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lunedì 6 dicembre 2010

Direttiva 89/686/CEE Dispositivi di protezione individuale. «Direttiva 89/106/CEE – Prodotti da costruzione – Direttiva 89/686/CEE – Dispositivi di protezione individuale – Decisione 93/465/CEE – Marcatura “CE” – Dispositivi di ancoraggio anticaduta per attività su tetti – Norma EN 795»

SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)
21 ottobre 2010 (*)
«Direttiva 89/106/CEE – Prodotti da costruzione – Direttiva 89/686/CEE – Dispositivi di protezione individuale – Decisione 93/465/CEE – Marcatura “CE” – Dispositivi di ancoraggio anticaduta per attività su tetti – Norma EN 795»

Nel procedimento C‑185/08
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Rechtbank ‘s-Gravenhage (Paesi Bassi), con decisione 23 aprile 2008, pervenuta in cancelleria il 29 aprile 2008, nella causa
Latchways plc,
Eurosafe Solutions BV
contro
Kedge Safety Systems BV,
Consolidated Nederland BV,
LA CORTE (Terza Sezione),
composta dal sig. K. Lenaerts, presidente di sezione, dai sigg. D. Šváby (relatore), E. Juhász, G. Arestis e T. von Danwitz, giudici,
avvocato generale: sig.ra V. Trstenjak
cancelliere: sig.ra C. Strömholm, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 25 febbraio 2010,
considerate le osservazioni presentate:
–        per Latchways plc e Eurosafe Solutions BV, dall’avv. A. Mak, advocaat,
–        per Kedge Safety Systems BV e Consolidated Nederland BV, dall’avv. E. Schelhaas, advocaat,
–        per il governo dei Paesi Bassi, dalla sig.ra C. Wissels, in qualità di agente,
–        per il governo belga, dal sig. J.-C. Halleux, in qualità di agente,
–        per la Commissione europea, dai sigg. S. Schønberg e G. Zavvos, in qualità di agenti, assistiti dall’avv. F. Tuytschaever, advocaat,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 28 aprile 2010,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/106/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati Membri concernenti i prodotti da costruzione (GU 1989, L 40, pag. 12), come modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882 (GU L 284, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 89/106»), della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/686/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative ai dispositivi di protezione individuale (GU L 399, pag. 18), come modificata dal regolamento n. 1882/2003 (in prosieguo: la «direttiva 89/686»), nonché della decisione del Consiglio 22 luglio 1993, 93/465/CEE, concernente i moduli relativi alle diverse fasi delle procedure di valutazione della conformità e le norme per l’apposizione e l’utilizzazione della marcatura CE di conformità, da utilizzare nelle direttive di armonizzazione tecnica (GU L 220, pag. 23).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Latchways plc e la Eurosafe Solutions BV (in prosieguo, rispettivamente, la «Latchways» e la «Eurosafe Solutions»), da un lato, e la Kedge Safety Systems BV e la Consolidated Nederland BV (in prosieguo, rispettivamente, la «Kedge Safety Systems» e la «Consolidated Nederland»), dall’altro, in merito alla questione se il dispositivo di ancoraggio contro le cadute dall’alto in occasione di lavori effettuati sui tetti, prodotto dalla Latchways, nonché quello prodotto dalla Kedge Safety Systems, siano sicuri e se la marcatura «CE» possa o debba essere apposta su detti dispositivi.
 Contesto normativo
 La normativa dell’Unione
 La direttiva 89/106
3        L’art. 1 della direttiva 89/106 così recita:
«1.      La presente direttiva si applica ai materiali da costruzione nella misura in cui valgano per essi i requisiti essenziali relativi alle opere previsti all’articolo 3, paragrafo 1.
2.      Ai fini della presente direttiva, per «materiale da costruzione» s’intende qualsiasi prodotto fabbricato al fine di essere permanentemente incorporato in opere di costruzione, le quali comprendono gli edifici e le opere d’ingegneria civile.
(…)».
4        L’art. 2 della direttiva in parola sancisce:
«1.      Gli Stati membri prendono le misure necessarie per far sì che i prodotti [da costruzione] di cui all’articolo 1 destinati ad essere impiegati in opere [di costruzione] possano essere immessi sul mercato solo se idonei all’impiego previsto, se hanno cioè caratteristiche tali che le opere [di costruzione] in cui devono essere inglobati, montati, applicati o installati possano, se adeguatamente progettate e costruite, soddisfare i requisiti essenziali di cui all’articolo 3, se e nella misura in cui tali opere siano soggette a regolamentazioni che prevedano tali requisiti.
2.      a)     Qualora i prodotti [da costruzione] siano disciplinati da altre direttive comunitarie relative ad aspetti differenti e che prevedono l’apposizione della marcatura CE di conformità di cui all’articolo 4, paragrafo 2, questa indica, in detti casi, che i prodotti [da costruzione] si presumono soddisfare anche le disposizioni di queste altre direttive.
(…)».
5        L’art. 3 della predetta direttiva è del seguente tenore:
«1.      I requisiti essenziali applicabili alle opere [di costruzione] e suscettibili di influenzare le caratteristiche tecniche di un prodotto [da costruzione] sono enunciati in termini di obiettivi nell’allegato I. (…)
(…)
3.      I requisiti essenziali sono precisati in documenti (documenti interpretativi) destinati a stabilire i collegamenti necessari tra i requisiti essenziali di cui al paragrafo 1 e i mandati di normalizzazione, i mandati per orientamenti per il benestare tecnico europeo oppure il riconoscimento di altre specificazioni tecniche ai sensi degli articoli 4 e 5».
6        L’art. 4 della medesima direttiva dispone quanto segue:
«1.      Ai fini della presente direttiva per “specificazioni tecniche” si intendono le norme e i benestare tecnici.
Ai fini della presente direttiva per “norme armonizzate” si intendono le specificazioni tecniche adottate dal [comitato europeo di normalizzazione (CEN)] o [comitato europeo di normalizzazione elettrotecnica (Cenelec)] o da entrambi su mandato della Commissione, conferito conformemente alla direttiva 83/189/CEE [del Consiglio 28 marzo 1983, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche (GU L 109, pag. 8)], sulla base di un parere formulato dal comitato permanente della costruzione, e secondo gli orientamenti generali riguardanti la cooperazione tra la Commissione e i due organi suddetti, firmati il 13 novembre 1984.
2.      Gli Stati membri presumono idonei al loro impiego i prodotti [da costruzione] che consentono alle opere [di costruzione] in cui sono utilizzati, se adeguatamente progettate e costruite, di soddisfare i requisiti essenziali di cui all’articolo 3 qualora i suddetti prodotti rechino la marcatura CE che indica che essi soddisfano tutte le disposizioni della presente direttiva, comprese le procedure di valutazione di conformità previste al capitolo V e la procedura prevista al capitolo III. La marcatura CE attesta:
a)      che sono conformi alle relative norme nazionali in cui sono state trasposte le norme armonizzate, i cui estremi sono stati pubblicati nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. Gli Stati membri pubblicano gli estremi di tali norme nazionali;
b)      che sono conformi ad un benestare tecnico europeo rilasciato secondo la procedura di cui al capitolo III,
oppure
c)      che sono conformi alle specificazioni tecniche di cui al paragrafo 3 nella misura in cui non esistano specificazioni armonizzate: un elenco di tali specificazioni nazionali è redatto secondo la procedura prevista all’articolo 5, paragrafo 2.
(…)».
7        L’art. 7 della direttiva 89/106 è formulato come segue:
«1.      Per garantire la qualità delle norme armonizzate per i prodotti [da costruzione], tali norme sono elaborate dagli organismi europei di normalizzazione in base a mandati loro conferiti dalla Commissione (…).
2.      Le norme così stabilite devono essere espresse nella misura del possibile in termini di requisiti di prestazione dei prodotti [da costruzione] tenendo conto dei documenti interpretativi.
3.      Quando le norme sono state elaborate dagli organismi europei di normalizzazione la Commissione ne pubblica gli estratti nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, serie C».
8        Il punto 4 dell’allegato I della direttiva in parola è formulato nei seguenti termini:
«4.      Sicurezza nell’impiego
L’opera [di costruzione] deve essere concepita e costruita in modo che la sua utilizzazione non comporti rischi di incidenti inammissibili, quali scivolate, cadute, collisioni, bruciature, folgorazioni, ferimenti a seguito di esplosioni».
 La direttiva 89/686
9        L’art. 1 della direttiva 89/686 così dispone:
«1.      La presente direttiva si applica ai dispositivi di protezione individuale, qui di seguito denominati “DPI”.
Essa stabilisce le condizioni di immissione sul mercato e della libera circolazione intracomunitaria, nonché i requisiti essenziali di sicurezza cui i DPI devono soddisfare per preservare la salute e garantire la sicurezza degli utilizzatori.
2.      Ai sensi della presente direttiva, si intende per “DPI” qualsiasi dispositivo o articolo destinato a essere indossato o tenuto da una persona affinché essa sia protetta nei confronti di uno o più rischi che potrebbero metterne in pericolo la salute e la sicurezza.
Sono anche considerati DPI:
a)      l’insieme costituito da diversi dispositivi o articoli abbinati in modo solidale dal fabbricante per proteggere una persona nei confronti di uno o più rischi che possono presentarsi simultaneamente;
b)      un dispositivo o articolo di protezione solidale, in modo dissociabile o non dissociabile, di un dispositivo individuale non protettivo indossato o tenuto da una persona per svolgere una data attività;
c)      i componenti intercambiabili di un DPI, indispensabili per il suo buon funzionamento ed utilizzati unicamente per detto DPI.
3.      Viene considerato parte integrante di un DPI ogni sistema di collegamento immesso sul mercato con il DPI per raccordare quest’ultimo ad un dispositivo esterno, complementare, anche nel caso in cui tale sistema di collegamento non sia destinato ad essere indossato o tenuto in permanenza dall’utilizzatore durante il periodo di esposizione al (ai) rischio(i).
(…)».
10      L’art. 3 della direttiva in parola così recita:
«I DPI di cui all’articolo 1 devono rispondere ai requisiti essenziali di sicurezza previsti nell’allegato II».
11      L’art. 4, n. 1, della predetta direttiva è formulato nei seguenti termini:
«Gli Stati membri non possono vietare, limitare od ostacolare l’immissione sul mercato di DPI o componenti di DPI conformi alle disposizioni della presente direttiva e muniti della marcatura CE che dichiara la loro conformità a tutte le prescrizioni della presente direttiva comprese le procedure di certificazione di cui al capitolo II».
12      Il punto 3.1.2.2 dell’allegato II della direttiva 89/686 prevede quanto segue:
«Prevenzione delle cadute dall’alto
I DPI destinati a prevenire le cadute dall’alto o i loro effetti devono comprendere un dispositivo di presa del corpo e un sistema di collegamento raccordabile a un punto di ancoraggio sicuro. Essi devono essere progettati e fabbricati in modo tale che, se utilizzati nelle condizioni prevedibili di impiego, il dislivello del corpo sia il minore possibile per evitare qualsiasi impatto contro un ostacolo, senza che la forza di frenatura raggiunga la soglia in cui sopravvengono lesioni corporali o quella di apertura o di rottura di un componente dei DPI per cui possa prodursi la caduta dell’utilizzatore.
Essi devono inoltre garantire che al termine della frenatura l’utilizzatore abbia una posizione corretta, che gli consenta se necessario di attendere i soccorsi.
Nella sua nota informativa il fabbricante deve in particolare precisare i dati utili relativi:
–        alle caratteristiche necessarie per il punto di ancoraggio sicuro, nonché al “tirante d’aria” minimo necessario al disotto dell’utilizzatore;
–        al modo adeguato di indossare il dispositivo di presa del corpo e di raccordarne il sistema di collegamento al punto di ancoraggio sicuro».
 La decisione 93/465
13      Il punto I B dell’allegato della decisione 93/465 sancisce quanto segue:
«I principali orientamenti per l’apposizione della marcatura CE sono i seguenti:
a)      La marcatura CE concretizza la conformità a tutti gli obblighi che spettano ai fabbricanti in relazione al prodotto ai sensi delle direttive [dell’Unione] che ne contemplano l’apposizione.
(…)
b)      La marcatura CE apposta sui prodotti industriali attesta il fatto che la persona fisica o giuridica che ha svolto o fatto svolgere l’apposizione si è accertata che il prodotto è conforme a tutte le direttive [dell’Unione] totali che ad esso si applicano e che è stato sottoposto alle appropriate procedure di valutazione della conformità.
(…)
e)      Ogni prodotto industriale disciplinato dalle direttive di armonizzazione tecnica fondate sui principi dell’approccio globale deve essere munito della marcatura CE, fatte salve le eccezioni previste dalle direttive specifiche; si tratta non di derogare alla marcatura, ma di derogare a procedure amministrative per la valutazione della conformità, ritenute, in determinati casi, troppo complesse. Non vi saranno quindi eccezioni o deroghe alla marcatura, se non giustificate.
Soltanto la marcatura CE attesta la conformità dei prodotti industriali alle direttive fondate sui principi dell’approccio globale.
A questo titolo gli Stati membri si astengono dall’introdurre nella loro regolamentazione nazionale segni di marcature diversi dalla marcatura CE per quanto riguarda la conformità a tutte le disposizioni di cui alle direttive che prevedono tale marcatura CE.
(…)
i)      È vietato apporre ogni altra marcatura che possa trarre in inganno i terzi sul significato e sul simbolo grafico della marcatura CE.
(…)
l)      Gli Stati membri devono adottare tutte le disposizioni di diritto interno atte ad evitare ogni possibile confusione ed ogni abuso nell’impiego della marcatura CE.
Fatte salve le disposizioni della direttiva in questione relative all’applicazione della clausola di salvaguardia, ogni constatazione da parte di uno Stato membro di apposizione indebita della marcatura CE comporta per il fabbricante o il suo mandatario stabilito nell’[Unione europea] o, eccezionalmente, se le direttive specifiche lo prevedono, per il responsabile dell’immissione del prodotto in questione sul mercato [dell’Unione], l’obbligo di conformare tale prodotto e di far cessare l’infrazione alle condizioni stabilite da tale Stato membro. Nel caso in cui persista la mancanza di conformità, lo Stato membro deve adottare tutte le misure atte a limitare o vietare l’immissione del prodotto sul mercato o garantirne il ritiro dal commercio secondo le procedure previste dalle clausole di salvaguardia».
 La norma EN 795 e la pubblicazione dei suoi riferimenti nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee
14      La norma europea 795 (in prosieguo: la «norma EN 795»), intitolata «Protezione contro le cadute dall’alto – Dispositivi di ancoraggio – Requisiti e prove», è stata elaborata nell’ambito di un mandato conferito al CEN dalla Commissione e dall’Associazione europea di libero scambio. I punti 4.2 e 4.3.1.1 di detta norma precisano i requisiti tecnici che i dispositivi di ancoraggio della classe A1 devono soddisfare e sono intesi a rafforzare i requisiti enunciati al punto 3.1.2.2 dell’allegato II della direttiva 89/686.
