Translate

mercoledì 27 luglio 2011

Corte Costituzionale "...Opposizione a sanzioni amministrative: il ricorrente che dichiara la residenza o elegge domicilio in un comune diverso da quello dove ha sede il giudice adito può richiedere che le notificazioni avvengano in modi diversi dal deposito presso la cancelleria..."

 



 
Corte costituzionale

Sentenza 22 dicembre 2010, n. 365





[...] nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 22, quarto e quinto comma, della legge 11 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal Giudice di pace di Milano nel procedimento vertente tra F.M. e il Comune di Segrate con ordinanza del 28 ottobre 2008, iscritta al n. 170 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 2010.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 1° dicembre 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese.

RITENUTO IN FATTO

1. - Il Giudice di pace di Milano, sezione II, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con ordinanza del 28 ottobre 2008 (reg. ord. n. 170 del 2010), in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dell'art. 22, quarto e quinto comma, della legge 11 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui pone a carico del ricorrente l'onere di eleggere domicilio nel luogo in cui ha sede il giudice adito e stabilisce che, in difetto, le comunicazioni al medesimo avvengano mediante semplice deposito presso la cancelleria.

2. - L'art. 22, quarto comma, della legge n. 689 del 1981, prevede che, nel caso di opposizione a sanzioni amministrative, «il ricorso deve contenere altresì, quando l'opponente non abbia indicato un suo procuratore, la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito». Il successivo quinto comma dispone che «se manca l'indicazione del procuratore oppure la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio, le notificazioni al ricorrente vengono eseguite mediante deposito in cancelleria».

3. - Il giudice rimettente riporta che il ricorrente nel giudizio principale, con atto depositato in data 30 ottobre 2007 presso l'Ufficio del Giudice di pace di Milano, ha proposto opposizione al verbale della Polizia Locale di Segrate n. 27888/2007-R22935 del 3 settembre 2007, notificatogli il 24 settembre 2007, a seguito di violazione dell'art. 146, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo Codice della Strada). L'opponente, residente ad Antegnate (Bergamo), non ha eletto domicilio in Milano e, pertanto, la comunicazione di fissazione dell'udienza è stata effettuata - ai sensi dell'art. 22, quinto comma, della legge n. 689 del 1981 - mediante deposito nella cancelleria dell'Ufficio del Giudice di pace di Milano, sezione IV. All'udienza del 4 aprile 2008 è comparso il ricorrente, ma non si è presentato il Comune opposto che, con atto depositato in cancelleria, ha chiesto un rinvio della causa. Il giudice ha quindi fissato una nuova udienza al 4 ottobre 2008, con avviso al Comune non presente. L'8 luglio 2008 la causa è stata riassegnata al Giudice di pace della sezione II, odierno rimettente, che ha fissato altra udienza per il 28 ottobre 2008. Il provvedimento è stato regolarmente notificato al Comune, mentre è stato comunicato al ricorrente mediante il solo deposito in cancelleria. All'udienza del 28 ottobre 2008 si è presentato il rappresentante del Comune opposto, ma non è comparso il ricorrente.

3.1. - Il giudice a quo rileva, innanzitutto, che il cambiamento del magistrato investito del giudizio, per di più appartenente ad altra sezione, ha reso ancor più problematica ed aleatoria la possibilità per il ricorrente di essere tempestivamente a conoscenza dell'avvenuto deposito ed ancor maggiore la conseguente difficoltà a farsi parte attiva presso la cancelleria, diversa da quella a lui nota. Il giudice rimettente sottolinea, inoltre, che la mancata comparazione del ricorrente riproduce un comportamento assenteista pressoché costante a fronte della comunicazione del provvedimento di convocazione con semplice deposito presso la cancelleria e legittima la supposizione che tale assenza si debba ricondurre proprio alla difficoltà spesso insormontabile di pervenire a conoscenza della comunicazione della data di udienza, considerando di fatto anche l'imprevedibilità dei tempi di deposito del provvedimento.

3.2. - In ordine alla rilevanza, il giudice rimettente osserva che il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, è determinante agli effetti del giudizio. Quest'ultimo, infatti, «dipende dai diversi elementi di prova di cui il giudice potrebbe disporre a seconda che sia o meno affermata l'illegittimità costituzionale delle norme considerate, per la parte a carico del ricorrente stesso, posto nell'impossibilità concreta di proporli laddove si ritenga legittima la sua convocazione mediante la sola comunicazione in cancelleria». Ad avviso del giudice rimettente, nel caso di specie, per la mancata notifica della sostituzione del giudice, con l'avviso di udienza in data modificata, l'opponente non si è presentato e non ha sviluppato le proprie difese, mentre, dall'altra parte, il Comune opposto non ha prodotto alcunché da cui desumere l'illegittimità o meno della sanzione impugnata. Secondo il giudice a quo, mancherebbero, dunque, i presupposti per una corretta pronuncia di merito.

3.3. - Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente premette che, in base all'interpretazione prevalente dell'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, la comunicazione in cancelleria è legittima ogni volta che non sia stato indicato alcun indirizzo di residenza o domicilio nel luogo dove ha sede il giudice adito. Secondo il giudice a quo, inoltre, sarebbe già stata esclusa la illegittimità costituzionale delle norme censurate (con l'ordinanza n. 391 del 2007), talché non vi sarebbe alcuna violazione della Costituzione laddove sia prevista una diversa forma di comunicazione fra la pubblica amministrazione, da un lato, e i cittadini, dall'altro, trattandosi di materia riservata alla libera valutazione discrezionale del legislatore. Al giudice rimettente sarebbe quindi precluso adottare altro criterio di applicazione delle norme in questione, come quello che riconosca la possibilità di attuare la notifica mediante deposito presso la cancelleria solo nell'ipotesi in cui l'opponente non abbia indicato in assoluto alcun luogo di residenza o di domicilio e non quando abbia, invece, dichiarato la propria residenza in altro Comune.

Il giudice a quo, tuttavia, asserisce di proporre la questione di legittimità costituzionale in termini che non sono ancora stati sottoposti all'esame di questa Corte. Secondo il giudice rimettente, l'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, lederebbe il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e nell'esercizio del loro diritto di tutela giudiziaria nei confronti di qualsiasi atto della pubblica amministrazione (artt. 3, 24 e 113 Cost.), in quanto comporterebbe «una sperequazione fra coloro che risiedono o possono eleggere domicilio - di regola presso un difensore o procuratore legale» nel comune dove ha sede il giudice adito «e coloro che tale possibilità non hanno». Tale disparità contrasterebbe con il principio di uguaglianza perché introdurrebbe «un elemento discriminatorio e privo di qualunque giustificazione progettuale del legislatore, proprio fra i singoli cittadini». Né vi sarebbe altra spiegazione razionale, ad avviso del giudice a quo, data la possibilità per gli uffici di porre in essere altre forme di comunicazione alternative, quali l'uso di telefono, fax, internet, attualmente previsti e utilizzati nelle cause civili. Peraltro, il giudice rimettente rileva che una simile soluzione non sarebbe consentita nel caso delle opposizioni a sanzioni amministrative, trattandosi di materia regolata con norme a carattere eccezionale e, perciò, non interpretabili in via analogica o con applicazione estensiva delle norme generali. La normativa censurata, dunque, secondo il giudice a quo, sarebbe irragionevole, perché non contiene alcuna spiegazione a giustificazione del diverso trattamento dei cittadini, ma è basata soltanto sul fatto della residenza o della possibilità di eleggere o meno domicilio dove ha sede il giudice adito. Né sarebbe invocabile la discrezionalità del legislatore, in quanto si risolverebbe in puro arbitrio, inammissibile per i principi della Costituzione, «che prevede l'impegno dello Stato a rimuovere gli ostacoli che si frappongono all'uguaglianza dei cittadini». L'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, dunque, imponendo modalità di ricorso al giudice ordinario in condizioni differenziate per le diverse categorie di cittadini, con riferimento a situazioni di fatto che «ostacolano ad alcuni e non ad altri l'esercizio del loro diritto di tutela giurisdizionale», violerebbe gli artt. 3, 24 e 113 Cost.

4. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata infondata.

La difesa dello Stato rileva che questa Corte è già stata investita in passato delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 22 della legge n. 689 del 1981, in termini analoghi a quelli contenuti nell'ordinanza di rimessione del presente giudizio, optando per l'inammissibilità di tale questione. In particolare, con riferimento all'art. 3 Cost., la Corte ha affermato che «le differenze riscontrabili fra la disciplina delle notificazioni alla parte che non nomina un procuratore ed a quella costituita a mezzo di procuratore legale rispecchiano le differenze esistenti fra la situazione del soggetto che sceglie di difendersi personalmente, ed è perciò interessato a seguire gli sviluppi di un'unica vicenda processuale e la situazione del soggetto che, avendo optato per l'assistenza di un legale, ha diritto di attendersi che quest'ultimo sia in grado di svolgere efficacemente l'attività professionale in sua difesa» (ordinanza n. 42 del 1988). Con riguardo al diritto di difesa, inoltre, questa Corte ha precisato che «il regime di notificazione previsto dalla norma impugnata non rende né impossibile, né eccessivamente gravoso l'esercizio del diritto di difesa, ma si inserisce razionalmente nell'ambito di una normativa diretta a snellire e a semplificare le procedure relative alle infrazioni di lieve entità “depenalizzate”» (ordinanza n. 42 del 1988).

L'Avvocatura generale dello Stato osserva, infine, che, questa Corte avrebbe rilevato che una analoga disciplina per la notifica dei provvedimenti è prevista in disposizioni di contenuto similare, anche per altri procedimenti, tanto da poter affermarsi che tale assetto rappresenta un dato dell'ordinamento variabile in relazione a diversi modelli procedimentali su cui non è possibile operare muovendo da una singola norma e valutando, all'interno del quadro sistematico complessivo, una singola ratio, dovendo, pertanto, riconoscersi che si tratta di materia riservata alla discrezionalità del legislatore (sentenza n. 431 del 1992).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. - Con ordinanza del 28 ottobre 2008, il Giudice di pace di Milano, sezione II, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dell'art. 22, quarto e quinto comma, della legge 11 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui pone a carico del ricorrente l'onere di eleggere domicilio nel luogo in cui ha sede il giudice adito e stabilisce che, in difetto, le comunicazioni al medesimo avvengano mediante semplice deposito presso la cancelleria.

1.1. - La normativa censurata riguarda le modalità delle notificazioni al ricorrente che abbia proposto opposizione a sanzione amministrativa. L'art. 22, quarto comma, della legge n. 689 del 1981, prevede che «il ricorso deve contenere altresì, quando l'opponente non abbia indicato un suo procuratore, la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito». Il successivo quinto comma stabilisce che «se manca l'indicazione del procuratore oppure la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio, le notificazioni al ricorrente vengono eseguite mediante deposito in cancelleria».

1.2. - Secondo il giudice rimettente, l'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, lederebbe il principio di uguaglianza dei cittadini in ordine al loro esercizio del diritto di tutela giudiziaria nei confronti di qualsiasi atto della pubblica amministrazione, in quanto comporterebbe «una sperequazione fra coloro che risiedono o possono eleggere domicilio - di regola presso un difensore o procuratore legale» nel comune dove ha sede il giudice adito «e coloro che tale possibilità non hanno». Ad avviso del giudice a quo, pertanto, la normativa censurata sarebbe irragionevole, perché non contiene alcuna spiegazione a giustificazione del diverso trattamento dei cittadini, ma è basata soltanto sul fatto della residenza o della possibilità di eleggere o meno domicilio dove ha sede il giudice adito. L'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, sostiene il rimettente, imponendo modalità di ricorso al giudice ordinario in condizioni differenziate per le diverse categorie di cittadini, con riferimento a situazioni di fatto che ostacolano l'esercizio della tutela giurisdizionale, violerebbe gli artt. 3, 24 e 113 Cost.

2. - La questione è fondata.

2.1. - Il procedimento giurisdizionale di opposizione alle sanzioni amministrative, regolato in via generale dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981, si caratterizza «per una semplicità di forme del tutto peculiare, all'evidenza intesa a rendere il più possibile agevole l'accesso alla tutela giurisdizionale nella specifica materia» (sentenza n. 98 del 2004). Una volta introdotto il giudizio (art. 22, terzo comma), «l'opponente - cui è data facoltà di stare in giudizio personalmente (art. 23, quarto comma) - non è infatti gravato da alcun ulteriore incombente al fine della instaurazione del contraddittorio, essendo fatto carico alla cancelleria di provvedere alla notificazione alle parti del ricorso stesso e del decreto del giudice contenente la fissazione dell'udienza di comparizione (art. 23, secondo comma). All'udienza i mezzi di prova necessari sono disposti dal giudice anche d'ufficio e la citazione dei testimoni - cui pure si provvede d'ufficio, così come ad ogni comunicazione e notificazione nel corso del processo (art. 23, nono comma) - può essere disposta anche senza formulazione di capitoli (art. 23, sesto comma)» (così ancora la sentenza n. 98 del 2004).

2.2. - In tale contesto, l'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, detta modi di notificazione differenziati. Se, infatti, l'opponente non ha dichiarato la propria residenza, né ha eletto domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito, le notificazioni al ricorrente sono eseguite mediante deposito in cancelleria. Se, invece, l'opponente ha dichiarato di risiedere o ha eletto domicilio nel comune sede del giudice adito, le notificazioni sono effettuate, a cura della cancelleria (ai sensi dell'art. 23, nono comma , della legge n. 689 del 1981), secondo le norme del codice di procedura civile.

Tale differenziazione rappresenta, in contrasto con la semplificata struttura processuale degli art. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981, un fattore di dissuasione anche di natura economica dall'utilizzo del mezzo di tutela giurisdizionale, in considerazione tra l'altro dei costi, del tutto estranei alla funzionalità del giudizio, che l'intervento personale può comportare nei casi, certamente non infrequenti, in cui il foro dell'opposizione non coincida con il luogo di residenza dell'opponente, come questa Corte ha già affermato nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 22 della legge n. 689 del 1981 nella parte in cui non consente l'utilizzo del servizio postale per la proposizione dell'opposizione (sentenza n. 98 del 2004). La normativa censurata, pertanto, produce una sperequazione fra coloro che risiedono nel comune dove ha sede il giudice adito e coloro che risiedono altrove, con conseguente limitazione del diritto di difesa, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost.

2.3. - Questa Corte ha ritenuto legittimo l'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981 (da ultimo, ordinanza n. 391 del 2007).

Tuttavia, da un lato, la questione, nel presente giudizio, è stata prospettata in termini nuovi, in quanto non era stata ancora lamentata, dinanzi a questa Corte, la discriminazione tra cittadini, determinata dalle disposizioni censurate, «basata soltanto sul fatto della residenza o della possibilità di eleggere o meno domicilio dove ha sede il giudice adito».

Dall'altro lato, in considerazione dei mutamenti intervenuti recentemente nei sistemi di comunicazione, il legislatore ha modificato il quadro normativo riguardante le notificazioni. Il decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), convertito in legge 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito, infatti, un nuovo articolo - il 149-bis - nella sezione IV «Delle comunicazioni e delle notificazioni» del libro I del codice di procedura civile. Tale articolo, intitolato «Notificazione a mezzo posta elettronica», prevede che «Se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi a mezzo posta elettronica certificata, anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo» (primo comma). Successivamente, la legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), ha emendato, tra l'altro, l'art. 204-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), relativo al ricorso al giudice di pace avverso sanzioni amministrative e pecuniarie comminate per illeciti previsti dal codice della strada. In base al nuovo comma 3, «il ricorso e il decreto con cui il giudice fissa l'udienza di comparizione sono notificati, a cura della cancelleria, all'opponente o, nel caso sia stato indicato, al suo procuratore, e ai soggetti di cui al comma 4-bis, anche a mezzo di fax o per via telematica all'indirizzo elettronico comunicato ai sensi dell'articolo 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 2001, n. 123» (si tratta del «Regolamento recante disciplina sull'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti»).

