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lunedì 8 gennaio 2024

Tribunale 2023-Con ricorso ex art. 414 c.p.c., depositato il 20 maggio 2022, (...) ha agito in giudizio nei confronti di (...) per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale patito in ragione del mesotelioma pleurico contratto in conseguenza dell'esposizione all'amianto sperimentata nello svolgimento della sua attività lavorativa presso (...) Dopo il decesso del ricorrente, intervenuto il 04.07.2022, (...) - rispettivamente moglie e figli di (...) - si sono costituiti per la prosecuzione del processo in qualità di eredi dell'originario ricorrente, coltivandone la pretesa iure hereditatis.

 

 

 

 

Tribunale Gorizia Sez. lavoro, Sent., 28-11-2023

Fatto - Diritto P.Q.M.

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

IL TRIBUNALE DI GORIZIA

 

Il Giudice Monocratico - Sezione del Lavoro

 

in persona del dott. Gabriele Allieri

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nella causa r.g. n. 171/2022 promossa da:

 

(...) rappresentati e difesi, in forza di procura depositata telematicamente, dagli avv.ti (...) e (...) (...) ed elettivamente domiciliata presso la Camera del lavoro di Gorizia a Gorizia, via (...)

 

ricorrenti

 

CONTRO

 

(...) s.p.a., rappresentata e difesa, in forza di procura depositata telematicamente, dagli avv.ti (...) ed elettivamente domiciliata presso lo studio della prima a Gorizia, via (...)

 

resistente

 

dando lettura della motivazione e dei dispositivo ai sensi dell'art. 429 c. 1 c.p.c.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

 

1. Con ricorso ex art. 414 c.p.c., depositato il 20 maggio 2022, (...) ha agito in giudizio nei confronti di (...) per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale patito in ragione del mesotelioma pleurico contratto in conseguenza dell'esposizione all'amianto sperimentata nello svolgimento della sua attività lavorativa presso (...) Dopo il decesso del ricorrente, intervenuto il 04.07.2022, (...) - rispettivamente moglie e figli di (...) - si sono costituiti per la prosecuzione del processo in qualità di eredi dell'originario ricorrente, coltivandone la pretesa iure hereditatis.

 

1.1 A sostegno della domanda, è stato dedotto che (...) avrebbe lavorato dal 1964 al 1966 come picchettino alle dipendenze di alcune ditte che svolgevano la loro attività nel settore delle costruzioni navali, operando sempre nel contesto dei cantieri navali di (...) a Monfalcone. Successivamente, e segnatamente dal 15.03.1968 al 30.06.1997, avrebbe lavorato alle dirette dipendenze della convenuta - allora (...) s.p.a., poi (...) s.p.a. e quindi (...) -, come carpentiere e come ponteggiatore.

 

Nello svolgimento della sua attività, eseguita in assenta mancanza di dispositivi di protezione individuale, (...) avrebbe operato a bordo della nave e sarebbe stato oggetto d'una frequente esposizione passiva all'amianto, impiegato per lo svolgimento contestuale di diverse lavorazioni da parte di altri addetti, in particolare da parte dei coibentatori, che utilizzavano il materiale per isolare tubazioni, caldaie, pareti e condutture.

 

Inoltre, la sua mansione di carpentiere avrebbe implicato l'esposizione diretta all'amianto, in quanto sarebbe stato utilizzato direttamente per operazioni quali il taglio con il cannello, l'assistenza al preriscaldo delle lamiere e come sistema di protezione. Quale ponteggiatore, avrebbe costantemente montato, smontato e movimentato il tavolame d'impalcato e i tubi di metallo costituenti i ponteggi, incrostati e coperti di polvere e residui di amianto, Invero, i ponteggi sarebbero stati utilizzati e sarebbero serviti - in particolare ai coibentatori - per le operazioni di isolamento termico ed acustico; ne avrebbero fatto impiego anche i saldatori, i tubisti, gli elettricisti, i fabbri-nave e i falegnami nelle attività di completamento e di allestimento delle navi, In sostanza, la concomitanza delle diverse lavorazioni avrebbe implicato che le tavole e/o i tubi delle impalcature si riempissero di polveri, di scorie e resti di lavorazione, destinate a disperdersi nell'ambiente quando rovesciate e movimentate dai ponteggiatori.

 

1.2 Sulla scorta delle dichiarazioni rese nell'ambito del procedimento penale entro cui sono stati accertati uso e presenza di amianto presso i cantieri di (...) a Monfalcone, ove anche (...) è stato addetto, e sulla base delle valutazioni eseguite nel tempo da Inail e da (...) i ricorrenti hanno sostenuto che il mesotelioma che ha condotto al decesso di (...) sia riconducibile alla violazione delle norme in materia di sicurezza da parte di (...) Per questo, la società dovrebbe essere chiamata a rispondere del danno come sopra precisato.