15      Il punto 3.13 della norma EN 795 è formulato nei seguenti termini:
«3.13 Classi
3.13.1 Classe A
3.13.1.1 Classe A1
La Classe A1 comprende ancoraggi strutturali progettati per essere fissati a superfici verticali, orizzontali ed inclinate, per esempio pareti, colonne, architravi.
(…)».
16      Con la comunicazione della Commissione 2000/C 40/05 nel quadro dell’applicazione della direttiva 89/686, modificata dalle direttive 93/68/CEE, 93/95/CEE e 96/58/CE (GU C 40, pag. 7), i titoli e riferimenti della norma EN 795 sono stati oggetto di una pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, con l’avvertenza che «la presente pubblicazione non riguarda i dispositivi descritti nelle classi A (ancoraggi strutturali) (...) per i quali essa non conferisce presunzione di conformità alle disposizioni della direttiva 89/686/CEE».
 La normativa nazionale
17      La direttiva 89/106 è stata recepita nei Paesi Bassi con il regolamento di costruzione (Bouwbesluit) 16 dicembre 1991 (Staatsblad 1991, n. 680), sostituito dal 1° gennaio 2003 dal regolamento di costruzione 2003 (Bouwbesluit 2003, Staatsblad 2002, n. 410), in seguito più volte modificato.
18      La direttiva 89/686 è stata recepita nei Paesi Bassi con il decreto sui dispositivi di protezione individuale (Warenwetbesluit persoonlijke beschermingsmiddelen, Staatsblad 1992, n. 396), adottato in applicazione della legge olandese che disciplina segnatamente la qualità e la sicurezza dei prodotti, in seguito più volte modificato.
19      La norma EN 795 è stata recepita nei Paesi Bassi con la norma NEN 795.
 Causa principale e questioni pregiudiziali
20      La Latchways, concorrente della Kedge Safety Systems, produce e commercializza il Mansafe, un dispositivo di ancoraggio fissato sul tetto per mezzo di viti inserite nella costruzione del tetto presente sotto il rivestimento del tetto stesso. Su predetto dispositivo essa appone la marcatura «CE» ai sensi della norma EN 795.
21      Quanto alla Kedge Safety Systems, essa produce e commercializza il Kedge Safety, un dispositivo di ancoraggio che viene fissato al tetto facendo aderire un’apposita rosetta al rivestimento bituminoso. Essa rivendica per quest’ultimo la rispondenza alla norma EN 795.
22      Nel 2004 e 2005, la Consolidated Nederland, uno degli acquirenti del Kedge Safety, ha fatto testare due volte tale dispositivo da un organismo riconosciuto ed abilitato alla certificazione di DPI in base alle norme armonizzate. In queste due occasioni, quest’ultimo ha accertato che il Kedge Safety soddisfaceva la norma EN 795 in taluni punti relativi ai dispositivi della classe A1, ma ha espressamente indicato che le prove effettuate non giustificavano la marcatura «CE», né la dichiarazione di conformità alla direttiva 89/686.
23      Nel 2005 la Latchways ha fatto testare il Kedge Safety da altri due organismi autorizzati. Entrambi sono giunti alla conclusione che il Kedge Safety non aveva superato una parte del test previsto dalla norma EN 795, poiché, in specifiche condizioni di calore, esso si era staccato una volta sottoposto ad una forza statica di 5,68 kN, allorché il punto 4.3.1.1 della norma EN 795 impone una resistenza perlomeno pari a 10 kN.
24      Nell’ambito di un procedimento sommario la Latchways e la Eurosafe Solutions, il distributore olandese del Mansafe, hanno ottenuto dal Rechtbank Doordrecht il divieto, rivolto alla Kedge Safety Systems, di indicare che il suo dispositivo d’ancoraggio risponde alla norma EN 795, tranne in caso di utilizzo su tetti nuovi e in giorni senza sole, nonché di informarne i propri clienti.
25      Nell’ambito del procedimento principale, la Latchways e la Eurosafe Solutions richiedono il divieto di commercializzare il Kedge Safety senza la marcatura «CE», poiché tale prodotto rientra nel campo d’applicazione della direttiva 89/686. In subordine, esse chiedono di vietare alla Kedge Safety Systems e alla Consolidated Nederland di commercializzare detto prodotto per un uso su qualsiasi tipo di tetto, di rivendicare il fatto che quest’ultimo risponde alla norma EN 795 e di indicare che lo stesso prodotto è sicuro.
26      A titolo riconvenzionale, la Kedge Safety Systems e la Consolidated Nederland chiedono che alla Latchways e alla Eurosafe Solutions sia fatto divieto di apporre la marcatura «CE» sul Mansafe, di fare riferimento alla norma EN 795 e di proseguire la commercializzazione di tale prodotto. A sostegno delle loro richieste, la Kedge Safety Systems e la Consolidated Nederland deducono che le classi A, C e D della norma EN 795 rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 89/106 e che, quindi, la Latchways e la Eurosafe Solutions non possono rivendicare una dichiarazione di conformità del Mansafe ai sensi della direttiva 89/686.
27      Nutrendo dubbi in ordine alle direttive applicabili ai dispositivi in esame, alle modalità d’impiego della marcatura «CE», nonché alla natura della norma EN 795, con sentenza interlocutoria 18 luglio 2007 il Rechtbank ‘s-Gravenhage ha invitato le parti della controversia principale a pronunciarsi sulle questioni pregiudiziali che detto giudice intendeva deferire alla Corte.
28      Dopo aver preso conoscenza delle rispettive osservazioni presentate dalle parti della causa principale, il Rechtbank ‘s-Gravenhage ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se i sistemi di ancoraggio della classe A1, di cui alla norma EN 795 (intesi per restare durevolmente sul luogo), rientrino esclusivamente nel campo d’applicazione della direttiva 89/106 (…).
2)      In caso di soluzione negativa della prima questione, se siffatti sistemi di ancoraggio – eventualmente in quanto parti del dispositivo di protezione – rientrino nell’ambito d’applicazione della direttiva 89/686 (…).
3)      In caso di soluzione negativa della prima e della seconda questione, se, considerando anche l’allegato II della direttiva 89/686 (...), segnatamente il suo art. 3.1.2.2 – nei riguardi di un [DPI] rientrante nell’ambito d’applicazione di detta direttiva – occorra dichiarare che questo [DPI] di per sé soddisfa le condizioni fondamentali della direttiva stessa, o se al riguardo occorra considerare anche la questione se il sistema di ancoraggio – a cui è collegato il [DPI] in questione – sia sicuro nelle condizioni di impiego prevedibili, ai sensi dell’allegato II.
4)      Se il diritto comunitario, e segnatamente la [decisione] 93/465 (...), consenta che un marchio CE venga apposto facoltativamente su un sistema di ancoraggio quale quello di cui alla prima questione, come prova della conformità alla direttiva 89/686 (...) e/o alla direttiva 89/106 (…).
5)      Qualora la quarta questione venga risolta, in tutto o in parte, in senso affermativo, quale procedura occorra rispettare per stabilire siffatta conformità nei riguardi delle direttive 89/686 (...) e/o 89/106 (...).
6)      Se la norma EN 795, nei riguardi del sistema di ancoraggio di cui alla prima questione, debba essere considerata come norma di diritto [dell’Unione] – che deve essere interpretato dalla Corte (…).
7)      In caso di soluzione affermativa della sesta questione, se la norma EN 795 debba essere interpretata nel senso che il sistema di ancoraggio di cui alla prima questione deve essere testato (da un ente designato) nelle condizioni di impiego prevedibili (come temperature esterne, circostanze atmosferiche, invecchiamento del sistema di ancoraggio stesso e/o dei materiali con cui è agganciato, nonché del tetto).
8)      In caso di soluzione affermativa della settima questione, se esso debba essere testato applicando le restrizioni dell’uso (indicate nelle istruzioni per l’uso)».
 Sulle questioni pregiudiziali
29      Va constatato in via preliminare che la prima, la seconda e la terza questione vertono sull’applicabilità delle direttive 89/106 e 89/686 ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, quali definiti nella norma EN 795. Orbene, la soluzione di suddette questioni comporta necessariamente l’interpretazione, da parte della Corte, di questa norma, la cui natura giuridica e interpretazione costituiscono l’oggetto della sesta, settima ed ottava questione. Pertanto, occorre statuire anzitutto su queste ultime.
 Sulla sesta, settima ed ottava questione, relative alla natura giuridica della norma EN 795
30      Con la sesta, la settima e l’ottava questione il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se le disposizioni e le prescrizioni della norma EN 795, relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, facciano parte del diritto dell’Unione e, pertanto, possano formare oggetto di un’interpretazione da parte della Corte e, in caso affermativo, di interpretarle.
31      Va rammentato a tale proposito che, nell’ambito del ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri riguardanti i prodotti, in cui si inseriscono, segnatamente, le direttive 89/106 e 89/686, le istituzioni dell’Unione adottano direttive che definiscono i requisiti essenziali che devono soddisfare i prodotti rientranti nel loro campo di applicazione. Secondo la procedura prevista dalla direttiva 83/189, la Commissione conferisce poi mandato ad organismi europei preposti alla normalizzazione di elaborare le specificazioni tecniche che precisano i requisiti essenziali stabiliti dalle suddette direttive. Dopo l’elaborazione delle norme da parte dei suddetti organismi, la Commissione ne pubblica i riferimenti nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Tale pubblicazione ha lo scopo di conferire ai prodotti, coperti da una direttiva di armonizzazione tecnica e che soddisfano i requisiti tecnici definiti nelle norme armonizzate relative a detti prodotti, il beneficio di una presunzione di conformità ai requisiti essenziali della direttiva in parola.
32      Nella specie, dalla norma EN 795 si evince che essa è stata elaborata nell’ambito di un mandato conferito dalla Commissione al CEN, ai sensi del punto 3.1.2.2 dell’allegato II della direttiva 89/686. I riferimenti di suddetta norma sono stati poi pubblicati nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee nella comunicazione 2000/C 40/05. Tuttavia, quest’ultima indica espressamente che tale pubblicazione non riguarda i dispositivi descritti segnatamente nella classe A1 della norma EN 795, per i quali essa non conferisce alcuna presunzione di conformità alle disposizioni della direttiva 89/686.
33      Pertanto, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 123 delle sue conclusioni, le disposizioni della norma EN 795, relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, non possono essere considerate come specificazioni tecniche armonizzate. Per tale motivo e poiché essa riguarda i dispositivi di ancoraggio della classe A1, la norma EN 795 deve essere considerata una norma di natura tecnica emanata da un organismo di normalizzazione privato e sprovvista di ogni nesso con la direttiva 89/686.
34      Orbene, è di giurisprudenza costante che la competenza della Corte a statuire in via pregiudiziale è limitata all’esame delle sole disposizioni del diritto dell’Unione (v., in tal senso, ordinanza 16 gennaio 2008, causa C‑361/07, Polier, punto 9 nonché giurisprudenza ivi citata).
35      Poiché dai punti 32 e 33 della presente sentenza emerge che le disposizioni di cui trattasi non costituiscono disposizioni del diritto dell’Unione, si deve concludere, senza che sia necessario interrogarsi sulla natura giuridica delle norme armonizzate, che la Corte non può procedere all’interpretazione delle disposizioni della norma EN 795 relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1.
36      Di conseguenza, la sesta questione va risolta nel senso che le disposizioni della norma EN 795, relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 89/686, che dunque esse non rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione e che, pertanto, la Corte non ha competenza per procedere alla loro interpretazione.
37      In considerazione della soluzione apportata alla sesta questione, non occorre risolvere la settima ed ottava questione.
 Sulla prima, seconda e terza questione, relative all’applicabilità delle direttive 89/106 e 89/686 ai dispositivi di cui trattasi nella causa principale
38      Con la prima, la seconda e la terza questione il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se i dispositivi di ancoraggio della classe A1, definiti nella norma EN 795, rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva 89/106 o della direttiva 89/686.
39      Poiché la Corte non è competente ad interpretare le disposizioni e le prescrizioni della norma EN 795 relative a detti dispositivi, occorre prendere in considerazione i dispositivi di ancoraggio di cui trattasi nella causa principale, ossia il Mansafe e il Kedge Safety.
40      Tali dispositivi si presentano come un sistema di ancoraggio strutturale fissato al tetto di una costruzione su cui viene agganciato un DPI. Come emerge dalla decisione di rinvio, detti dispositivi di ancoraggio sono destinati a rimanere durevolmente fissati alla costruzione dopo la loro installazione e possono dunque essere usati ulteriormente, il che è stato confermato dalle parti interessate in udienza.
41      Per quanto riguarda, in un primo momento, l’applicabilità della direttiva 89/686 a questi stessi dispositivi, l’art. 1 di quest’ultima definisce l’ambito di applicazione della stessa provvedendo, ai nn. 2 e 3 del suddetto articolo, alla definizione della nozione di DPI.
42      Alla lettura sistematica di detti paragrafi emerge che la qualificazione di DPI presuppone che un siffatto prodotto sia – o quantomeno possa essere – indossato o tenuto dal suo utilizzatore durante il periodo della sua esposizione al rischio. Esso deve quindi costituire un prodotto mobile. Orbene, è pacifico che, per il loro utilizzo, dispositivi di ancoraggio come quelli in esame nella controversia principale sono fissati a un’opera di costruzione. Pertanto, i medesimi non sono destinati ad essere indossati o tenuti dai loro utilizzatori ai sensi della direttiva 89/686.
43      Va altresì constatato che la funzione di tali dispositivi osta alla loro qualificazione come «sistema di collegamento» ai sensi dell’art. 1, n. 3, della direttiva 89/686 e dunque alla possibilità che siano considerati parte integrante di un DPI. Invero, tali dispositivi non hanno affatto la funzione di collegare un DPI ad un «altro dispositivo esterno», ai sensi di predetto articolo, o ad un «punto di ancoraggio sicuro» ai sensi del punto 3.1.2.2 dell’allegato II della medesima direttiva. Al contrario, essi sono destinati a costituire un «dispositivo esterno», al quale viene agganciato un DPI.
44      Di conseguenza, in considerazione della loro natura e funzione, si deve concludere che dispositivi di ancoraggio come quelli in esame nella causa principale non possono rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva 89/686.
45      Tale constatazione non può essere inficiata dal requisito, enunciato al punto 3.1.2.2 dell’allegato II della direttiva 89/686, secondo cui nella nota informativa il fabbricante di un DPI deve precisare tutti i dati utili relativi alle caratteristiche necessarie del punto di ancoraggio sicuro al quale deve essere raccordato tale DPI.
