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sabato 13 gennaio 2024

Tribunale-"Con ricorso depositato in data 17.08.2017 e ritualmente notificato, i ricorrenti in epigrafe indicati, eredi legittimi di x., deceduta in data x per "mesotelioma pleurico", convenivano in giudizio la Regione x nonché la Gestione Liquidatoria dell'U.S.L. n. 4 P. B. E., datori di lavoro del loro dante causa, sull'assunto che la malattia neoplastica che aveva cagionato la morte del loro congiunto fosse stata cagionata dall'esposizione ad amianto presso l'Azienda O.P. ove la Sig.ra D. aveva prestato la propria attività lavorativa, sin dal 1988, senza essere stata preventivamente munita di idonei mezzi di protezione atti ad impedire l'inalazione delle fibre di asbesto."


 


 

 

Tribunale Parma Sez. lavoro, Sent., 30-08-2022

Fatto - Diritto P.Q.M. 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA

Sezione Lavoro

Il Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del giudice designato per la trattazione, dott.ssa Ilaria Zampieri, nella causa iscritta al n. 794/2017 R.G., promossa da:

x

RICORRENTI

contro

REGIONE EMILIA-ROMAGNA, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa per delega in calce alla memoria di costituzione e difesa,  

RESISTENTE

e contro

x

RESISTENTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

 

1. Svolgimento del processo.

1.1. Con ricorso depositato in data 17.08.2017 e ritualmente notificato, i ricorrenti in epigrafe indicati, eredi legittimi di E.D., deceduta in data 4.02.OMISSIS per "mesotelioma  pleurico", convenivano in giudizio la Regione OMISSISnonché la Gestione Liquidatoria dell'U.S.L. n. 4 P. B. E., datori di lavoro del loro dante causa, sull'assunto che la malattia neoplastica che aveva cagionato la morte del loro congiunto fosse stata cagionata dall'esposizione ad amianto presso l'Azienda O.P. ove la Sig.ra D. aveva prestato la propria attività lavorativa, sin dal 1988, senza essere stata preventivamente munita di idonei mezzi di protezione atti ad impedire l'inalazione delle fibre di asbesto.

Chiedevano, quindi, la condanna delle convenute al risarcimento dei danni subiti, pro-quota, iure hereditatis.

A tal fine deducevano: a) che la sig.ra D.E. aveva prestato la propria attività lavorativa presso l'Azienda O.P. (già A. n. 4 B. E.) a far data dal 26.04.1988 e sino al suo decesso - avvenuto nel febbraio del OMISSIS - come tecnico perfusionista; b) che tale attività - svolta dalla medesima, nel triennio 1988/1991, presso il Padiglione di Nefrologia - prevedeva, tra le altre cose, anche la gestione delle varie metodiche di circolazione extra-corporea, della macchina cuore polmone e dell'assemblaggio del macchinario stesso, oltre che il raccordo di alcuni tubi in PVC ad altri tubi coibentati che portavano acqua calda direttamente alla centrale termica; c) che le risultanze delle analisi condotte dallo studio Alfa - a ciò incaricato dall'Università di Parma - avevano evidenziato che, all'interno dei campioni prelevati da pavimenti, controsoffitti, pareti e coibentazioni dei tubi del Padiglione Nefrologia, erano presenti fibre di amianto crisotilo; d) che la perdurante esposizione della lavoratrice ai materiali contenenti amianto, oltre che la manipolazione ed il contatto diretto con tubi a parete contenenti amianto, avevano esposto la sig.ra E.D. all'inalazione di fibre del materiale, ingenerando dunque la malattia poi causa del decesso, anche in considerazione dell'assenza, sul luogo di lavoro, di aspiratori e della mancata predisposizione di DPI specifici per il rischio di polveri di amianto; e) che la sig.ra D. ebbe contezza della patologia contratta nel novembre 2010, a seguito di accertamenti eseguiti dopo la comparsa di dolore toracico, accertamenti successivamente ai quali si era reso necessario il ricovero - dal 28.11.2010 al 04.12.2010 - nonché un primario intervento; f) che, tuttavia, non avendo tale intervento condotto al risultato sperato, la paziente era stata costretta a sottoporsi, nel gennaio 2011, ad un ulteriore ricovero presso la Chirurgia Toracica Oncologica del Bringham and Women's Hospital di Boston, Centro di riferimento mondiale per il  mesotelioma  pleurico; g) che, quivi, a seguito del complicato intervento chirurgico subito dalla sig.ra D., la medesima si sottoponeva a cicli di chemioterapia; h) che, nel settembre 2012, con la ricomparsa della malattia ed il progressivo peggioramento delle condizioni di salute, la sig.ra D. non è più stata in grado di gestirsi in autosufficienza, né tanto meno di godere delle piccole abitudini quotidiane come la palestra, la passeggiata con il cane e l'andare a trovare i propri parenti, con un conseguente aggravamento delle già deteriori condizioni psicologiche; i) che, tanto il Dott. S. (nella relazione del diario generale Inail del 6.09.2011), quanto il Dott. G. (in quella del 18.04.2012), così certificavano: "Circa la latenza i 20 anni circa trascorsi tra l'inizio della verosimile esposizione e la diagnosi sono compatibili con la latenza tipica di questa forma di neoplasia, (…) tale esposizione è da ritenere pertinente al luogo di lavoro e quindi da considerare rischio specifico dal momento che tali circostanze espositive non sono generalizzabili e sovrapponibili a quelle di tutta la popolazione generale" e che la sig.ra era impossibilitata al "normale svolgimento degli atti quotidiani della vitaessendo obbligata a trascorrere gran parte della giornata a letto. Respira a fatica ed è in condizioni di non autosufficienza e allettamento pressoché continuo"; l) che, in data 23.06.2011, l'Inail riconosceva la natura professionale della patologia contratta dalla sig.ra D. con costituzione di una rendita per un grado di inabilità dapprima riconosciuto in una misura pari all'80%, e successivamente elevato al 100%; m) che, infine, a seguito del decesso della sig.ra D., veniva costituita una rendita di reversibilità in favore del coniuge, Dott. B.; n) che il Dott. C., incaricato di effettuare una valutazione medico legale, nella propria relazione del 31.07.2014, certificava la correlazione tra l'esposizione all'amianto subita dalla sig.ra D. e la patologia dalla stessa contratta, affermando l'esistenza di un nesso di causalità fra l'esposizione ambientale all'asbesto e lo sviluppo del  mesotelioma  pleurico maligno, rivelatosi fatale per la donna; o) che le richieste risarcitorie avanzate dagli odierni ricorrenti nei confronti dell'A. di P. rimanevano, tuttavia, prive di riscontro, costringendo i medesimi ad adire l'intestato Tribunale.

Tanto esposto in fatto, i ricorrenti chiedevano l'accoglimento delle seguenti conclusioni: "Voglia il Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro l'II.mo adito, ogni contraria istanza disattesa e previa ogni altra opportuna declaratoria di legge: - accertata e dichiarata, per le ragioni e le causali tutte di cui alle premesse, la responsabilità del datore di lavoro della sig.ra D.E., già U. n. 4 P. B. E., nella causazione nella persona della dipendente D.E. della patologia tumorale - malattia professionale che ne ha determinato il decesso in data 04.02.OMISSIS, conseguentemente dichiarare tenuti e condannare ex D.Lgs. n. 502 del 1992, L. n. 724 del 1994 e L. n. 594 del 1995, i convenuti Regione Emilia Romagna, nella persona del Presidente pro tempore nonché il direttore Generale dell'A. di P., nelle loro suesposte qualità, al risarcimento dei danni non patrimoniali, sofferti in vita dalla sig.ra D.E. in ragione della patologia tumorale - malattia professionale ut supra, dalla data di manifestazione conclamata della malattia stessa (ottobre 2010) al suo decesso (04.02.OMISSIS), ed acquisito jure hereditario dagli odierni ricorrenti tutti, e così condannarli a pagare il complessivo importo di Euro 325.972,98=, già de valutatoalla data della conclamata manifestazione della patologia (ottobre 2010), da liquidarsi in favore di ciascuno dei ricorrenti in ragione della corrispondente e spettante quota ereditaria, e così nella misura di 2/3 dell'intero importo indicato ovvero Euro 217.315,32=, ex art. 582 c.c. in favore del coniuge superstite B.A.M., ed il residuo importo ut supra, pari ad un terzo del totale, da dividere pro quota ex artt. 582 e 571 c.c., in favore della madre C.G. nonché di ciascuna sorella, D.B. e D.M.; il tutto comunque oltre interessi e rivalutazione monetaria dall'ottobre 2010 sino al saldo. Fatta salva in ogni caso la diversa quantificazione che risulterà dovuta e/o di giustizia all'esito dell'istruttoria e del giudizio".

1.2. Le convenute amministrazioni si costituivano in giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso in quanto ritenute infondate in fatto e in diritto.

1.3. La causa veniva istruita con l'acquisizione dei documenti prodotti dalle parti, l'assunzione della prova testimoniale, nonché a mezzo Ctu ambientale e Ctu medico-legale.

1.4. In data 1.03.2022, a seguito della discussione, il giudice decideva la causa sulle conclusioni rassegnate dalle parti negli scritti difensivi e su quelle della perizia medico svolta dal CTU, dando lettura del dispositivo della sentenza ex art. 429 c.p.c. e riservando il deposito della motivazione entro il termine di 60 giorni.

2. Motivi della decisione

2.1. La competenza funzionale del Tribunale del Lavoro.

In via preliminare, e pregiudiziale, va dichiarata la competenza funzionale del Giudice del lavoro, nei limiti di seguito precisati, in quanto: "per controversie relative a rapporti di lavoro subordinato ai sensi dell'art. 409, n. 1, c.p.c., debbono intendersi, non solo quelle relative alle obbligazioni propriamente caratteristiche del rapporto di lavoro, ma tutte le controversie in cui la pretesa fatta valere in giudizio si ricolleghi direttamente al detto rapporto, nel senso che questo, pur non costituendo la causa petendi di tale pretesa, si presenti come antecedente e presupposto necessario, e non già meramente occasionale, della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale, essendo irrilevante l'eventuale non coincidenza delle parti in causa con quelle del rapporto di lavoro" (cfr. Cass., 8 ottobre 2012, n. 17092; Cass. 22 marzo 2002, n. 4129; nonché Cass., 11 ottobre 2012, n. 17334).

Pertanto, anche le domande risarcitorie proposte nel presente giudizio debbono essere trattate con il rito del lavoro, essendo questo applicabile, ai sensi dell'art. 409 c.p.c., a qualsiasi controversia che trovi nel rapporto di lavoro la ragione giustificativa della domanda, ancorché la causa si tenga tra soggetti diversi da quelli del rapporto di lavoro medesimo.

