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giovedì 10 marzo 2011

Governo: i termini dei procedimenti amministrativi non superiori a 90 giorni del Ministero del lavoro Il Consiglio dei Ministri ha pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale n. 54 del 7 marzo 2011, il D.P.C.M. 22 dicembre 2010, n. 275, con il quale attua l'articolo 2, comma 3, della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi di durata non superiore ai novanta giorni del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 22 dicembre 2010 , n. 275
 
Attuazione dell'articolo 2, comma 3, della legge 7  agosto  1990,  n.
241,  concernente  i  termini   di   conclusione   dei   procedimenti
amministrativi  di  durata  non  superiore  ai  novanta  giorni   del
Ministero del lavoro e delle politiche sociali. (11G0054) 
IL PRESIDENTE 
                     DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 
 
  Vista la legge 7 agosto 1990,  n.  241  e  successive  modifiche  e
integrazioni; 
  Visto, in particolare, l'articolo 2, comma 3, della citata legge  7
agosto 1990, n. 241, come modificato dall'articolo 7 della  legge  18
giugno 2009, n. 69, il quale ha previsto che «con uno o piu'  decreti
del  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,  adottati  ai   sensi
dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto  1988,  n.  400,  su
proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per  la
pubblica amministrazione e l'innovazione  e  per  la  semplificazione
normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta  giorni
entro i quali devono concludersi i procedimenti di  competenza  delle
amministrazioni statali»; 
  Visto il decreto del Ministro per  la  pubblica  amministrazione  e
l'innovazione di concerto con  il  Ministro  per  la  semplificazione
normativa del 12 gennaio 2010, concernente: «Approvazione delle linee
di indirizzo per l'attuazione dell'articolo 7 della legge  18  giugno
2009, n. 69»; 
  Visto il decreto ministeriale 12 gennaio  1995,  n.  227,  recante:
«Regolamento di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 7  agosto
1990,  n.  241,  recante  nuove  norme  in  materia  di  procedimento
amministrativo  e  diritto  d'accesso  ai  documenti  amministrativi,
relativamente ai procedimenti amministrativi di competenza di  organi
dell'Amministrazione del lavoro e della previdenza sociale»; 
  Visto il decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre  2000,
n. 445, recante il «Testo  unico  delle  disposizioni  legislative  e
regolamentari  in  materia  di   documentazione   amministrativa»   e
successive modificazioni e integrazioni; 
  Visto l'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400; 
  Visto il decreto legislativo 30 marzo 2001,  n.  165  e  successive
modifiche e integrazioni; 
  Visto il decreto del Presidente della Repubblica 29 luglio 2004, n.
244, recante: «Regolamento  di  riorganizzazione  del  Ministero  del
lavoro e delle politiche sociali»; 
  Visto il decreto ministeriale 1° dicembre 2004, come modificato dal
decreto ministeriale 31  marzo  2010,  concernente  «l'individuazione
degli uffici di livello dirigenziale non  generale  del  Segretariato
Generale e delle Direzioni Generali e  la  definizione  dei  relativi
compiti»; 
  Udito il parere n. 4696/2010 del Consiglio  di  Stato,  reso  dalla
Sezione consultiva per gli atti normativi nell'adunanza del giorno 25
novembre 2010; 
  Su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche  sociali,  di
concerto  con  il  Ministro  per  la   pubblica   amministrazione   e
l'innovazione ed il Ministro per la semplificazione normativa; 
 
                              Decreta: 
 
                               Art. 1 
 
 
                       Ambito di applicazione 
 
  1. Il presente decreto si applica ai procedimenti amministrativi di
competenza delle strutture del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali, sia che conseguano obbligatoriamente a iniziativa di  parte,
sia che debbano essere promossi d'ufficio, i cui  termini  non  siano
superiori a novanta giorni. 
  2. Ciascun procedimento si conclude  nel  termine  stabilito  nelle
tabelle allegate, che costituiscono  parte  integrante  del  presente
regolamento. Ai procedimenti non ricompresi nelle tabelle allegate si
applicano i termini di conclusione previsti da fonti legislative,  o,
in mancanza, il termine di trenta giorni di cui all'articolo 2  della
legge 7 agosto 1990, n. 241. 
Art. 2 
 