46      Infatti, dall’art. 3 della direttiva 89/686 emerge che l’allegato II della medesima direttiva, nel suo insieme, e il punto 3.1.2.2 di tale allegato, in particolare, hanno unicamente lo scopo di definire i requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili ai DPI. L’obbligo posto a carico del fabbricante, di precisare le caratteristiche necessarie del punto di ancoraggio sicuro al quale deve essere collegato un DPI, non può quindi estendere il campo di applicazione di detta direttiva oltre i limiti definiti dall’art. 1 della medesima.
47      Alla luce delle considerazioni che precedono, la seconda questione va risolta nel senso che dispositivi d’ancoraggio come quelli in esame nella causa principale, che non sono destinati ad essere tenuti o indossati dal loro utilizzatore, non rientrano nel campo di applicazione della direttiva 89/686, né in quanto tali, né per il fatto di essere destinati ad essere collegati ad un DPI.
48      In considerazione della soluzione fornita alla seconda questione, non è necessario procedere alla soluzione della terza.
49      Per quanto attiene, in un secondo momento, all’applicabilità della direttiva 89/106 ai dispositivi di ancoraggio quali il Mansafe e il Kedge Safety, emerge dall’art. 1, n. 1, di tale direttiva che la medesima si applica ai materiali da costruzione nella misura in cui valgano per essi i requisiti essenziali relativi alle opere di costruzione ed elencati all’art. 3, n. 1, di detta direttiva. Al fine di individuare i requisiti essenziali applicabili a tali opere e tali da influenzare le caratteristiche di un prodotto da costruzione, quest’ultimo articolo rinvia all’allegato I della direttiva 89/106 che concerne, segnatamente, la sicurezza dell’impiego delle opere di costruzione.
50      In tale senso, l’applicabilità della direttiva 89/106 ad un prodotto in particolare presuppone la presenza di due condizioni, una relativa alla natura di tale prodotto e l’altra riguardante la funzione del medesimo.
51      Per quanto riguarda, in primo luogo, la natura dei prodotti soggetti alla direttiva 89/106, l’art. 1, n. 2, della stessa dispone che viene qualificato come «materiale da costruzione» qualsiasi prodotto fabbricato al fine di essere permanentemente incorporato in opere di costruzione.
52      Va anzitutto constatato che la direttiva 89/106 non definisce l’espressione «permanentemente incorporato». Pertanto e alla luce del significato corrente di questa espressione, nonché dello scopo della predetta direttiva, che è quello di garantire che le opere di costruzione soddisfino i requisiti essenziali enunciati nella stessa, occorre tenere a mente che devono essere qualificati come prodotti da costruzione i prodotti che fanno parte di un’opera di costruzione, il cui smontaggio riduce la prestazione del medesimo e il cui smontaggio o la cui sostituzione configura un’opera di costruzione.
53      Alla luce delle caratteristiche dei dispositivi di ancoraggio in esame nella causa principale, quali emergono dal punto 40 della presente sentenza, va constatato che tali dispositivi sono fissati al tetto in modo tale da fare parte dell’opera di costruzione, conformemente alla qualificazione di prodotto da costruzione ai sensi dell’art. 1, n. 2, della direttiva 89/106.
54      Per quanto attiene, in secondo luogo, alla funzione dei prodotti rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 89/106, il punto 4 dell’allegato I di quest’ultima enuncia che i prodotti da costruzione devono essere idonei alla realizzazione di opere di costruzione pronte all’uso in particolare per quanto riguarda la sicurezza dell’impiego, imponendo che esse siano concepite e costruite in modo che la loro utilizzazione o il loro funzionamento non comporti rischi inammissibili di incidenti quali scivolate, cadute, collisioni, bruciature, folgorazioni, ferimenti a seguito di esplosioni.
55      Nella specie, è pacifico che dispositivi di ancoraggio come quelli di cui trattasi nella causa principale mirano ad assicurare la sicurezza delle persone durante i lavoro effettuati sui tetti, prevenendo le cadute dall’alto che possono avvenire in occasione dell’uso del tetto o nell’ambito del suo funzionamento, in particolare ai fini della pulizia e della riparazione dell’opera di costruzione.
56      Pertanto, si deve giungere alla conclusione che siffatti dispositivi garantiscono la sicurezza dell’impiego o del funzionamento del tetto delle opere di costruzione, ai sensi del punto 4 dell’allegato I della direttiva 89/106.
57      Tale conclusione non può essere rimessa in questione dal fatto che il punto 4 dell’allegato I di suddetta direttiva, nella sua versione olandese, non riguarda le attività esercitate all’esterno dell’opera di costruzione e quindi quelle esercitate sui tetti. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, la necessità di un’interpretazione uniforme degli atti dell’Unione esclude che, in caso di dubbio, il testo di una disposizione sia considerata isolatamente e richiede, invece, che sia interpretato e applicato alla luce delle versioni redatte nelle altre lingue ufficiali (v., in tal senso, sentenza 20 novembre 2008, causa C‑375/07, Heuschen & Schrouff Oriëntal Foods Trading, Racc. pag. I‑8691, punto 46, nonché giurisprudenza ivi citata). Orbene, le altre versioni linguistiche, come quella tedesca, inglese e francese, non distinguono in alcun modo tra attività esercitate all’interno e quelle esercitate all’esterno dell’opera di costruzione.
58      Peraltro, da nessuna disposizione della direttiva 89/106 può essere desunto che si imporrebbe una lettura restrittiva della sfera di applicazione della medesima e che devono esulare da essa dispositivi come quelli di cui trattasi nella causa principale. Al contrario, alla luce degli obiettivi della direttiva in esame, risulta determinante per la sicurezza dell’impiego delle opere di costruzione, in particolare proprio per le persone che lavorano sui tetti, che, in occasione dell’utilizzo di un tetto, queste possano fare affidamento su dispositivi di ancoraggio fissati all’opera di costruzione e destinati a rimanervi permanentemente e che, una volta fissati, fanno parte di detta opera e che configurano dunque un prodotto da costruzione ai sensi della direttiva 89/106.
59      Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione nel senso che dispositivi di ancoraggio come quelli di cui trattasi nella causa principale, che fanno parte dell’opera di costruzione alla quale sono fissati al fine di garantire la sicurezza d’impiego o di funzionamento del tetto di tale opera, rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 89/106.
 Sulla quarta e quinta questione, relative all’interpretazione della decisione 93/465
60      Con la quarta questione, il giudice del rinvio desidera sapere sostanzialmente se la decisione 93/465 consenta l’apposizione facoltativa della marcatura «CE» su un prodotto che non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva, ai sensi della quale viene apposta, ma che risponde ai requisiti tecnici definiti dalla medesima e, in caso affermativo, quale o quali siano le procedure da osservare a tal fine.
61      A tal riguardo, va rilevato che la lettura congiunta dei punti I B, lett. a), b) ed e), dell’allegato della decisione 93/465 consente di affermare che la marcatura «CE» costituisce l’unico strumento che attesti, da un lato, la conformità di un prodotto ai requisiti essenziali fissati nella o nelle direttive di armonizzazione tecnica che si applicano ad esso e, dall’altro, l’assoggettamento di questo prodotto alle procedure appropriate di valutazione della sua conformità alle direttive summenzionate.
62      Peraltro, i punti I B, lett. i) e l), dello stesso allegato evidenziano la necessità di evitare ogni possibile confusione ed abuso nell’impiego della marcatura «CE», in particolare imponendo agli Stati membri l’obbligo di fare cessare ogni apposizione indebita di tale marcatura.
63      Ciò premesso, la marcatura «CE» può essere apposta unicamente su prodotti per i quali la sua apposizione sia specificamente prevista dalla normativa pertinente dell’Unione in materia di armonizzazione, ad esclusione di qualsiasi altro prodotto. Infatti, ogni diversa valutazione avrebbe come conseguenza di fare sorgere un rischio di confusione sul significato di detta marcatura. Del resto, per ovviare ai rischi connessi a una siffatta confusione, l’art. 30, n. 2, del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 9 luglio 2008, n. 765, che pone norme in materia di accreditamento e vigilanza del mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti e che abroga il regolamento (CEE) del Consiglio n. 339/93 (GU L 218, pag. 30) applicabile a partire dal 1° gennaio 2010, sancisce che la marcatura «CE» viene apposta unicamente su prodotti per i quali la sua apposizione sia specificamente prevista dalla normativa pertinente dell’Unione in materia di armonizzazione, ad esclusione di qualsiasi altro prodotto.
64      La quarta questione va dunque risolta affermando che la decisione 93/465 esclude l’apposizione, a titolo facoltativo, della marcatura «CE» su un prodotto che non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva ai sensi della quale essa viene apposta, anche qualora tale prodotto soddisfacesse i requisiti tecnici definiti dalla medesima.
65      Alla luce della soluzione apportata alla quarta questione, non occorre esaminare la quinta questione.
 Sulle spese
66      Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
1)      Le disposizioni della norma europea 795, relative ai dispositivi di ancoraggio della classe A1, non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/686/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative ai dispositivi di protezione individuale, come modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882, esse non rientrano dunque nell’ambito del diritto dell’Unione e, pertanto, la Corte non ha competenza per procedere alla loro interpretazione.
2)      Dispositivi di ancoraggio come quelli in esame nella causa principale, che non sono destinati ad essere tenuti o indossati dal loro utilizzatore, non rientrano nel campo di applicazione della direttiva 89/686, come modificata dal regolamento n. 1882/2003, né in quanto tali, né per il fatto di essere destinati ad essere collegati ad un dispositivo di protezione individuale.
3)      Dispositivi di ancoraggio come quelli di cui trattasi nella causa principale, che fanno parte dell’opera di costruzione alla quale sono fissati al fine di garantire la sicurezza d’impiego o di funzionamento del tetto di tale opera, rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/106/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati Membri concernenti i prodotti da costruzione, come modificata dal regolamento n. 1882/2003.
4)      La decisione del Consiglio 22 luglio 1993, 93/465/CEE, concernente i moduli relativi alle diverse fasi delle procedure di valutazione della conformità e le norme per l’apposizione e l’utilizzazione della marcatura CE di conformità, da utilizzare nelle direttive di armonizzazione tecnica, esclude l’apposizione, a titolo facoltativo, della marcatura «CE» su un prodotto che non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva ai sensi della quale essa viene apposta, anche qualora tale prodotto soddisfacesse i requisiti tecnici definiti dalla medesima.
fonte Eulabour

Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e lavoro - Direttiva 76/207/CEE

SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)
18 novembre 2010 (*)
«Politica sociale – Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e lavoro – Direttiva 76/207/CEE – Art. 3, n. 1, lett. c) – Normativa nazionale che agevola il licenziamento dei lavoratori che hanno maturato il diritto alla pensione di vecchiaia – Obiettivo di promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani – Normativa nazionale che stabilisce l'età pensionabile a 60 anni per le donne e a 65 anni per gli uomini»

Nel procedimento C‑356/09,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, dall'Oberster Gerichtshof (Austria), con decisione 4 agosto 2009, pervenuta in cancelleria il 4 settembre 2009, nella causa
Pensionsversicherungsanstalt
contro
Christine Kleist,
LA CORTE (Seconda Sezione),
composta dal sig. J.N. Cunha Rodrigues, presidente di sezione, dai sigg. A. Arabadjiev (relatore), A. Rosas, U. Lõhmus e A. Ó Caoimh, giudici,
avvocato generale: sig.ra J. Kokott
cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 2 settembre 2010,
considerate le osservazioni presentate:
– per la Pensionsversicherungsanstalt, dall'avv. A. Ehm, Rechtsanwalt,
– per la sig.ra Kleist, dall'avv. H. Forcher-Mayr, Rechtsanwalt,
– per la Commissione europea, dai sigg. V. Kreuschitz e M. van Beek, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza del 16 settembre 2010,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE (GU L 269, pag. 15; in prosieguo: la «direttiva 76/207»).
2 Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra la sig.ra Kleist e il suo datore di lavoro, la Pensionsversicherungsanstalt (in prosieguo: la «cassa pensione»), in merito alle condizioni di cessazione del contratto di lavoro della sig.ra Kleist.
Contesto normativo
Il diritto dell'Unione
3 La direttiva 76/207, che è stata abrogata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 luglio 2006, 2006/54/CE, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) (GU L 204, pag. 23), con effetto a decorrere dal 15 agosto 2009, prevedeva, al suo art. 2:
«1. Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia. .
2. Ai sensi della presente direttiva si applicano le seguenti definizioni:
– discriminazione diretta: situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un'altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga;
– discriminazione indiretta: situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari;
(...)».
4 Ai sensi dell'art. 3, n. 1, lett. c), di tale direttiva «(l)'applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene (...) all'occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione come [già previsto] dalla direttiva» del Consiglio 10 febbraio 1975, 75/117/CEE, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative all'applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile (GU L 45, pag. 19).
5 L'art. 7, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24), dispone quanto segue:
«La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione:
a) la fissazione dei limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni;
(...)».
Il diritto nazionale
6 Gli artt. 1-3 della legge costituzionale federale relativa all'età pensionabile differenziata per gli assicurati di sesso maschile e per quelli di sesso femminile (Bundesverfassungsgesetz über unterschiedliche Altersgrenzen von männlichen und weiblichen Sozialversicherten) 29 dicembre 1992 (BGBl. 832/1992), sono formulati come segue:
«Articolo 1. Sono legittime le normative che prevedono limiti di età diversi per gli assicurati di sesso maschile e femminile presso il sistema previdenziale pubblico.
Articolo 2. A decorrere dal 1° gennaio 2019, il limite di età a partire dal quale le donne hanno diritto alla pensione di vecchiaia anticipata aumenterà di sei mesi dal 1° gennaio di ogni anno fino al 2028.
Articolo 3. A decorrere dal 1° gennaio 2024 il limite di età fissato agli assicurati di sesso femminile per potere percepire la pensione di vecchiaia aumenterà di sei mesi dal 1° gennaio di ogni anno fino al 2033».
7 La legge generale in materia di previdenza sociale (Allgemeines Sozialversicherungsgesetz) 9 settembre 1955 (BGBl. 189/1955), come modificata (in prosieguo: l'«ASVG»), si applica sia agli operai sia agli impiegati, in forza del suo art. 270. L'art. 253, n. 1, di tale legge prevede che, una volta raggiunta l'età pensionabile ordinaria, di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne, il diritto alla pensione di vecchiaia è maturato dall'assicurato qualora sia compiuto il periodo di attesa previsto dall'art. 236 della citata legge.
8 Emerge dalla decisione di rinvio che, in diritto austriaco, la pensione di vecchiaia legale (concessa ai sensi dell'ASVG) non può essere ridotta per il mantenimento di un rapporto di lavoro o per l'esercizio di un'attività professionale indipendente che vada oltre l'età a partire dalla quale matura il diritto a detta pensione.