Le recenti modifiche del quadro normativo mostrano un favor del legislatore per modalità semplificate di notificazione, divenute possibili grazie alla diffusione delle comunicazioni elettroniche. Tale orientamento si rintraccia anche nella disciplina legislativa del procedimento amministrativo, la quale prevede diverse norme per la comunicazione personale agli interessati, da eseguire a cura del responsabile del procedimento, anche con strumenti telematici (artt. 3-bis, 6, 7, 8 e 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»). La modifica dell'art. 204-bis del codice della strada, inoltre, ha avuto il chiaro intento di porre rimedio al problema lamentato dal giudice rimettente, consistente nel «pressoché costante comportamento assenteista» dell'opponente a fronte della comunicazione del provvedimento di convocazione con deposito presso la cancelleria, previsto dall'art. 22 della legge n. 689 del 1981.

2.4. - In conclusione, sia lo sviluppo tecnologico e la crescente diffusione di nuove forme di comunicazione, sia l'evoluzione del quadro legislativo, hanno reso irragionevole l'effetto discriminatorio determinato dalla normativa censurata, che contempla il deposito presso la cancelleria quale unico modo per effettuare notificazioni all'opponente che non abbia dichiarato residenza o eletto domicilio nel comune sede del giudice adito né abbia indicato un suo procuratore. L'art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, pertanto, vìola gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, a richiesta del ricorrente, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria.

3. - Resta assorbito ogni altro profilo di censura.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, quarto e quinto comma, della legge 11 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevede, a richiesta dell'opponente, che abbia dichiarato la residenza o eletto domicilio in un comune diverso da quello dove ha sede il giudice adito, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria

TAR "..istanza di trasferimento per gravi motivi familiari ai sensi dell'art. 55, comma 4, del D.P.R. 335/82


Consiglio di Stato "...accertamento del diritto a percepire l'indennità sostitutiva per ferie non godute..."


GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - PROVA IN GENERE IN MATERIA CIVILE
Cons. Stato Sez. IV, Sent., 25-05-2011, n. 3135
Fatto - Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Gli  appellati sono ex dipendenti della soppressa #################### - e chiesero all'Amministrazione  (intimata in primo grado) nella quale sono (provvisoriamente) transitati a far data dal 13 ottobre 1993, l'accertamento del diritto a percepire l'indennità sostitutiva per ferie non godute, e maturate alla data del 12 ottobre 1993.
Il ricorso è stato accolto dal giudice di primo grado con la sentenza in epigrafe, della quale il Ministero dell'Economia e Finanze con l'appello in esame chiede  la riforma ravvisandovi una pronuncia errata in fatto ed in diritto, in  relazione al riconoscimento di un diritto effettuato in assenza di prova dei fatti necessari a tale riconoscimento.
Gli  appellati si sono costituiti in giudizio per resistere al gravame, eccependo preliminarmente la violazione del divieto posto dall'art.345 c.p.c. di introdurre in appello contestazioni non dedotte in primo grado.
Nel merito hanno chiesto la conferma della sentenza impugnata esponendo argomenti, seppure più specifici, in linea con la medesima sentenza.
Con ordinanza n.439 del 2010 è stato richiesto all'amministrazione appellante di trasmettere tutta la documentazione in suo possesso riguardate l'accertamento del diritto di credito per cui è causa
Tale documentazione è stata trasmessa ed è pervenuta alla Sezione in data 21 febbraio 2011.
Parte  appellata alla luce di detta documentazione ha depositato memoria producendo ulteriore documentazione e ribadendo, alla stregua di quest'ultima produzione, la richiesta di conferma della sentenza impugnata. Essa ha, in effetti, ritenuto che dalla documentazione trasmessa dall'Amministrazione si possa ricavare la conferma del pieno diritto a percepire l'indennità sostitutiva per cui è causa.
All'udienza pubblica del 5 aprile 2011 la causa è stata chiamata e trattenuta in decisione.
L'appello dell'Amministrazione è fondato.
La  questione oggetto di giudizio deriva dall'affermazione e dalla conseguente azione promossa dai ricorrenti, secondo i quali la cessata #################### ha goduto delle loro prestazioni lavorative senza corrispondere alcun indennizzo per i periodi feriali durante i quali tali prestazioni si sono svolte.
L'Amministrazione appellante, anche con riferimento alla documentazione prodotta a seguito della citata ordinanza istruttoria di questa Sezione, ha di contro affermato che "non esistono risultanze documentali o probatorie dalle quale si possa evincere che i ricorrenti non hanno fruito delle ferie spettanti per motivi di servizio".
A tale affermazione, a  sua volta, si contrappone quella dei ricorrenti che l'Amministrazione "alcun atto ha depositato........idoneo a comprovare l'avvenuta fruizione dei periodi feriali in questione".
Delineate nel modo che precede le posizioni delle parti in causa, la Sezione ritiene di dover premettere quanto segue.
E'  noto che indicare e provare specificamente i fatti posti a base delle pretese avanzate incombe sulla parte che agisce in giudizio.
Detto principio generale è recato dagli art. 2697 C.c. e 115 c.p.c., ed è pacificamente applicabile anche al processo amministrativo - come si evince dall'art.36 comma 4 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e dall'art. 18, comma 1 del agosto 1907, n. 642, applicabili nella fattispecie ratione temporis, in. forza dei quali il ricorrente deve depositare, unitamente al ricorso in originale con la prova delle eseguite notificazioni, anche i documenti sui quali esso si basa - e tanto più laddove si faccia questione, come nella fattispecie di diritti  soggettivi: invero, se può anche ammettersi il ricorso alle presunzioni  semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova dell'esistenza del diritto di credito e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo, a monte, di allegare le circostanze di fatto precise che rappresentino la fonte di tale credito.  Sebbene, poi, nel processo
amministrativo l'applicazione del suddetto canone incontra particolari temperamenti, in virtù dell'assetto non paritetico dei rapporti fattuali e giuridici intercorrenti tra il privato e l'amministrazione, che vede sovente quest'ultima in posizione di decisa supremazia nella produzione delle allegazioni giudiziali, anche per effetto dello stabile assetto organizzativo di cui dispone.
Pertanto  può affermarsi che, soprattutto quando i mezzi di prova risultino nella  disponibilità esclusiva dell'amministrazione intimata in giudizio, il sistema probatorio nel processo amministrativo è retto, più che dallo stretto principio dispositivo, dal.principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice (tra molte, di recente C. Stato, V, 7 ottobre 2009, n. 6118; in precedenza, IV, 22 giugno 2000, n.. 3493; V, 24 aprile 2000, n.2429; 3 novembre 1999, n. 1702).
Va peraltro, immediatamente chiarito che detto temperamento non si traduce nella possibilità, per il ricorrente, di limitarsi a esporre mere asserzioni o congetture, che affidino interamente all'attività istruttoria giudiziale l'accertamento della loro eventuale fondatezza. E' palese, infatti, che una siffatta opzione si tradurrebbe nella inversione del principio dell'onere della prova come regolato dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c, dove, invece, il principio con metodo acquisitivo non può mai tradursi in una assoluta e generale inversione di tale onere (Tar Lazio, Roma, sez. II, 21 maggio 2008, n.4792): tra altro, la dilatazione  dell'oggetto dell'istruttoria giudiziale renderebbe il rimedio (del metodo acquisitivo) in concreto non utilmente esercitabile.
Ne  consegue che, nel processo amministrativo, in mancanza di una prova compiuta a fondamento delle proprie pretese, il ricorrente deve avanzare  almeno un principio di prova, perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori (da ultimo, C. Stato, V, 7 ottobre 2009, n. 6118; in precedenza, tra tante, 27 marzo 2001, n. 1730; 15 giugno 2000, n. 3317; 13 luglio 1992, n. 637; 23 aprile 1991, n.636; 25 giugno 1990, n. 581; Tar Lazio, 1,10 aprile 1987, n. 791).
Applicando  i predetti principi alla fattispecie di cui si discute, e cioè alla questione dell'asserita esistenza di un credito dei ricorrenti per indennità sostitutiva di ferie non godute, e pur applicando un ulteriore  temperamento della fondato sulla circostanza che una vicenda del genere  di quella in esame coinvolge situazioni molto risalenti nel tempo, deve  osservarsi che gli interessati non hanno fornito alcuna prova sostanziale dell'esistenza del credito da essi vantato, come più in dettaglio si dirà oltre.
Discendendo dalle argomentazioni innanzi esposte, deve ora aggiungersi che va respinta l'eccezione di parte appellata, dedotta ex art.345 c.p.c., oggi sostanzialmente confermato dall'art.104 c.p.a, concernente la non contestabilità dell'efficacia probatoria dei documenti prodotti in primo  grado dai ricorrenti non essendo stati contestati in primo grado.
Al  riguardo è dirimente osservare che l'Amministrazione intimata si è costituita nel giudizio di primo grado per contestare il diritto all'indennità sostitutiva per ferie non godute che i ricorrenti hanno reclamato sulla base della documentazione da essi prodotta.
Chiedendo  il rigetto del riconoscimento di un diritto basato su tale documentazione, è conseguente affermare che l'Amministrazione ha contestato, in relazione al thema decidendum proposto da parte ricorrente, non già l'esistenza o la falsa applicazione della norma dalla quale deriva il diritto richiesto, bensì, ed in modo non generico,  l'esistenza stessa del fatto costitutivo del mancato godimento delle ferie posto a fondamento del preteso credito.
Deve  inoltre essere rilevato che la sentenza di primo grado, nell'affermare il diritto dei ricorrenti, non ha effettuato alcun esame della documentazione da essi prodotta in primo grado, pervenendo quindi all'accoglimento del gravame attraverso una pronuncia di condanna che tecnicamente è da classificare come condanna generica dell'Amministrazione intimata, e che ha lasciato impregiudicata la verifica dell'efficacia probatoria di tali documenti.
Non  appare allora contestabile che l'Amministrazione, nella situazione definita a conclusione del giudizio di primo grado, non è assoggettata ad alcuna preclusione in ordine all'assenza di prova del fatto posto dai  ricorrenti di prime cure a fondamento del loro preteso diritto.
L'eccezione deve quindi essere respinta.
Quanto  al contenuto dei documenti prodotti in primo grado, il collegio non può  che condividere le argomentazioni dell'Amministrazione appellante.
Con  riguardo al tabulato prodotto dai ricorrenti, va senz'altro evidenziato  che esso appare privo di sottoscrizione; reca, rispetto a ciascun nominativo in esso trascritto, il cui numero è ben maggiore del numero dei ricorrenti, la generica indicazione di "ferie non godute alla data del 31 dicembre 1993"; non è indicato l'ente o il soggetto da cui proviene; non sono indicati gli anni ed i corrispondenti periodi in cui non sono state godute le ferie.
Le stesse lacune, ad eccezione dell'indicazione sulla sua provenienza, caratterizzano il documento (n.1) proveniente dal C.E.D. della Ragioneria Generale della Stato, che parte appellata ha depositato in giudizio n data 4 marzo 2011, insieme alla "Situazione dei congedi -Ministero dei Lavori Pubblici".
Con riguardo a  quest'ultimo documento il collegio deve osservare che,essendone la sostanziale riproduzione, esso merita gli stessi rilievi già esposti con  riferimento al tabulato sopra esaminato.
Deve  infine essere posto in evidenza l'assai elevato numero complessivo di giorni di ferie non godute che vengono evidenziati dalla documentazione in atti, in corrispondenza di soggetti i cui nominativi sono identici a quelli dei ricorrenti di primo grado.
In tale ambito va, invero, osservato che l'art.31 del regolamento di organizzazione e disciplina del personale dell'####################, pervenuto a seguito dell'ordinanza istruttoria 439/2010, non pare possa supportare la richiesta di monetizzazione delle ferie non godute che è oggetto del giudizio.
A tenore di tale disposizione è tassativamente prevista l'improrogabilità della fruizione del congedo per ferie oltre il 30 giugno dell'anno successivo a quello di riferimento (6° comma).
Il successivo comma 7°  stabilisce che in caso di licenziamento o dimissioni, al dipendente "spetta il trattamento economico per il periodo di congedo non fruito, in relazione al diritto maturato in suo favore".
Si  tratta ovviamente di un diritto al riconoscimento del corrispettivo economico limitato e/o proporzionale al monte ferie massimo annuo di 30 giorni, e sino e non oltre al 30 giugno seguente.
I  componenti della parte appellata, quindi, con la richiesta in esame, adducendo d'essersi assoggettati a proroghe sine die del congedo per ferie nell'ambito di ####################, si pongono in contrasto con le disposizioni ricordate, la cui tassatività, ad avviso della Sezione, non  può essere posta in discussione neppure adducendo richieste provenienti  dall'Amministrazione e avanzate per far fronte a sue improrogabili esigenze, noto essendo che il diritto alle ferie è un diritto indisponibile, salvo i limiti tassativamente previsti, a tutela della salute fisica e psichica del lavoratore.
L'appello dell'Amministrazione deve essere in conclusione accolto, con la conseguente riforma della sentenza impugnata.
Nel  peculiare andamento del processo ed alla luce delle questioni dedotte in primo e secondo grado, il collegio ravvisa giusti motivi per compensare integralmente fra le parti le spese dì ambedue i gradi di giudizio.P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie
e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.



ATTACCHI OSLO: TROVATI ESPLOSIVI IN FATTORIA BREIVIK

ATTACCHI OSLO: TROVATI ESPLOSIVI IN FATTORIA BREIVIK ++

(ANSA-REUTERS) - OSLO, 26 LUG - Un deposito segreto di
esplosivi e' stato scoperto dalla polizia norvegese nella
fattoria di Anders Behring Breivik, il killer estremista che
venerdi ha ucciso 76 persone in un duplice attentato a Olso e
sull'isolotto di Utoya. Lo ha detto il procuratore Trine
Dyngeland aggiungendo che gli esplosivi sono stati distrutti con
una esplosione controllata. (ANSA-REUTERS).

ZU
27-LUG-11 00:08 NNNN
ATTACCHI OSLO: TROVATI ESPLOSIVI IN FATTORIA BREIVIK (2)

(ANSA-REUTERS) - OSLO, 27 LUG - ''E' stato trovato un
nascondiglio di esplosivi e la polizia ha proceduto a
distruggerli con una esplosione controllata'', ha detto il
all'agenzia Reuters la signora Dyngeland.
L'operazione non ha presentato problemi e nessuno e' rimasto
ferito, ha affermato, senza aggiungere particolari sul
quantitativo di esplosivo scoperto.
La fattoria dove Breivik aveva avviato un'attivita' agricola
e' situata a Rena, a circa 160 chilometri a nord di Oslo.
La polizia ritiene che l'autore della doppia strage di
venerdi abbia confezionato la bomba fatta esplodere nel centro
di Oslo utilizzando fertilizzanti acquistati per la sua
fattoria. (ANSA-REUTERS).