Premesso, dunque, che i danni conseguenti al decesso di un soggetto si distinguono tra quelli risarcibili agli eredi iure hereditatis (danni diretti subiti dalla vittima e trasmissibili agli eredi) e quelli risarcibili iure proprio (cd danni riflessi o indiretti), qualora il decesso riguardi un lavoratore subordinato e gli eredi agiscano in giudizio sull'assunto che l'evento morte sia derivato da un inadempimento contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., costituisce ius receptum l'affermazione secondo cui sussiste la competenza per materia del giudice del lavoro in relazione alla domanda di risarcimento dei danni trasmessi agli eredi dal loro dante causa; esulando, per contro, dalla competenza per materia del giudice del lavoro, e restando devoluta alla cognizione del giudice competente secondo il generale criterio del valore, la sola domanda di risarcimento dei danni proposta dai congiunti del lavoratore deceduto non "jure hereditario", per far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro nei confronti del loro dante causa, bensì "jure proprio", quali soggetti che dalla morte del loro congiunto hanno subìto danno e, quindi, quali portatori di un autonomo diritto al risarcimento che ha la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c. (ex multis, Cass. Sent. n. 7684/2015, Cass. n. 20355/2005 e n. 3650/2006).

2.2. Sulla legittimazione attiva.

Sempre in via preliminare, è bene evidenziare che i ricorrenti, come detto, hanno agito, in qualità di eredi di E.D. e le resistenti non hanno mosso, sul punto, alcuna specifica contestazione, per cui deve concludersi per la sussistenza della loro legittimazione attiva iure hereditatis pro-quota.

2.3. Sul merito della causa.

All'esito delle prove acquisite, e, in particolare, in virtù della ricostruzione dei fatti operata dal nominato Ctu - Ing. Felice Martino - sulla base dei dati oggettivi desunti dalla copiosa documentazione versata in atti dalle parti nonché all'esito del sopralluogo eseguito nel corso delle operazioni peritali, può dirsi definitivamente accertato che:

- la Sig.ra D.E. ha prestato la propria attività lavorativa subordinata quale tecnico perfusionista addetto alla circolazione extra corporea, c.d. CEC o macchina cuore -polmone, presso l'Azienda O.P. (già U. n. 4 B. E.), a far data dal 26/04/1988;

- solo a far tempo dall'anno 1991, la U.O. di cardiochirurgia è stata spostata e definitivamente ubicata presso il Centro del Cuore Monoblocco Piastra Tecnica dell'Ospedale di Parma;

- la Sig.ra D.E., nel triennio 1988-91, ovvero nel periodo in cui il reparto di Cardiochirurgia era stato temporaneamente ubicato nel Padiglione di Nefrologia (cfr. anamnesi lavorativa redatta dal Dott. M.S. dell'INAIL), ha prestato servizio al primo piano del Padiglione, in adiacenza del reparto rene acuti, sostando nei locali adibiti a sale operatorie, nei corridoi, in una stanza riservata ai tecnici e nella sala di terapia intensiva;

- durante il sopralluogo n. 2 (cfr. all. verbale) si è appurato che anche al piano seminterrato (locali nn. 019-023, con servizi annessi nei locali nn. 020-021-022 - cfr. planimetrie dell'all. 6 di parte ricorrente - valutazione del Rischio studio Alfa) vi erano locali frequentati dalla Sig. ra D.E., in quanto, nel triennio 1988-91, tali ambienti erano adibiti a spogliatoio per il personale in servizio;

- il CTU ha individuato sostanzialmente 3 sorgenti di amianto aerodisperso negli ambienti di lavoro in cui ha operato la Sig.ra D.E. nel triennio 1988-91:

1) Coibentazioni di tubazioni: raccordi in PVC della macchina cuore-polmone, tubi a parete che portavano acqua calda direttamente dalla centrale termica, tubazioni nel locale 019 adibito a spogliatoio: a riguardo, il CTU, a pag. 6 della relazione, ha precisato: "Premesso che tutte le tubazioni che trasportano fluidi "caldi" (cioè a temperatura superiore a quella ambiente) necessitano di una coibentazione (per ovvie ragioni), all'epoca l'amianto era immancabilmente presente in tali coibentazioni (soprattutto crisotilo, la forma più diffusa delle sei specie di silicati idrati), per le sue ottime qualità termiche e per il suo basso costo)";

2) Pavimentazione vinilica in tutti gli ambienti di lavoro: a riguardo, il CTU, a pag. 7 della relazione, ha precisato: "Siamo, invece, perfettamente d'accordo con quanto scrive il Dott. F.D.V. (responsabile Area Amianto dello studio ALFA - cfr. pag. 3 all. 6 parte ricorrente): "L'analisi del pavimento (campione 155) ha messo in luce la presenza di fibre di amianto nel solo collante, probabilmente appartenente alla pavimentazione vinilica originale e negli anni rimossa e sostituita con la recente pavimentazione senza amianto" Si consideri che il Dott. F. D.V. dello studio ALFA conosce molto bene la realtà degli edifici dell'Università di Parma, per aver personalmente redatto e firmato le Relazioni amianto, relative a tali immobili, degli anni 2012-OMISSIS-2014-2015-2016-2017. Da tali relazioni, peraltro, (fornite al sottoscritto CTU ed attentamente esaminate) si evince chiaramente che, ancora oggi la grande maggioranza dei pavimenti vinilici tuttora in sito contiene amianto. Figuriamoci nel triennio 1988-91, quando l'uso dell'amianto era consentito. Dunque, si ribadisce, quelle fibre di amianto, rilevate dallo studio ALFA nel 2010-11, nel solo collante, appartengono alla pavimentazione vinilica originale";

3) Pannelli di tamponamento (lati esterno ed interno) e porte interne: sul punto, il CTU, a pagg. 8, 9, 10, 11 e 12 della relazione, ha precisato: "Si tratta di lastre di GLASAL (denominazione commerciale) in resina, compresse e stabilizzate in autoclave,ricoperte con smalto minerale: contengono crisotilo (il più comune delle forme di amianto). Idonee per rivestimenti esterni ed interni. Si è fatto un largo uso di tali pannelli, quali tamponature esterne di molti edifici pubblici, soprattutto negli anni 60-70… Nell'edificio in esame (Cardiologia, temporaneamente ubicata nella Nefrologia), come già detto, i pannelli in GLASAL rivestono i tamponamenti, ai piani rialzato e primo (lati esterno ed interno) e si ritrovano anche nelle porte interne dei medesimi piani (circa una ventina per ognuno dei livelli). Per ribadire la pericolosità delle lastre di GLASAL, che il Dott. F.D.V. dello Studio ALFA semplicemente ed efficacemente descrive quali "lastre piane di cemento amianto verniciate" è sufficiente leggere quanto egli scrive nell'all. 6 di parte ricorrente. Riportiamo testualmente: "In sintesi, si ritiene non essere presente una situazione di rischio per gli occupanti dell'edificio… salvo l'adozione di una politica più cautelativa che consideri la maggior delicatezza opportuna in un contesto ospedaliero e la frequentazione dei locali da parte del pubblico"… Ancora il Dott. D.V.: "Pur non ritenendo necessaria l'apposizione di avvertenze (etichettatura) sui pannelli, si ricorda che deve essere minimizzato il disturbo degli stessi durante le operazioni di manutenzione ordinaria e di pulizia. Gli operatori dovranno essere informati della presenza dell'amianto nei materiali e la pulizia degli stessi potrà avvenire preferibilmente con stracci umidi. Si dovrà assolutamente evitare qualsiasi azione invasiva sul MCA tipo l'uso di utensili ad alta velocità: trapani, mole,ecc"…Allora, prima di tutto, va detto che l'apposizione di avvertenze (etichettatura) oltre che dalla logica e dal buon senso, è dettata dalla stessa normativa vigente: D.M. 6 settembre 1994 - punto 4a) - Programma di controllo. - fornire una corretta informazione agli occupanti dell'edificio sulla presenza di amianto nello stabile, sui rischi potenziali e sui comportamenti da adottare; …Quindi il decreto ministeriale parla chiaro: bisogna informare non solo gli "operatori"; ma tutti, indistintamente gli occupanti dell'edificio, quindi anche gli utenti che vengono dal di fuori! E come si può fare, se non apponendo avvertenze che informino sui rischi potenziali e sui comportamenti da adottare ?!? In secondo luogo, quello che il Dott. D.V. qualifica "BUONO" (è lo stato di conservazione delle lastre piane di cementoamianto, e delle porte del reparto) sarà stato pure vero nel 2010-2011 (anni in cui è stato redatto l'all. 6 di parte ricorrente), ma certo non nel 2015 e nel 2017. Infatti, dalla copiosa documentazione fornita al CTU dalla Università degli Studi di Parma, citiamo: 1) Comunicazione Amianto AOPR 2015 - Firmata il 16/04/2015 dal Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione Ing. M.M.; 2) Relazione Amianto 2017- firmata il 29/08/2018 proprio dal Dott. F.D.V.: Riportiamo dal secondo documento (il primo è praticamente identico): MCA 21 Parete (pannello lato interno) 10.02 Clinica Medica e Nefrologia Presente in molti locali ai piani primo e rialzato (E’ IL PANNELLO DI GLASAL). Osservazioni, note, risultanze: Compatto, trattato superficialmente, ma localmente danneggiato (presenza di fori al P1 loc 047 e al Prialz loc 037-050) accessibile, locali frequentati da personale ed utenti) STATO DI CONSERVAZIONE: DISCRETO Bonifica consigliata: restauro dei danneggiamenti. E nei documenti forniti al CTU risultano numerose fotografie di pannelli di GLASAL con presenza di fori…La presenza di fori è risultata pure durante i sopralluoghi effettuati dallo scrivente (cfr. all. verbali e documentazione fotografica). Dunque, ci sembrano più che lecite le seguenti conclusioni: se ancora oggi a n. 27 (ventisette) anni di distanza dalla L. n. 257 del 27 marzo 1992 (ossia quella della "messa al bando" dell'amianto) e dopo che è stata più che acclarata la estrema pericolosità dei pannelli di GLASAL, si continua a reperire fori in tali pannelli, esisteva un qualsiasi impedimento nel triennio 1988-91 alla pratica di forarli per soddisfare le numerose e svariate "esigenze tecniche" ?!? No, nel modo più assoluto! Non esisteva alcun impedimento! La anamnesi lavorativa della Sig.ra E.D., effettuata dal Dott. M.S. dell'INAIL di Parma, per esempio, riporta: "Ricorda anche interventi sulle pareti, ad es. per sostituire prese ed anche da parte dell'idraulico per riparare gli scarichi. Ricorda inoltre che le scaffalature che utilizzava per riporre l'attrezzatura chirurgica erano fissate alla parete e che periodicamente si distaccavano dalla parete stessa, rendendosi necessario l'intervento di manutenzione e ripristino"";

- quanto ai quantitativi d'amianto presenti negli ambienti di lavoro in cui ha operato la Sig. E.D., il CTU ha così concluso:

"1) Coibentazioni di tubazioni

Da Ev@lutil (fonte francese)

- Dei cartoni in amianto erano stoccati in un magazzino, ma non è stata effettuata alcuna manipolazione durante il campionamento: 30 ff/lt

- Valutazione dell'esposizione all'amianto degli operatori dei forni in una vetreria. Si tratta di una esposizione passiva derivante dalla presenza di giunti sotto forma di trecce sui forni: 30 ff/lt.