9 Il contratto collettivo applicabile alla fattispecie è il regolamento speciale B per i medici e gli odontoiatri impiegati presso gli organismi di previdenza sociale austriaci (Dienstordnung B für die Ärzte und Dentisten bei den Sozialversicherungsträgern Österreichs, in prosieguo: il «DO.B»). Tale contratto collettivo stabilisce un regime speciale di licenziamento secondo il quale i lavoratori che hanno cumulato almeno 10 anni di anzianità di servizio nell'organismo presso il quale lavorano possono essere licenziati solo per determinati motivi.
10 L'art. 134 del DO.B è formulato come segue:
« (...)
2. I medici non licenziabili hanno diritto ad essere collocati a riposo quando
(...)
(2) sussiste un diritto alla pensione di vecchiaia ai sensi dell'art. 253 dell'ASVG.
(...)
4. Il consiglio di amministrazione può collocare a riposo un medico non licenziabile quando quest'ultimo
(1) possiede i requisiti di cui al secondo comma, [n.] 2 (...)».
Causa principale e questioni pregiudiziali
11 La sig.ra Kleist, nata nel febbraio 1948, lavorava alle dipendenze della cassa pensione svolgendo la funzione di dirigente medico.
12 La cassa pensione ha deciso di licenziare tutti i collaboratori e le collaboratrici in possesso dei requisiti per il collocamento a riposo previsti dal DO.B. Con lettera del 9 gennaio 2007, la sig.ra Kleist ha informato il suo datore di lavoro di non aver intenzione di andare in pensione al compimento del sessantesimo anno di età, ma di voler lavorare fino all'età di 65 anni. Ciononostante, la cassa pensione le ha comunicato, con nota 6 dicembre 2007, la sua decisione di collocarla a riposo a partire dal 1° luglio 2008.
13 La sig.ra Kleist ha impugnato il proprio licenziamento dinanzi al Landesgericht Innsbruck (Tribunale di Innsbruck). La sentenza di quest'ultimo del 14 marzo 2008, a lei sfavorevole, è stata riformata da una sentenza del 22 agosto 2008 dell'Oberlandesgericht Innsbruck (Corte di appello di Innsbruck), quale giudice d'appello in materia di diritto del lavoro e di diritto sociale. La cassa pensione ha poi presentato ricorso per cassazione (Revision) dinanzi all'Oberster Gerichtshof (Corte suprema di cassazione austriaca).
14 L'Oberster Gerichtshof sottolinea che il regime di licenziamento stabilito dal DO.B deroga al sistema generale introdotto dalla normativa austriaca nella parte in cui quest'ultimo prevede che la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro è, in linea di principio, ingiustificata. Esso indica tuttavia che non è esclusa l'applicazione della tutela generale contro il licenziamento abusivo prevista, a determinate condizioni, dalla citata normativa qualora attraverso questa cessazione si incida su interessi sostanziali del lavoratore e qualora il datore di lavoro non possa dimostrare motivi attinenti all'azienda o alla persona del lavoratore a giustificare tale cessazione.
15 Il giudice del rinvio illustra inoltre che, nel contesto della valutazione se tale cessazione incida su interessi sostanziali del lavoratore, si considera l'assicurazione previdenziale di cui gode quest'ultimo, in particolare riguardo alla percezione di una pensione di vecchiaia. Orbene, tale stesso criterio è utilizzato nell'ambito della disposizione del DO.B controversa nella causa principale, la quale autorizza il datore di lavoro a disapplicare una tutela contro il licenziamento, rinforzata rispetto a quella derivante dal regime ordinario, ai lavoratori che dispongano di una pensione di vecchiaia, offrendo in tal modo la possibilità di assumere lavoratori più giovani.
16 L'Oberster Gerichtshof nutre dubbi sulla questione se, nell'ambito della valutazione della comparabilità delle situazioni in cui si trovano i lavoratori, il criterio della situazione sociale del lavoratore, applicato dal diritto austriaco in materia di licenziamento, debba essere preso in considerazione allo stesso titolo che il criterio dell'età. Tale giudice rileva che gli uomini e le donne sono trattati allo stesso modo a tale proposito, atteso che essi perdono il beneficio della tutela rinforzata contro il licenziamento accordata dal DO.B dal momento in cui hanno diritto ad un'assicurazione previdenziale.
17 Il giudice del rinvio ritiene che, in considerazione, in particolare, dell'importanza della discrezionalità degli Stati membri nella realizzazione delle misure di politica occupazionale, le questioni di diritto sollevate nella causa di cui è investito non siano sufficientemente chiarite dalla giurisprudenza della Corte da consentirgli di adottare una decisione.
18 In tale contesto, l'Oberster Gerichtshof ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva [76/207] debba essere interpretato nel senso che — nel contesto di un regime di diritto del lavoro in cui la tutela generale dal licenziamento dei lavoratori è improntata alla dipendenza sociale (finanziaria) di questi ultimi dal posto di lavoro — esso osta alla disposizione di un contratto collettivo che prevede, oltre alla tutela generale dal licenziamento sancita dalla legge, una tutela speciale solo fino al momento in cui solitamente viene fornita una garanzia sociale (finanziaria) mediante il diritto ad una pensione di vecchiaia, qualora quest'ultima maturi in tempi diversi per gli uomini e per le donne.
2) Se l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva [76/207] osti, nel contesto del descritto regime di diritto del lavoro, alla decisione di un datore di lavoro pubblico di licenziare una lavoratrice pochi mesi dopo il momento in cui ella acquisisca la garanzia del diritto ad una pensione di vecchiaia, allo scopo di assumere nuovi lavoratori pronti ad inserirsi nel mercato del lavoro».
Sulle questioni pregiudiziali
19 Con le sue questioni, che conviene esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, se l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 debba essere interpretato nel senso che una normativa nazionale la quale, per promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani, consente ad un datore di lavoro di diritto pubblico di licenziare gli impiegati che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, laddove tale diritto è maturato per le donne ad un'età di cinque anni inferiore a quella prevista per gli uomini, costituisce una discriminazione fondata sul sesso vietata da tale direttiva.
Osservazioni presentate alla Corte
20 Secondo la sig.ra Kleist, la normativa controversa nella causa principale costituisce una discriminazione fondata sul sesso in quanto consente al datore di lavoro di mandare in pensione d'ufficio un'impiegata che raggiunge l'età a partire dalla quale matura il diritto a detta pensione, vale a dire 60 anni, laddove tale diritto matura in momenti diversi a seconda che l'impiegato sia di sesso maschile o femminile. L'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 dovrebbe essere interpretato nel senso che osta ad una siffatta normativa.
21 La sig.ra Kleist chiede alla Corte di pronunciarsi anche sull'interpretazione delle disposizioni della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16). Fa valere che tali disposizioni ostano ad una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale in quanto quest'ultima comporta, inoltre, una discriminazione diretta fondata sull'età.
22 La cassa pensione sostiene che la normativa controversa nella causa principale introduce una disparità di trattamento indirettamente fondata sul sesso che è giustificata alla luce dell'obiettivo di promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani e non costituisce quindi una discriminazione illegittima. Essa ritiene, inoltre, che occorre evitare una situazione nella quale le donne possono cumulare il reddito da lavoro alle prestazioni legali pensionistiche, mentre gli uomini non hanno tale possibilità.
23 La Commissione europea considera che l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 debba essere interpretato nel senso che esso osta a che un contratto collettivo contenga una disposizione che prevede una tutela particolare che va oltre il regime generale ordinario di tutela dal licenziamento, ma che si applica unicamente fintantoché il lavoratore disponga di un'assicurazione previdenziale che gli fornisca mezzi finanziari, il che si verifica normalmente quando quest'ultimo percepisce una pensione di vecchiaia, laddove il diritto a tale pensione matura in tempi diversi a seconda che il lavoratore sia un uomo o una donna, in quanto l'obiettivo di promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani non può giustificare una siffatta normativa.
Risposta della Corte
24 Occorre rilevare, in via preliminare, che la questione delle condizioni di accesso alla pensione di vecchiaia, da un lato, e quella delle condizioni di cessazione del rapporto di lavoro, dall'altro, sono distinte (v., in tal senso, sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 32).
25 Per quanto riguarda queste ultime, l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 prevede che l'applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico.
26 A tale proposito, inerisce alla nozione di licenziamento prevista in tale disposizione, nozione che deve essere intesa in senso ampio, un limite di età per la cessazione obbligatoria del rapporto, fissato nell'ambito della politica generale di pensionamento seguita da un datore di lavoro, anche ove implichi la concessione di una pensione (v., per analogia, sentenze 26 febbraio 1986, Marshall, cit., punto 34, e causa 262/84, Beets-Proper, Racc., pag. 773, punto 36).
27 Ne consegue che, dal momento che la sig.ra Kleist è stata collocata a riposo d'ufficio dal suo datore di lavoro, conformemente alla decisione adottata da quest'ultimo di licenziare tutti i suoi impiegati che hanno maturato il diritto ad una pensione di vecchiaia, la causa principale riguarda le condizioni di licenziamento ai sensi dell'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207.
28 Si deve anzitutto rammentare che la Corte ha dichiarato che una politica generale in fatto di licenziamenti, la quale implichi il licenziamento di un'impiegata per il solo motivo che essa ha raggiunto o superato l'età alla quale ha diritto ad una pensione statale, età che, a norma delle leggi nazionali, è diversa per gli uomini e per le donne, costituisce una discriminazione in base al sesso vietata dalla direttiva 76/207/CEE (v., in tal senso, sentenza Marshall, cit., punto 38).
29 A tale proposito si deve rilevare, in primo luogo, che, conformemente all'art. 2, n. 2, primo trattino, della direttiva 76/207 una discriminazione diretta si produce quando una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga.
30 Nella specie, emerge dall'art. 134, n. 2, punto 2, e n. 4, punto 1, della DO.B, che i medici non licenziabili possono comunque essere collocati a riposo quando maturano un diritto alla pensione di vecchiaia ai sensi dell'art. 253 dell'ASVG. Orbene, in forza del citato art. 253, n. 1, gli uomini maturano tale diritto al compimento del sessantacinquesimo anno di età e le donne al compimento del sessantesimo anno di età. Ne consegue che i lavoratori di sesso femminile possono essere licenziati a partire dal momento in cui raggiungono i 60 anni, mentre i lavoratori di sesso maschile possono essere licenziati unicamente dopo aver raggiunto l'età di 65 anni.
31 Poiché il criterio applicato dalle disposizioni in parola è indissociabile dal sesso dei lavoratori sussiste dunque, contrariamente a quanto sostenuto dalla cassa pensione, una disparità di trattamento direttamente fondata sul sesso.
32 Occorre, in secondo luogo, esaminare se, in un contesto come quello disciplinato dalle citate disposizioni, i lavoratori di sesso femminile di età tra i 60 e i 65 anni si trovino in una situazione comparabile, ai sensi dell'art. 2, n. 2, primo trattino, della direttiva 76/207, a quella dei lavoratori di sesso maschile che si trovano nella stessa fascia di età.
33 A tale proposito, il giudice del rinvio nutre dubbi, sostanzialmente, sulla questione se la circostanza che i lavoratori di sesso femminile di età tra i 60 e 65 anni dispongono, a titolo della pensione di vecchiaia legale, di un'assicurazione previdenziale, sia tale da conferire alla situazione di tali lavoratori un carattere specifico rispetto quella dei lavoratori di sesso maschile che si trovano nella stessa fascia d'età, i quali non dispongono di una siffatta assicurazione.
34 Occorre esaminare la comparabilità di tali situazioni, in particolare alla luce dell'oggetto della normativa che introduce la disparità di trattamento (v., in tal senso, sentenze 9 dicembre 2004, causa C‑19/02, Hlozek, Racc. pag. I‑11491, punto 46, e, per analogia, 16 dicembre 2008, causa C‑127/07, Arcelor Atlantique et Lorraine e a., Racc. pag. I‑9895, punto 26).
35 Nella specie, la normativa che introduce la disparità di trattamento in parola ha ad oggetto la disciplina delle condizioni in presenza delle quali gli impiegati possono perdere il loro posto di lavoro.
36 Nel contesto della presente causa principale, contrariamente a quanto si verificava nelle cause che hanno dato luogo alle sentenze 9 novembre 1993, causa C‑132/92, Roberts (Racc. pag. I‑5579, v., in particolare, punto 20), e Hlozek, cit. (v., in particolare, punto 48), il vantaggio concesso alle lavoratrici consistente nel poter accedere alla pensione di vecchiaia ad un'età inferiore di cinque anni a quella stabilita per i lavoratori di sesso maschile non ha un rapporto diretto con l'oggetto della normativa che stabilisce una disparità di trattamento.
37 Infatti, detto vantaggio non situa i lavoratori di sesso femminile in una situazione specifica rispetto a quelli di sesso maschile, dal momento che gli uomini e le donne si trovano in situazioni identiche per quanto riguarda le condizioni di cessazione del rapporto di lavoro (v., in tal senso, sentenza 26 febbraio 1986, causa 151/84, Roberts, Racc. pag. 703, punto 36).
38 Peraltro, come emerge dalla decisione di rinvio, la circostanza di cui al punto 33 della presente sentenza risulta dal fatto che la Repubblica d'Austria ha inteso stabilire, a titolo dell'eccezione al principio di parità di trattamento di cui l'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7, un regime che prevede una differenza in merito all'età pensionabile legale tra gli uomini e le donne al fine di compensare lo svantaggio sociale, familiare ed economico che subiscono le donne.
39 Orbene, la Corte ha dichiarato in diverse occasioni che, tenuto conto dell'importanza fondamentale del principio di parità di trattamento, l'eccezione al divieto di discriminazioni fondate sul sesso prevista da tale disposizione dev'essere interpretata restrittivamente, nel senso che essa può applicarsi soltanto alla fissazione dell'età del pensionamento per la corresponsione delle pensioni di vecchiaia e di anzianità ed alle conseguenze che ne derivano per altre prestazioni previdenziali (v., in tal senso, sentenze Marshall, cit., punto 36; 21 luglio 2005, causa C‑207/04, Vergani, Racc. pag. I‑7453, punto 33, e 27 aprile 2006, causa C‑423/04, Richards, Racc. pag. I‑3585, punto 36).
40 Poiché la normativa controversa nella causa principale riguarda, come emerge dal punto 27 della presente sentenza, il licenziamento ai sensi dell'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 e non le conseguenze di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7, la citata eccezione non è dunque applicabile a tale normativa.