 

2. (...) si è costituita in giudizio chiedendo l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei precedenti datori di lavoro di (...) e la reiezione del ricorso. A tal proposito, ha sostenuto l'inammissibilità della domanda di automatico riconoscimento del danno biologico differenziale, attesa l'applicabilità alla fattispecie dell'art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000. Ha poi argomentato in ordine all'impossibilità di formulare un giudizio di colpevolezza nei suoi confronti rispetto al determinismo della patologia contratta da (...) in quanto, all'epoca in cui questi aveva prestato la sua attività lavorativa, non vi era alcun divieto di utilizzo di materiali contenenti fibre di asbesto, non esisteva sul mercato alcuno strumento di protezione idoneo anche soltanto alla riduzione della possibilità di contrazione di patologie asbesto correlate, non vi era alcuna consapevolezza dell'effettiva pericolosità del materiale e, soprattutto, del pericolo derivante anche da minime esposizioni allo stesso. Ha comunque dedotto l'insussistenza del nesso di causalità tra la patologia esitata nell'evento mortale e la prestazione lavorativa svolta da (...) nell'interesse della società,

 

3. La causa è stata istruita con l'escussione di testimoni e mediante c.t.u. medico-legale. Successivamente, le parti l'hanno discussa e parte ricorrente ha limitato le proprie conclusioni al solo profilo del danno biologico temporaneo. Per il resto, entrambe le parti si sono riportate ai rispettivi atti.

 

4. Così ricostruito l'iter processuale, va in primo luogo osservato che l'eccezione e la domanda d'integrazione del contraddittorio formulate da (...) non possono essere accolte. Questa, infatti, non ha proposto alcuna domanda nei confronti dei precedenti datori di lavoro di (...) né per esserne manlevata, né identificando negli stessi ì responsabili esclusivi del fatto (c.d. laudano auctoris). Va del resto escluso che ricorra un'ipotesi di litisconsorzio necessario, perché la pronuncia nei confronti di (...) fondata sul rapporto di lavoro intercorso con (...) può essere senz'altro emessa senza la presenza in giudizio di altri datori di lavoro, terzi del tutto estranei al rapporto dedotto in giudizio.

 

Peraltro, anche l'eventuale corresponsabilità dei precedenti datori di lavoro in ordine alla causazione della patologia darebbe comunque luogo ad un'ipotesi di litisconsorzio facoltativo, in quanto, come chiarito dalla Corte di cassazione, è questa l'ipotesi che si verifica quando l'attore proponga una domanda con la quale invochi contro distinti soggetti la responsabilità solidale per un titolo comune e i convenuti non chiedano reciprocamente l'accertamento della responsabilità esclusiva l'uno dell'altro Cass. n. 9625/2018; Cass., n. 17864/2016; Cass., n. 19584/2013.

 

Infine, l'istanza della convenuta, anche qualora fosse da intendere quale sollecitazione di un ordine del giudice ex art. 107 c.p.c. (norma cui l'istanza fa espresso riferimento) non potrebbe comunque trovare accoglimento perché non si ravvisa alcuna ipotesi di "comunanza di causa", attesa l'assoluta genericità delle allegazioni in ordine alla tipologia dell'attività esercitata dai precedenti datori di lavoro, alle mansioni espletate dal lavoratore, nonché rispetto alle fonti dell'asserita esposizione ad amianto.

 

5. Nel merito, va rilevato che il percorso professionale di (...) è pacifico e documentale cfr. doc. 3 ricorrenti. Non è inoltre contestato che egli sia stato impiegato nello svolgimento delle mansioni indicate nel ricorso.

 

5.1. Una descrizione del contesto entro cui queste si sono svolte si può già evincere da un primo parere tecnico del (...) del 16 dicembre 1996, nel quale si sottolinea come, fino a tutto il 1977, "tutte le mansioni che richiedevano la presenza degli operatori a bordo di nave abbiano comportato delle significative esposizioni a fibre di amianto, sia perché direttamente manipolato o lavorato dagli operatori durante le operazioni di allestimento e sia perché essi, operando in ambienti confinati, erano soggetti al cosiddetto inquinamento ambientale indotto da operazioni inquinanti svolte in zone limitrofe" cfr. doc. 41 ricorrenti. Una successiva integrazione del parere, elaborata il 10.04.1997, ha poi posto in luce che "furono esposti a concentrazioni di fibre di amianto in misura superiore a 0,1 fibre/cc anche "coloro che operavano prevalentemente a bordo nave, fino al 1979..." cfr. doc. 42 ricorrenti.

 

5.2. L'istruttoria testimoniale ha poi confermato l'esposizione all'amianto di (...)

 

(...), che ha operato come carpentiere presso (...) nel periodo dal 1968 al 1993, dopo aver ridimensionato l'esposizione all'amianto di quanti svolgevano le sue stesse mansioni, ha riferito, quale osservatore, in ordine all'attività dei ponteggiatori, ricordando che "il ponteggiatore montava i "tubi innocenti" e vi innestava le tavole, a salire. Non ho mai fatto caso se agissero su componenti sporche, fi ponteggiatore, nello svolgimento della sua attività, non aveva direttamente a che fare con l'amianto. Poteva avervi a che fare però passivamente, perché l'ambiente era molto polveroso. C'erano gli aspiratori, ma la polvere permaneva ed era tanta. ..La polvere veniva eliminata con la scopa. Si tratta d'un'attività che veniva eseguita anche quando vi erano altre lavorazioni in corso...Avevamo mascherine in cotone, successivamente avevamo mascherine migliori. Ho tenuto la mascherina in cotone fino agli anni '80. In teoria la mascherina era obbligatoria per tutti, ma non tutti la usavano. Era l'operaio di fatto che decideva se indossarla o meno, a seconda dell'attività che stava svolgendo".