Dunque un minimo di strofinio su MCA abbastanza compatti (cartoni) ovvero la semplice azione del calore produce tali valori di concentrazioni di fibre. Ma le temperature con cui noi abbiamo a che fare, nel caso in esame, sono notevolmente inferiori, senza alcun dubbio, a quelle che si potevano trovare nei forni di una vetreria. Pertanto operiamo una drastica riduzione al 10% dei suddetti valori: C1 = 3 ff/lt. Una ulteriore riduzione non è neanche proponibile: significherebbe arrivare praticamente a zero, è ciò equivarrebbe ad ignorare un fenomeno fisico che esiste in modo incontestabile: il decomporsi dell'amianto (con relativa dispersione di fibre) per effetto del calore (cioè lo "stress termico", di cui s'è già detto);

2) Pavimentazione vinilica in tutti gli ambienti di lavoro.

Da Institut National de Recherche et de Sécurité (INRS - fonte francese) Situations de travail exposant à l'amiante

- Pulizia pavimento a secco senza aspirazione con singolo disco (spazzola) abrasivo: 1.600 ff/lt;

- Pulizia pavimento a umido senza aspirazione con singolo disco (spazzola) abrasivo a rotazione lenta: 3,8 ff/lt.

Il primo dei valori riportati è senza dubbio abnorme; ed enorme la differenza fra i due. Saremmo portati a considerare quello più basso, ma cerchiamo qualche conferma.

Corso di Formazione-Aggiornamento Regione Emilia Romagna- ARPA- sez. Reggio Emilia (del 25/03/2014). Rimozione pavimento in vinil-amianto, rimozione manuale una mattonella per volta. Tipo di campionamento: personale - Tecnica analitica: M.O.C.F.

Numero di campioni: 15 5 - 15 ff/lt (media 9 ")

Nei primi due valori riportati si parla di "pulizia", gli ultimi considerano la "rimozione". Nel nostro caso è ipotizzabile che ci siano state sia l'una (ordinaria), che l'altra (straordinaria).

Ancora un dato: l'ISPESL ha effettuato dal 1992 al 2002 numerose indagini ambientali in n. 59 scuole, in diverse regioni d'Italia, con pavimenti vinilici.

Tecnica analitica: S.E.M. (Microscopia Elettronica a Scansione)

Risultati: 0,4 ff/lt (83% dei casi) equivalenti in M.O.C.F. a 4 ff/lt 2,2 ff/lt (17% ") " 22 "

Dunque, nella grande maggioranza dei casi indagati, il valore più basso prima trovato si trova confermato e noi prudentemente lo consideriamo: C2 = 3,8 ff/lt;

3) Perforazione di lastre di cemento-amianto

Dalla "Valutazione dell'esposizione all'amianto ai fini dei benefici previdenziali"

Autori: U. V. e G. R. della Direzione Generale INAIL

Perforazione di lastre di cemento amianto: 900 ff/lt

Ma tale valore di concentrazione va ridotto in misura congrua.

Queste, infatti, sono le fibre che "colpiscono" l'operatore e non chi si trova nell'ambiente a qualche metro di distanza: ossia colui che, in linguaggio tecnico, vienedenominato "bystander" (cioè l'assistente, colui che sta vicino; ma che materialmente non sta operando).

In quale misura va effettuata tale notevole riduzione?

"Un metodo pratico per la stima dell'esposizione pregressa ad inquinanti aerodispersi di figure professionali bystander"

Autori: P. D.S. e P. D. della Direzione Regionale Lazio INAIL

Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione (CONTARP)

Tale lavoro presenta un modello deterministico proposto nel 1999 dal Dott. J. W. C. (noto studioso in materia), che, note le concentrazioni tipiche delle lavorazioni emittenti, le dimensioni del locale frequentato e le condizioni di ventilazione, consente di individuare con ragionevole grado di approssimazione la "notevole riduzione".

Valutando quella in esame una situazione intermedia fra il large store (in pratica un ampio capannone industriale) ed una small room (cioè quella delle artigianali vetrerie di Murano), si ritiene prudente considerare esattamente un valore medio fra le due situazioni estreme. E questo perché nei locali di Cardiochirurgia esisteva un impianto di condizionamento. In altri termini, se considerassimo solo le dimensioni dei locali in esame, dovremmo valutare la situazione - chiaramente peggiorativa - della small room; ma, grazie all'impianto che assicurava ricambi d'aria, possiamo considerare - si ribadisce - una riduzione intermedia: 21%

Dunque: 900 ff/lt x 0,21 = 189 ff/lt

Prima di proseguire, va comunque rilevato che "i ricambi d'aria" sono ben diversi dalle "aspirazioni localizzate": sono due cose completamente differenti!

E su tale aspetto torneremo a breve.

Ma dobbiamo applicare una ulteriore riduzione.

Abbiamo considerato un numero annuale di interventi di perforazione/taglio delle lastre di cemento-amianto di: dieci (cioè, in cifra tonda, mediamente uno ogni quaranta giorni), considerati gli ambienti in esame nel loro complesso.

Il numero ipotizzato ci sembra un valore minimo più che verosimile, per i seguenti motivi: a) i locali frequentati dalla Sig.ra E.D. erano numerosi: la due sale operatorie, la sala di terapia intensiva, la sala riservata ai tecnici, corridoi, spogliatoio, servizi igienici, ecc.; b) le porte del reparto (anche esse costituite da pannelli di GLASAL) erano circa venti (al primo piano ed altrettante al piano rialzato); c) "gli ambienti ospedalieri sono soggetti ad interventi tecnici frequenti, anche in ragione della necessità di mantenere sempre la perfetta efficienza" (Dott. M. - INAIL di Parma); d) diversi fori e tagli sono presenti ancora oggi (cfr. documentazione fotografica agli atti); e) nel triennio 1988-91 non esisteva alcun motivo ostativo alla effettuazione di fori e/o tagli nelle lastre di cemento amianto: non era ancora scattato lo "allarme amianto" e, di conseguenza, non esisteva alcuna "avvertenza" che vietasse tale pratica (non esiste ancora oggi !?).

E’ più che nota, d'altra parte, la eccezionale persistenza in aria delle fibre aerodisperse; consideriamo che le 189 ff/lt prima valutate "vadano a zero" (in realtà non vanno mai a zero) nella metà del periodo di tempo considerato (cioè in venti giorni) con legge lineare: ciò significa che per venti giorni avremo mediamente 94.5 ff/lt (e, per i restanti venti del periodo considerato: "zero" fibre, rivenienti da perforazione/taglio di lastre di GLASAL). Quindi, si perviene a 94.50 ff/lt per la metà del tempo totale.

Ed alla metà di tale valore, per l'intero arco di tempo; dunque C3 = 47,25 ff/lt.

Concentrazione di fondo CF

Che esista una concentrazione di fondo è decisamente acclarato ed incontrovertibile.

Che ci piaccia o no, siamo purtroppo soggetti ad una "soglia minima e persistente" di questa fibra "killer" che non è assolutamente possibile eliminare.

Qual è il valore di questa concentrazione di fondo "naturale"?

Ovviamente non è possibile dare una risposta univoca: dipende dagli ambienti (di lavoro e di vita).

Noi abbiamo considerato uno studio effettuato da tre validi studiosi del Regno Unito (2005): J.W.C. (lo abbiamo già citato), M.T. and H.C..

Il titolo della ricerca è: "Exposure and risks from wearing asbestos mitts". Riteniamo che le situazioni riprodotte in tale studio ben si adattino alla nostra: produzione di fibre d'asbesto in locali di dimensioni medio-piccole (cioè non ambienti di "taglia industriale"), in cui vengono anche riprodotte condizioni di ventilazione ("high localised ventilation", dunque equivalenti al nostro impianto di aria condizionata).

Ebbene, al termine di ogni prova (e dopo la relativa misurazione delle fibre emesse), la "camera di prova" veniva ripulita con una cura che potremmo senz'altro definire "maniacale": aspirapolvere ad alta efficienza e salviettine bagnate su tutte le superfici! Dopo aver effettuato tale pulizia (e prima di effettuare la simulazione successiva) si misurava la concentrazione di fibre, per assicurasi che fosse al massimo di 10 ff/lt. In altri termini, sotto a questo valore non si riusciva a scendere: si accettava questa soglia come ineliminabile "concentrazione di fondo". Ora, nel nostro caso, saranno pure stati ambienti con un notevole livello di pulizia (camere operatorie e terapia intensiva!); ma non riteniamo che si desse la "caccia alle fibre d'amianto" con "aspirapolvere ad alta efficienza e salviettine bagnate su tutte le superfici"! Ciò nonostante, prudentemente consideriamo la stessa concentrazione di fondo: 10 ff/lt

Ma possiamo anche trovare una conferma, percorrendo un'altra strada.

Abbiamo già calcolato una concentrazione di fibre (valore medio per il tempo totale) di 94,50/2 = = 47,25 ff/lt (dovuta alla sola perforazione delle lastre di cemento-amianto). Ebbene, applichiamo a questo valore di concentrazione la medesima percentuale di riduzione in precedenza già adoperata (e di cui abbiamo già fornito sufficiente spiegazione), cioè 21%. In altre parole, come se ci trovassimo davanti ad un'altra "fonte emittente" e volessimo calcolare la concentrazione dell'ambientecircostante (cioè proprio la "concentrazione di fondo"!), otteniamo: 47,25 x 0,21 = 9,9225 ff/lt (ossia proprio il valore di cui parla J.W.C.).