41 In terzo luogo, la direttiva 76/207 opera una distinzione tra, da un lato, le discriminazioni direttamente fondate sul sesso e, dall'altro, quelle definite «indirette», nel senso che unicamente le disposizioni, i criteri o le prassi che possono costituire discriminazioni indirette possono, in forza del suo art. 2, n. 2, secondo trattino, evitare la qualifica di discriminazione a condizione che siano «giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il [loro] conseguimento siano appropriati e necessari». Una siffatta possibilità non è invece prevista per le disparità di trattamento atte a costituire discriminazioni dirette, ai sensi dell'art. 2, n. 2, primo trattino, di tale direttiva.
42 Pertanto, posto che, da un lato, la differenza di trattamento prevista da una normativa come quella controversa nella causa principale è direttamente fondata sul sesso e che, dall'altro, come emerge dal punto 37 della presente sentenza, la direttiva 76/207 non prevede deroghe, applicabili alla fattispecie, al principio della parità di trattamento, occorre concludere che tale differenza di trattamento costituisce una discriminazione direttamente fondata sul sesso (v., in tal senso, sentenza Vergani, cit., punto 34).
43 La citata disparità di trattamento non può dunque essere giustificata dall'obiettivo di promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani, come invocato dalla cassa pensione.
44 Per quanto riguarda, infine, la questione dell'eventuale esistenza di una discriminazione basata sull'età ai sensi della direttiva 2000/78, si deve rammentare che, nell'ambito del procedimento istituito dall'art. 234 CE, spetta esclusivamente al giudice nazionale cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell'emananda decisione giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di pronunciare la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. (v., in particolare, sentenza 12 ottobre 2010, causa C‑45/09, Rosenbladt, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 32).
45 Poiché il giudice del rinvio non ha chiesto alla Corte chiarimenti in merito all'interpretazione di tale direttiva e non emerge neanche dalla decisione di rinvio che l'esistenza di una siffatta discriminazione sia stata sollevata nell'ambito della controversia principale, l'esame di tale questione non sembra utile ai fini della risoluzione della controversia in parola.
46 Le questioni sottoposte vanno dunque risolte dichiarando che l'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207 deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale la quale, per promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani, consente ad un datore di lavoro di licenziare gli impiegati che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, laddove tale diritto è maturato dalle donne ad un'età inferiore di cinque anni rispetto a quella in cui tale diritto è maturato per gli uomini, costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata da tale direttiva.
Sulle spese
47 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
L'art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE, deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale la quale, per promuovere l'inserimento professionale di persone più giovani, consente ad un datore di lavoro di licenziare gli impiegati che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, laddove tale diritto è maturato dalle donne ad un'età inferiore di cinque anni rispetto a quella in cui tale diritto è maturato per gli uomini, costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata da tale direttiva.
Firme
fonte: Eulabour

Tutela dei lavoratori – Direttive 93/104/CE e 2003/88/CE

SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)
25 novembre 2010 (*)
«Politica sociale – Tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori – Direttive 93/104/CE e 2003/88/CE – Organizzazione dell'orario di lavoro – Vigili del fuoco occupati nel settore pubblico – Art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88/CE – Durata massima dell'orario settimanale di lavoro – Superamento – Risarcimento del danno causato dalla violazione del diritto dell'Unione – Condizioni alle quali è subordinata l'esistenza di un diritto al risarcimento – Modalità procedurali – Obbligo di presentare previa domanda al datore di lavoro – Forma ed entità del risarcimento – Tempo libero aggiuntivo o indennità – Principi di equivalenza e di effettività»

Nel procedimento C‑429/09,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, dal Verwaltungsgericht Halle (Germania), con decisione 30 settembre 2009, pervenuta in cancelleria il 30 ottobre 2009, nella causa
Günter Fuß
contro
Stadt Halle,
LA CORTE (Seconda Sezione),
composta dal sig. J.N. Cunha Rodrigues, presidente di sezione, dai sigg. A. Arabadjiev, A. Rosas, U. Lõhmus e A. Ó Caoimh (relatore), giudici
avvocato generale: sig. P. Mengozzi
cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 2 settembre 2010,
considerate le osservazioni presentate:
– per il sig. Fuß, dall'avv. M. Geißler, Rechtsanwalt;
– per la Stadt Halle, dall'avv. T. Brümmer, Rechtsanwalt;
– per il governo tedesco, dai sigg. J. Möller e C. Blaschke, in qualità di agenti;
– per la Commissione europea, dai sigg. V. Kreuschitz e M. van Beek, in qualità di agenti,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l'avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 23 novembre 1993, 93/104/CE, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro (GU L 307, pag. 18), come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 2000, 2000/34/CE (GU L 195, pag. 41; in prosieguo: la «direttiva 93/104»), nonché della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 novembre 2003, 2003/88/CE, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro (GU L 299, pag. 9).
2 Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra il sig. Fuß ed il suo datore di lavoro, la Stadt Halle, in merito alla domanda di compensazione che egli ha proposto a causa della durata eccessiva dell'orario di lavoro effettuata nell'ambito del servizio prestato presso quest'ultimo in qualità di vigile del fuoco.
Contesto normativo
La normativa dell'Unione
La direttiva 93/104
3 L'art. 1, nn. 1 e 2, lett. a), della direttiva 93/104, rubricato «Oggetto e campo di applicazione», prevede quanto segue:
«1. La presente direttiva stabilisce prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell'orario di lavoro.
2. La presente direttiva si applica:
a) ai periodi minimi di riposo giornaliero, riposo settimanale e ferie annuali nonché alla pausa ed alla durata massima settimanale del lavoro».
4 L'art. 2 della stessa direttiva, rubricato «Definizioni», enuncia quanto segue:
«Ai sensi della presente direttiva si intende per:
1) "orario di lavoro": qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali;
(...)».
5 Sotto la rubrica «Durata massima settimanale del lavoro», l'art. 6 della suddetta direttiva dispone che:
«Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché, in funzione degli imperativi di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori:
1) la durata settimanale del lavoro sia limitata mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative oppure contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali;
2) la durata media dell'orario di lavoro per ogni periodo di 7 giorni non superi 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario».
6 In base all'art. 16, punto 2, della direttiva 93/104, gli Stati membri possono prevedere, per l'applicazione della durata massima settimanale del lavoro stabilita dall'art. 6 di quest'ultima, un periodo di riferimento non superiore a quattro mesi, fatte salve le deroghe di cui all'art. 17 della medesima direttiva. Ai sensi dell'art. 17, n. 4, tale facoltà di derogare al suddetto art. 16, punto 2, non può tuttavia avere come conseguenza la fissazione di un periodo di riferimento superiore a sei mesi ovvero, qualora detti periodi di riferimento siano fissati in contratti collettivi o in accordi conclusi tra le parti sociali, a dodici mesi.
7 L'art. 18, n. 1, della direttiva 93/104 è così formulato:
«1. a) Gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva al più tardi il 23 novembre 1996 o provvedono affinché, al più tardi entro tale data, le parti sociali applichino consensualmente le disposizioni necessarie, fermo restando che gli Stati membri devono prendere tutte le misure necessarie per poter garantire in qualsiasi momento i risultati imposti dalla presente direttiva.
b) i) Tuttavia, ogni Stato membro ha la facoltà di non applicare l'articolo 6, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, a condizione che assicuri, mediante le misure necessarie prese a tale scopo, che:
– nessun datore di lavoro chieda a un lavoratore di lavorare più di 48 ore nel corso di un periodo di 7 giorni, calcolato come media del periodo di riferimento di cui all'articolo 16, punto 2, a meno che non abbia ottenuto il consenso del lavoratore all'esecuzione di tale lavoro;
– nessun lavoratore possa subire un danno per il fatto che non è disposto ad accettare di effettuare tale lavoro;
– il datore di lavoro tenga registri aggiornati di tutti i lavoratori che effettuano tale lavoro;
– i registri siano messi a disposizione delle autorità competenti che possono vietare o limitare, per ragioni di sicurezza e/o di salute dei lavoratori, la possibilità di superare la durata massima settimanale del lavoro;
– il datore di lavoro, su richiesta delle autorità competenti, dia loro informazioni sui consensi dati dai lavoratori all'esecuzione di un lavoro che superi le 48 ore nel corso di un periodo di 7 giorni, calcolato come media del periodo di riferimento di cui all'articolo 16, punto 2.
(...)».
La direttiva 2003/88
8 Come emerge dal suo primo 'considerando', la direttiva 2003/88 procede, per motivi di chiarezza, alla codificazione delle disposizioni della direttiva 93/104.
9 L'art. 1 della direttiva 2003/88, rubricato «Oggetto e campo di applicazione», dispone quanto segue:
«1. La presente direttiva stabilisce prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell'orario di lavoro.
2. La presente direttiva si applica:
a) ai periodi minimi di riposo giornaliero, riposo settimanale e ferie annuali nonché alla pausa ed alla durata massima settimanale del lavoro; e
(...)».
10 L'art. 2, punto 1, della stessa direttiva, intitolato «Definizioni», enuncia quanto segue:
«Ai sensi della presente direttiva si intende per:
1) "orario di lavoro": qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali».
11 Sotto la rubrica «Durata massima settimanale del lavoro», l'art. 6 della medesima direttiva prevede che:
«Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché, in funzione degli imperativi di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori:
a) la durata settimanale del lavoro sia limitata mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative oppure contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali;
b) la durata media dell'orario di lavoro per ogni periodo di 7 giorni non superi 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario».
12 Ai sensi dell'art. 16 della direttiva 2003/88, gli Stati membri possono prevedere, per l'applicazione della durata massima settimanale del lavoro stabilita dall'art. 6 di quest'ultima, un periodo di riferimento non superiore a quattro mesi, fatte salve le deroghe di cui agli artt. 17 e 18 della medesima direttiva. Ai sensi dell'art. 19, primo e secondo comma, della stessa direttiva, tale facoltà di derogare al suddetto art. 16 non può tuttavia avere come conseguenza la fissazione di un periodo di riferimento superiore a sei mesi ovvero, qualora detti periodi di riferimento siano fissati in contratti collettivi o in accordi conclusi tra le parti sociali, a dodici mesi.
13 L'art. 22, n. 1, primo comma, della suddetta direttiva è così formulato:
«Gli Stati membri hanno facoltà di non applicare l'articolo 6, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, a condizione che assicurino, mediante le necessarie misure a tale scopo, che:
a) nessun datore di lavoro chieda a un lavoratore di lavorare più di 48 ore nel corso di un periodo di 7 giorni, calcolato come media del periodo di riferimento di cui all'articolo 16, lettera b), a meno che non abbia ottenuto il consenso del lavoratore all'esecuzione di tale lavoro;
b) nessun lavoratore possa subire un danno per il fatto che non è disposto ad accettare di effettuare tale lavoro;
c) il datore di lavoro tenga registri aggiornati di tutti i lavoratori che effettuano tale lavoro;
d) i registri siano messi a disposizione delle autorità competenti che possono vietare o limitare, per ragioni di sicurezza e/o di salute dei lavoratori, la possibilità di superare la durata massima settimanale del lavoro;
e) il datore di lavoro, su richiesta delle autorità competenti, dia loro informazioni sui consensi dati dai lavoratori all'esecuzione di un lavoro che superi le 48 ore nel corso di un periodo di 7 giorni, calcolato come media del periodo di riferimento di cui all'articolo 16, lettera b)».
14 Ai sensi dell'art. 27, n. 1, della direttiva 2003/88, la direttiva 93/104 è abrogata, fatti salvi gli obblighi degli Stati membri relativi ai termini di recepimento.
15 Conformemente al suo art. 28, la direttiva 2003/88 è entrata in vigore il 2 agosto 2004.
La normativa nazionale
16 L'art. 2, n. 1, del regolamento sull'orario di lavoro dei pubblici dipendenti nel servizio tecnico antincendi delle città e dei comuni del Land Sassonia‑Anhalt (Verordnung über die Arbeitszeit der Beamtinnen und Beamten im feuerwehrtechnischen Dienst der Städte und Gemeinden des Landes Sachsen-Anhalt) 7 ottobre 1998 (in prosieguo: l'«ArbZVO‑FW 1998»), in vigore fino al 31 dicembre 2007, prevedeva quanto segue:
«La durata ordinaria del lavoro dei dipendenti occupati in lavori a turno e la cui attività settimanale si svolge principalmente nel servizio di guardia è mediamente di 54 ore (...)».
17 Con effetto dal 1° gennaio 2008, l'ArbZVO‑FW 1998 è stato sostituito dall'ArbZVO‑FW 5 luglio 2007 (in prosieguo: l'«ArbZVO‑FW 2007»).
18 L'art. 2, n. 1, dell'ArbZVO‑FW 2007 dispone che:
«La durata ordinaria settimanale del lavoro dei pubblici dipendenti è pari a 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario, nella media annuale».
19 L'art. 4 del medesimo ArbZVO‑FW 2007, rubricato «Accordi individuali», è del seguente tenore:
«1. Fatto salvo il rispetto dei principi generali di sicurezza e di protezione della salute, la durata del lavoro a turni può superare la durata media ordinaria settimanale di cui all'art. 2, n. 1, se le persone interessate vi acconsentono e il datore di lavoro ne fornisce la prova.
2. Il consenso di cui al n. 1 può essere revocato mediante un preavviso di sei mesi. Gli interessati devono esserne informati per iscritto».
20 L'art. 72, n. 3, della legge sui pubblici dipendenti del Land Sassonia‑Anhalt (Beamtengesetz Land Sachsen-Anhalt), nella versione in vigore alla data dei fatti di cui alla causa principale, prevede che, per i servizi di guardia, la durata del lavoro può essere prolungata in ragione delle esigenze di servizio, ma essa non deve comunque superare le 54 ore settimanali.
Causa principale e questioni pregiudiziali
21 Il sig. Fuß è impiegato presso la Stadt Halle dal 10 maggio 1982. Nominato pubblico dipendente di ruolo nel corso del 1998 con il grado di vigile del fuoco qualificato («Oberbrandmeister»), dal 15 dicembre 2005 egli detiene il grado di capo reparto («Hauptbrandmeister»).
22 Fino al 4 gennaio 2007, il sig. Fuß era assegnato al servizio di pronto intervento «prevenzione antincendio» dei vigili del fuoco della Stadt Halle come conducente di automezzi. Il suo orario di servizio prevedeva mediamente 54 ore per settimana e comprendeva turni di 24 ore. Ciascuno di questi turni, durante i quali il vigile del fuoco è tenuto ad essere presente in caserma, era composto da un periodo di servizio attivo e da un periodo di permanenza, che poteva essere interrotto da un intervento.
23 Con lettera del 13 dicembre 2006, il sig. Fuß, facendo riferimento all'ordinanza della Corte 14 luglio 2005, causa C‑52/04, Personalrat der Feuerwehr Hamburg (Racc. pag. I‑7111), ha chiesto che, in futuro, il suo orario di lavoro settimanale non superasse più il limite massimo medio di 48 ore previsto dall'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88. Nella stessa lettera il sig. Fuß ha altresì rivendicato diritti alla compensazione per gli straordinari effettuati illegittimamente nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2004 ed il 31 dicembre 2006, diritti che avrebbero potuto essergli riconosciuti sotto forma di riposo ovvero con un'indennità corrispondente alle ore straordinarie svolte.
