ALASKA, IL GELO SI SCIOGLIE: TRUMP E PUTIN GUARDANO A PECHINO, NON A KIEV
Ad Anchorage non si è solo celebrato un incontro tra il presidente russo Putin e quello statunitense Trump. È andata in scena la certificazione di una gerarchia mondiale che non somiglia a quella raccontata per anni dai grandi media padronali occidentali. Putin non è stato trattato come un paria, ma come un capo di Stato che siede di nuovo al tavolo delle grandi potenze: tappeto rosso, picchetto d'onore, limousine in due. La Russia, che per anni si voleva relegare a "potenza regionale", riemerge come interlocutore globale. Noi lo avevamo capito già dal 2006, quando Mosca aveva restituito in anticipo di molti anni il debito nei confronti delle istituzioni finanziarie internazionali che avevano partecipato al grande saccheggio degli anni '90, l'epoca in cui la Russia stava per diventare in modo definitivo una colonia. Invece, il non essere più un debitore fu un salto in un'altra dimensione. Lo capimmo ancora meglio nel famoso discorso del 2007 alla conferenza di Monaco, quando Putin disse in sostanza all'Occidente di scordarsi di trattare Mosca come un vassallo. L'Occidente non ci ha voluto mai sentire da questo orecchio, ma la realtà è ritornata a bussare fortissimo in Alaska.
L'Ucraina, presentata come epicentro del summit, è rimasta ai margini. Niente cessate il fuoco, nessuna data per un negoziato trilaterale con lo stremato Zelensky. Trump non ha insistito: sa che non è questa la sua guerra. E sa anche che Washington ha già raggiunto il vero obiettivo, distruggere la competitività europea tagliando i legami energetici e commerciali tra UE e Mosca. L'Europa sta a bocca asciutta, costretta a pagare i costi della guerra o della ricostruzione, senza peso negoziale. Una catastrofe diplomatica che il conglomerato di sonnambuli europei di Bruxelles si è costruito con le proprie mani, perseverando con sempre maggiore diabolica cocciutaggine nell'errore. Distruggi la diplomazia come risorsa? Non c'è più diplomazia che ti rispetti e fai una pessima fine.
La vera partita si è dunque giocata altrove. L'Artico è il nuovo Mediterraneo: rotte più brevi, risorse immense. Russia e Stati Uniti lo sanno, e Trump vuole riaprire i canali con Mosca per non lasciare campo libero alla Cina, già presente lungo la "Via della Seta polare". Qui emerge il cuore del summit: Washington non cerca un'intesa con Putin per amore della pace, ma per interferire nell'asse Mosca-Pechino e per consolidare il suo ruolo di "imperatore del Nord America", Groenlandia inclusa.
Sul tavolo anche i trattati chiave della sicurezza globale, in particolare il rinnovo del New START, con un obiettivo chiaro: portare la Cina dentro i limiti e le regole sul nucleare strategico. Gli americani hanno bisogno che Mosca interceda con Pechino, ma questo significa riconoscere alla Russia un ruolo di mediatore che smentisce vent'anni di retorica sull'isolamento di Putin. Vediamo ancora agitarsi – sempre più rabbiosi - i chihuahua sdentati della russofobia che ora perdono ogni punto di riferimento. Sono deboli, ma abbastanza dentro certe stanze per continuare a far danno. Faranno di tutto per sabotare ogni barlume di pace.
Gli assenti sono stati i veri sconfitti: ONU, NATO e soprattutto UE, ridotte a spettatori. A vincere è stata l'immagine di una Russia tornata centrale e la certezza che il secolo XXI sarà plasmato dalla triangolazione USA-Russia-Cina. L'Ucraina? Solo un dettaglio nel gioco delle potenze.
Giulietto Chiesa ed io, già nel 2011, nel libro "Barack Obush", parlavamo dei "quattro giganti" destinati a modellare la transizione multipolare: Stati Uniti, Cina, Russia ed Europa. Oggi quel quadro è qui, davanti ai nostri occhi, ma con una differenza decisiva: l'Europa non è stata soltanto esclusa, si è fatta escludere. Con una pulsione suicida, guidata da classi dirigenti incapaci e servili, ha consegnato il proprio destino agli interessi altrui, in un modo che sarà irrimediabile almeno per decenni. Dei quattro giganti resta ormai un trio, e il vertice di Anchorage lo ha in qualche modo sancito.