Ma diamo anche uno sguardo alla letteratura in materia.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità WHO (World Health Organisation) riporta studi che definiscono accettabile (rischio di  mesotelioma  compreso fra 1/1.000.000 e 1/100.000):

1,0 ff/lt (analisi in SEM) corrispondenti a 10 ff/lt (valutati in MOCF)

Corso di Formazione/Aggiornamento - arpa - Regione OMISSIS(2014)

Valori della "concentrazione di fondo"

Zone valutate in SEM valutate in MOCF

Aree urbane: 0,1- 2 ff/lt 1-20 ff/lt

Aree industriali: 5-40 ff/lt 50-400 ff/lt

Bonifica aree industriali: 2-20 ff/lt 20-200 ff/lt

Aree minerarie attive: 3-10 ff/lt 30-100 ff/lt

Reggio Emilia 1-1,5 ff/lt 10-15 ff/lt

(Autore Sala - Anno 1992)

Ci sembra che il valore della Concentrazione di fondo da noi individuato non sia in contrasto con i dati sopra riportati.

Dunque, questo il risultato dei nostri calcoli:

E = C1 + C2 + C3 + CF = 64,05 ff/lt

E: esposizione alle fibre d'amianto aerodisperso, a cui è andata soggetta la Sig.ra E.D. durante il triennio 1988-91, nei luoghi di lavoro presso la Cardiochirurgia"

… Siamo pervenuti, con una serie di valutazioni, di cui abbiamo dato ampie spiegazioni e delucidazioni, ad una esposizione complessiva a fibre di amianto aerodisperse, nel triennio 1988-91, negli ambienti di lavoro della Cardiochirurgia (all'epoca ubicata nella Nefrologia) di: 64,05 ff/lt (valutazione effettuata in M., equivalente a 6,405 ff/lt in SEM) M.O.C.F. Microscopia Ottica in Contrasto di Fase S. E. M. Microscopia Elettronica a Scansione. Questa, molto verosimilmente, comunque con probabilità certamente superiore al 50%, era la esposizione a fibre d'amianto aero-disperse, a cui è andata soggetta la Sig.ra E.D. negli anni e nei luoghi suddetti. Se confrontiamo tale esposizione con quelle caratteristiche degli opifici industriali (le cosiddette zone calde, in cui "dilagava" un tempo l'amianto) rileviamo che è sicuramente un valore modesto. Teniamo, comunque, presente che le nostre stime sono state sempre "prudenziali". Ciò nonostante siamo pervenuti ad un valore superiore al triplo delle 20 ff/lt (valutato in MOCF), soglia oltre la quale il Decreto del Ministero della Sanità del 06/09/1994 parla di "situazione di inquinamento in atto". Ed abbiamo altresì superato (e, si ribadisce, sempre con valutazioni di estrema prudenza) anche la soglia delle 50 ff/lt, definita dal suddetto D.M. del 6 settembre 1994 "soglia di allarme"".

In definitiva, pertanto, può ritenersi adeguatamente provato, tenuto conto delle conclusioni cui è pervenuto il Ctu, che, in considerazione del contatto diretto della Sig.ra D. con le tre fonti di amianto aerodisperso rinvenibili, nel triennio 1988-91, presso il Padiglione di Nefrologia dell'Azienda O.P. - ossia: 1) Coibentazioni di tubazioni; 2) Pavimentazione vinilica in tutti gli ambienti di lavoro; 3) Pareti in lastre di cemento amianto - oltre che dell'inquinamento di fondo, la lavoratrice ha subito un'esposizione diretta ed indiretta alle fibre di asbesto superiore ai limiti di legge.

Tanto premesso, in ordine al nesso causale tra la nocività dell'attività lavorativa svolta, la patologia contratta dalla Sig.ra E.D. ed il decesso della medesima, si osserva quanto segue.

Prima di affrontare la specifica vicenda clinica della Sig.ra E.D., è opportuno premettere, tenuto conto delle conoscenze acquisite dalla letteratura scientifica in materia e che sono patrimonio comune, che l'amianto è un minerale fibroso friabile la cui pericolosità per l'apparato respiratorio dipende dalla capacità dei materiali che lo contengono di rilasciare fibre potenzialmente respirabili.

Infatti, quando queste sono disperse nell'aria per effetto di qualsiasi sollecitazione (manipolazione/lavorazione, vibrazioni, correnti, etc.), se vengono inalate, si concentrano nei bronchi, negli alveoli polmonari e nella pleura, provocando danni irreversibili. Ne consegue che la pericolosità dei materiali/manufatti contenenti amianto (MCA) è proporzionale alla tendenza a rilasciare fibre e quindi i MCA privi di matrice, o con matrice friabile, caratterizzati da estrema facilità di liberazione di fibre, saranno da considerarsi maggiormente pericolosi rispetto a MCA a matrice compatta, come il cemento-amianto o il vinil-amianto, nei quali la matrice trattiene le fibre impedendone l'aerodispersione. Naturalmente anche i MCA originariamente compatti, con l'avanzamento del degrado, tendono a rilasciare via via un maggior quantitativo di fibre.

Nel 1986, l'OMS ha qualificato come "pericolose" tutte le fibre di amianto di una determinata lunghezza, diametro e rapporto dimensionale lunghezza/diametro, in quanto la pericolosità relativa all'inalazione delle fibre dipende dal grado di penetrazione nelle vie respiratorie, a sua volta dipendente dalle dimensioni delle fibre: quelle a diametro aerodinamico minore (funzione della geometria e della densità della fibra) sono suscettibili di penetrare più a fondo nell'albero bronchiale fino agli alveoli. Le fibre sono definite respirabili, ovvero in grado di giungere nella zona alveolare dell'albero respiratorio, quando abbiano diametro inferiore a 3 Î 1/4m, che nel caso del crisolito corrisponde ad un diametro aerodinamico di circa 10 µm. Le particelle di diametro maggiore, che si depositano nelle vie aree superiori (nasali e tracheo-bronchiali), possono essere eliminate attraverso il trasporto mucociliare dell'epitelio.

Riguardo alla lunghezza, è anche opinione diffusa che fibre di lunghezza superiore a 200-250 Î 1/4m siano troppo grandi per depositarsi nei polmoni e quindi non respirabili a tutti gli effetti.

Il meccanismo alla base della tossicità dell'amianto prevede, quindi, una complessa interazione tra le fibre minerali e i target cellulari, basata su estensione e reattività della superficie della fibra, la sua dimensione e la biopersistenza. Gli effetti nocivi che si manifestano a seguito dell'inalazione di fibre di amianto sono, pertanto, dovute all'instaurarsi di meccanismi patogenetici di natura irritativa, degenerativa e cancerogena.

Nello specifico caso che ci occupa, il Ctu Dr. A.B., sulla base della documentazione medica presente in atti, ha premesso che la Sig.ra E.D. è deceduta in data 4.02.OMISSIS per " Mesotelioma  maligno pleurico diffuso di tipo epitelioide" diagnosticato nel novembre 2010 a seguito di controllo dei marker neoplastici.

Quanto al nesso causale, il perito dell'ufficio ha così argomentato: "Fatta questa premessa, si può affermare che: a) l'esposizione subita dalla sig. D., pur correlata alla sua attività professionale, risulta prevalentemente un'esposizione da contaminazione "ambientale"; b) l'esposizione calcolata dall'ing. Martino è pari a 64 ff/l; c) l'esposizione è limitata ad un periodo di poco superiore a 3 anni.

Ne deriva che, nel caso in esame, l'assorbimento non può essere stato continuativo (intendo esteso a tutto il turno di lavoro) né intenso, sia come media quantitativa giornaliera che come durata. Dunque, possiamo definire l'entità dell'esposizione, nel caso in esame, come esistente, non trascurabile, ma complessivamente moderata

Questi dati vanno tuttavia interpretati alla luce del fatto che non esiste una dose soglia al di sotto della quale la probabilità tende allo zero, benché la frequenza di comparsa della malattia aumenti proporzionalmente con l'incremento dell'esposizione.

Rinviando a successive argomentazioni il fattore esposizione, va preso in esame il secondo fattore determinante per il nesso causale: la latenza, ovvero il periodo ditempo intercorso fra inizio dell'esposizione e manifestazione del tumore. La malattia si può considerare manifestata nell'ottobre 2010 (incremento del Ca125 e riscontro positivo alla TAC torace). Dunque, se l'inizio dell'esposizione è databile all'aprile 1988, il periodo di latenza complessivo risulta pari circa 22 anni; un arco di tempo che, pur inferiore a quello statisticamente prevedibile per il MM (mediana = 40 anni), rende plausibile la correlazione causale fra attività lavorativa svolta dalla D. e la neoplasia, particolarmente alla luce della concomitante patologia mammaria, di cui si dirà più oltre.

Nel caso in esame non esiste poi un problema diagnostico: il tumore è stato inequivocabilmente definito, sia sul piano istologico che immunoistochimico e clinico, come  mesotelioma . Sottolineo, in particolare, l'esito dei test immunoistochimici, che escludono metastasi del carcinoma mammario (ad esempio: positività per la Calretinina; negatività per recettori estrogenici, a fronte di elevata positività nel carcinoma duttale operato). Inoltre, la diagnosi di MM (formulata presso il Brigham And Womens Hospital di Boston) ha trovato conferma nel corso dei ricoveri presso strutture ospedaliere qualificate (IEO) e nei numerosi controlli clinici.

D'altra parte, un corretto inquadramento della neoplasia risultava imprescindibile ai fini del trattamento (chirurgico e chemioterapico), poiché l'attribuzione della patologia pleurica ad un'evoluzione metastatica del carcinoma mammario avrebbe comportato diverse scelte terapeutiche e un diverso percorso clinico.

Occorre ora affrontare un punto di non secondaria importanza: l'esistenza di pregresse esposizioni ad amianto.

L'unica notizia reperibile in anamnesi è relativa ad un'ipotesi di contaminazione indiretta in ambito famigliare (padre vigile del fuoco, convivente fino al 1988). Si tratta di un'informazione vaga, nonostante sia ben nota l'esposizione ad amianto (e il più elevato rischio di patologie asbesto-correlate rispetto alla popolazione non esposta) a cui sono soggetti i vigili del fuoco.

Si tratterebbe comunque, pur sempre, di un'esposizione indiretta, impossibile da determinare e comunque non paragonabile a quella di operai che negli anni 50-70 erano sottoposti a contaminazione massiva, impregnante anche gli abiti e, conseguentemente, sorgente di diffusione di elevate quantità di fibre nell'ambiente domestico (casi di MM nell'area di Casale Monferrato).