ZU
27-LUG-11 00:19 NNNN

USA: 4000 UFFICI POSTALI A RISCHIO, FRANCOBOLLI IN FARMACIA

USA: 4000 UFFICI POSTALI A RISCHIO, FRANCOBOLLI IN FARMACIA
POSTAL SERVICE IN CRISI, IN 4 ANNI 20MILA LAVORATORI IN MENO
(ANSA) - WASHINGTON, 27 LUG - In molte localta' americane,
tra un paio di mesi, i cittadini saranno costretti a passare
dalla farmacia per mandare un pacco o comprare un francobollo.
La crisi non molla. Cosi' le Poste americane stanno valutando
la seria possibilita' di chiudere, nei prossimi due mesi, circa
4000 uffici. Tanti se si pensa che il Postal Service ha al
momento circa 32mila uffici postali sparsi in tutto il Paese.
Nello sforzo di ridurre i costi e cercare di migliorare
l'organizzazione del servizio malgrado i tagli, il Postmaster
General, Patrick Donahoe, ha diffuso una lista di uffici a
rischio. La stragrande maggioranza di questi si trovano in zone
rurali e sulla carta non offrono servizi a una grande massa di
utenti.
A questo punto iniziera' una fase di discussione, lunga 60
giorni, al termine della quale arrivera' la decisione finale,
che comunque potra' essere appellata davanti alla Postal
Regulatory Commission.
Nelle comunita' in cui verra' meno l'ufficio postale,
assicura Donahoe, il Postal Service pensa di appaltare alcuni
servizi essenziali, come la vendita di francobolli o l'invio di
piccoli pacchi a negozi locali, come farmacie o alimentari.
''In futuro gli uffici postali saranno piu' piccoli, piu'
flessibili e piu' competitivi'', ha assicurato Donahoe.
E questa sembra l'unica ricetta per sopravvivere, visto che
il traffico postale e' calato drasticamente e con questo gli
incassi. Cosi', tra crollo delle entrate commerciali e tagli da
parte del Tesoro, negli ultimi quattro anni le Poste Usa hanno
dovuto tagliare oltre 20 mila posti di lavoro. E ora si passa a
chiudere anche gli uffici.
''E' una medicina amara, ma sono cambiati i tempi e anche le
Poste devono cambiare'', ha commentato Art Sackler, presidente
della Coalition for a 21st Century Postal Service, che
rappresenta i dipendenti delle aziende che vivono sulle
spedizioni, come quelle che gestiscono la distribuzione di
medicine o dei giornali e riviste. (ANSA).

CAP
27-LUG-11 00:54 NNNN

martedì 26 luglio 2011

Aggiornamento periodico della formazione per gli addetti antincendio




Con il D.Lgs. 81/08 è stato disposto un generico obbligo di aggiornamento periodico per quanto concerne gli aspetti della formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
La normativa però non è stata particolarmente chiara in merito alla frequenza con cui deve essere effettuato l’aggiornamento dei corsi antincendio, facendo rimando al datato D.M. 10 marzo 1998.
A tal proposito, nell’ultimo periodo, il Dipartimento dei Vigili del Fuoco del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile-Direzione Generale per la Formazione ha reso nota una circolare (circolare prot. 12653 del 23 febbraio 2011 emessa dal Ministero dell’Interno-Direzione Centrale per la Formazione) per chiarire gli aspetti relativi alla formazione degli addetti antincendio. Di seguito riportiamo uno stralcio della circolare: “…Com’è noto il D. Lgs. 81/2008 ha previsto l’obbligatorietà dell’aggiornamento periodico per i corsi in qualità di addetto antincendio e gestione delle emergenze. Poiché sempre più numerose sono le richieste di attivazione dei medesimi corsi, sia da parte degli Enti esterni che dal territorio, la scrivente direzione, acquisito il parere della Direzione Centrale Prevenzione e Sicurezza Tecnica per quanto di competenza, trasmette in allegato il programma, i contenuti e la durata dei predetti corsi distinti per tipologia di rischio, al fine di un uniforme applicazione dell’attività formativa sull’intero territorio nazionale.”
Il programma dei corsi previsto dalla circolare in funzione del livello di rischio è il seguente:
• Corso A: corso aggiornamento addetto antincendio in attività a rischio di incendio basso
(durata 2 ore)
-Presa visione del registro della sicurezza antincendio e chiarimenti sugli estintori portatili; istruzioni sull’uso degli estintori portatili effettuata o avvalendosi di sussidi audiovisivi o tramite dimostrazione pratica.
Durata: 2 ore
• Corso B: corso aggiornamento addetto antincendio in attività a rischio di incendio medio
(durata 5 ore).
-Combustione; sostanze estinguenti in relazione al tipo di incendio; effetti dell’incendio sull’uomo; divieti e limitazioni d’esercizio; misure comportamentali.
Durata: 1 ora
-Principali misure di protezione antincendio; evacuazione in caso di incendio; chiamata dei soccorsi.
Durata: 1 ora
-Presa visione del registro della sicurezza antincendio e chiarimenti sugli estintori portatili; esercitazioni sull’uso degli estintori portatili modalità di utilizzo di idranti e nasp.
Durata: 3 ore
• Corso C: corso aggiornamento addetto antincendio in attività a rischio di incendio elevato
(durata 8 ore)
-Principi sulla combustione e l’incendio; le sostanze estinguenti; triangolo della combustione; le principali cause di incendio; rischi alle persone in caso di incendio; principali accorgimenti e misure per prevenire gli incendi.
Durata: 2 ore
-Le principali misure di protezione contro gli incendi; vie di esodo; procedure da adottare quando si scopre un incendio o in caso di allarme; procedure per l’evacuazione; rapporti con i vigili del fuoco; attrezzature ed impianti di estinzione; sistemi di allarme; segnaletica di sicurezza; illuminazione di emergenza.
Durata: 3 ore
-Presa visione del registro della sicurezza antincendio e chiarimenti sui mezzi di estinzione più diffusi; presa visione e chiarimenti sulle attrezzature di protezione individuale; esercitazioni sull’uso degli estintori portatili e modalità di utilizzo di idranti e naspi.
Durata: 3 ore.
Logicamente, la circolare non ha valenza di legge, rappresentando solo un atto interpretativo della stessa non formula indicazioni sulla periodicità della formazione, ma, considerando che anche la formazione per gli addetti al primo soccorso secondo il D. Lgs. 388/03 è almeno triennale, la stessa periodicità si ritiene applicabile anche per l’aggiornamento degli addetti antincendio.

Area del progetto infortuni mortali e gravi (link diretto al sito dell'autore)

In questa sezione di INFORMO è possibile effettuare una ricerca per filtro cliccando con il tasto sinistro del mouse su una voce presente nelle colonne dei filtri disponibili predisposti a partire da alcune classificazioni presenti nella scheda di rilevazione dati utilizzata per l’inserimento delle informazioni in archivio. In alternativa, o come secondo livello di dettaglio, è possibile effettuare una ricerca testuale, digitando una o più parole chiave nella apposita casella di testo. Le parole chiave vengono ricercate all’interno del campo che descrive la dinamica infortunistica. In caso di ricerca per parola chiave non è presente la ripartizione dei casi secondo i filtri disponibili.

INPDAP 19/2011 - Contribuzione figurativa per mandato elettivo di cui al d.lgs 16 settembre 1996, n.564, come modificato e integrato dal d.lgs. 29 giugno, n.278 e dall’art.38 della legge 23 dicembre 1999, n.488.


