che la marcatura «CE» viene apposta unicamente su prodotti per i quali la sua apposizione sia specificamente prevista dalla normativa pertinente dell’Unione in materia di armonizzazione, ad esclusione di qualsiasi altro prodotto.
64      La quarta questione va dunque risolta affermando che la decisione 93/465 esclude l’apposizione, a titolo facoltativo, della marcatura «CE» su un prodotto che non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva ai sensi della quale essa viene apposta, anche qualora tale prodotto soddisfacesse i requisiti tecnici definiti dalla medesima.
65      Alla luce della soluzione apportata alla quarta questione, non occorre esaminare la quinta questione.
 Sulle spese
66      Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
1)      Le disposizioni della norma europea 795, relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/686/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative ai dispositivi di protezione individuale, come modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882, esse non rientrano dunque nell’ambito del diritto dell’Unione e, pertanto, la Corte non ha competenza per procedere alla loro interpretazione.
2)      Dispositivi di ancoraggio come quelli in esame nella causa principale, che non sono destinati ad essere tenuti o indossati dal loro utilizzatore, non rientrano nel campo di applicazione della direttiva 89/686, come modificata dal regolamento n. 1882/2003, né in quanto tali, né per il fatto di essere destinati ad essere collegati ad un dispositivo di protezione individuale.
3)      Dispositivi di ancoraggio come quelli di cui trattasi nella causa principale, che fanno parte dell’opera di costruzione alla quale sono fissati al fine di garantire la sicurezza d’impiego o di funzionamento del tetto di tale opera, rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/106/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati Membri concernenti i prodotti da costruzione, come modificata dal regolamento n. 1882/2003.
4)      La decisione del Consiglio 22 luglio 1993, 93/465/CEE, concernente i moduli relativi alle diverse fasi delle procedure di valutazione della conformità e le norme per l’apposizione e l’utilizzazione della marcatura CE di conformità, da utilizzare nelle direttive di armonizzazione tecnica, esclude l’apposizione, a titolo facoltativo, della marcatura «CE» su un prodotto che non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva ai sensi della quale essa viene apposta, anche qualora tale prodotto soddisfacesse i requisiti tecnici definiti dalla medesima.
fonte Eulabour

Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e lavoro - Direttiva 76/207/CEE

SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)
18 novembre 2010 (*)
«Politica sociale – Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e lavoro – Direttiva 76/207/CEE – Art. 3, n. 1, lett. c) – Normativa nazionale che agevola il licenziamento dei lavoratori che hanno maturato il diritto alla pensione di vecchiaia – Obiettivo di promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani – Normativa nazionale che stabilisce l'età pensionabile a 60 anni per le donne e a 65 anni per gli uomini»

Nel procedimento C‑356/09,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, dall'Oberster Gerichtshof (Austria), con decisione 4 agosto 2009, pervenuta in cancelleria il 4 settembre 2009, nella causa
Pensionsversicherungsanstalt
contro
Christine Kleist,
LA CORTE (Seconda Sezione),
composta dal sig. J.N. Cunha Rodrigues, presidente di sezione, dai sigg. A. Arabadjiev (relatore), A. Rosas, U. Lõhmus e A. Ó Caoimh, giudici,
avvocato generale: sig.ra J. Kokott
cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 2 settembre 2010,
considerate le osservazioni presentate:
– per la Pensionsversicherungsanstalt, dall'avv. A. Ehm, Rechtsanwalt,
– per la sig.ra Kleist, dall'avv. H. Forcher-Mayr, Rechtsanwalt,
– per la Commissione europea, dai sigg. V. Kreuschitz e M. van Beek, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza del 16 settembre 2010,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE (GU L 269, pag. 15; in prosieguo: la «direttiva 76/207»).
2 Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra la sig.ra Kleist e il suo datore di lavoro, la Pensionsversicherungsanstalt (in prosieguo: la «cassa pensione»), in merito alle condizioni di cessazione del contratto di lavoro della sig.ra Kleist.
