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mercoledì 7 agosto 2024

Da giorni Salvini, dopo essersi calato qualche mojito (almeno si spera), calava la maschera strologando di strane forme di impunità per i presidenti di Regione a fine mandato o sino a fine mandato (non lo capiva bene neanche lui). Poi ieri l’ha raggiunto a Roma il suo idolo Toti, fresco di manette e rinvio a giudizio per corruzione, e ha tradotto l’ideona in italiano: “Le immunità della politica sono calate oltre ogni limite seguendo un certo populismo e giustizialismo. Vanno allargate dai parlamentari ai ministri.

 

Da giorni Salvini, dopo essersi calato qualche mojito (almeno si spera), calava la maschera strologando di strane forme di impunità per i presidenti di Regione a fine mandato o sino a fine mandato (non lo capiva bene neanche lui). Poi ieri l’ha raggiunto a Roma il suo idolo Toti, fresco di manette e rinvio a giudizio per corruzione, e ha tradotto l’ideona in italiano: “Le immunità della politica sono calate oltre ogni limite seguendo un certo populismo e giustizialismo. Vanno allargate dai parlamentari ai ministri. E anche governatori e sindaci devono avere una protezione, non per Toti, ma per il mandato popolare che gli è stato affidato”. Quindi immunità parlamentare, ma anche ministeriale, regionale, provinciale, comunale, circoscrizionale, rionale e pure extralarge, mai vista neppure nella Costituzione originaria. Che non s’è mai sognata di vietare o rinviare i processi agli eletti: richiedeva solo l’autorizzazione a procedere del Parlamento per indagarli. Poi, visto l’abuso che ne faceva, nel 1993 lo stesso Parlamento la riformò a furor di popolo, limitandola ad arresti, perquisizioni e intercettazioni (che fra l’altro sono atti a sorpresa ed è assurdo avvisarne in anticipo i destinatari).

Ora Toti vuole l’autorizzazione a delinquere. Ma nessuno l’ha informato – è un giornalista e certe cose mica può saperle – che i “giustizialisti populisti” che imposero il taglio delle immunità erano proprio i suoi alleati: i futuri forzisti e Fratelli d’Italia (all’epoca nel Msi) e la Lega (Salvini che aveva solo 20 anni e, per fortuna di Bossi, stava a Il pranzo è servito). Si era in piena Tangentopoli e, dopo un solo anno di legislatura, le due Camere avevano ricevuto ben 540 richieste di autorizzazione a procedere per quasi altrettanti eletti (oltre metà del totale): record mondiale di tutti i tempi. Un sondaggio Fininvest di Gianni Pilo svelò che solo il 2% degli italiani aveva fiducia nei partiti. I leghisti Bossi, Maroni e Castelli chiesero a gran voce la fine all’“inaccettabile degenerazione nell’applicazione della immunità… trasformata in immotivato e ingiustificato privilegio” con “conseguenze aberranti”. E così i missini Fini, Gasparri (ora FI) e La Russa (ora FdI): “L’uso e soprattutto l’abuso del diniego di autorizzazione a procedere sono visti dai cittadini e dall’autorità giudiziaria come strumenti per sottrarsi al corso necessario della giustizia”. Il relatore della riforma era Carlo Casini (un Dc pro life poi passato ai centristi con Lupi): “Il principio del princeps legibus solutus è medievale e quindi superato. L’istanza di eguaglianza deve riguardare in primo luogo gli autori delle leggi”. La Camera approvò con 525 sì, 5 no (fra cui Sgarbi) e 1 astenuto; il Senato con 224 sì, zero no e 7 astenuti. Almeno i ladri di allora erano furbi. Oggi sono pure fessi. (Marco Travaglio, Fatto Quotidiano)

T.me/GiuseppeSalamone

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