La valutazione dell’idoneità alla guida in relazione all’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope. Studio epidemiologico della casistica veronese










TESTO COORDINATO DEL DECRETO-LEGGE 6 luglio 2011, n. 98 Ripubblicazione del testo del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (in Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 155 del 6 luglio 2011), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, (in Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 164 del 16 luglio 2011), recante: «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria.». (11A10000) (GU n. 171 del 25-7-2011 - Suppl. Ordinario n.178)

TESTO COORDINATO DEL DECRETO-LEGGE 6 luglio 2011, n. 98

22 luglio 2011 Rai News24 - Genova G8 2001 utilizzo dei Gas CS

Salute: Divina (LN), vietare mercurio in cure odontoiatriche


SALUTE: DIVINA (LN), VIETARE MERCURIO IN CURE ODONTOIATRICHE

(ANSA) - TRENTO, 26 LUG - L'Italia metta al bando l'uso
dell'amalgama odontoiatrico a base di mercurio''. Lo chiede in
una mozione il parlamentare trentino della Lega Nord, Sergio
Divina.
''Questo materiale per otturazioni dentali - sottolinea
Divina - e' composto da una miscela di metalli tenuta insieme da
mercurio, che ne costituisce circa il 50%. Nonostante il
mercurio sia notoriamente la sostanza piu' inquinante e
pericolosa per la salute dopo i composti radioattivi, viene
ancora usato in odontoiatria, comportando gravi rischi per i
portatori di queste otturazioni, per il personale sanitario che
lo usa e per l'ambiente stesso''. ''Secondo dati scientifici -
prosegue il parlamentare leghista - l'amalgama e' associata a
patologie neurologiche, renali, metaboliche, autoimmunitarie e
cronico-degenerative tra cui la sclerosi multipla, l'alzheimer,
l'autismo, trasmesso da madre (portatrice di amalgama) a figlio
e molte altre. Secondo l'Oms alcuni studi dimostrano che non
esistono limiti di sicurezza sotto ai quali non vi siano effetti
negativi del mercurio''. L'on. Divina chiede infine che l'Italia
promuova ai negoziati dell'Unep l'inserimento del mercurio
odontoiatrico nella lista ''Annex C'', come gia' proposto dai
Paesi scandinavi e dagli Stati Uniti. (ANSA).

COM-XDO
26-LUG-11 12:42 NNNN

"Che ne sarà della scorta di Alemanno? Anche i 'protettori' del sindaco a rischio dopo il clamore suscitato dalla denuncia del sindacato Silp Cgil"


"Scorte si muove il Viminale"




Corte Costituzionale "..Lo straniero irregolare può sposarsi in Italia. illegittima la norma del «pacchetto sicurezza» del 2009 che impone allo straniero di possedere un regolare permesso di soggiorno per potersi sposare in Italia..."