 

(...) - collega di (...) e dipendente di (...) dal 1969 al 2000 - riferendosi all'amianto ha ricordato di aver "conosciuto questa sostanza a bordo, dove l'amianto era impiegato per la coibentazione, anche dei tubi in sala macchine. A bordo v'era molta polvere. Quando veniva fatta la coibentazione - con lo spruzzo di amianto sulla parete e l'apposizione di pannelli in amianto sulla stessa - gli altri operai si spostavano altrove. Oppure, i coibentatoti venivano quando il lavoro di carpenteria era già terminato. Non erano solo i carpentieri ad allontanarsi durante la coibentazione, ma tutte le categorie di operai. Le pulizie a bordo erano svolte da una ditta specifica, sia in presenza che in assenza degli operai (...) Impiegavano una scopa tradizionale. Ho visto i ponteggiatori lavorare a bordo. L'esposizione dei ponteggiatori non era legata ad un'esposizione diretta con l'amianto, ma avevano un'esposizione passiva legata all'ambiente in cui operavano.

 

Era possibile ottenere le mascherine, ma era difficile tenerle indosso perché il lavoro era molto faticoso. Quasi nessuno le usava. Non erano obbligatorie, ma semplicemente a disposizione di chi le volesse".

 

5.3. A fronte di una lettura globale dei dati che precedono, può ritenersi che (...). allorché è stato impiegato a Monfalcone, abbia operato in un ambiente connotato da una significativa presenza d'amianto, tale da dimostrare la "nocività" dell'attività lavorativa svolta.

 

6. Dimostrata la circostanza che precede, ed ai fini dell'affermazione della responsabilità della convenuta, va ricordato che la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81" Cass., n. 18626/2013,

 

D'altra parte, "in materia di tutela della salute del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, sicché, con riferimento alle patologie correlate all'amianto, l'obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del D.P.R. n. 1124 del 1965 all'art. 21 del D.P.R. n. 303 del 1956, norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall'inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l'esistenza, comporta che non sia sufficiente, ai fini dell'esonero da responsabilità, l'affermazione dell'ignoranza della nocività dell'amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv, "threshold limit value") poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l'adozione delle misure di prevenzione prescritte" Cass., n. 18503/2016,

 

In un'altra occasione, la Suprema Corte, affrontando un caso attinente allo svolgimento d'attività lavorativa a contatto con l'amianto tra il 1946 e il 1979, ha affermato che "all'epoca di svolgimento dei rapporto di lavoro. ..era ben nota l'intrinseca pericolosità delle fibre dell'amianto...Da tali premesse... derivava l'obbligo del datore di lavoro, evidenziato dalla richiamata giurisprudenza, di adottare misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c. e più specificamente al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce, recependo le indicazioni prevenzionistiche già affermatesi, che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendosi che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri. Soccorrono quindi le norme dello stesso D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 ove si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l'art. 9, che prevede il ricambio d'aria, l'art. 15, che impone di ridurre ai minimo il sollevamento di polvere nell'ambiente mediante aspiratori, l'art. 18, che proibisce l'accumulo delle sostanze nocive, l'art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l'art. 20, che difende l'aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l'uso di aspiratori, l'art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell'atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione" Cass. n. 6352/2015.

 

È ad ogni modo da ribadire il principio di chiusura per cui, in tema di responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l'esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie" Cass., 14 maggio 2014, n, 10425,

 

6.1. Peraltro, quanto alla tesi di parte convenuta per cui non potrebbe ravvisarsi la colpa in capo al datore di lavoro, poiché all'epoca presumibile della contrazione della malattia la pericolosità dell'amianto non sarebbe stata ancora nota e sarebbe mancata una normativa specifica in materia di protezione dall'inalazione di amianto, deve rilevarsi che "già il R.D. 34 giugno 1909, n. 442 che approvava il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all'art. 29, tabella B, n. 12, includeva la filatura e tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei quali l'applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo. Analoghe disposizioni dettava il regolamento per l'esecuzione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, emanato con D.Lgs. 6 agosto 1916, n. 1136, art. 36, tabella B, n. 13 e il R.D. 7 agosto 1936, n. 1720 che approvava le tabelle indicano i lavori per i quali era vietata l'occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni, prevedeva alla

 

tabella B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri in cui era consentita l'occupazione delle donne minorenni e dei fanciulli, subordinatamente all'osservanza di speciali cautele e condizioni e, tra questi, al n. 5, la lavorazione dell' amianto, limitatamente alle operazioni di mescola, filatura e tessitura. Lo stesso R.D. 14 aprile 1927, n. 530, tra gli altri agli artt. IO, 16, e 17, conteneva diffuse disposizioni relative alla aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche.