Contesto normativo
Il diritto dell'Unione
3 La direttiva 76/207, che è stata abrogata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 luglio 2006, 2006/54/CE, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) (GU L 204, pag. 23), con effetto a decorrere dal 15 agosto 2009, prevedeva, al suo art. 2:
«1. Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia. .
2. Ai sensi della presente direttiva si applicano le seguenti definizioni:
– discriminazione diretta: situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un'altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga;
– discriminazione indiretta: situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari;
(...)».
4 Ai sensi dell'art. 3, n. 1, lett. c), di tale direttiva «(l)'applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene (...) all'occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione come [già previsto] dalla direttiva» del Consiglio 10 febbraio 1975, 75/117/CEE, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative all'applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile (GU L 45, pag. 19).
5 L'art. 7, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24), dispone quanto segue:
«La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione:
a) la fissazione dei limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni;
(...)».
Il diritto nazionale
6 Gli artt. 1-3 della legge costituzionale federale relativa all'età pensionabile differenziata per gli assicurati di sesso maschile e per quelli di sesso femminile (Bundesverfassungsgesetz über unterschiedliche Altersgrenzen von männlichen und weiblichen Sozialversicherten) 29 dicembre 1992 (BGBl. 832/1992), sono formulati come segue:
«Articolo 1. Sono legittime le normative che prevedono limiti di età diversi per gli assicurati di sesso maschile e femminile presso il sistema previdenziale pubblico.
Articolo 2. A decorrere dal 1° gennaio 2019, il limite di età a partire dal quale le donne hanno diritto alla pensione di vecchiaia anticipata aumenterà di sei mesi dal 1° gennaio di ogni anno fino al 2028.
Articolo 3. A decorrere dal 1° gennaio 2024 il limite di età fissato agli assicurati di sesso femminile per potere percepire la pensione di vecchiaia aumenterà di sei mesi dal 1° gennaio di ogni anno fino al 2033».
7 La legge generale in materia di previdenza sociale (Allgemeines Sozialversicherungsgesetz) 9 settembre 1955 (BGBl. 189/1955), come modificata (in prosieguo: l'«ASVG»), si applica sia agli operai sia agli impiegati, in forza del suo art. 270. L'art. 253, n. 1, di tale legge prevede che, una volta raggiunta l'età pensionabile ordinaria, di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne, il diritto alla pensione di vecchiaia è maturato dall'assicurato qualora sia compiuto il periodo di attesa previsto dall'art. 236 della citata legge.
8 Emerge dalla decisione di rinvio che, in diritto austriaco, la pensione di vecchiaia legale (concessa ai sensi dell'ASVG) non può essere ridotta per il mantenimento di un rapporto di lavoro o per l'esercizio di un'attività professionale indipendente che vada oltre l'età a partire dalla quale matura il diritto a detta pensione.
9 Il contratto collettivo applicabile alla fattispecie è il regolamento speciale B per i medici e gli odontoiatri impiegati presso gli organismi di previdenza sociale austriaci (Dienstordnung B für die Ärzte und Dentisten bei den Sozialversicherungsträgern Österreichs, in prosieguo: il «DO.B»). Tale contratto collettivo stabilisce un regime speciale di licenziamento secondo il quale i lavoratori che hanno cumulato almeno 10 anni di anzianità di servizio nell'organismo presso il quale lavorano possono essere licenziati solo per determinati motivi.
10 L'art. 134 del DO.B è formulato come segue:
« (...)
2. I medici non licenziabili hanno diritto ad essere collocati a riposo quando
(...)
(2) sussiste un diritto alla pensione di vecchiaia ai sensi dell'art. 253 dell'ASVG.
(...)
4. Il consiglio di amministrazione può collocare a riposo un medico non licenziabile quando quest'ultimo
(1) possiede i requisiti di cui al secondo comma, [n.] 2 (...)».
Causa principale e questioni pregiudiziali
11 La sig.ra Kleist, nata nel febbraio 1948, lavorava alle dipendenze della cassa pensione svolgendo la funzione di dirigente medico.