24 Con decisione 2 gennaio 2007, la Stadt Halle ha proceduto al trasferimento forzato del sig. Fuß, per un periodo di circa due anni, alla centrale di pronto intervento, adducendo che tale trasferimento si rendeva necessario per motivi di organizzazione del servizio. Tale decisione è stata oggetto della sentenza 14 ottobre 2010, causa C‑243/09, Fuß (non ancora pubblicata nella Raccolta).
25 Con decisione 20 marzo 2007, la Stadt Halle ha respinto la domanda di compensazione presentata dal sig. Fuß per il periodo compreso tra il 1° gennaio 2004 ed il 31 dicembre 2006, facendo riferimento ad un'ordinanza dell'Oberverwaltungsgericht des Landes Sachsen‑Anhalt 17 ottobre 2006 secondo cui il diritto a riposo compensativo sorgerebbe dal giorno di presentazione di una domanda diretta al suo riconoscimento. La Stadt Halle, per contro, ha accolto la domanda del sig. Fuß diretta alla concessione di un riposo compensativo per gli straordinari effettuati a partire dal gennaio 2007. Tuttavia, poiché, la durata massima del lavoro settimanale compiuto da quest'ultimo era stata rispettata successivamente al suo trasferimento ad un altro servizio, non avrebbe potuto essergli riconosciuta alcuna compensazione finanziaria per tale periodo né a titolo di risarcimento del danno, né a titolo di «diritto all'eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli».
26 Con decisione 25 aprile 2007, la Stadt Halle ha respinto il reclamo proposto dal sig. Fuß avverso la suddetta decisione di rigetto 20 marzo 2007, considerando che, sebbene quest'ultimo abbia diritto di domandare la cessazione della violazione del diritto dell'Unione derivante dal superamento della durata media settimanale dell'orario di lavoro di 48 ore, ciò varrebbe unicamente per il periodo decorrente dalla fine del mese nel quale la domanda è stata proposta, dato che ogni pubblico dipendente dovrebbe previamente presentare reclamo dinanzi al datore di lavoro per contestarne il comportamento illegittimo.
27 Il Verwaltungsgericht Halle, dinanzi al quale è stato proposto ricorso avverso tali decisioni di rigetto 20 marzo e 25 aprile 2007, ritiene che in base al diritto nazionale il sig. Fuß non abbia diritto a riposo compensativo né ad un'indennità per gli straordinari compiuti. Infatti, il diritto a dispensa dal servizio fino a concorrenza della durata totale del lavoro straordinario prestato non troverebbe alcun fondamento normativo nell'ordinamento nazionale. Peraltro, il sig. Fuß non godrebbe neppure di un diritto ad essere retribuito per le ore straordinarie, dal momento che non gli è stato imposto di effettuare ore qualificate come tali.
28 Secondo il suddetto giudice, in base al diritto nazionale un diritto a dispensa dal servizio può fondarsi solamente sul principio della buona fede ex art. 242 del codice civile (Bürgerliches Gesetzbuch; in prosieguo: il «BGB»). Tuttavia, un simile diritto presupporrebbe una domanda del pubblico dipendente interessato al proprio datore di lavoro di effettuare solamente le ore di lavoro previste dalla legge. In un simile caso, un compenso sarebbe dovuto soltanto per le ore di lavoro imposte illecitamente in epoca successiva alla presentazione della summenzionata domanda.
29 Il giudice del rinvio si chiede tuttavia se non sia possibile ricavare un diritto a compensazione dalla direttiva 2003/88. Infatti, la necessità di una previa domanda al datore di lavoro limiterebbe l'efficacia pratica del diritto dell'Unione ai casi in cui il pubblico dipendente invochi il rispetto di tale diritto, il che costituirebbe un incentivo a tenere condotte simili a quella di cui alla causa principale, consistenti nel rispettare il diritto dell'Unione solamente qualora ne venga domandata l'applicazione. Inoltre, nel caso di specie la Stadt Halle aveva annunciato che avrebbe proceduto a trasferire dal servizio di pronto intervento ad un altro servizio le persone che avessero invocato i diritti derivanti dalla suddetta direttiva, ed avrebbe effettivamente trasferito il sig. Fuß a seguito della presentazione della sua domanda di non effettuare più un numero di ore di lavoro superiore alla durata massima settimanale. Occorrerebbe inoltre determinare se un diritto a riposo compensativo possa derivare dalle disposizioni relative ai periodi di riferimento previsti dalla medesima direttiva.
30 Ciò premesso, il Verwaltungsgericht Halle ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se dalla direttiva [2003/88] derivino diritti a compensazione, qualora il datore di lavoro (pubblico) abbia fissato un orario lavorativo che supera i limiti stabiliti dall'art. 6, lett. b), della direttiva [2003/88].
2) In caso di risposta affermativa alla prima questione, se tale diritto derivi dalla mera violazione della direttiva [2003/88], oppure se la normativa [dell'Unione] lo subordini a requisiti ulteriori, quali ad esempio una domanda al datore di lavoro di riduzione dell'orario lavorativo o un suo comportamento colpevole nella fissazione dell'orario di lavoro.
3) Nell'ipotesi in cui sussista un diritto accessorio, occorre allora domandarsi se esso consista in un riposo compensativo o in un'indennità pecuniaria, e quali siano i criteri individuati dalla normativa [dell'Unione] per la determinazione del quantum di tale diritto.
4) Se siano direttamente applicabili i periodi di riferimento di cui all'art. 16, lett. b), e/o all'art. 19, secondo comma, della direttiva [2003/88] in un caso come quello di specie, in cui la normativa nazionale si limita a stabilire una durata del lavoro che supera quella massima fissata dall'art. 6, lett. b), della direttiva [2003/88], senza prevedere alcuna compensazione. Qualora si ammetta l'applicabilità diretta, occorre determinare se, ed eventualmente come, debba procedersi alla compensazione nel caso in cui il datore di lavoro non vi provveda entro la scadenza del periodo di riferimento.
5) Come debbano risolversi le prime quattro questioni per il periodo di vigenza della direttiva [93/104]».
Sulle questioni pregiudiziali
Considerazioni preliminari
31 Con le sue questioni, il giudice del rinvio si interroga, da un lato, sui requisiti per la sussistenza di un diritto al risarcimento del danno subito in una situazione come quella di cui alla causa principale, nella quale un lavoratore, impiegato come vigile del fuoco in un servizio di pronto intervento rientrante nel settore pubblico, abbia svolto un orario di lavoro caratterizzato da una durata media settimanale superiore a quella prevista dalle direttive 93/104 e 2003/88 e, dall'altro, sulle modalità procedurali e sui criteri per la concessione di un siffatto diritto al risarcimento.
32 Al fine di risolvere tali questioni, occorre anzitutto osservare che la domanda risarcitoria proposta nella causa principale per il periodo compreso tra il 1° gennaio 2004 ed il 31 dicembre 2006 è soggetta, come correttamente rilevato dal giudice del rinvio, in parte alle disposizioni della direttiva 93/104 e, in parte, a quelle della direttiva 2003/88, che ha proceduto alla codificazione delle disposizioni della suddetta direttiva 93/104 a decorrere dal 2 agosto 2004. Tuttavia, dal momento che le disposizioni pertinenti di tali direttive sono formulate in termini sostanzialmente identici e poiché le soluzioni da fornire alle questioni sottoposte dal giudice del rinvio sono, a causa di tale identità, le medesime qualunque sia la direttiva applicabile, è opportuno fare unicamente riferimento, al fine di risolvere dette questioni, alle disposizioni della direttiva 2003/88.
33 In via preliminare, occorre rammentare che l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 costituisce una norma del diritto sociale dell'Unione che riveste importanza particolare, di cui ogni lavoratore deve poter beneficiare quale prescrizione minima necessaria per garantire la tutela della sua sicurezza e della sua salute, la quale impone agli Stati membri l'obbligo di prevedere un limite di 48 ore alla durata media settimanale del lavoro, limite massimo che, come espressamente precisato, include le ore di straordinario e che, in mancanza di attuazione nel diritto interno della facoltà prevista dall'art. 22, n. 1, di tale direttiva, non può in alcun caso essere derogato con riguardo ad attività come quella di vigile del fuoco, di cui trattasi nella causa principale, neppure con il consenso del lavoratore interessato (v., in tal senso, sentenze 5 ottobre 2004, cause riunite da C‑397/01 a C‑403/01, Pfeiffer e a., Racc. pag. I‑8835, punti 98 e 100, nonché Fuß, cit., punti 33‑35 e 38).
34 Come già statuito dalla Corte, gli Stati membri non possono quindi determinare unilateralmente la portata dell'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, subordinando a una qualsiasi condizione o restrizione l'applicazione di tale diritto dei lavoratori a che la durata media settimanale del lavoro non superi il suddetto limite massimo (v. sentenze citate Pfeiffer e a., punto 99, e Fuß, punto 52).
35 Peraltro, la Corte ha altresì dichiarato che l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 ha effetto diretto, nel senso che conferisce ai singoli diritti che essi possono far valere direttamente dinanzi ai giudici nazionali (sentenze citate Pfeiffer e a., punti 103‑106, nonché Fuß, punti 56‑59).
36 Orbene, come rilevato dalla Corte al punto 60 della citata sentenza Fuß, è pacifico che, durante il periodo oggetto della domanda di risarcimento di cui alla causa principale, il termine di recepimento della direttiva 93/104, di cui la direttiva 2003/88 costituisce la codificazione, era scaduto e che il Land Sassonia‑Anhalt non aveva provveduto a siffatto recepimento nel suo diritto interno per quanto riguarda i vigili del fuoco occupati in un servizio di pronto intervento.
37 In particolare, risulta acclarato che l'ArbZVO‑FW 1998, applicabile nel suddetto periodo ai vigili del fuoco, permetteva di svolgere un orario di lavoro caratterizzato da una durata media settimanale superiore al limite massimo di 48 ore previsto dall'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 e che il suddetto Land, nel corso di tale periodo, non aveva recepito nel suo diritto interno la facoltà di deroga ex art. 22, n. 1, di detta direttiva, facoltà la cui applicazione richiede, fra l'altro, il consenso del lavoratore interessato, dato che la trasposizione di tali differenti disposizioni della suddetta direttiva è avvenuta solamente a decorrere dal 1° gennaio 2008 con l'adozione dell'ArbZVO‑FW 2007 (v. sentenza Fuß, cit., punti 36, 37 e 45).
38 Tanto premesso, un lavoratore quale il sig. Fuß, occupato dalla Stadt Halle presso un servizio di pronto intervento, è quindi legittimato ad avvalersi direttamente delle disposizioni dell'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 nei confronti di un simile datore di lavoro pubblico, al fine di fare osservare il diritto, derivante da quest'ultima, ad una durata media settimanale dell'orario di lavoro che non superi le 48 ore (sentenza Fuß, cit., punto 60).
39 A tale riguardo, l'obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da quest'ultima contemplato, come pure l'obbligo, imposto dall'art. 4, n. 3, TUE, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l'adempimento di tale obbligo, valgono per tutte le autorità degli Stati membri. Obblighi siffatti gravano su tali autorità, ivi compreso, se del caso, nella loro qualità di datore di lavoro pubblico (sentenza 15 aprile 2008, causa C‑268/06, Impact, Racc. pag. I‑2483, punto 85).
40 Secondo la giurisprudenza della Corte, ne consegue che qualora non possano procedere ad un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle prescrizioni del diritto dell'Unione, i giudici nazionali e gli organi dell'amministrazione hanno l'obbligo di applicare integralmente il diritto dell'Unione e di tutelare i diritti che quest'ultimo attribuisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (v., in tal senso, sentenze 22 giugno 1989, causa 103/88, Costanzo, Racc. pag. 1839, punto 33; 11 gennaio 2007, causa C‑208/05, ITC, Racc. pag. I‑181, punti 68 e 69, nonché Fuß, cit., punto 63).
41 Occorre risolvere le questioni poste dal giudice del rinvio alla luce di tali considerazioni preliminari.
Sulla prima questione
42 Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il diritto dell'Unione, in particolare la direttiva 2003/88, conferisca a un lavoratore che, come il sig. Fuß nella causa principale, abbia svolto, in qualità di vigile del fuoco occupato in un servizio di pronto intervento rientrante nel settore pubblico, un orario di lavoro caratterizzato da una durata media settimanale superiore al limite di 48 ore previsto dall'art. 6, lett. b), di tale direttiva, un diritto al risarcimento del danno subito.
43 Si deve ricordare che la direttiva 2003/88 intende fissare prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori mediante il ravvicinamento delle normative nazionali riguardanti, in particolare, la durata dell'orario di lavoro. Tale armonizzazione a livello dell'Unione europea in materia di organizzazione dell'orario di lavoro è intesa a garantire una migliore protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, facendo godere a questi ultimi periodi minimi di riposo – in particolare giornaliero e settimanale – e periodi di pausa adeguati e prevedendo un limite massimo per la durata settimanale del lavoro (v., in particolare, sentenze citate Pfeiffer e a., punto 76, nonché Fuß, punto 32).
44 Per contro, la direttiva 2003/88 non contiene, come correttamente rilevato dalla Commissione europea, alcuna disposizione relativa alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle prescrizioni minime dalla medesima stabilite, in particolare con riguardo alla durata dell'orario di lavoro e, pertanto, non contiene alcuna particolare disposizione attinente al risarcimento del danno eventualmente subito dai lavoratori a causa di una simile violazione.
45 Occorre tuttavia ricordare che secondo una costante giurisprudenza della Corte, il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell'Unione ad esso imputabili è inerente al sistema dei trattati sui quali quest'ultima è fondata (v., in tal senso, sentenze 19 novembre 1991, cause riunite C‑6/90 e C‑9/90, Francovich e a., Racc. pag. I‑5357, punto 35; 5 marzo 1996, cause riunite C‑46/93 e C‑48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame, Racc. pag. I‑1029, punto 31, nonché 26 gennaio 2010, causa C‑118/08, Transportes Urbanos y Servicios Generales, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 29).
46 Da tale giurisprudenza deriva che detto obbligo si applica ad ogni ipotesi di violazione del diritto dell'Unione, a prescindere dalla pubblica autorità che ha commesso tale violazione e a prescindere da quella cui, in linea di principio, incombe, ai sensi della legge dello Stato membro interessato, l'onere di tale risarcimento (v., in tal senso, sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 32; 1° giugno 1999, causa C‑302/97, Konle, Racc. pag. I‑3099, punto 62; 4 luglio 2000, causa C‑424/97, Haim, Racc. pag. I‑5123, punto 27, e 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 31).