 

D'altro canto l'asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin dai primi dei '900 e fu inserita tra le malattie professionali con la L. 12 aprile 1943, n. 455 . In epoca più recente, oltre alla Legge Delega 12 febbraio 1955, n. 52, che, all'art. 1, lett. F, prevedeva di ampliare il campo della tutela, al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 e alle visite previste dai D.P.R. 20 marzo 1956, n. 648, si deve ricordare il regolamento 21 luglio 1960, n. 1169 ove all'art. 1 si prevede, specificamente, che la presenza dell'amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di amianto tale da determinare il rischio si può infine ricordare che il premio supplementare stabilito dal T U. n. 1124 del 1965, art. 153 per le lavorazioni di cui all'allegato n. 6, presupponeva un grado di concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi.

 

D'altro canto l'imperizia, nella quale rientra l'ignoranza delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno dei parametri integrativi al quale commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di lavoro.

 

Da quanto esposto discende che all'epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa degli odierni ricorrenti n.d.r.: 1956 - 1987 era ben nota l'intrinseca pericolosità delle fibre dell'amianto, tanto che l'uso di materiali che ne contengono era sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione di fibre (per fattispecie con periodi temporali di attività lavorativa analoghi v. Cass. n. 8204 del 2003; Cass. n. 16645 del 2003; Cass. n. 14010 del 2010; Cass. n. 2491 del 2008; Cass. n. 15156 del 2011; Cass. n. 26590 del 2014; da ultimo Cass. n. 22710 del 2015 che ha ribadito non solo l'irrilevanza della circostanza che il rapporto di lavoro si fosse svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali d'amianto, ma anche che a detta epoca non si sapesse che anche singole fibre d'amianto inalate potessero essere letali).

 

Si imponeva dunque, anche per il periodo per cui è causa, l'adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c. e più specificamente al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce, recependo le indicazioni prevenzionistiche già affermatesi, che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendosi che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri. Devono altresì essere tenute presenti altre norme dello stesso D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 ove si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l'art. 9, che prevede il ricambio d'aria, l'art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell'ambiente mediante aspiratori, l'art. 18, che proibisce l'accumulo delle sostanze nocive, l'art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l'art. 20, che difende l'aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l'uso di aspiratori, l'art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell'atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione.

 

L'art. 2087 c.c. in generale e il D.P.R. n. 303 del 1956 in particolare imponevano quindi di adottare provvedimenti idonei ad impedire o a ridurre lo sviluppo e la dispersione delle polveri nell'ambiente di lavoro, a prescindere peraltro dall'accertamento di una specifica nocività rispetto a determinate patologie, essendo comunque accertata la nocività della polvere (di qualsiasi sostanza) per l'apparato respiratorio (cfr. Cass. n. 6352 del 2015).

 

Gravava pertanto sulla società datrice di lavoro l'onere della prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno attraverso l'adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle suddette norme..." Cass., n. 17252/2016.

 

6.2. Nella specie parte convenuta non ha dimostrato di aver posto in essere tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

 

In particolare, al di là delle ulteriori fonti normative sopra richiamate, va ricordato che ai sensi dell'art. 21, D.P.R. n. 303 del 1956, vigente nel periodo per cui è causa,:

 

"Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambito di lavoro, nell'ambiente di lavoro.

 

Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nella atmosfera.

 

Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad impedirne la dispersione, L'aspirazione deve essere effettuata, per quanto è possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri.

 

Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate nel comma precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve provvedere all'inumidimento del materiale stesso.

 

Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e la eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano rientrare nell'ambiente di lavoro...".

 

Ai sensi dell'art. 19 del medesimo D.P.R. n. 303 del 1956, "il datore di lavoro è tenuto ad effettuare ogni qualvolta è possibile in luoghi separati le lavorazioni pericolose o insalubri allo scopo di non esporvi senza necessità i lavoratori addetti ad altre lavorazioni".

 

Ai sensi del successivo art. 25, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell'atmosfera, i lavoratori devono essere forniti di apparecchi di protezione,

 

Nella specie, non soltanto la convenuta non ha dato prova di aver adottato tali prescrizioni, ma - al contrario - dall'istruttoria svolta è risultata positivamente dimostrata la relativa violazione.

 

Ebbene, il datore di lavoro ha omesso di predisporre tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore sul luogo di lavoro. Infatti, le operazioni che implicavano l'esposizione ad inalazione di amianto sono state effettuate sostanzialmente senza le dovute precauzioni, volte ad evitare o ad abbattere l'inalazione di polveri contenti amianto, In questo quadro, rileva che all'interno dello stabilimento non risulta sia stata esercitata vigilanza sull'effettivo uso dei mezzi individuali di protezione contro le polveri nocive: come è noto, ai sensi dell'art. 2087 c.c. e dell'art. 4, lett. c), D.P.R. n. 547 del 1955, all'epoca vigente, il datore di lavoro è tenuto non soltanto a predisporre le misure necessarie a garantire l'incolumità del lavoratore, ma anche ad esigere che i lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione, con conseguente responsabilità del datore di lavoro del danno conseguente all'omessa vigilanza sull'utilizzo dei d.p.i..