12 La cassa pensione ha deciso di licenziare tutti i collaboratori e le collaboratrici in possesso dei requisiti per il collocamento a riposo previsti dal DO.B. Con lettera del 9 gennaio 2007, la sig.ra Kleist ha informato il suo datore di lavoro di non aver intenzione di andare in pensione al compimento del sessantesimo anno di età, ma di voler lavorare fino all'età di 65 anni. Ciononostante, la cassa pensione le ha comunicato, con nota 6 dicembre 2007, la sua decisione di collocarla a riposo a partire dal 1° luglio 2008.
13 La sig.ra Kleist ha impugnato il proprio licenziamento dinanzi al Landesgericht Innsbruck (Tribunale di Innsbruck). La sentenza di quest'ultimo del 14 marzo 2008, a lei sfavorevole, è stata riformata da una sentenza del 22 agosto 2008 dell'Oberlandesgericht Innsbruck (Corte di appello di Innsbruck), quale giudice d'appello in materia di diritto del lavoro e di diritto sociale. La cassa pensione ha poi presentato ricorso per cassazione (Revision) dinanzi all'Oberster Gerichtshof (Corte suprema di cassazione austriaca).
14 L'Oberster Gerichtshof sottolinea che il regime di licenziamento stabilito dal DO.B deroga al sistema generale introdotto dalla normativa austriaca nella parte in cui quest'ultimo prevede che la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro è, in linea di principio, ingiustificata. Esso indica tuttavia che non è esclusa l'applicazione della tutela generale contro il licenziamento abusivo prevista, a determinate condizioni, dalla citata normativa qualora attraverso questa cessazione si incida su interessi sostanziali del lavoratore e qualora il datore di lavoro non possa dimostrare motivi attinenti all'azienda o alla persona del lavoratore a giustificare tale cessazione.
15 Il giudice del rinvio illustra inoltre che, nel contesto della valutazione se tale cessazione incida su interessi sostanziali del lavoratore, si considera l'assicurazione previdenziale di cui gode quest'ultimo, in particolare riguardo alla percezione di una pensione di vecchiaia. Orbene, tale stesso criterio è utilizzato nell'ambito della disposizione del DO.B controversa nella causa principale, la quale autorizza il datore di lavoro a disapplicare una tutela contro il licenziamento, rinforzata rispetto a quella derivante dal regime ordinario, ai lavoratori che dispongano di una pensione di vecchiaia, offrendo in tal modo la possibilità di assumere lavoratori più giovani.
16 L'Oberster Gerichtshof nutre dubbi sulla questione se, nell'ambito della valutazione della comparabilità delle situazioni in cui si trovano i lavoratori, il criterio della situazione sociale del lavoratore, applicato dal diritto austriaco in materia di licenziamento, debba essere preso in considerazione allo stesso titolo che il criterio dell'età. Tale giudice rileva che gli uomini e le donne sono trattati allo stesso modo a tale proposito, atteso che essi perdono il beneficio della tutela rinforzata contro il licenziamento accordata dal DO.B dal momento in cui hanno diritto ad un'assicurazione previdenziale.
17 Il giudice del rinvio ritiene che, in considerazione, in particolare, dell'importanza della discrezionalità degli Stati membri nella realizzazione delle misure di politica occupazionale, le questioni di diritto sollevate nella causa di cui è investito non siano sufficientemente chiarite dalla giurisprudenza della Corte da consentirgli di adottare una decisione.
18 In tale contesto, l'Oberster Gerichtshof ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva [76/207] debba essere interpretato nel senso che — nel contesto di un regime di diritto del lavoro in cui la tutela generale dal licenziamento dei lavoratori è improntata alla dipendenza sociale (finanziaria) di questi ultimi dal posto di lavoro — esso osta alla disposizione di un contratto collettivo che prevede, oltre alla tutela generale dal licenziamento sancita dalla legge, una tutela speciale solo fino al momento in cui solitamente viene fornita una garanzia sociale (finanziaria) mediante il diritto ad una pensione di vecchiaia, qualora quest'ultima maturi in tempi diversi per gli uomini e per le donne.