In assenza di dati più precisi, considerando che si tratterebbe di assorbimento indiretto, verosimilmente modesto (fra l'altro il padre non risulta colpito da MM), questa eventuale esposizione dovrebbe essere considerata non rilevante per il nesso causale, oltre che non determinabile proprio per la sua dimensione. Applicando poi il criterio della dose cumulativa e quello dell'accelerazione dell'evento, l'eventuale contaminazione in ambito famigliare potrebbe aver costituito - al più - la dose iniziale, con ruolo di concausa debole e non sufficiente, sulla quale si è poi aggiunto l'assorbimento nell'ambiente di lavoro, che avrebbe pur sempre aumentato in misura decisiva il rischio di MM e anticipato l'evento morte. Questa ipotesi, ovviamente, è sviluppata considerando - del tutto astrattamente - un'eventuale contaminazione indiretta, di cui per contro non conosciamo né l'effettiva esistenza, né la dimensione e tanto meno la durata.

In sintesi: un'esposizione indiretta, correlata alla professione del padre, resta una mera ipotesi, non convalidata da alcun dato, non suscettibile di accertamento né di misurazione e probabilmente poco o nulla significativa.

Infine, controfattualmente, l'assenza di tale esposizione non porterebbe ad alcun indebolimento del ruolo giocato dall'ambiente di lavoro.

Non la si considererà pertanto come possibile fattore concausale nel determinismo del MM della sig.ra D..

Sembra superfluo aggiungere che altre sorgenti di contaminazione del cancerogeno non sono emerse nel corso dell'istruttoria; in ogni caso non sarebbero compatibili con la storia lavorativa della vittima.

La ricostruzione del nesso causale dispone, a questo punto, dei seguenti elementi (che potremmo definire come indizi forti e convergenti):

1) nel caso in esame la diagnosi di MM è una diagnosi clinicamente e istologicamente certa, nonché convalidata dai test immunoistochimici (ovvero, non si tratta di carcinoma polmonare né di secondarizzazione della neoplasia mammaria risalente al 2007 e nemmeno di altri tipi di metastasi);

2) lo sviluppo del MM è causalmente riferibile, in via pressoché esclusiva, all'esposizione a fibre di amianto e non ad altri fattori patogeni;

3) la dott.ssa D. è stata esposta in misura quantitativamente rilevante (CTU Martino) ad amianto per contaminazione ambientale (ovvero senza intervenire direttamente su manufatti contenenti amianto);

4) l'esposizione ha avuto una durata consistente (non particolarmente prolungata ma nemmeno cronologicamente trascurabile: più di 3 anni);

5) il periodo di latenza fra inizio dell'esposizione e manifestazione del tumore (oltre 20 anni), pur collocandosi fuori range rispetto a quanto statisticamente previsto per il MM, non contraddice la compatibilità fra esposizione in Az. O. e sviluppo del tumore pleurico".

Sotto quest'ultimo profilo, il CTU ha, in particolare, precisato: "Il 5 punto merita tuttavia una discussione a parte. Come si è detto, il periodo di latenza, benché significativo e compatibile con l'assorbimento di amianto nel triennio 1988-1991, si colloca al di fuori della media/mediana statistica di durata (40 anni +- 12), indebolendo apparentemente la certezza della correlazione causale.

Tuttavia, oltre al fatto che si osservano comunque mesoteliomi con latenze analoghe, nel nostro caso entra in gioco un elemento da considerare decisivo, in grado di spiegare e giustificare questa rapidità di sviluppo (in soli 22 anni il  mesotelioma  ha percorso tutte le tappe, dall'induzione all'evidenza clinica): si tratta della coesistenza del carcinoma mammario e delle relative terapie. È chiaro che la presenza di uncarcinoma con invasione dei vasi linfatici, e soprattutto la radioterapia e la chemioterapia da questo richieste hanno agito con potente effetto facilitante sulle cellule del MM attraverso un indebolimento del sistema immunitario (basti dire che i chemioterapici sembrano agire compromettendo l'attività dei linfociti B per un lungo periodo di tempo). Di fatto, si consideri che la scoperta del MM nella sig.ra D. è del 2011, mentre le terapie per la neoplasia mammaria erano iniziate nel 2007. La contiguità fra le due malattie tumorali è evidente, e consente di ascrivere al primo tumore il ruolo di facilitatore/acceleratore nei confronti del MM.

Un semplice calcolo ci permette di riconoscere la congruità del periodo riservato alle fasi iniziali del MM: detraendo dalla latenza osservata (22 anni) il periodo compreso fra inizio della chemio-radioterapia relativa alla mammella e la diagnosi di MM (meno di 4 anni), i restanti 18 - 19 anni possono considerarsi sufficienti a "contenere" tutto il periodo di induzione e l'inizio della carcinogenesi da amianto (di fatto, il follow-up fra il 2007 e il 2010 non mostrò mai segni riferibili alla seconda neoplasia).

Si noti che la precedente conclusione non equivale ad affermare che in assenza del carcinoma duttale infiltrante il MM non si sarebbe mai sviluppato o sarebbe comparso molti anni dopo, poiché si è già ricordato come non esista una dose soglia sotto la quale il rischio è assente; si vuole invece elaborare un modello esplicativo che giustifichi la rapidità di comparsa (rispetto al carcinoma mammario) e la rapidità evolutiva della neoplasia pleurica (in questo caso anche peritoneale e pericardica).

Procedendo ora alla verifica controfattuale (se, in assenza del carcinoma duttale, sarebbe ugualmente comparso il MM), è evidente che la chemioterapia iniziata nel 2007 non può che aver accelerato/anticipato la comparsa del MM (2010), senza alcun ruolo causale, poiché il periodo di iniziazione/induzione era già da tempo avviato (e valutabile in circa 18 anni).

In altri termini, il marcato indebolimento del sistema immunitario indotto dalle terapie anti-tumorali (e dalla stessa compresenza di una malattia neoplastica), compreso inun periodo di circa 4 anni, può solamente aver anticipato l'affiorare del  mesotelioma  sul piano clinico, senza in alcun modo determinarlo.

Di fatto, la rapidità di comparsa e l'inarrestabile progressione del MM in stretta concomitanza col trattamento descritto per la mammella, confermano indirettamente che il periodo induzione del MM era ormai in stadio molto avanzato. Si potrebbe addirittura ammettere come già iniziato - nel 2007 - l'ultimo stadio di sviluppo del MM, quello della proliferazione e disseminazione irreversibile del processo neoplastico.

Quest'ultima considerazione soddisfa pienamente la verifica controfattuale, poiché è possibile affermare, con grado di probabilità prossimo alla certezza, che il MM si sarebbe manifestato anche in assenza della neoplasia mammaria e dei relativi trattamenti, che lo hanno solo anticipato. Non solo: tenendo conto del breve intervallo fra chemioterapia per il carcinoma duttale e comparsa delle lesioni pleuriche (solo 4 anni), e, conseguentemente, dello stadio raggiunto dal MM già nel 2007, si può concludere che anche l'anticipo indotto dalla chemioterapia sia stato modesto, benché rilevante.

Il modello esplicativo relativo alla storia naturale del MM nel caso di specie può dunque essere così descritto. In seguito ad esposizione prevalentemente ambientale subita dalla sig.ra D. nel triennio 1988-1991, inizia quel processo di induzione che si concluderà con lo sviluppo di un MM. L'esposizione non è quantitativamente elevata ma ugualmente rilevante; si protrae per un periodo di tempo non particolarmente prolungato, ma in ogni caso sufficiente per l'innesco: non esiste dose soglia per il MM. L'esposizione cessa con trasferimento del Reparto in altra sede di nuova costruzione. Trascorrono 16 anni asintomatici (19 dall'inizio dell'esposizione). Nel 2007 viene diagnosticato un carcinoma duttale infiltrante della mammella, che comporta, oltre alla quadrantectomia e alla radioterapia, l'inizio della chemioterapia, che si protrae fino al settembre 2008. Fra il 2007 e l'ottobre 2010 nessun segno è riferibile a  mesotelioma  al follow-up per la neoplasia mammaria. Nel novembre 2010la PET total body risulta positiva per localizzazioni pleuriche di malattia neoplastica (MM). Sono trascorsi appena 3 anni dall'inizio della chemioterapia; il che significa che il  mesotelioma  aveva ormai concluso la fase di induzione progredendo a quella finale di latenza clinica: ed è a questo punto che esplode manifestandosi anche clinicamente, anticipato dal disordine immunitario indotto dal carcinoma mammario e dalle terapie anti-tumorali. Va sottolineato che in questa ricostruzione assumono particolare valore gli approfonditi controlli eseguiti dalla paziente a partire dal 2007, sempre negativi per secondarismi e altrettanto negativi per interessamento delle sierose fino agli ultimi mesi del 2010: la repentina comparsa di lesioni pleuriche nell'ottobre 2010 può significare solo, lo si ripete, che il MM era già presente e in stadio molto avanzato. In buona sostanza, la brevissima latenza di comparsa rispetto al tumore mammario indica che anche in assenza di questo il MM avrebbe presto raggiunto la fase di tumore conclamato.

Si può quindi concludere che il carcinoma duttale e le relative terapie hanno sì influenzato il MM, ma che questa influenza, lungi dall'essere interpretabile come aggravamento e/o accelerazione dello sviluppo, si è limitata ad anticiparne gli aspetti fenomenici".

Il perito dell'Ufficio, dunque, in risposta al quesito posto dal Giudicante, ha concluso nei seguenti termini: "Disponiamo di elementi concordanti per asserire l'esistenza di un nesso causale fra l'esposizione della sig.ra D. in Az. O. e lo sviluppo del MM che ha portato la paziente al decesso il 4/2/OMISSIS, a poco più di due anni dalla diagnosi e trascorsi 25 anni dall'inizio dell'esposizione. Insufficiente la rilevanza - sul piano quantitativo - dell'esposizione indiretta in ambito famigliare, di cui peraltro non si hanno notizie, e che resta confinata all'ambito delle mere ipotesi; irrilevante sotto il profilo causale la chemioterapia per carcinoma mammario che ha anticipato l'espressione di un tumore già in stadio avanzato e che si sarebbe comunque manifestato nel breve-medio termine. Del ruolo assunto dalla neoplasia mammaria si è dato ampio riscontro nelle precedenti considerazioni".

Le conclusioni del consulente d'ufficio, appaiono pienamente condivisibili, in quanto esaurientemente motivate, immuni da vizi logici e giuridici, supportate dagli studi e dalla letteratura scientifica dettagliatamente riportata.

In ordine alla sussistenza del nesso causale, osserva, in particolare, il giudicante che le conclusioni riferite dal CTU medico legale, debbono peraltro essere inquadrate nell'ambito dei principi giuridici che regolano il nesso di causalità.