 

È poi mancata l'adozione di opportune misure organizzative utili a confinare le lavorazioni comportanti la produzione di polveri nocive rispetto alle altre. Inoltre, il datore di lavoro non ha provveduto alla sostituzione dei materiali contenenti amianto con altri materiali che ne fossero privi, nonostante che la pericolosità dell'inalazione di polveri contenenti questo materiale dovesse essere conosciuta.

 

7. Passando all'esame del nesso eziologico tra l'ambiente entro cui (...) ha operato a Monfalcone e le successive patologie esitate nel suo decesso, va considerata la ricostruzione operata dal c.t.u. nella propria relazione peritale.

 

L'esperto - ricostruita la storia clinica di (...) e precisata la diagnosi di mesotelioma pleurico, diagnosticata il 14.12.2021 - ha affermato che è stata questa patologia a causarne il decesso e che essa, con elevata probabilità, è da porsi in nesso causale con l'esposizione all'amianto sperimentata presso (...) cfr. p. 24 relazione c.t.u..

 

Chiarito questo aspetto, e venendo alle conseguenze dannose patite da (...) il c.t.u. ha poi concluso indicando la sussistenza di un danno biologico temporaneo al 75% di 2 mesi, e un danno biologico temporaneo al 100% di 6 mesi.

 

8. Trattasi di valutazioni pienamente condivisibili.

 

Ad ulteriore conferma, si aggiungono le seguenti considerazioni.

 

In primo luogo, va ricordato che "in tema di responsabilità civile nella verifica del nesso causale vige, a differenza del processo penale ove vale il principio del meccanismo processuale del cd. "oltre ragionevole dubbio", la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", da verificarsi in virtù della cd. "probabilità logica", nell'ambito degli elementi di conferma e, nel contempo, nell'esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto (Cass. 3.1.2017 n. 47; Cass. 27.9.2018 n. 23197)" Cass., n. 15761/2019.

 

In particolare, a fronte di una malattia a eziologia multifattoriale, devono richiamarsi i consolidati principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione, secondo cui "nell'ipotesi di malattia ad eziologia multifattoriale - quale il rumore - il nesso di causalità relativo all'origine professionale di essa non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, che può essere, peraltro, data anche in via di probabilità, ma soltanto ove si tratti di "probabilità qualificata", da verificare attraverso ulteriori elementi idonei a tradurre in certezza giuridica le conclusioni in termini probabilistici del consulente tecnico (v. Cass. 5 agosto 2010 n. 18270, Cass. 20 maggio 2004, n. 24 novembre 2015, n. 23951; Cass. 9634).

 

Nello stesso quadro ... in tema di malattia professionale, derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere ravvisata in un rilevante grado di probabilità. "A tal fine il giudice, oltre a consentire all'assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, è tenuto a valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale...potendosi desumere, con elevato grado di probabilità, la natura professionale della malattia dalla tipologia della lavorazione, dalle caratteristiche dei macchinari presenti nell'ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione stessa, nonché dall'assenza di altri fattori causali extralavorativi alternativi o concorrenti" Cass., n. 5704/2017.

 

Nella specie, si è già dato conto della nocività propria delle lavorazioni e dell'ambiente di lavoro entro cui (...) è stato coinvolto. Ne deriva che le considerazioni del c.t.u. circa l'esposizione qualificata del ricorrente ad amianto nel periodo in cui ha lavorato presso (...) trovano conferma negli esiti dell'istruttoria, scrutinati, con successiva conferma, dalla stessa c.t.u..

 

8.1. Poiché la società ha però opinato che le altre esperienze lavorative di (...) diverse da quella - breve - che l'ha coinvolto presso (...) si sarebbero sviluppate in contesti ugualmente connotati dal massiccio impiego dell'amianto, è appena il caso di osservare che "in materia di malattia professionale, per l'accertamento dell'eziologia professionale della patologia contratta trova applicazione il criterio secondo il quale deve ritenersi acquisita la prova del nesso causale nel caso sussista un'adeguata probabilità, sul piano scientifico, della risposta positiva, non occorrendo una assoluta certezza, e ciò non a causa dell'incompletezza delle prove fornite riguardo ad elementi strettamente fattuali, ma per ragioni intrinseche alla variabilità e non completa prevedibilità delle reazioni dei soggetti umani ai fattori potenzialmente incidenti sul loro stato di salute e alla limitata possibilità di identificare anche "ex post" quali siano stati i fattori causali che concretamente abbiano operato, tanto più che, in applicazione dell'art. 41 cod. pen., va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell'evento, salvo il limite derivante dall'intervento di un fattore esterno all'attività lavorativa che sia di per sé sufficiente a produrre l'infermità e a far degradare altre evenienze a mere occasioni" Cass., n. 1135/2011.