2) Se l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva [76/207] osti, nel contesto del descritto regime di diritto del lavoro, alla decisione di un datore di lavoro pubblico di licenziare una lavoratrice pochi mesi dopo il momento in cui ella acquisisca la garanzia del diritto ad una pensione di vecchiaia, allo scopo di assumere nuovi lavoratori pronti ad inserirsi nel mercato del lavoro».
Sulle questioni pregiudiziali
19 Con le sue questioni, che conviene esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, se l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 debba essere interpretato nel senso che una normativa nazionale la quale, per promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani, consente ad un datore di lavoro di diritto pubblico di licenziare gli impiegati che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, laddove tale diritto è maturato per le donne ad un'età di cinque anni inferiore a quella prevista per gli uomini, costituisce una discriminazione fondata sul sesso vietata da tale direttiva.
Osservazioni presentate alla Corte
20 Secondo la sig.ra Kleist, la normativa controversa nella causa principale costituisce una discriminazione fondata sul sesso in quanto consente al datore di lavoro di mandare in pensione d'ufficio un'impiegata che raggiunge l'età a partire dalla quale matura il diritto a detta pensione, vale a dire 60 anni, laddove tale diritto matura in momenti diversi a seconda che l'impiegato sia di sesso maschile o femminile. L'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 dovrebbe essere interpretato nel senso che osta ad una siffatta normativa.
21 La sig.ra Kleist chiede alla Corte di pronunciarsi anche sull'interpretazione delle disposizioni della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16). Fa valere che tali disposizioni ostano ad una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale in quanto quest'ultima comporta, inoltre, una discriminazione diretta fondata sull'età.
22 La cassa pensione sostiene che la normativa controversa nella causa principale introduce una disparità di trattamento indirettamente fondata sul sesso che è giustificata alla luce dell'obiettivo di promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani e non costituisce quindi una discriminazione illegittima. Essa ritiene, inoltre, che occorre evitare una situazione nella quale le donne possono cumulare il reddito da lavoro alle prestazioni legali pensionistiche, mentre gli uomini non hanno tale possibilità.
23 La Commissione europea considera che l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 debba essere interpretato nel senso che esso osta a che un contratto collettivo contenga una disposizione che prevede una tutela particolare che va oltre il regime generale ordinario di tutela dal licenziamento, ma che si applica unicamente fintantoché il lavoratore disponga di un'assicurazione previdenziale che gli fornisca mezzi finanziari, il che si verifica normalmente quando quest'ultimo percepisce una pensione di vecchiaia, laddove il diritto a tale pensione matura in tempi diversi a seconda che il lavoratore sia un uomo o una donna, in quanto l'obiettivo di promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani non può giustificare una siffatta normativa.
Risposta della Corte
24 Occorre rilevare, in via preliminare, che la questione delle condizioni di accesso alla pensione di vecchiaia, da un lato, e quella delle condizioni di cessazione del rapporto di lavoro, dall'altro, sono distinte (v., in tal senso, sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 32).
25 Per quanto riguarda queste ultime, l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 prevede che l'applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico.
26 A tale proposito, inerisce alla nozione di licenziamento prevista in tale disposizione, nozione che deve essere intesa in senso ampio, un limite di età per la cessazione obbligatoria del rapporto, fissato nell'ambito della politica generale di pensionamento seguita da un datore di lavoro, anche ove implichi la concessione di una pensione (v., per analogia, sentenze 26 febbraio 1986, Marshall, cit., punto 34, e causa 262/84, Beets-Proper, Racc., pag. 773, punto 36).
27 Ne consegue che, dal momento che la sig.ra Kleist è stata collocata a riposo d'ufficio dal suo datore di lavoro, conformemente alla decisione adottata da quest'ultimo di licenziare tutti i suoi impiegati che hanno maturato il diritto ad una pensione di vecchiaia, la causa principale riguarda le condizioni di licenziamento ai sensi dell'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207.