47 Così, la Corte ha dichiarato che ai singoli lesi è riconosciuto un diritto al risarcimento purché siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire che la norma giuridica dell'Unione violata sia preordinata a conferire loro diritti, che la violazione di tale norma sia sufficientemente qualificata e che esista un nesso causale diretto tra la violazione in parola e il danno subito dai singoli (v., in tal senso, sentenza Transportes Urbanos y Servicios Generales, cit., punto 30).
48 L'applicazione delle suddette condizioni che consentono di stabilire la responsabilità degli Stati membri per danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell'Unione deve, in linea di principio, essere operata dai giudici nazionali, in conformità agli orientamenti forniti dalla Corte per procedere a tale applicazione (v. sentenza 12 dicembre 2006, causa C‑446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, Racc. pag. I‑11753, punto 210 e giurisprudenza ivi citata).
49 A tale riguardo, quanto alla causa principale, si deve rilevare, con riferimento alla prima condizione, che già dai punti 33‑35 della presente sentenza emerge che l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, imponendo agli Stati membri un limite massimo per la durata media settimanale dell'orario di lavoro di cui deve beneficiare ogni lavoratore quale prescrizione minima, costituisce una norma del diritto sociale dell'Unione che riveste importanza particolare, la cui portata non può essere subordinata a qualsiasi condizione o restrizione e che conferisce ai singoli diritti che essi possono far valere direttamente dinanzi ai giudici nazionali.
50 Tanto premesso, appare evidente che l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 costituisce una norma del diritto dell'Unione avente ad oggetto il conferimento di diritti ai singoli e che, pertanto, la prima condizione per la sussistenza di un diritto al risarcimento del danno risulta soddisfatta nella causa principale.
51 Per quanto riguarda la seconda condizione, si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza della Corte, l'esistenza di una violazione sufficientemente qualificata implica una violazione grave e manifesta da parte dello Stato membro dei limiti posti al suo potere discrezionale. Al riguardo, fra gli elementi da prendere in considerazione, vanno sottolineati il grado di chiarezza e di precisione della norma violata e l'ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali (v., in particolare, sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punti 55 e 56, nonché 25 gennaio 2007, causa C‑278/05, Robins e a., Racc. pag. I‑1053, punto 70).
52 In ogni caso, una violazione del diritto dell'Unione è sufficientemente qualificata allorché essa è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia (v., in particolare, sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 57; 28 giugno 2001, causa C‑118/00, Larsy, Racc. pag. I‑5063, punto 44, e Köbler, cit., punto 56).
53 Pur se spetta, in linea di principio, ai giudici nazionali, come indicato al punto 48 della presente sentenza, accertare se ricorrano le condizioni della responsabilità degli Stati derivanti dalla violazione del diritto dell'Unione, occorre constatare che nella causa principale, la Corte dispone di tutti gli elementi necessari per valutare se i fatti in esame debbano essere considerati come violazione sufficientemente qualificata del diritto dell'Unione (v., per analogia, sentenze 26 marzo 1996, causa C‑392/93, British Telecommunications, Racc. pag. I‑1631, punto 41, nonché 17 ottobre 1996, cause riunite C‑283/94, C‑291/94 e C‑292/94, Denkavit e a., Racc. pag. I‑5063, punto 49).
54 Infatti, come correttamente rilevato dalla Commissione, all'epoca in cui, durante il periodo oggetto della domanda di compensazione di cui alla causa principale, vale a dire tra il 1° gennaio 2004 ed il 31 dicembre 2006, il sig. Fuß era obbligato, ai sensi dell'ArbZVO‑FW 1998, ad effettuare una durata media settimanale dell'orario di lavoro di 54 ore, che comprendeva turni di 24 ore composti da un periodo di servizio attivo e da un periodo di permanenza durante i quali egli era tenuto ad essere presente sul luogo di lavoro, la Corte aveva già pronunciato la sentenza 3 ottobre 2000, causa C‑303/98, Simap (Racc. pag. I‑7963), l'ordinanza 3 luglio 2001, causa C‑241/99, CIG (Racc. pag. I‑5139), e la sentenza 9 settembre 2003, causa C‑151/02, Jaeger (Racc. pag. I‑8389).
55 Orbene, da tale giurisprudenza della Corte, anteriore ai fatti della controversia principale, emerge chiaramente che l'orario di lavoro corrispondente ai periodi di guardia e di permanenza effettuato dal personale secondo il regime della presenza fisica del lavoratore sul luogo di lavoro rientra nella nozione di «orario di lavoro» ai sensi della direttiva 2003/88 e che, pertanto, quest'ultima osta ad una normativa nazionale la quale prevede una durata media settimanale dell'orario di lavoro che, includendo simili periodi di guardia e di permanenza, supera il limite massimo settimanale stabilito dall'art. 6, lett. b), della suddetta direttiva (v. sentenza Simap, cit., punti 46‑52; ordinanza CIG, cit., punti 33 e 34, nonché sentenza Jaeger, cit., punti 68‑71, 78 e 79).
56 Inoltre, nella citata sentenza Pfeiffer e a., la Corte ha ribadito, il 5 ottobre 2004, vale a dire durante il periodo di cui alla causa principale, la suddetta giurisprudenza con riguardo a periodi di permanenza prestati da lavoratori appartenenti, come nel caso di specie, al settore della protezione civile.
57 Peraltro, sempre durante il medesimo periodo, la Corte, alla luce dell'insieme della giurisprudenza citata ai punti 53‑55 della presente sentenza, considerando che tale questione sulla nozione di «orario di lavoro» ai sensi della direttiva 2003/08 non lasciasse adito ad alcun dubbio ragionevole, ha adottato in data 14 luglio 2005, conformemente all'art. 104, n. 3, del suo regolamento di procedura, la citata ordinanza Personalrat der Feuerwehr Hamburg, nella quale ha dichiarato che le attività esercitate dalle forze d'intervento di un servizio pubblico antincendio – salvo circostanze eccezionali non applicabili nella causa principale – rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva 2003/88, cosicché, in via di principio, l'art. 6, lett. b), di quest'ultima osta al superamento del limite di 48 ore previsto per la durata massima settimanale del lavoro, compresi i servizi di guardia (v. sentenza Fuß, cit., punto 44).
58 Pertanto, è necessario constatare che, poiché il mancato rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 nel corso del periodo di cui alla causa principale è intervenuto ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte, deve ritenersi che esso costituisca una violazione sufficientemente qualificata del diritto dell'Unione e che, pertanto, nella causa principale ricorra anche la seconda condizione da soddisfare per il riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno.
59 Infine, per quanto riguarda la terza condizione per l'affermazione della responsabilità di uno Stato per violazione del diritto dell'Unione, spetta al giudice del rinvio verificare se, come sembra emergere dagli atti presentati alla Corte, esista un nesso causale diretto tra la suddetta violazione dell'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 ed il danno subito dal sig. Fuß, derivante dal mancato godimento del periodo di riposo di cui avrebbe dovuto beneficiare se la durata massima settimanale dell'orario di lavoro prevista da tale disposizione fosse stata rispettata.
60 Di conseguenza risulta che, fatte salve le verifiche spettanti al giudice del rinvio, ricorrono le condizioni richieste dalla giurisprudenza della Corte per il riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno nella causa principale, circostanza del resto ammessa dallo stesso governo tedesco nel corso dell'udienza.
61 Conformemente alla giurisprudenza citata al punto 46 della presente sentenza, il risarcimento di un simile danno cagionato ad un singolo può essere garantito da un organismo di diritto pubblico – quale, nella causa principale, la Stadt Halle o il Land Sassonia‑Anhalt – qualora tale danno sia stato causato da provvedimenti interni adottati da quest'ultimo in violazione del diritto dell'Unione. Peraltro, il diritto dell'Unione non osta neppure alla sussistenza della responsabilità di un ente di diritto pubblico di risarcire i danni provocati ai singoli da siffatti provvedimenti congiunta a quella dello Stato membro stesso (v., in tal senso, sentenza Haim, cit., punti 31 e 32).
62 A tale riguardo, si deve ricordare che, fatto salvo il diritto al risarcimento, che si fonda direttamente sul diritto dell'Unione qualora siano soddisfatte le tre condizioni richiamate al punto 47 della presente sentenza, è nell'ambito della normativa nazionale sulla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno arrecato, restando inteso che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghi reclami di natura interna (principio di equivalenza) e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (principio di effettività) (sentenze Köbler, cit., punto 58; 13 marzo 2007, causa C‑524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, Racc. pag. I‑2107, punto 123, nonché Transportes Urbanos y Servicios Generales, cit., punto 31).
63 Pertanto, occorre risolvere la prima questione dichiarando che un lavoratore, quale il sig. Fuß nella causa principale, che ha svolto, in qualità di vigile del fuoco impiegato in un servizio di pronto intervento rientrante nel settore pubblico, un orario di lavoro caratterizzato da una durata media settimanale superiore a quella prevista dall'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, può avvalersi del diritto dell'Unione per far dichiarare la responsabilità delle autorità dello Stato membro interessato al fine di ottenere il risarcimento del danno subito a causa della violazione di tale disposizione.
Sulla seconda questione
64 Con la prima parte della seconda questione, il giudice del rinvio chiede se il diritto dell'Unione osti ad una normativa nazionale, come quella di cui alla causa principale, che subordina il diritto di un lavoratore del settore pubblico ad ottenere il risarcimento del danno subito a causa della violazione, da parte delle autorità dello Stato membro interessato, di una norma del diritto dell'Unione, nel caso di specie l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, all'ulteriore condizione della sussistenza della colpevolezza del datore di lavoro. Con la seconda parte della medesima questione, esso chiede se tale diritto al risarcimento possa essere subordinato all'obbligo di presentazione di una precedente domanda a quest'ultimo diretta ad ottenere il rispetto di detta disposizione.
Sulla condizione relativa alla sussistenza della colpevolezza del datore di lavoro
65 Occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte, le tre condizioni richiamate al punto 47 della presente sentenza sono sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento (v. sentenze citate Brasserie du pêcheur e Factortame, punto 66, nonché Köbler, punto 57).
66 Ne consegue che, sebbene il diritto dell'Unione non escluda affatto che la responsabilità dello Stato per la violazione di detto diritto possa essere chiamata in causa a condizioni meno restrittive in base al diritto nazionale (v. sentenza Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, cit., punto 115 e giurisprudenza ivi citata), esso osta, per contro, a che quest'ultimo imponga ulteriori condizioni a tale riguardo.
67 Così, la Corte ha già dichiarato che, nonostante determinati elementi oggettivi e soggettivi collegabili alla nozione di colpevolezza nell'ambito di un sistema giuridico nazionale possano essere pertinenti, alla luce della giurisprudenza ricordata al punto 51 della presente sentenza, per valutare se una violazione del diritto dell'Unione sia o meno sufficientemente qualificata, in ogni caso l'obbligo di risarcire i danni cagionati ai singoli non può essere subordinato ad una condizione fondata su tale nozione che vada oltre la violazione sufficientemente qualificata del diritto dell'Unione. Infatti, la necessità di una simile condizione aggiuntiva finirebbe per rimettere in discussione il diritto al risarcimento, che trova il proprio fondamento nell'ordinamento giuridico dell'Unione (v. sentenze citate Brasserie du pêcheur e Factortame, punti 78‑80, nonché Haim, punto 39).
68 Orbene, sarebbe questo il caso di una condizione secondo cui, in una causa come quella principale, il diritto al risarcimento per violazione del diritto dell'Unione sia subordinato alla prova dell'esistenza di un elemento soggettivo particolare, quale una condotta dolosa o colposa, in capo al datore di lavoro, nel caso di specie la Stadt Halle, dal momento che, come emerge dai punti 51‑58 della presente sentenza, l'ArbZVO‑FW 1998 costituisce di per sé una violazione sufficientemente qualificata del diritto dell'Unione.
69 Spetta tuttavia al giudice del rinvio determinare, nell'ambito della causa di cui è investito, se una simile condizione aggiuntiva sia effettivamente prevista dalla normativa nazionale, dato che il governo tedesco ha indicato, sia nelle proprie osservazioni scritte sia durante l'udienza, che la colpevolezza del datore di lavoro non costituiva affatto, secondo il diritto nazionale, una condizione del diritto al risarcimento.
70 Occorre pertanto risolvere la prima parte della seconda questione dichiarando che il diritto dell'Unione osta ad una normativa nazionale, come quella di cui alla causa principale, che subordina – circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare – il diritto per un lavoratore del settore pubblico di ottenere il risarcimento del danno subito a causa della violazione, da parte delle autorità dello Stato membro interessato, di una norma del diritto dell'Unione, nel caso di specie l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, ad una condizione fondata sulla nozione di colpevolezza che vada oltre la violazione sufficientemente qualificata del suddetto diritto.
Sulla condizione relativa all'obbligo di presentare previa domanda al datore di lavoro
71 Secondo la Stadt Halle ed il governo tedesco, la condizione secondo cui è necessario rivolgere previa domanda al datore di lavoro, che trova origine nella giurisprudenza nazionale, è giustificata dal fatto che il diritto di ogni dipendente pubblico di ottenere una compensazione sotto forma di tempo libero, qualora la durata del suo orario di lavoro abbia superato quella legalmente consentita, si fonda sul principio di buona fede sancito dall'art. 242 del BGB e, pertanto, è parte integrante della relazione di fiducia e di servizio che intercorre tra il dipendente ed il datore di lavoro pubblico. Tale necessità darebbe la possibilità a quest'ultimo di organizzarsi per rispettare tale obbligo di compensazione e di adattare in maniera conseguente l'orario di servizio. La Stadt Halle aggiunge a tale riguardo che la suddetta necessità riflette la volontà del legislatore nazionale di evitare l'accumulo di un elevato numero di ore di tempo libero a titolo di compensazione, al fine di garantire la continuità del servizio pubblico.
72 A tale riguardo occorre rammentare che, come risulta dalla giurisprudenza citata al punto 62 della presente sentenza, spetta agli Stati membri, in mancanza di disposizioni del diritto dell'Unione in materia, disciplinare le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell'Unione, purché tali modalità rispettino i principi di equivalenza e di effettività (v. sentenze 14 dicembre 1995, causa C‑312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I‑4599, punto 12; Impact, cit., punto 46, e 29 ottobre 2009, causa C‑63/08, Pontin, Racc. pag. I‑10467, punto 43).
73 Nel caso di specie, quanto al rispetto del principio di equivalenza, dagli elementi forniti alla Corte emerge che, come sostenuto dal governo tedesco, la necessità di una previa domanda rivolta al datore di lavoro, essendo fondata sul principio di buona fede previsto dall'art. 242 del BGB, sembra riguardare – circostanza che tuttavia spetta al giudice del rinvio verificare – tutti i ricorsi proposti dai dipendenti pubblici nei confronti del loro datore di lavoro per il risarcimento del danno subito, sia che esso derivi da una violazione del diritto nazionale, sia che derivi da una violazione del diritto dell'Unione.