 

Più precisamente, in questo ambito "trova applicazione la regola dell'art. 41 c.p., con la conseguenza che il rapporto causale tra l'evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, potendosi escludere l'esistenza nel nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l'infermità e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni". (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito - Fondata sull'accertamento che la riduzione dell'intensità di esposizione del lavoratore alle polveri di amianto avrebbe evitato o ritardato l'insorgere della patologia mortale - poiché tale circostanza implicava la sussistenza del nesso causale tra l'esposizione in concreto verificatasi e l'insorgenza o la latenza della malattia)" Cass., n. 27952/2018,

 

Ne deriva che, anche a voler riconoscere rilievo ad altri contesti d'esposizione, questi non reciderebbero senz'altro il nesso di causalità accertato dal c.t.u., posto che non risulta dimostrato l'intervento di quel fattore estraneo che, alla luce dell'accertamento probabilistico rispetto all'efficienza causale dell'esposizione presso la resistente, varrebbe ad interrompere il nesso eziologico come sopra ricostruito, Invero, ogni antecedente causale, ancorché indiretto o remoto, assume rilevanza, salvo che non sussista la certezza dell'intervento di un fattore estraneo a quello esaminato, tale da far degradare quest'ultimo al rango di semplice occasione. Nella specie, non vi sono elementi concreti per ritenere - né con certezza, né, vista l'astrattezza dell'ipotesi, sulla base del criterio del "più probabile che non" - che altre attività lavorativa abbiano determinato, autonomamente, l'infermità che ha concorso alla morte di (...).Quindi, anche a non volere escludere, in via del tutto astratta, che le sue ulteriori attività abbiano assunto il ruolo di concause, non viene smentito il fatto che, tra le stesse concause, vada annoverata, con la rilevanza di cui s'è dato conto, l'esposizione addebitabile all'inadempimento di (...)

 

8.2. Conclusivamente, data la molteplicità delle norme di prevenzione violate e l'impossibilità d'escludere un'incidenza causale di ciascuna di esse nella riduzione del rischio, sulla base del principio "del più probabile che non" deve ritenersi dimostrata la sussistenza di un nesso causale tra la condotta omissiva della convenuta e la patologia da cui è risultato affetto il ricorrenti.

 

In ogni caso, ai sensi dell'art. 2087 c.c., "il dovere del datore di lavoro era di escludere comunque l'esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò avesse imposto l'adozione di interventi drastici fino alla stessa modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie" Cass., n. 10425/2014; Cass., n. 291/2017, D'altra parte, la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio; il principio è stato applicato specificamente con riferimento al rischio da esposizione all'amianto. ..Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difètto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81...il rischio da esposizione all'amianto era noto all'epoca dei fatti, come dimostrato. ..dalla presenza di pubblicazioni scientifiche già all'inizio del secolo scorso che consideravano pericolose le lavorazioni collegate all'amianto. ..a fronte di tale situazione, il dovere del datore di lavoro era di escludere comunque l'esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò avesse imposto l'adozione di interventi drastici fino alla stessa modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie-" Cass., n. 15561/2019.

 

9. L'accertamento che precede conduce ad affermare la responsabilità di (...) per la morte di (...) e dunque per il danno subito personalmente da quest'ultimo.

 

In merito ad esso ed in ordine all'eccezione di (...)rispetto all'art. 13, D.Lgs. n. 38 del 2000, va ricordato che, "in tema di responsabilità del datore di lavoro per il danno da inadempimento, l'indennizzo erogato dall'INAIL ai sensi dell'art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000 non copre il danno biologico da inabilità temporanea, atteso che sulla base di tale norma, in combinato disposto con l'art. 66, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 1124 del 1965, il danno biologico risarcibile è solo quello relativo all'inabilità permanente" Cass., n. 4972/2018. E poi consolidato il principio per cui "in tema di liquidazione del danno biologico cd. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno- conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall'ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell'art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato, volta all'indennizzo del danno patrimoniale" Cass. n. 9166/2017; Cass., n. 20807/2016; Cass., n. 9112/2019, Il Giudice "valuterà, cioè, il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, e da esso detrarrà quanto indennizzabile dall'INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale (come già sancito da Cass. n. 20807/2016 cit.)" Cass., n. 9166/2017. Inoltre, "in tema di danno cd. differenziale, la diversità strutturale e funzionale tra l'erogazione Inail ex art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000 ed il risarcimento del danno secondo i criteri civilistici non consente di ritenere che le somme versale dall'istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfatrive del pregiudizio subito dal soggetto infortunato o ammalato, con la conseguenza che il giudice di merito, dopo aver liquidato il danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l'indennizzo erogato dall'Inali secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale; pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest'ultimo alla quota Inail rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato; successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall'importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi detrarre dall'importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita Inail destinata a ristorare il danno biologico permanente" Cass., n. 17967/2021.