28 Si deve anzitutto rammentare che la Corte ha dichiarato che una politica generale in fatto di licenziamenti, la quale implichi il licenziamento di un'impiegata per il solo motivo che essa ha raggiunto o superato l'età alla quale ha diritto ad una pensione statale, età che, a norma delle leggi nazionali, è diversa per gli uomini e per le donne, costituisce una discriminazione in base al sesso vietata dalla direttiva 76/207/CEE (v., in tal senso, sentenza Marshall, cit., punto 38).
29 A tale proposito si deve rilevare, in primo luogo, che, conformemente all'art. 2, n. 2, primo trattino, della direttiva 76/207 una discriminazione diretta si produce quando una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga.
30 Nella specie, emerge dall'art. 134, n. 2, punto 2, e n. 4, punto 1, della DO.B, che i medici non licenziabili possono comunque essere collocati a riposo quando maturano un diritto alla pensione di vecchiaia ai sensi dell'art. 253 dell'ASVG. Orbene, in forza del citato art. 253, n. 1, gli uomini maturano tale diritto al compimento del sessantacinquesimo anno di età e le donne al compimento del sessantesimo anno di età. Ne consegue che i lavoratori di sesso femminile possono essere licenziati a partire dal momento in cui raggiungono i 60 anni, mentre i lavoratori di sesso maschile possono essere licenziati unicamente dopo aver raggiunto l'età di 65 anni.
31 Poiché il criterio applicato dalle disposizioni in parola è indissociabile dal sesso dei lavoratori sussiste dunque, contrariamente a quanto sostenuto dalla cassa pensione, una disparità di trattamento direttamente fondata sul sesso.
32 Occorre, in secondo luogo, esaminare se, in un contesto come quello disciplinato dalle citate disposizioni, i lavoratori di sesso femminile di età tra i 60 e i 65 anni si trovino in una situazione comparabile, ai sensi dell'art. 2, n. 2, primo trattino, della direttiva 76/207, a quella dei lavoratori di sesso maschile che si trovano nella stessa fascia di età.
33 A tale proposito, il giudice del rinvio nutre dubbi, sostanzialmente, sulla questione se la circostanza che i lavoratori di sesso femminile di età tra i 60 e 65 anni dispongono, a titolo della pensione di vecchiaia legale, di un'assicurazione previdenziale, sia tale da conferire alla situazione di tali lavoratori un carattere specifico rispetto quella dei lavoratori di sesso maschile che si trovano nella stessa fascia d'età, i quali non dispongono di una siffatta assicurazione.
34 Occorre esaminare la comparabilità di tali situazioni, in particolare alla luce dell'oggetto della normativa che introduce la disparità di trattamento (v., in tal senso, sentenze 9 dicembre 2004, causa C‑19/02, Hlozek, Racc. pag. I‑11491, punto 46, e, per analogia, 16 dicembre 2008, causa C‑127/07, Arcelor Atlantique et Lorraine e a., Racc. pag. I‑9895, punto 26).
35 Nella specie, la normativa che introduce la disparità di trattamento in parola ha ad oggetto la disciplina delle condizioni in presenza delle quali gli impiegati possono perdere il loro posto di lavoro.
36 Nel contesto della presente causa principale, contrariamente a quanto si verificava nelle cause che hanno dato luogo alle sentenze 9 novembre 1993, causa C‑132/92, Roberts (Racc. pag. I‑5579, v., in particolare, punto 20), e Hlozek, cit. (v., in particolare, punto 48), il vantaggio concesso alle lavoratrici consistente nel poter accedere alla pensione di vecchiaia ad un'età inferiore di cinque anni a quella stabilita per i lavoratori di sesso maschile non ha un rapporto diretto con l'oggetto della normativa che stabilisce una disparità di trattamento.
37 Infatti, detto vantaggio non situa i lavoratori di sesso femminile in una situazione specifica rispetto a quelli di sesso maschile, dal momento che gli uomini e le donne si trovano in situazioni identiche per quanto riguarda le condizioni di cessazione del rapporto di lavoro (v., in tal senso, sentenza 26 febbraio 1986, causa 151/84, Roberts, Racc. pag. 703, punto 36).