SENTENZA N. 245
ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-    Alfonso                  QUARANTA                                     Presidente
-    Alfio                      FINOCCHIARO                                  Giudice
-    Franco                    GALLO                                                      ”
-    Luigi                      MAZZELLA                                              ”
-    Gaetano                 SILVESTRI                                               ”
-    Sabino                    CASSESE                                                  ”
-    Giuseppe                TESAURO                                                 ”
-    Paolo Maria            NAPOLITANO                                         ”
-    Giuseppe                FRIGO                                                       ”
-    Alessandro             CRISCUOLO                                            ”
-    Paolo                      GROSSI                                                     ”
-    Giorgio                   LATTANZI                                                ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Tribunale ordinario di Catania nel procedimento vertente tra P.A. e M.A. e il Ministero dell’interno, con ordinanza del 17 novembre 2009, iscritta al n. 26 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato – in riferimento agli articoli 2, 3, 29, 31 e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
1.1.— In punto di fatto, il Tribunale remittente premette di essere stato adíto da una cittadina italiana e da un cittadino marocchino per la declaratoria dell’illegittimità del diniego opposto dall’ufficiale dello stato civile alla celebrazione del loro matrimonio.
In particolare, riferisce che in data 27 luglio 2009 i ricorrenti avevano chiesto all’ufficiale dello stato civile di procedere alla pubblicazione della celebrazione del matrimonio, producendo la documentazione prevista dalla allora vigente formulazione dell’art. 116 cod. civ.
Il successivo 28 agosto, quindi, gli stessi avevano chiesto che il matrimonio venisse celebrato.
Il 31 agosto 2009, l’ufficiale dello stato civile aveva motivato il diniego alla celebrazione del matrimonio per la mancanza di un «documento attestante la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino marocchino», così come previsto dall’art. 116 cod. civ., come novellato dalla legge n. 94 del 2009, entrata in vigore nelle more.
1.2.— Tanto premesso in fatto, il giudice a quo prospetta l’illegittimità costituzionale della norma suddetta, giacché essa contrasterebbe:
con l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità;
con l’art. 3 Cost., per violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza;
con l’art. 29 Cost., per violazione del diritto fondamentale a contrarre liberamente matrimonio e di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi sui quali è ordinato il sistema del matrimonio nel vigente ordinamento giuridico;
con l’art. 31 Cost., perché interpone un serio ostacolo alla realizzazione del diritto fondamentale a contrarre matrimonio;
con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
In particolare, il remittente precisa che il matrimonio costituisce espressione della libertà e dell’autonomia della persona, ed il diritto di contrarre liberamente matrimonio è oggetto della tutela di cui agli artt. 2, 3 e 29 Cost., in quanto rientra nei diritti inviolabili dell’uomo, caratterizzati dall’universalità. Inoltre, l’art. 31 Cost., nel sancire che la Repubblica agevola la formazione della famiglia, «esclude la legittimità di limitazioni di qualsiasi tipo alla libertà matrimoniale».
La libertà di contrarre matrimonio, prosegue il Tribunale di Catania, trova fondamento anche in altre fonti. A questo riguardo richiama l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il già citato art. 12 della CEDU e l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e successivamente recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. In particolare, con specifico riferimento all’art. 12 della CEDU, il remittente osserva che la predetta norma «ricomprende la libertà matrimoniale tra quei diritti e libertà che devono essere assicurati senza distinzione di sorta» e che, «pur prevedendo che tale diritto debba essere esercitato nell’ambito di leggi nazionali», tuttavia, la stessa non consente «che queste ultime possano porre condizioni o restrizioni irragionevoli».
2.― È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, non fondata.
2.1.― L’Avvocatura dello Stato precisa, da un lato, che la modifica contenuta nella disposizione censurata «deve essere letta congiuntamente» al nuovo testo dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) che, in generale, prevede l’obbligo di esibizione della documentazione di soggiorno per gli atti di stato civile; dall’altro che il requisito della regolarità del soggiorno, richiesto ai fini della celebrazione del matrimonio, «tende a soddisfare l’esigenza del legislatore di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori».
La difesa statale sottolinea che la libertà di contrarre matrimonio e di scegliere il coniuge attiene alla sfera individuale del singolo sulla quale lo Stato, in linea di massima, non potrebbe/dovrebbe interferire, salvo che non vi siano interessi prevalenti incompatibili, quali potrebbero essere la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico. A questo riguardo, la difesa statale ritiene che il legislatore, nella propria discrezionalità, abbia considerato «lo status di “clandestino”» come «una situazione giuridica soggettiva valutabile negativamente in punto di ordine pubblico e sicurezza» e, pertanto, sufficiente a giustificare la limitazione del diritto a contrarre matrimonio.
Sostiene l’Avvocatura che, in un giudizio di bilanciamento di interessi, le prerogative dello Stato volte a tutelare la sovranità dei confini territoriali ed a controllare i flussi migratori, anche per evitare matrimoni di comodo, siano prevalenti e legittimino la scelta legislativa di limitare il diritto a contrarre matrimonio delle persone che non risultino in regola con le norme che disciplinano l’ingresso ed il soggiorno nel territorio nazionale.
2.2.— La norma censurata, sempre ad avviso della difesa dello Stato, non si porrebbe in contrasto con le Convenzioni internazionali richiamate dal giudice remittente e, in particolare, con gli artt. 8 e 12 della CEDU. Entrambe le disposizioni, infatti, attribuirebbero al legislatore nazionale il potere di limitare il diritto al matrimonio, in vista della tutela di valori «evidentemente ritenuti di rango superiore», tra i quali sono inclusi la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Siffatto potere di ingerenza sarebbe stato confermato, inoltre, dalla medesima Corte europea dei diritti dell’uomo.
Da ultimo, sempre a sostegno dell’esistenza di un’ampia discrezionalità legislativa, l’Avvocatura dello Stato richiama la giurisprudenza costituzionale e, in particolare, la sentenza n. 250 del 2010. Con la predetta pronuncia, la Corte costituzionale, precisa la difesa dello Stato, nel riconoscere al legislatore la discrezionalità di definire quali condotte costituiscano o meno fatti aventi rilevanza penale sembra aver «affermato la sussistenza di una discrezionalità del legislatore nel qualificare la situazione di “clandestinità” come rilevante in punto di tutela dell’ordine pubblico».
Pertanto, la necessità di un controllo giuridico dell’immigrazione, in vista della tutela di valori costituzionali – ordine pubblico, sovranità territoriale, rispetto di obblighi internazionali – giustifica e legittima la scelta legislativa oggetto di censura, frutto, prosegue l’Avvocatura, di un bilanciamento di valori, tutti di rango costituzionale, tale per cui la “clandestinità” è qualificata situazione ostativa al matrimonio, in ragione di esigenze di ordine pubblico, di difesa dei confini e di controllo del flusso migratorio.
Del pari infondati sarebbero i profili di censura relativi alla violazione degli artt. 2, 3, 29 e 31 Cost., poiché la norma impugnata «non è tale da impedire in assoluto il matrimonio tra il cittadino italiano e il cittadino straniero o tra cittadini stranieri»; piuttosto essa si limiterebbe a «regolamentare la posizione giuridica del cittadino straniero che intende contrarre matrimonio in Italia, in conformità alle norme dell’ordinamento in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri» sul territorio nazionale. Del tutto inconferente sarebbe, infine, la giurisprudenza richiamata dal Tribunale remittente, poiché essa investirebbe profili diversi rispetto alla questione sollevata nel giudizio a quo.
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato – in riferimento agli articoli 2, 3, 29, 31 e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano». La novella introdotta dalla predetta legge, in altri termini, fa carico allo straniero che intenda contrarre matrimonio in Italia di produrre tale atto.
La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio civile, promosso da una cittadina italiana e da un cittadino marocchino, avente ad oggetto – previo accertamento della illegittimità del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile alla celebrazione del matrimonio tra gli stessi – la richiesta di pronuncia di un ordine all’ufficiale dello stato civile medesimo di celebrazione del matrimonio in questione.
1.1.— Il remittente reputa rilevante detta questione, sul presupposto che la già intervenuta effettuazione della pubblicazione – sotto il vigore della precedente formulazione dell’art. 116 cod. civ. – non esclude l’applicazione dello ius superveniens. Conclusione, questa, che risulta conforme a quanto precisato dalla circolare del Ministero dell’interno 7 agosto 2009, n. 19, la quale – oltre a confermare che dall’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 «il matrimonio dello straniero (extracomunitario) è subordinato alla condizione che lo stesso sia regolarmente soggiornante sul territorio nazionale» – specifica che la predetta condizione «deve sussistere all’atto della pubblicazione e al momento della celebrazione del matrimonio».
1.2.— Con riguardo, invece, al profilo della non manifesta infondatezza, il Tribunale pone in luce, in primo luogo, come il matrimonio costituisca espressione della libertà e dell’autonomia della persona, sicché il diritto a contrarlo liberamente è oggetto della tutela primaria assicurata dagli artt. 2, 3 e 29 Cost., in quanto rientra nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo.
Tale diritto, infatti, tende a
3
tutelare – osserva sempre il remittente – la piena espressione della persona umana, e come tale deve essere garantito a tutti in posizione di eguaglianza, come aspetto essenziale della dignità umana, senza irragionevoli discriminazioni. Inoltre, l’art. 31 Cost., nel prevedere che la Repubblica agevola «la formazione della famiglia», esclude la legittimità di limitazioni di qualsiasi tipo alla libertà matrimoniale.
Secondo il giudice a quo, questa Corte avrebbe ripetutamente affermato come nella sfera personale di chi si sia risolto a contrarre matrimonio non possa sfavorevolmente incidere alcunché che vi sia assolutamente estraneo, al di fuori cioè di quelle regole, anche limitative, proprie dell’istituto. Infatti, prosegue il remittente, il relativo vincolo, cui tra l’altro si riconnettono valori costituzionalmente protetti, deve rimanere frutto di una libera scelta autoresponsabile attenendo ai diritti intrinseci ed essenziali della persona umana ed alle sue fondamentali istanze, sottraendosi a ogni forma di condizionamento indiretto, ancorché eventualmente imposto dall’ordinamento (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 445 del 2002, n. 187 del 2000, n. 189 del 1991, n. 123 del 1990, n. 73 del 1987, n. 179 del 1976, n. 27 del 1969).
Ne deriverebbe, pertanto, la necessità – conclude sul punto il Tribunale di Catania – di sottrarre la libertà matrimoniale ad inammissibili condizionamenti, diversi da quelli giustificati dall’ordine pubblico.
1.3.— Sotto altro aspetto, inoltre, il remittente rileva che la libertà di contrarre matrimonio costituisce un diritto fondamentale della persona riconosciuto anche dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 16), dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 9).
In particolare, il Tribunale deduce che la CEDU – includendo la libertà matrimoniale tra quelle che devono essere assicurate senza distinzione di sorta (di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza ad una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione) e pur prevedendo che il relativo diritto debba esser esercitato nell’ambito delle leggi nazionali – non consentirebbe che queste ultime possano porre condizioni o restrizioni irragionevoli.
Alla stregua di tali principi, la disposizione censurata – secondo il remittente – sarebbe «limitativa della libertà matrimoniale, sia per lo straniero che per i cittadini italiani», e sembrerebbe «determinare una discriminazione nell’esercizio di un diritto fondamentale dell’uomo legata ad una mera condizione personale, che non appare ragionevole», in assenza di esigenze «di salvaguardia di altri valori costituzionalmente rilevanti di pari grado», tali da giustificare un «limite al diritto fondamentale in esame».
2.― Tanto premesso sul contenuto dell’ordinanza di rimessione, appare opportuno procedere, in via preliminare, alla ricognizione del quadro normativo nel quale si inserisce la norma oggetto del vaglio di costituzionalità.
2.1.― In particolare, la questione sollevata attiene alla disciplina del matrimonio dello straniero in Italia, quale prevista dall’art. 116 cod. civ.
Prima della modifica legislativa, intervenuta con la citata legge n. 94 del 2009, ai sensi di tale norma lo straniero, intenzionato a contrarre matrimonio in Italia, doveva presentare all’ufficiale dello stato civile solo un nulla osta rilasciato dall’autorità competente del proprio Paese.
Oltre al predetto requisito formale, sul piano sostanziale, il nubendo doveva in ogni caso (e deve tuttora) rispettare le condizioni previste dalla normativa italiana riguardanti la capacità di contrarre matrimonio (tra l’altro, libertà di stato, età minima) e l’assenza di situazioni personali ostative (ad esempio, impedimenti per parentela ed affinità). Si tratta, infatti, di norme di applicazione necessaria secondo l’ordinamento interno, che devono comunque essere osservate, anche se non sono previste dalla legge nazionale dello straniero.
2.2.— Con la citata legge n. 94 del 2009 è stato modificato l’art. 116, primo comma, cod. civ.
La nuova norma stabilisce che «lo straniero che vuole contrarre matrimonio nella Repubblica deve presentare all’ufficiale dello stato civile», oltre al nulla osta, di cui sopra, «un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
Detta norma deve essere letta anche alla luce delle modifiche introdotte dal legislatore in merito ai requisiti necessari per l’acquisto della cittadinanza a seguito di matrimonio dello straniero con il cittadino italiano, disciplinati dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza).
La legge n. 94 del 2009, al fine di ridurre il fenomeno dei cosiddetti “matrimoni di comodo”, come risulta dai suoi lavori preparatori (Senato della Repubblica, XVI legislatura, relazione al disegno di legge n. 733, che reca “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”), ha sostituito l’art. 5 della predetta legge n. 91 del 1992, prevedendo:
al comma 1, che «il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora», al momento dell’adozione del decreto di acquisto della cittadinanza, «non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi»;
al successivo comma 2, che i termini sono, peraltro, «ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi».
3.— Così ricostruito il quadro complessivo in cui si inserisce la disposizione censurata, si può procedere al chiesto scrutinio di costituzionalità.
La questione è fondata.
3.1.— Giova ricordare come questa Corte (sentenze n. 61 del 2011, n. 187 del 2010 e n. 306 del 2008) abbia affermato che al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari in Italia.
Tali norme, però, devono costituire pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative in materia di disciplina dell’immigrazione, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali certamente rientra quello «di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (sentenza n. 445 del 2002).
In altri termini, è certamente vero che la «basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero» – «consistente nella circostanza che, mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo» – può «giustificare un loro diverso trattamento» nel godimento di certi diritti (sentenza n. 104 del 1969), in particolare consentendo l’assoggettamento dello straniero «a discipline legislative e amministrative» ad hoc, l’individuazione delle quali resta «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici» (sentenza n. 62 del 1994), quali quelli concernenti «la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione» (citata sentenza n. 62 del 1994). Tuttavia, resta pur sempre fermo – come questa Corte ha di recente nuovamente precisato – che i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sentenza n. 249 del 2010).
Sebbene, quindi, la ratio della disposizione censurata – proprio alla luce della ricostruzione che ne ha evidenziato il collegamento con le nuove norme sull’acquisto della cittadinanza e, dunque, la loro comune finalizzazione al contrasto dei cosiddetti “matrimoni di comodo” – possa essere effettivamente rinvenuta, come osserva l’Avvocatura dello Stato, nella necessità di «garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori», deve osservarsi come non proporzionato a tale obiettivo si presenti il sacrificio imposto – dal novellato testo dell’art. 116, primo comma, cod. civ. – alla libertà di contrarre matrimonio non solo degli stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi.
È, infatti, evidente che la limitazione al diritto dello straniero a contrarre matrimonio nel nostro Paese si traduce anche in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare. Ciò comporta che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale coinvolti deve necessariamente tenere anche conto della posizione giuridica di chi intende, del tutto legittimamente, contrarre matrimonio con lo straniero.
Si impone, pertanto, la conclusione secondo cui la previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti uno straniero non regolarmente presente nel territorio dello Stato, rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella presente ipotesi, specie ove si consideri che il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) già disciplina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”.
Ed infatti, in particolare, l’art. 30, comma 1-bis, del citato d.lgs. n. 286 del 1998 prevede:
con riguardo agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, che il permesso di soggiorno «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole»;
con riguardo allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, del medesimo d.lgs., ovvero con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore, che la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno «è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato».
3.2.— Del pari, è ravvisabile, nella specie, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
In proposito, si deve notare che la Corte europea dei diritti dell’uomo è recentemente intervenuta sulla normativa del Regno Unito in tema di capacità matrimoniale degli stranieri (sentenza 14 dicembre 2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom).
In particolare, la Corte europea ha affermato che il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89 della sentenza). Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione.
Detta evenienza ricorre anche nel caso previsto dalla norma ora censurata, giacché il legislatore – lungi dal rendere più agevole le condizioni per l’accertamento del carattere eventualmente “di comodo” del matrimonio di un cittadino con uno straniero – ha dato vita, appunto, ad una generale preclusione a contrarre matrimonio a carico di stranieri extracomunitari non regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente e Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2011.