 

Nella specie, (...) ha subito un danno biologico temporaneo, ossia una voce avulsa dalla copertura Inail. La fenomenologia e la risarcibilità di questo danno va affermata sulla base di un consolidato orientamento della Corte di cassazione, secondo cui "nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni e la morte causata dalle stesse, è configurarle un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione dell'integrità psicofisica patita dal danneggiato per quel periodo di tempo, ed il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi iure hereditatis" Cass., n. 18163/2007, Cass., n. 13672/2010; Cass., n. 21060/2016,

 

9.1 Quanto poi alla quantificazione del danno correiabile alla malattia che ha condotto al decesso di(...) . deve rilevarsi che, laddove la malattia non si risolva in esiti permanenti, ma determini la morte dell'individuo, il danno risarcibile va individuato nella componente biologica derivante dall'inabilità assoluta, opportunamente adeguata, in caso di consapevole attesa della morte, dalla sofferenza psichica, da liquidare tenendo conto della speciale intensità del danno Cass., n. 20922/2016, Invero, poiché l'inabilità temporanea non si tramuta mai in inabilità permanente, cioè in una condizione stabilizzata, il danno può essere commisurato soltanto all'inabilità temporanea. Tuttavia nella relativa liquidazione - da compiere adeguando l'ammontare del danno alle circostanze del caso concreto - si deve tener conto del fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero e da esitare nella morte.

 

Assume dunque rilievo, per un verso, l'intervallo di tempo tra lesioni e decesso della vittima, e, per altro verso, e soprattutto, l'intensità della sofferenza provata.

 

Inoltre, dal momento che il pregiudizio costituito dalla perdita della vita non è risarcibile cfr. Cass., sez. un., n. 15350/2015, la somma da liquidare non va rapportata all'aspettativa di vita della vittima, bensì al periodo di vita e di sofferenza effettivamente vissuto dal momento della lesione fino a quella del decesso.

 

Da ultimo, poiché in via di principio nella liquidazione del danno non patrimoniale non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, il ricorso ad una liquidazione equitativa pura, non fondata su criteri obiettivi (i soli idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto e a consentire la verifica ex post del ragionamento seguito dal giudice in ordine all'apprezzamento della gravità del danno, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo), per garantire l'adeguata valutazione del caso concreto e l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, sembra equo - in assenza di altri parametri - adottare il criterio di liquidazione predisposto dalle tabelle proposte dall'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano per la liquidazione del c.d. "danno terminale".

 

Le tabelle milanesi sopra menzionate sono state predisposte tenendo conto dei seguenti principi:

 

- l'unitarietà ed omnicomprensività del concetto di "danno terminale", che, alla luce dell'insegnamento delle Sezioni Unite nelle sentenze gemelle dell'11 novembre 2008, nn. 26972-3-4-5, ricomprende al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente (e dunque i pregiudizi altrimenti definiti come " danno biologico terminale", da "lucida agonia" o "morale catastrofale", nonché il danno biologico temporaneo "ordinario", da intendersi in esso assorbito);

 

- la durata limitata del danno, derivante dalla stessa definizione del danno come terminale (durata temporanea convenzionalmente stabilita in un periodo massimo di 100 giorni, oltre il quale il danno terminale non può prolungarsi, risultando risarcibile il solo danno biologico temporaneo ordinario);

 

- la coscienza del danneggiato, non essendo il danno in re ipsa ed occorrendo quindi la percezione della fine imminente;

 

- l'intensità decrescente, basata sull'esperienza medico legale, secondo la quale il danno tende a decrescere col passare del tempo, dal momento che la massima sofferenza è percepita nel periodo immediatamente successivo all'evento lesivo per poi scemare nella fase successiva (tale criterio verosimilmente non è perfettamente in linea con la gravità ingravescente della patologia che ha condotto a morte il de cuius, ma resta comunque applicabile anche nella presente fattispecie, sia pure con un calcolo a ritroso, ipotizzando la massima sofferenza nei giorni immediatamente precedenti il decesso);

 

- il metodo tabellare, che - pur nella ribadita difficoltà di individuare una "regola" che valga per tutte le variegate fenomenologie di danno terminale - assegna a ciascun giorno di sofferenza, nei limiti del tetto di 100 giorni complessivi, un valore progressivamente - e convenzionalmente - decrescente, sino ad agganciarsi, al 100 giorno, alla valutazione del danno biologico temporaneo ordinario,

 

- la tabella prevede in particolare la liquidazione di un danno terminale massimo, non ulteriormente personalizzabile, fino al tetto di 30.000,00

 

euro per tre giorni e poi una cifra giornaliera inferiore, decrescente nel tempo (nella presente fattispecie da calcolarsi a ritroso dal giorno del decesso), a partire dal quarto giorno e personalizzabile, in relazione alle circostanze del caso concreto e al particolare sconvolgimento che risulti di volta in volta provato (con una personalizzazione che viene proposta nel limite massimo del 50%). Il valore del quarto giorno è stato individuato m 1.000 euro, mentre la progressiva diminuzione giornaliera è stata calcolata, con i necessari arrotondamenti, in modo tale da giungere, alla fine del periodo, ad un valore (98 euro) pressoché pan a quanto pro die stabilito dalla tabella per il danno biologico temporaneo standard (salva personalizzazione).

 

Per un'opportuna ricostruzione, è opportuno riportare le tabelle di riferimento

 

Omissis

 

9.2. Applicando i criteri previsti delle tabelle che precedono, il danno terminale nella presente fattispecie deve essere quantificato tenendo conto che il c.t.u., all'esito della propria consulenza, ha concluso che, in conseguenza della malattia, sono derivati:

 

- un periodo di danno biologico temporaneo al 100% di 6 mesi, pari a 180 giorni)

 

- un periodo di danno biologico temporaneo al 75% di 2 mesi, pari a 60 giorni.