38 Peraltro, come emerge dalla decisione di rinvio, la circostanza di cui al punto 33 della presente sentenza risulta dal fatto che la Repubblica d'Austria ha inteso stabilire, a titolo dell'eccezione al principio di parità di trattamento di cui l'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7, un regime che prevede una differenza in merito all'età pensionabile legale tra gli uomini e le donne al fine di compensare lo svantaggio sociale, familiare ed economico che subiscono le donne.
39 Orbene, la Corte ha dichiarato in diverse occasioni che, tenuto conto dell'importanza fondamentale del principio di parità di trattamento, l'eccezione al divieto di discriminazioni fondate sul sesso prevista da tale disposizione dev'essere interpretata restrittivamente, nel senso che essa può applicarsi soltanto alla fissazione dell'età del pensionamento per la corresponsione delle pensioni di vecchiaia e di anzianità ed alle conseguenze che ne derivano per altre prestazioni previdenziali (v., in tal senso, sentenze Marshall, cit., punto 36; 21 luglio 2005, causa C‑207/04, Vergani, Racc. pag. I‑7453, punto 33, e 27 aprile 2006, causa C‑423/04, Richards, Racc. pag. I‑3585, punto 36).
40 Poiché la normativa controversa nella causa principale riguarda, come emerge dal punto 27 della presente sentenza, il licenziamento ai sensi dell'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 e non le conseguenze di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7, la citata eccezione non è dunque applicabile a tale normativa.
41 In terzo luogo, la direttiva 76/207 opera una distinzione tra, da un lato, le discriminazioni direttamente fondate sul sesso e, dall'altro, quelle definite «indirette», nel senso che unicamente le disposizioni, i criteri o le prassi che possono costituire discriminazioni indirette possono, in forza del suo art. 2, n. 2, secondo trattino, evitare la qualifica di discriminazione a condizione che siano «giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il [loro] conseguimento siano appropriati e necessari». Una siffatta possibilità non è invece prevista per le disparità di trattamento atte a costituire discriminazioni dirette, ai sensi dell'art. 2, n. 2, primo trattino, di tale direttiva.
42 Pertanto, posto che, da un lato, la differenza di trattamento prevista da una normativa come quella controversa nella causa principale è direttamente fondata sul sesso e che, dall'altro, come emerge dal punto 37 della presente sentenza, la direttiva 76/207 non prevede deroghe, applicabili alla fattispecie, al principio della parità di trattamento, occorre concludere che tale differenza di trattamento costituisce una discriminazione direttamente fondata sul sesso (v., in tal senso, sentenza Vergani, cit., punto 34).
43 La citata disparità di trattamento non può dunque essere giustificata dall'obiettivo di promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani, come invocato dalla cassa pensione.
44 Per quanto riguarda, infine, la questione dell'eventuale esistenza di una discriminazione basata sull'età ai sensi della direttiva 2000/78, si deve rammentare che, nell'ambito del procedimento istituito dall'art. 234 CE, spetta esclusivamente al giudice nazionale cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell'emananda decisione giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di pronunciare la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. (v., in particolare, sentenza 12 ottobre 2010, causa C‑45/09, Rosenbladt, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 32).
45 Poiché il giudice del rinvio non ha chiesto alla Corte chiarimenti in merito all'interpretazione di tale direttiva e non emerge neanche dalla decisione di rinvio che l'esistenza di una siffatta discriminazione sia stata sollevata nell'ambito della controversia principale, l'esame di tale questione non sembra utile ai fini della risoluzione della controversia in parola.
46 Le questioni sottoposte vanno dunque risolte dichiarando che l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale la quale, per promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani, consente ad un datore di lavoro di licenziare gli impiegati che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, laddove tale diritto è maturato dalle donne ad un'età inferiore di cinque anni rispetto a quella in cui tale diritto è maturato per gli uomini, costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata da tale direttiva.
Sulle spese
47 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
L'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE, deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale la quale, per promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani, consente ad un datore di lavoro di licenziare gli impiegati che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, laddove tale diritto è maturato dalle donne ad un'età inferiore di cinque anni rispetto a quella in cui tale diritto è maturato per gli uomini, costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata da tale direttiva.
Firme
fonte: Eulabour