Segnatamente, in assenza di norme civili che regolino il rapporto di causalità, occorre fare riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p.

Ebbene, in base a tali principi, un evento è da considerare "causato" da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo in assenza del secondo non si sarebbe verificato hic et nunc, ovvero nei termini di tempo e nelle precise circostanze in cui si è manifestato (Cass. pen. Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 576).

La valutazione del nesso di causalità, sotto il profilo della dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, deve essere compiuta sulla base delle migliori cognizioni scientifiche disponibili.

Ove, tuttavia, esse non consentano un'assoluta certezza della derivazione causale, la regola di giudizio muta sostanzialmente nel processo penale e in quello civile, "in quanto, nel primo, vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre, nel secondo, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e per contro, l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti (in questo senso, vedasi: Cass. S.U. 11/01/2008, n. 576; Cass. S.U. 11/01/2008, n. 582. Cass.16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238).

Detto principio ha avuto larga diffusione in tema di prova del nesso causale.

Si è, in particolare, precisato come lo standard di "certezza probabilistica" in materia civile non possa essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma vada, per contro, verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana).

In tale ottica, nello schema generale della probabilità come relazione logica, va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). Sennonché, esigenze di coerenza e di armonia dell'intero processo civile comportano che tale principio della probabilità prevalente si applichi anche allorché vi sia un problema di scelta di una delle ipotesi, tra loro incompatibili o contraddittorie, sul fatto, quando tali ipotesi abbiano ottenuto gradi di conferma sulla base degli elementi di prova disponibili; in questo caso, la scelta da porre a base della decisione di natura civile va compiuta applicando il criterio della probabilità prevalente.

Occorrerà, cioè, in sede di decisione sul fatto, scegliere l'ipotesi che riceve il supporto relativamente maggiore sulla base degli elementi di prova complessivamente disponibili; trattasi, quindi, di una scelta comparativa e relativa all'interno di un campo rappresentato da alcune ipotesi dotate di senso, perché in vario grado probabili, e caratterizzato da un numero finito di elementi di prova favorevoli all'una o all'altra ipotesi (vedasi, ex multis, Cass., 5 maggio 2009 n. 10285).

Tanto premesso in ordine ai principi, sostanziali e processuali, che governano l'accertamento della causalità in sede civile, occorre evidenziare come - secondo la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione penale - in caso di morte conseguente a una grave patologia neoplastica, eziologicamente riconducibile ad esposizione ad amianto avvenuta durante la prestazione di attività lavorativa, la condotta imputabile al soggetto responsabile dell'esposizione ad amianto sia di natura commissiva e non omissiva, venendo in rilievo, prima ancora della mancata adozione di idonee misure di protezione della salute del lavoratore, l'esposizione dello stesso lavoratore all'azione oncogena di uno specifico fattore di rischio.

A riguardo, si è, in particolare, precisato che "l'esposizione all'agente lesivo in modo improprio è frutto di una determinazione di tipo organizzativo che ha evidentemente un rilievo condizionante, giacché, se il lavoratore non fosse stato addetto a quella pericolosa lavorazione, l'evento non si sarebbe verificato" e che, dunque, "la condotta attribuibile ai responsabili dell'azienda è, nel suo nucleo significativo, attiva" (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini e altri, Rv. 248943); in tale prospettiva, quindi, "la componente omissiva, in realtà, attiene alla connotazione colposa della condotta, essendo costituita dalla mancata adozione delle misure prevenzionali imposte dalla legge".

Ebbene, risulta d'immediata evidenza come un simile rilievo non abbia valore meramente teorico, essendo, per contro, suscettibile di indirizzare l'accertamento giudiziario, sia per il versante del soggetto attivo, che sul piano del nesso di causalità (Cass. pen., 7 dicembre 2017 n. 55005; Cass., pen., 31 gennaio 2018 n. 4560).

Sotto quest'ultimo profilo, in particolare, la qualificazione della condotta come di natura commissiva semplifica l'accertamento del nesso di condizionamento (che, come noto, in tema di causalità omissiva, si atteggia quale accertamento doppiamente ipotetico), potendosi il giudice limitare, sotto il profilo eziologico, ad escludere l'incidenza, nel caso concreto, di eventuali decorsi alternativi, essendo esonerato dall'ulteriore compito di accertare anche l'idoneità della condotta lecita omessa ad impedire la verificazione dell'evento dannoso.

Di talché, alla stregua delle conclusioni riportate dal perito dell'ufficio in punto di esclusione di fattori alternativi, deve giocoforza ritenersi accertato, nell'ipotesi de qua, il nesso di causalità tra la nocività ambientale, la patologia neoplastica contratta dalla lavoratrice e il decesso della medesima.

Ma, anche a voler qualificare la fattispecie in controversia, in aderenza all'indirizzo giurisprudenziale più risalente, quale ipotesi d'imputazione dell'evento di danno ad omissione colposa - ipotesi in cui la riferibilità causale dell'evento alla condotta omissiva postula, oltreché l'esclusione di decorsi alternativi, anche l'accertamento che l'evento non si sarebbe verificato se l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli - la conclusione non muta.

Anche in questo caso, invero, lo standard di "certezza probabilistica" richiesto non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), dovendo, invece, essere verificato - come già detto - sulla base degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana).

Segnatamente, tale metodo baconiano è basato sull'induzione eliminatoria, nel senso che un asserto è considerato tanto più probabile quante più ipotesi alternative ad esso sono state considerate e poi eliminate per falsificazione.

A riguardo, giova preliminarmente evidenziare come le norme di prevenzione che risultano violate ad opera di parte datoriale sono molteplici.

Gli articoli 2087 del c.c. e 32 della Costituzione prevedono espressamente che "l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro" ed "il riconoscimento della tutela della salute come diritto dell’’individuo e interesse della collettività".

Il D.P.R. n. 547 del 1955 e il D.P.R. n. 303 del 1956, in relazione alle conoscenze scientifiche del tempo, prevedevano alcuni criteri generali di prevenzione per quanto riguarda le polveri in generale.

Indicavano, in particolare, le misure da adottare, individuando una serie di sostanze che implicavano "situazioni di maggior gravità" per le quali anche la liberazione di modeste quantità di polveri doveva essere prevenuta con adozione di mezzi generali e individuali di protezione.

In particolare, il D.P.R. n. 303 del 1956, che riguardava le norme generali per l'igiene del lavoro:

- all'Art. 4, rubricato "Obblighi dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti", prevedeva: "I datori di lavoro, i dirigenti e i preposti che esercitano, dirigono o sovraintendono alle attività indicate all'art. 1, devono, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze:

a) attuare le misure di igiene previste nel presente decreto;

b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti;

c) fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione;

d) disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di igiene ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione";

- all'Art. 9, rubricato "Aerazione dei luoghi di lavoro chiusi", prevedeva: "1. Nei luoghi di lavoro chiusi, è necessario far sì che tenendo conto dei metodi di lavoro e degli sforzi fisici ai quali sono sottoposti i lavoratori, essi dispongano di aria salubre in quantità sufficiente, anche ottenuta con impianti di areazione. 2. Se viene utilizzato un impianto di aerazione, esso deve essere sempre mantenuto funzionante. Ogni eventuale guasto deve essere segnalato da un sistema di controllo, quando ciò è necessario per salvaguardare la salute dei lavoratori";

- che, all'Art. 21, rubricato "Difesa contro le polveri", stabiliva: "Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro.

Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nella atmosfera.

Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad impedirne la dispersione. L'aspirazione deve essere effettuata, per quanto possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri.

Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate nel comma precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve provvedere all'inumidimento del materiale stesso.

Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e la eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano rientrare nell'ambiente di lavoro.

Nei lavori all'aperto e nei lavori di breve durata e quando la natura e la concentrazione delle polveri non esigano l'attuazione dei provvedimenti tecnici indicati ai commi precedenti, e non possano essere causa di danno o di incomodo al vicinato, l'Ispettorato del lavoro può esonerare il datore di lavoro dagli obblighi previsti dai commi precedenti, prescrivendo, in sostituzione, ove sia necessario, mezzi personali di protezione.

I mezzi personali possono, altresì, essere prescritti dall'Ispettorato del lavoro, ad integrazione dei provvedimenti previsti al comma terzo e quarto del presente articolo, in quelle operazioni in cui, per particolari difficoltà d'ordine tecnico, i predetti provvedimenti non sono atti a garantire efficacemente la protezione dei lavoratori contro le polveri".

Nel 1965, con il D.P.R. n. 1124 del 1965 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), è stata emanata la prima norma specifica riguardante l'amianto.

Nel Capo VIII (articoli 140-177) sono state, infatti, emanate le disposizioni speciali per la silicosi e l'asbestosi al fine di prevenire, tra le altre cose, le patologie dei soggetti esposti in modo continuativo all'amianto in ambito lavorativo.

Nel decreto, non si faceva cenno ad alcun limite di concentrazione nell'aria della sostanza, e si sottolineava l'importanza del controllo sanitario degli esposti per prevenire l'asbestosi, controllo che doveva, all'epoca, giovarsi di un periodico esame radiologico effettuato secondo modalità standardizzate e con risposta e classificazione secondo un codice internazionale ILO-BIT. La visita medica doveva essere effettuata secondo precisi indicatori semiologici e il risultato obiettivo e diagnostico trascritto in una dettagliata cartella medica personale.

Si riportano, in particolare, alcuni articoli:

Art. 157: "I lavoratori, prima di essere adibiti alle lavorazioni di cui all'art. 140, e, comunque, non oltre cinque giorni da quello in cui sono stati adibiti alle lavorazioni stesse, debbono essere sottoposti, a cura e a spese del datore di lavoro, a visita medica da eseguirsi dal medico di fabbrica, oppure da enti a ciò autorizzati, secondo le modalità di cui agli artt. 158 e seguenti, allo scopo di accertarne l'idoneità fisica alle lavorazioni suddette.

Detti accertamenti debbono essere ripetuti ad intervalli non superiori ad un anno, ugualmente a cura e a spese del datore di lavoro".

Art. 160: "La visita medica di cui all'art. 157, comprende, oltre l'esame clinico, anche una radiografia del torace comprendente l'intero ambito polmonare".

La prima ordinanza specifica per l'amianto è rappresentata dall'Ordinanza del Ministero della Sanità del 26 giugno 1986, che dispone una restrizione alla commercializzazione e all'uso della crocidolite e dei prodotti che la contengono imponendo come termine ultimo l'aprile 1991. Tale ordinanza scaturisce dalle ricerche scientifiche ed epidemiologiche che, già in quel tempo, avevano accreditato la crocidolite (amianto blu) di un maggiore potere oncogeno.