74 Per contro, il giudice del rinvio si chiede se tale condizione non sia contraria al principio di effettività, in quanto essa potrebbe rendere eccessivamente difficile l'applicazione del diritto dell'Unione.
75 Relativamente all'impiego dei mezzi di tutela giudiziaria disponibili al fine di far valere la responsabilità di uno Stato membro per violazione del diritto dell'Unione, la Corte ha già dichiarato che il giudice nazionale può verificare se il soggetto leso abbia dato prova di una ragionevole diligenza per evitare il danno o limitarne l'entità e, in particolare, se esso abbia tempestivamente esperito tutti i rimedi giuridici a sua disposizione (sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 84; Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, cit., punto 124, nonché 24 marzo 2009, causa C‑445/06, Danske Slagterier, Racc. pag. I‑2119, punto 60).
76 Infatti, in forza di un principio generale comune agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, la persona lesa, per evitare di doversi accollare il danno, deve dimostrare di avere agito con ragionevole diligenza per limitarne l'entità (sentenze 19 maggio 1992, cause riunite C‑104/89 e C‑37/90, Mulder e a./Consiglio e Commissione, Racc. pag. I‑3061, punto 33; Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 85, nonché Danske Slagterier, cit., punto 61).
77 Tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte emerge che sarebbe contrario al principio di effettività imporre ai soggetti lesi di esperire sistematicamente tutti i mezzi di tutela giudiziaria a loro disposizione anche qualora ciò dovesse causare difficoltà eccessive oppure non si potesse ragionevolmente pretendere da loro (sentenza Danske Slagterier, cit., punto 62).
78 Così, la Corte ha già dichiarato che l'esercizio dei diritti che le norme del diritto dell'Unione direttamente applicabili conferiscono ai singoli sarebbe reso impossibile o eccessivamente difficoltoso se le loro domande di risarcimento, fondate sulla violazione di tale diritto, dovessero essere respinte o ridotte per il solo motivo che i singoli non abbiano richiesto di beneficiare del diritto ad essi conferito dalle norme del diritto dell'Unione, e negato loro dalla legge nazionale, impugnando il rifiuto dello Stato membro con i mezzi di ricorso previsti a tale scopo, richiamandosi al primato e all'effetto diretto delle disposizioni del diritto dell'Unione (v. sentenze 8 marzo 2001, cause riunite C‑397/98 e C‑410/98, Metallgesellschaft e a., Racc. pag. I‑1727, punto 106, nonché Danske Slagterier, cit., punto 63).
79 Nel caso di specie si deve rammentare che, come emerge dal punto 33 della presente sentenza, l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, che è volto a garantire un'efficace protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, assicurando loro l'effettivo beneficio di una durata massima settimanale del lavoro e di periodi minimi di riposo, costituisce una norma del diritto sociale dell'Unione che riveste particolare importanza, alla quale, in mancanza di attuazione dell'art. 22, n. 1, di detta direttiva, un datore di lavoro non può in alcun caso derogare nei confronti di un lavoratore quale il sig. Fuß.
80 Orbene, come già dichiarato dalla Corte, il lavoratore dev'essere considerato come la parte debole nel contratto di lavoro, cosicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti (v., in tal senso, sentenza Pfeiffer e a., cit., punto 82).
81 Infatti, tenuto conto di tale situazione di debolezza, un simile lavoratore può essere dissuaso dal far valere espressamente i suoi diritti nei confronti del suo datore di lavoro, dal momento che la loro rivendicazione potrebbe esporlo a misure adottate da quest'ultimo in grado di incidere sul rapporto di lavoro in danno di detto lavoratore.
82 Così, nella causa principale risulta pacifico che, come emerge dalla decisione di rinvio, la Stadt Halle ha dapprima avvertito i suoi dipendenti che avrebbe provveduto a trasferire i lavoratori che si fossero avvalsi dei diritti derivanti dalla direttiva 2003/88 e, quando il sig. Fuß ha chiesto al suo datore di lavoro, richiamandosi alla citata ordinanza Personalrat der Feuerwehr Hamburg, che la durata massima dell'orario settimanale di lavoro prevista dall'art. 6, lett. b), della suddetta direttiva venisse rispettata nel servizio di pronto intervento presso il quale lavorava, egli è stato trasferito contro la sua volontà e con effetto immediato in un altro servizio.
83 Si deve peraltro sottolineare che in una causa come quella principale, che verte sulla violazione, da parte di un datore di lavoro del settore pubblico, di una disposizione del diritto dell'Unione avente effetto diretto, l'obbligo per i lavoratori interessati di rivolgere al loro datore di lavoro, al fine di conseguire il risarcimento del danno subito a causa della violazione di una simile disposizione, una previa domanda diretta alla cessazione di tale violazione ha come effetto quello di consentire alle autorità dello Stato membro interessato di addossare sistematicamente sui singoli l'onere di vigilare sul rispetto di siffatte norme, offrendo a dette autorità, eventualmente, la possibilità di non osservarle qualora una simile domanda non sia stata presentata.
84 Orbene, come correttamente rilevato dal sig. Fuß e dalla Commissione, l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, lungi dall'esigere che i lavoratori interessati chiedano al proprio datore di lavoro di osservare le prescrizioni minime previste da tale disposizione, impone al contrario a quest'ultimo, qualora il diritto interno attui la deroga di cui all'art. 22 della medesima direttiva, di ottenere il consenso individuale, esplicito e liberamente espresso del suddetto lavoratore alla rinuncia ai diritti conferiti dal suddetto art. 6, lett. b) (v. sentenza Pfeiffer e a., cit., punti 82 e 84).
85 Occorre inoltre ricordare che, secondo la giurisprudenza e come emerge già dai punti 39 e 40 della presente sentenza, quando risultano integrate le condizioni perché le disposizioni di una direttiva possano essere invocate dai singoli dinanzi ai giudici nazionali, tutte le autorità degli Stati membri, comprese le autorità decentrate, quali i Länder, le città o i comuni, eventualmente, nella loro qualità di datore di lavoro pubblico, sono tenute, per ciò solo, a darne applicazione (v., in tal senso, sentenze citate Costanzo, punti 30‑33, nonché Fuß, punti 61 e 63).
86 Tanto premesso, si deve considerare che non può ritenersi ragionevole pretendere da un lavoratore che, come il sig. Fuß, ha subito un danno a seguito della violazione, da parte del suo datore di lavoro, dei diritti conferiti dall'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, che egli presenti previa domanda presso detto datore di lavoro per avere diritto a conseguire il risarcimento di tale danno.
87 Ne consegue che la necessità di una simile previa domanda è contraria al principio di effettività.
88 A tale riguardo, la Stadt Halle non può giustificare tale necessità con la preoccupazione di evitare l'accumulo di un elevato numero di ore di tempo libero a titolo di compensazione, dato che la piena osservanza delle disposizioni dell'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 è sufficiente ad impedire un simile accumulo.
89 Peraltro, il governo tedesco cerca erroneamente di stabilire un'analogia tra la normativa nazionale di cui alla causa principale e l'art. 91, n. 2, primo trattino, dello Statuto dei funzionari dell'Unione europea. Infatti, la necessità del previo deposito di un reclamo presso l'autorità che ha il potere di nomina, prevista da tale disposizione quale condizione di ricevibilità dei ricorsi proposti dai funzionari dell'Unione, riguarda la proposizione di un ricorso avverso un atto individuale che arreca pregiudizio adottato dalla medesima autorità e non, come nel caso di specie, la contestazione di una normativa nazionale contraria al diritto dell'Unione che ha cagionato un danno ai singoli, diritto il cui rispetto gli Stati membri, come emerge dai punti 83‑85 della presente sentenza, hanno l'onere di garantire essi stessi, senza poter far gravare quest'ultimo sui suddetti singoli.
90 Conseguentemente, occorre risolvere la seconda parte della seconda questione dichiarando che il diritto dell'Unione osta ad una normativa nazionale, come quella di cui alla causa principale, che subordina il diritto per un lavoratore del settore pubblico di conseguire il risarcimento del danno subito a seguito della violazione, da parte delle autorità dello Stato membro interessato, dell'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 alla condizione che sia stata rivolta previa domanda al suo datore di lavoro diretta ad ottenere il rispetto di tale disposizione.
Sulla terza e quarta questione
91 Con la terza e quarta questione, che vanno esaminate congiuntamente, il giudice del rinvio si interroga sulla forma che un diritto al risarcimento deve assumere e sulla modalità di calcolo di tale risarcimento.
92 Per quanto riguarda la forma e la modalità di calcolo del risarcimento del danno, si deve sottolineare che il risarcimento dei danni cagionati ai singoli da violazioni del diritto dell'Unione deve essere adeguato al danno subito, così da garantire una tutela effettiva dei loro diritti (sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 82).
93 Come emerge già dal punto 62 della presente sentenza, in mancanza di norme del diritto dell'Unione in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro fissare i criteri che consentono di determinare l'entità del risarcimento, purché siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività (sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 83).
94 Ne consegue che spetta al diritto nazionale degli Stati membri, nel rispetto dei principi menzionati ai due punti precedenti, da un lato, determinare se il risarcimento del danno cagionato ad un singolo dalla violazione delle disposizioni della direttiva 2003/88 debba essere effettuato mediante la concessione di tempo libero aggiuntivo o di un'indennità pecuniaria e, dall'altro, definire le regole relative alla modalità di calcolo di tale risarcimento.
95 Per quanto riguarda, più in particolare, la forma che deve assumere il risarcimento del danno, occorre sottolineare che, poiché né la concessione di tempo libero aggiuntivo, né quella di un'indennità pecuniaria, sembrano tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile un simile risarcimento, il giudice del rinvio dovrà in particolare assicurarsi che la modalità di risarcimento adottata rispetti il principio di equivalenza, valutato alla luce dei risarcimenti riconosciuti dai giudici nazionali nell'ambito di reclami o di azioni simili fondate sul diritto interno.
96 A tale riguardo, si deve precisare che al contrario di quanto asserito dal sig. Fuß e dalla Commissione, poiché la direttiva 2003/88 non contiene alcuna disposizione in merito al risarcimento del danno subito a causa della violazione delle sue disposizioni, non è possibile dedurre che il diritto dell'Unione privilegi la scelta dell'una o dell'altra fra tali forme di risarcimento.
97 In ogni caso, quanto ai periodi di riferimento previsti dagli artt. 16‑19 della direttiva 2003/88 per l'applicazione dell'art. 6, lett. b), di quest'ultima ai fini della determinazione della durata media settimanale dell'orario di lavoro, essi non possono assumere alcun rilievo in una causa come quella principale, dal momento che, sebbene tali disposizioni abbiano a tale riguardo effetto diretto (sentenza Simap, cit., punto 70), è pacifico che tutti i periodi di riferimento in questione erano scaduti con riferimento al periodo oggetto della domanda di risarcimento proposta dal sig. Fuß nella causa principale.
98 Conseguentemente, occorre risolvere la terza e la quarta questione dichiarando che il risarcimento, a carico delle autorità degli Stati membri, dei danni che questi ultimi hanno cagionato ai singoli violando il diritto dell'Unione deve essere adeguato al danno subito. In mancanza di disposizioni del diritto dell'Unione in materia, spetta al diritto nazionale dello Stato membro interessato determinare, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività, da un lato, se il danno subito da un lavoratore, quale il sig. Fuß nella causa principale, a causa della violazione di una norma del diritto dell'Unione debba essere risarcito mediante la concessione a quest'ultimo di tempo libero aggiuntivo ovvero di un'indennità pecuniaria, nonché, dall'altro, le regole relative alla modalità di calcolo di tale risarcimento. I periodi di riferimento previsti dagli artt. 16‑19 della direttiva 2003/88 sono privi di pertinenza a tale riguardo.
Sulla quinta questione
99 Alla luce di quanto indicato al punto 32 della presente sentenza, occorre risolvere la quinta questione affermando che le soluzioni alle questioni poste dal giudice del rinvio sono identiche, indipendentemente dalla circostanza che i fatti di cui alla causa principale siano soggetti alle disposizioni della direttiva 93/104 o a quelle della direttiva 2003/88.
Sulle spese
100 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
1) Un lavoratore, quale il sig. Fuß nella causa principale, che ha svolto, in qualità di vigile del fuoco impiegato in un servizio di pronto intervento rientrante nel settore pubblico, un orario di lavoro caratterizzato da una durata media settimanale superiore a quella prevista dall'art. 6, lett. b), della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 novembre 2003, 2003/88/CE, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, può avvalersi del diritto dell'Unione per far dichiarare la responsabilità delle autorità dello Stato membro interessato al fine di ottenere il risarcimento del danno subito a causa della violazione di tale disposizione.
2) Il diritto dell'Unione osta ad una normativa nazionale, come quella di cui alla causa principale, che:
– subordina – circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare – il diritto per un lavoratore del settore pubblico di conseguire il risarcimento del danno subito a causa della violazione, da parte delle autorità dello Stato membro interessato, di una norma del diritto dell'Unione, nel caso di specie l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, ad una condizione fondata sulla nozione di colpevolezza che vada oltre la violazione sufficientemente qualificata del suddetto diritto, e che
– subordina il diritto per un lavoratore del settore pubblico di conseguire il risarcimento del danno subito a causa della violazione, da parte delle autorità dello Stato membro interessato, dell'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 alla condizione che sia stata rivolta previa domanda al suo datore di lavoro diretta ad ottenere il rispetto di tale disposizione.
3) Il risarcimento, a carico delle autorità degli Stati membri, dei danni che questi ultimi hanno cagionato ai singoli violando il diritto dell'Unione deve essere adeguato al danno subito. In mancanza di disposizioni del diritto dell'Unione in materia, spetta al diritto nazionale dello Stato membro interessato determinare, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività, da un lato, se il danno subito da un lavoratore, quale il sig. Fuß nella causa principale, a causa della violazione di una norma del diritto dell'Unione debba essere risarcito mediante la concessione a quest'ultimo di tempo libero aggiuntivo ovvero di un'indennità pecuniaria, nonché, dall'altro, le regole relative alla modalità di calcolo di tale risarcimento. I periodi di riferimento previsti dagli artt. 16‑19 della direttiva 2003/88 sono privi di pertinenza a tale riguardo.
4) Le soluzioni alle questioni poste dal giudice del rinvio sono identiche, indipendentemente dalla circostanza che i fatti di cui alla causa principale siano soggetti alle disposizioni della direttiva del Consiglio 23 novembre 1993, 93/104/CE, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 2000, 2000/34/CE, o a quelle della direttiva 2003/88.
Firme
fonte: eulabour