 

Rispetto al primo periodo, deve farsi riferimento ai valori previsti dalla tabella del danno biologico terminale del Tribunale di Milano. Il danno degli ultimi 100 giorni di vita del de cuius deve dunque essere quantificato in Euro 121.772,50, sulla base del seguente calcolo: Euro 30.000,00 (non ulteriormente personalizzabili) + Euro 79.852,50 (come da tabella, con la personalizzazione massima del 50%). Ad esso va aggiunto, per gli ulteriori 80 giorni coinvolti, l'importo di Euro 11.920,00 (149x80x100 : 100).

 

La massima personalizzazione è giustificata dalla particolare gravità della patologia, dalla conseguente inevitabile consapevolezza dell'approssimarsi della fine e dalla gravosità del percorso terapeutico affrontato, testimoniato dalla storia clinica ricostruita dalla relazione peritale,

 

Rispetto al restante periodo, le considerazioni che precedono militano per l'applicazione della massima personalizzazione. Il relativo danno può essere calcolato in Euro 6.705,00 per i 60 giorni di invalidità temporanea al 75 % (149 x 60x75 : 100).

 

Pertanto, il danno jure hereditario deve essere quantificato in complessivi Euro 128.477,50 (121.772,50 + 6.705,00).

 

9.3. Quanto precede si ritiene esaurisca integralmente i pregiudizi non patrimoniali patiti dal de cuius, È in tal senso da precisare che la pronuncia della Corte di cassazione richiamata in sede di discussione dalle ricorrenti cfr. Cass., n. 36841/2022 esprime il principio per cui, sotto un profilo descrittivo e dei criteri di liquidazione, restano distinti il danno biologico temporaneo (da considerarsi di massima entità in ragione dell'esito letale) e il danno catastrofale, relativo alla consapevolezza dell'approssimarsi del decesso. Ciò però non significa che si debba procedere ad una duplice valutazione - prima nella liquidazione del danno biologico, poi nella liquidazione del danno catastrofale - della consapevolezza del decesso, quanto meno ogniqualvolta essa, e le conseguenze psichiche che ne derivano, siano presumibili in relazione alla vicenda concreta ma non si manifestino in altrettante risultanze istruttorie utili ad evidenziare una sofferenza peculiare e straordinaria. Da qui la considerazione che la massima personalizzazione riconosciuta nella vicenda concreta assorbe, perché già valorizza, ogni profilo sussumibile nella figura del "danno catastrofale" e definisce un risarcimento integralmente satisfattivo rispetto al pregiudizio subito, benché la liquidazione - per essere equilibrata - sia stata compiuta sulla base della medesima tabella e in termini, esteticamente, unitari, Detto altrimenti, una liquidazione separata non avrebbe condotto alla liquidazione di un maggior risarcimento (visto che il danno è, nella sua entità, il medesimo) ma solo alla proliferazione di addendi di ammontare ridotto.

 

10. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

10.1. Quanto ai compensi professionali relativi ai difensori, questi vanno liquidati in base al D.M. n. 55 del 2014 in relazione ai parametri previsti per le cause di lavoro, avuto riguardo al valore della controversia e tenendo conto dei valori medi per quanto attiene alla fase di studio e alla fase introduttiva, dei valori minimi per la fase istruttoria e la fase decisoria, stante il numero ridotto dei testi escussi, la sussistenza di consolidate conoscenze scientifiche utili rispetto al l'indagine medico - legale e la presenza d'un consolidato orientamento giurisprudenziale che ha reso piuttosto snella la fase decisoria. Il compenso va distratto a favore dei difensori, antistatari.

 

10.2, Va altresì rimborsato il compenso della consulenza di parte, trattandosi di importo finalizzato alla formulazione di allegazioni difensive di natura tecnica, che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsare salvo che non siano ritenute superflue ed eccessive cfr., Cass., n. 84/2013; nella specie, sono state indicate spese per Euro 1.500,00, eccessive nella misura eccedente la quantificazione operata dal c.t.u. nella propria nota - pari ad Euro 1.000,00 -, sicché va rifuso l'importo entro quest'ultima cifra.

 

10.3. Le spese di c.t.u., liquidate come da separato decreto, vanno poste a carico di (...)

P.Q.M.

 

Il Giudice, definitivamente pronunciando,

 

condanna (...) s.p.a, a corrispondere ai ricorrenti, nella misura di 1/3 ciascuno, la somma di Euro 128.477,50, oltre interessi di legge dalla data della presente sentenza al saldo;

 

condanna (...) s.p.a. a rifondere ai ricorrenti le spese del giudizio, liquidate in Euro 1,000,00, oltre accessori di legge, rispetto alla consulenza tecnica di parte, e in complessivi Euro 9.930,00, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, rispetto ai compensi dei difensori, con distrazione in favore degli avv.ti (...) e (...)

 

pone definitivamente a carico della convenuta le spese di c.t.u., liquidate come da separato decreto.

 

Così deciso in Gorizia, il 28 novembre 2023.

 

Depositata in Cancelleria il 28 novembre 2023.


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