Alla predetta ordinanza è seguita la Circolare del 1 luglio 1986 n. 42 del Ministero della Sanità, che ha fornito indicazioni esplicative per l'applicazione dell'ordinanza del 26 giugno 1986, seguita, infine, dalla Circolare del Ministero della Sanità del 10 luglio 1986 n. 45, che ha disposto un "piano di interventi e di misure per l'individuazione e l'eliminazione del rischio connesso all'impiego di materiali contenenti amianto in edifici scolastici e ospedalieri pubblici e privati".

Restrizioni più consistenti sono state, quindi, introdotte con il D.P.R. n. 215 del 24 maggio 1988, con cui è stato sancito il divieto di commercializzazione e di uso esteso a tutti i tipi di amianto contenuti in una serie di prodotti anche se, per alcuni di questi prodotti, è stata prevista una deroga sino all'aprile 1991.

È stata anche disposta l'introduzione dell'etichettatura dei rifiuti contenenti l'amianto ancora in commercio.

Con la L. n. 257 del 27 marzo 1992, è stato sancito, in Italia, il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione, produzione di amianto o prodotti contenenti amianto.

Con norme successive, che hanno recepito regolamenti europei - come il R. (Registration, Evaluation, Authorization,and Restriction of Chemicals) e il CLP (Classification, Labelling and Packaging) - sono stati, infine, introdotti restrizioni, divieti ed obblighi ulteriori, mediante la predisposizione di norme specifiche per la tutela dei lavoratori dall'esposizione all'amianto; norme che hanno di fatto anticipato le più dettagliate prescrizioni in tema di organizzazione della tutela della salute successivamente introdotte, dapprima con il D.Lgs. n. 626 del 1994, e, poi, con il D.Lgs. n. 81 del 2008.

Ciò posto, dunque, poiché le norme di prevenzione violate sono molte e non è possibile escludere, sulla base del principio "del più probabile che non", un'incidenza causale di ciascuna di esse nella riduzione del rischio, anche a voler prescindere dalla ricostruzione di recente patrocinata dalla giurisprudenza penale e qualificare la condotta datoriale come omissiva, dovrebbe, comunque, ritenersi dimostrata la sussistenza di un nesso causale tra la condotta (omissiva) delle convenute e la patologia che ha causato il decesso della sig.ra D..

Ciò posto, giova evidenziare che i ricorrenti hanno agito, iure hereditatis, facendo valere la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. gravante sul datore di lavoro; la norma citata, secondo la quale "l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro" configura una responsabilità, in capo al datore di lavoro, di natura contrattuale, per i danni alla salute psico-fisica del lavoratore e alla sua personalità morale, atteso che l'art. 2087 c.c. deve essere letto alla luce dell'art. 1218 c.c. e, conseguentemente, provato da parte del lavoratore il danno, l'insalubrità dell'ambiente di lavoro e il nesso causale tra il secondo e il primo, spetta al datore di lavoro provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, provare cioè che l'inadempimento è stato determinato da "impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile".

Come noto, la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non è, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (Cfr. Sez. L., n.644 del 14 gennaio 2005; Sez. L., Sentenza n. 24217 del 13/10/2017).

Dunque, mentre nel caso in esame i ricorrenti - eredi del lavoratore - hanno provato l'insalubrità dell'ambiente lavorativo (esposizione ad amianto) ed il danno ( mesotelioma /danno alla salute psicofisica/decesso), alcuna prova hanno dato le resistenti di aver adottato, per tutto il periodo di esposizione, misure atte ad evitare o a ridurre inalazione di fibre di amianto da parte degli operatori sanitari, né predisponendo dispositivi atti ad evitare l'esposizione, né impartendo un'adeguata informazione/formazione ai predetti operatori sui pericoli connessi all'esposizione ad amianto; parte datoriale, anzi, sostenendo la tesi della non conoscibilità, all'epoca della presunta esposizione, della pericolosità dell'amianto (oltreché della presenza di amianto presso gli ambienti di lavoro frequentati dalla Dott.ssa D.), hanno implicitamente confermato che alcun accorgimento specifico è stato adottato.

Non può nemmeno dirsi che il datore di lavoro vada esente da responsabilità in quanto non sia possibile provare che la rigorosa osservanza, da parte sua, della normativa vigente all'epoca in cui si ritiene che la lavoratrice abbia assorbito l'amianto e l'adozione di comportamenti suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche dell'epoca avrebbero evitato l'evento dannoso con alto grado di probabilità.

Le datrici di lavoro resistenti, infatti, non solo non hanno dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma è anche emerso - alla stregua di quanto osservato - che le stesse non hanno adottato alcun mezzo di protezione dei lavoratori affinché gli stessi fossero tutelati dall'inalazione di fibre di amianto.

Sono state, pertanto, violate le regole enucleabili dall'art. 2087 c.c. ma anche i precetti di cui al D.P.R. n. 303 del 1956, in precedenza indicati.

Si osserva, peraltro, come la conoscenza della pericolosità dell'amianto fosse già diffusa all'epoca del verificarsi dell'esposizione della lavoratrice, poiché, come detto, già dal 1943, era in vigore una legge - L. 12 aprile 1943, n. 455 - sull'assicurazione obbligatoria contro la silicosi e l'asbestosi, non rilevando, per contro, ai fini dell'affermazione della responsabilità del datore di lavoro, la conoscenza dell'evento dannoso conseguente alla esposizione insalubre (silicosi, asbestosi,  mesotelioma , cancro, placche ecc.), quanto la conoscenza della dannosità della materia alla quale è stata esposta la lavoratrice senza adottare le più opportune precauzioni.

Peraltro, se fosse dimostrato che l'adozione di alcuna misura era in grado di evitare pericoli per la salute della lavoratrice, si dovrebbe, allora, concludere che la lavoratrice non doveva essere esposta all'inalazione di fibre di amianto.

Tali conclusioni, oltreché discendere dalla rigorosa applicazione del dettato normativo in precedenza richiamato, sono peraltro pacifiche presso la giurisprudenza di legittimità.

Anche recentemente la S.C. ha, invero, precisato come "in materia di tutela della salute del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, sicché, con riferimento alle patologie correlate all'amianto, l'obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del D.P.R. n. 1124 del 1965 all'art. 21 del D.P.R. n. 303 del 1956 - norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall'inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l'esistenza - comporta che non sia sufficiente, ai fini dell'esonero da responsabilità, l'affermazione dell'ignoranza della nocività dell'amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv, "threshold limit value"), poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l'adozione delle misure di prevenzione prescritte" (vedasi, sul punto, Cass. n. 18503 del 21/09/2016) ed, altresì, che "in tema di responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l'esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo, in caso contrario, a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie" (vedasi, sul punto, Cass. n. 10425 del 14/05/2014).

Facendo, dunque, applicazione dei predetti principi di diritto, deve, dunque, ritenersi, con un grado di probabilità vicino alla certezza, che l'esposizione ad amianto subita presso la datrice di lavoro, abbia causato - per le ragioni ampiamente esposte dal perito dell'Ufficio nella consulenza tecnica in atti - il  mesotelioma  pleurico che ha poi condotto a morte la Sig.ra E.D..

Deve pertanto accertarsi e accertarsi e dichiararsi che la malattia patita in vita dalla Sig.ra E.D. e che ne ha causato la morte ( mesotelioma pleurico) è ascrivile alla responsabilità contrattuale delle resistenti, con conseguente obbligo risarcitorio in capo alle stesse.

Quanto al risarcimento del danno non patrimoniale, devono brevemente richiamarsi i principi espressi dalle SS.UU. 26972 del 11/11/2018 (c.d. sentenze di San Martino), secondo le quali l'art. 2059 cod. civ. non disciplina un'autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c.: e, cioè, la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso. L'unica differenza tra il danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che quest'ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge.

Ad avviso del S.C., secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ., che il danno non patrimoniale sia risarcibile nei soli casi "previsti dalla legge" significa che esso è risarcibile: (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; (b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di un'ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso, la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); (c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso, la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati "ex ante" dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice.

In tale ultimo caso (danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti), il danno non patrimoniale è risarcibile - sempre sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ. - anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l'interesse leso - e non il pregiudizio sofferto - abbia rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità; (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.

Pertanto, il danno non patrimoniale, quando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile sia quando derivi da un fatto illecito, sia quando scaturisca da un inadempimento contrattuale.

Quanto ai criteri di liquidazione, il S.C. ha, altresì, precisato che il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, con la conseguenza che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale. Peraltro, quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato, spetta alla vittima il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, ivi compreso il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva causata dal reato, ove tale pregiudizio può essere permanente o temporaneo (circostanze delle quali occorre tenere conto in sede di liquidazione, ma irrilevanti ai fini della risarcibilità), e può sussistere sia da solo, sia unitamente ad altri tipi di pregiudizi non patrimoniali (ad es., derivanti da lesioni personali o dalla morte di un congiunto): in quest'ultimo caso, però, di esso il giudice dovrà tenere conto nella personalizzazione del danno biologico o di quello causato dall'evento luttuoso, mentre non ne è consentita una autonoma liquidazione.

Non è, inoltre, ammissibile, nel nostro ordinamento, l'autonoma categoria di "danno esistenziale", inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel "danno esistenziale" si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all'art. 2059 cod. civ.

Nonostante le successive decisioni delle sezioni semplici - le quali paiono discostarsi da tali assunti sotto vari aspetti - ritiene il Giudicante di attenersi ai principi espressi dalle SS.UU. che ricostruiscono compiutamente la nozione del danno non patrimoniale.

Per quanto attiene allo specifico caso in esame, inoltre, vertendosi nell'ambito del risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni, deve rilevarsi come non vi sia alcun contrasto nella giurisprudenza della Corte (che prende le mosse dalla sentenza delle sezioni unite del 22 dicembre 1925) sul diritto iure hereditatis al risarcimento dei danni che si verificano nel periodo che va dal momento in cui sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse, diritto che si acquisisce al patrimonio del danneggiato e, quindi, è suscettibile di trasmissione agli eredi.

L'unica distinzione che si registra negli orientamenti giurisprudenziali riguarda la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno da risarcire che, da un orientamento, con "mera sintesi descrittiva" (cass. n. 26972 del 2008), è indicato come "danno biologico terminale" (cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 1704 del 1997, n. 24 del 2002, n. 3728 del 2002, n. 7632 del 2003, n 9620 del 2003, n. 11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549 del 2004, n. 1877 del 2006, n. 9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del 2007, n. 1072 del 2011) - liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui alla sentenza n. 12408 del 2011) ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno - e che, per contro, da altro orientamento, è classificato come danno "catastrofale" (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni).