ROGO TIBURTINA: RIAPERTA STAZIONE METRO LINEA B



ROGO TIBURTINA: RIAPERTA STAZIONE METRO LINEA B

(ANSA) - ROMA, 26 LUG - E' stata riaperta questa mattina a
Roma, alle 6.25, la fermata Tiburtina Fs della linea B della
metropolitana chiusa dopo il rogo della stazione domenica
scorsa. E' quanto comunica l' Agenzia per la Mobilit… in una
nota, precisando che vengono effettuate tutte le fermate lungo
la linea.
L'accesso alla stazione Š stata garantita dall'intervento
della Protezione civile di Roma Capitale che ha predisposto
l'illuminazione della galleria.(ANSA).

PAT-COM
26-LUG-11 07:12 NNNN

Così le mafie hanno conquistato Roma La marcia inarrestabile sulla Capitale di ’ndrangheta e camorra

Così le mafie hanno conquistato Roma

La marcia inarrestabile sulla Capitale di ’ndrangheta e camorra
Una confisca dal valore di 200 milioni di euro, come quella operata ieri a Roma dalla Guardia di finanza, segna certamente un punto a favore della lotta alla criminalità organizzata.
Ma porta soprattutto allo scoperto una realtà che in molti ancora faticano ad accettare, a partire dalla politica: il radicamento profondo nella Capitale di tutte le mafie, ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra. I sindacati di polizia lo denunciano già da tempo e il Silp-Cgil del Lazio ha presentato appena pochi giorni fa un rapporto dal titolo La mafia che c’è, che spiega come la Capitale sia diventata «un vero e proprio laboratorio per alchimie economiche e politiche delle cosche». Tanto che i rapporti investigativi rivelano che il 60 per cento delle attività presenti nel centro storico capitolino subiscono il loro controllo.
Un radicamento che, spiega il segretario del Silp-Cgil di Roma Gianni Ciotti, «si raggiunge solo in alcuni luoghi di origine della mafia». Le infiltrazioni nella Capitale riguardano soprattutto il tessuto economico, ma intaccano anche il livello sociale e quello politico-istituzionale, come dimostra il recente arresto per concorso esterno in associazione mafiosa di Giorgio Magliocca, consulente del sindaco Alemanno proprio per la gestione dei beni confiscati. Ciotti, però, attribuisce alla politica anche responsabilità indirette, seppure non meno gravi: «A Roma il problema delle mafie è stato sottovalutato da una classe politica inadeguata – spiega il sindacalista – qui le cosche si sono presentate con il vestito buono, mantenendo un profilo militare bassissimo. Non hanno interesse a controllare il territorio, controllano già l’economia». È vero che la strage di Duisburg è stata progettata in un ristorante a due passi da piazza di Spagna, ma ’ndrangheta e camorra non sono responsabili degli agguati delle ultime settimane per le vie della Capitale. «A Roma è in corso una guerra di mafia – precisa Ciotti – ma riguarda le bande della città, che cercano di imporsi per fare affari con le organizzazioni più grandi».
La penetrazione mafiosa nelle attività commerciali capitoline è stata favorita negli ultimi anni dalla crisi economica e dalla difficoltà a ottenere credito dalle banche. «Non è un caso – fa notare Ciotti – che molti beni sequestrati appartengano a ex vittime dell’usura. La camorra presta soldi a strozzo, senza chiedere interessi alti, ma pretendendo direttamente il controllo dell’attività e degli stessi imprenditori, che così diventano in qualche modo “organici” alla cosca, prestandosi a fare da prestanome per l’acquisizione di terreni e di altri esercizi». Così è difficile anche riuscire a provare i contatti necessari a contestare il reato di associazione a delinquere.
Per questo, «serve una maggiore collaborazione tra la camera di commercio e gli uffici investigativi ».
Il principio, insomma, è sempre quello: segui il denaro e troverai il mafioso. «Da questo punto di vista – conferma Ciotti – dai tempi di Falcone è cambiato ben poco. Il problema è che noi l’abbiamo capito, i politici forse no». Le forze dell’ordine, infatti, lamentano la cronica carenza di strumenti di intelligence necessari a individuare passaggi di denaro sempre più complessi, che non hanno niente da invidiare alle grandi operazioni finanziarie internazionali. Ma i forti tagli imposti da questo governo si fanno sentire anche sul controllo del territorio, con gravi conseguenze sulla lotta alla mafia, oltre che alla microcriminalità.
Ciotti fa due esempi in proposito: «Una volante ha recentemente fermato per un controllo a Tiburtina un uomo che poi si è rivelato un boss della camorra.
Ma per fare questo, le volanti devono essere messe in condizioni di girare. Come pure i poliziotti di quartiere, che se potessero svolgere bene la loro funzione preventiva, riuscirebbero a notare e segnalare passaggi di proprietà sospetti nelle attività commerciali».
Rudy Francesco Calvo  
FONTE