Il danno "catastrofale", inoltre, per alcune decisioni, ha natura di danno morale soggettivo (cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010, n. 8630 del 2010, n. 13672 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n. 7126 del OMISSIS, n. 13537 del 2014) e, per altre, di danno biologico psichico (Cass. n. 4783 del 2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072 del 2011).

Ma da tali incertezze non sembrano derivare differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni perché, come già osservato, anche in caso di utilizzazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli raggiungibili con l'utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno morale (vedasi, sul punto, Cass. SS.UU. 15350/2015).

Da ultimo, deve darsi atto che - poiché, in via di principio, nella liquidazione del danno non patrimoniale, non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, il ricorso ad una liquidazione equitativa pura non fondata su criteri obiettivi (i soli idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto e a consentire la verifica ex post del ragionamento seguito dal giudice in ordine all'apprezzamento della gravità del danno, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo) - per garantire l'adeguata valutazione del caso concreto e l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, sembra equo, in assenza di altri parametri, adottare il criterio di liquidazione predisposto dalle recenti predisposte dall'Osservatorio Civile del Tribunale di Milano per la liquidazione del c.d. "danno terminale".

Tali tabelle tengono conto dei seguenti principi:

- l'unitarietà ed omni-comprensività del concetto di "danno terminale", che, come detto, alla luce dell'insegnamento delle Sezioni Unite nelle sentenze gemelle dell'11 novembre 2008, nn. 26972-3-4-5, ricomprende al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente (e, dunque, i pregiudizi altrimenti definiti come "danno biologico terminale", da "lucida agonia" o "morale catastrofale", nonché il danno biologico temporaneo "ordinario", da intendersi in esso assorbito);

- la durata limitata del danno, derivante dalla stessa definizione del danno come terminale (durata temporanea convenzionalmente stabilita in un periodo massimo di 100 giorni, oltre il quale il danno terminale non può prolungarsi, risultando risarcibile il solo danno biologico temporaneo ordinario);

- la coscienza del danneggiato, non essendo il danno in re ipsa ed occorrendo, quindi, la percezione della fine imminente;

- l'intensità decrescente, basata sull'esperienza medico legale, secondo la quale il danno tende a decrescere col passare del tempo, dal momento che la massima sofferenza è percepita nel periodo immediatamente successivo all'evento lesivo per poi scemare nella fase successiva (tale criterio verosimilmente non è perfettamente in linea con la gravità ingravescente della patologia che ha condotto a morte il de cuius, ma resta, comunque, applicabile anche nella presente fattispecie, sia pure con un calcolo a ritroso, ipotizzando la massima sofferenza nei giorni immediatamente precedenti il decesso);

- il metodo tabellare, che - pur nella ribadita difficoltà di individuare una "regola" che valga per tutte le variegate fenomenologie di danno terminale - assegna a ciascun giorno di sofferenza, nei limiti del tetto di 100 giorni complessivi, un valore progressivamente - e convenzionalmente - decrescente, sino ad agganciarsi, al 100 giorno, alla valutazione del danno biologico temporaneo ordinario, dopo di che torneranno ad applicarsi i valori pro die previsti per il danno biologico temporaneo;

- la quantificazione del danno sulla base di una tabella che prevede la liquidazione di un danno terminale massimo di Euro 30.000 per i primi 3 giorni (valore non ulteriormente personalizzabile), oltre ad Euro 53.234 per i giorni residui dal 4 sino ad arrivare al 100 (personalizzabili sino ad un massimo del 50%); ed in Euro 149 per ciascuno dei giorni di malattia eccedenti i primi cento (99 Euro con aumento personalizzato del 50%).

Dunque, a mente delle Tabelle del Tribunale di Milano dell'8.3.2021, che qui integralmente si richiamano dandosi per trascritte, tenendo conto dei criteri previsti al caso in esame, il danno deve essere quantificato tenendo conto:

- che, nel caso di specie, tra la diagnosi della malattia (che, alla stregua di quanto dichiarato dalla stessa parte ricorrente ed evincibile documentalmente sulla base della cartella clinica della paziente relativa al ricovero all'esito del quale è cronologicamente collocabile la definizione diagnostica della malattia) risalente al 3.12.2010 ed il decesso, occorso in data 4.02.OMISSIS, sono intercorsi 793 giorni;

- che, trattandosi degli ultimi giorni di vita della sig.ra D., deve farsi riferimento ai valori previsti - in assenza di altri parametri - dalla tabella proposta dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano per la liquidazione del c.d. "danno terminale";

- che, quindi, il danno deve essere quantificato in Euro 30.000 per i primi 3 giorni oltre ad Euro 53.234 per i giorni residui sino ad arrivare a 100 (personalizzati fino al massimo del 50%), ed in Euro 103.257,00 per i giorni di malattia eccedenti i primi 100 (somma ottenuta moltiplicando l'importo giornaliero di Euro 149,00 - ovvero il massimo riconoscibile per il danno biologico temporaneo - per il periodo antecedente a tali 100 gg e sino al giorno dell'acquisita consapevolezza del certo sopraggiungere della morte e a prescindere dall'entità della malattia sofferta, che, nel caso in esame, per le ragioni anzidette, si ritiene doversi collocare il 3/12/2010;

- che, la personalizzazione nella misura del 50% è giustificata dalla particolarità della patologia (neoplasia di estrema gravità con prognosi infausta), dalla consapevolezza del de cuius dell'approssimarsi della fine e dalle condizioni fisiche in cui versava nel periodo di riferimento ;

- che, pertanto, il danno iure hereditario deve essere equitativamente quantificato in complessivi Euro 213.108,00, da corrispondersi a ciascuna delle eredi pro-quota.

Secondo quanto stabilito con diverse pronunce dalla Suprema Corte (ex multis: Cass., 8 aprile 2002, n. 5024; Cass., 10 settembre 2010, n. 19348; Cass., 1 luglio 2011, n. 14507), su tale somma spettano poi la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sul capitale annualmente dalla data della sentenza sino al saldo ai sensi dell'art. 429 c.p.c., norma applicabile anche il risarcimento del danno subito dal lavoratore per la mancata predisposizione, da parte dell'imprenditore, delle misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei dipendenti, essendo tale danno di origine contrattuale e strettamente connesso con lo svolgimento del rapporto di lavoro.

Quanto al riconoscimento del danno differenziale, il giudicante si limita ad osservare - nei limiti propri della presente motivazione - che esso discende dalla previsione di cui all'art. 10, commi 6 e 7, D.P.R. n. 1124 del 1965 e 1227 c.c.

Pertanto, il datore di lavoro - qualora non operi la regola dell'esonero - è tenuto a pagare la differenza tra quanto liquidato dall'I.n.a.i.l. e quanto lo stesso è tenuto a pagare in base ai criteri civilistici (c.d. danno differenziale quantitativo) ed a risarcire i danni non coperti dall'assicurazione I.n.a.i.l. (c.d. danno differenziale qualitativo o danno complementare), in quanto "la limitazione dell'azione risarcitoria di quest'ultimo al cosiddetto danno differenziale, nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale (a norma dell'art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965 e delle inerenti pronunce della Corte costituzionale), riguarda solo le componenti del danno coperte dall'assicurazione obbligatoria, la cui individuazione è mutata nel corso degli anni" (vedasi Cass. n. 10834 del 05/05/2010).

Sebbene l'indennizzo I.n.a.i.l. assolva ad una funzione sociale e sia finalizzato a garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore - secondo quanto previsto dall'art. 38 della Cost. - ed il sistema civilistico sia finalizzato a risarcire il danno nella esatta misura in cui si è verificato, tuttavia, "il principio della compensatio lucri cum damno, in forza del quale il risarcimento non deve costituire fonte di lucro per il danneggiato" comporta che "se dal fatto dannoso derivi qualche vantaggio, se ne deve tenere conto nella liquidazione del danno, sottraendolo al risarcimento" (vedasi Cass n. 23563 del 12/09/2008).

Nel caso in esame, tuttavia, si verte nell'ipotesi di danno complementare, ovvero di danno per il quale non è prevista la copertura assicurativa trattandosi di danno terminale/tanatologico, morale e danno biologico temporaneo, con i relativi aumenti per la personalizzazione, atteso che "se non si fa luogo a prestazione previdenziale non c'è assicurazione; mancando l'assicurazione cade l'esonero" (Corte Cost. n. 319 del 1989, 356/1991, 485/1991; ed ancora S.C. n. 10834 del 05/05/2010 citata), ove l'esonero può riguardare soltanto le prestazioni contemplate dall'art. 66 TU 1124/1965, avuto riguardo all'art. 13 D.Lgs. n. 38 del 2000, e, quindi, il danno patrimoniale per inabilità temporanea, il danno biologico permanente dal 6%, il danno patrimoniale dal 16%, la rendita ai superstiti, le spese mediche pagate dall'I.n.a.i.l.

Alla stregua di tutte le considerazioni svolte, deve, dunque, concludersi come da dispositivo.

3. Le spese di lite.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.) e si liquidano come da dispositivo.

Parimenti, le spese di CTU, come separatamente liquidate in corso di causa, debbono essere poste definitivamente a carico delle resistenti.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale di Parma - Sezione Lavoro, in persona del Giudice dott.ssa Ilaria Zampieri, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così provvede:

1) Accerta e dichiara che la malattia patita in vita da E.D. e che ne ha causato la morte è ascrivibile alla responsabilità di Regione OMISSISe Gestione Liquidatoria dell'U.S.L. e, per l'effetto, dichiara tenute e, pertanto, condanna le predette Amministrazioni, in solido, a corrispondere ai ricorrenti, in qualità di eredi di E.D., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dal de cuius, la somma complessiva di Euro 213.108,00, oltre interessi sulla somma annualmente rivalutata dalla data della presente sentenza al saldo, da corrispondersi a ciascun erede pro-quota.

2) Condanna le Amministrazioni resistenti, a rifondere alle parti ricorrenti le spese di lite, che liquida in complessivi Euro 24.000,00 per compensi professionali, Euro 607,00 per spese, oltre IVA CPA e rimborso spese forfettarie nella misura del 15%.

3) Pone definitivamente a carico delle Amministrazioni resistenti le spese di CTU come già separatamente liquidate in corso di causa.

Indica in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione della sentenza.

Così deciso in Parma, il 1 marzo 2022.

Depositata in Cancelleria il 30 agosto 2022.

 


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