 
                  Disposizioni transitorie e finali 
 
  1. I termini previsti dal presente decreto si  applicano  anche  ai
procedimenti in corso alla data di entrata in vigore dello stesso. 
  2. Il decreto  ministeriale  12  gennaio  1995,  n.  227,  recante:
«Regolamento di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 7  agosto
1990,  n.  241,  recante  nuove  norme  in  materia  di  procedimento
amministrativo  e  diritto  d'accesso  ai  documenti  amministrativi,
relativamente ai procedimenti amministrativi di competenza di  organi
dell'Amministrazione del  lavoro  e  della  previdenza  sociale»,  e'
abrogato. 
  Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sara' inserito
nella  Raccolta  ufficiale  degli  atti  normativi  della  Repubblica
italiana. E' fatto obbligo  a  chiunque  di  osservarlo  e  di  farlo
osservare. 
    Roma, 22 dicembre 2010 
 
                            Il Presidente 
                             Berlusconi 
 
 
          Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali 
                               Sacconi 
 
 
             Il Ministro per la pubblica amministrazione 
                           e l'innovazione 
                              Brunetta 
 
 
            Il Ministro per la semplificazione normativa 
                              Calderoli 
 
 
 
Visto, il Guardasigilli: Alfano 

Registrato alla Corte dei conti il 14 febbraio 2011 
Ufficio controllo atti Ministeri dei servizi alla persona e dei  beni
culturali, registro n. 2, foglio n. 159 
 
allegato n° 1 
 
Allegato n° 2 
 
 

SCOMPARE QUATTORDICENNE, APPELLO GENITORI A CHI L'HA VISTO STAMANI HANNO PRESENTATO DENUNCIA A POLIZIA VIAREGGIO



SCOMPARE QUATTORDICENNE, APPELLO GENITORI A CHI L'HA VISTO
STAMANI HANNO PRESENTATO DENUNCIA A POLIZIA VIAREGGIO
(ANSA) - VIAREGGIO (LUCCA), 10 MAR - Si sono presentati
stamani al commissariato di Viareggio (Lucca) i genitori di
Kimberly Santiago, 14 anni, di origine filippina, studentessa
del primo anno dell'istituto professionale 'Guglielmo Marconi',
per presentare denuncia di scomparsa della figlia. Ieri sera,
senza avvertire precedentemente ne' polizia ne' carabinieri, si
erano rivolti alla trasmissione 'Chi l'Ha visto' per lanciare un
appello alla figlia e convincerla a tornare a casa.
La ragazzina, secondo il loro racconto, ieri non sarebbe
andata a scuola e non ha fatto ritorno a casa. Loro la credevano
da un'amica ma non vedendola tornare a casa la sera si sono
rivolti alla trasmissione di Rai Tre. La speranza e' che la
ragazza sia andata a Milano per raggiungere degli amici
conosciuti durante il Carnevale di Viareggio.
Al momento l'appello dei genitori non e' servito e sono state
attivate tutte le procedure per le ricerche. I due telefonini
cellulari in suo possesso di Kimberly, che ha due fratelli, non
sono raggiungibili. (ANSA).

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10-MAR-11 12:07 NNNN

Corte Costituzionale 'Nel definire le caratteristiche delle uniformi degli addetti alla polizia locale, le richiamate disposizioni prevedrebbero, infatti, colori, forme, mostreggiature e gradi somiglianti a quelli delle uniformi in uso alla polizia di Stato: ciò, in contrasto con quanto stabilito dall’art. 6 della legge n. 65 del 1986, secondo cui le divise della polizia municipale devono essere tali da escludere la «stretta somiglianza» con quelle delle Forze di polizia e delle Forze armate dello Stato.'

SENTENZA N. 35
ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo                         DE SIERVO                                                  Presidente
- Paolo                       MADDALENA                                               Giudice
- Alfio                       FINOCCHIARO                                                 
- Alfonso                   QUARANTA                                                       
- Franco                     GALLO                                                                
- Luigi                       MAZZELLA                                                        
- Gaetano                  SILVESTRI                                                         
- Sabino                     CASSESE                                                            
- Giuseppe                 TESAURO                                                           
- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                   
- Giuseppe                 FRIGO                                                                 
- Alessandro              CRISCUOLO                                                      
- Paolo                       GROSSI                                                               
- Giorgio                    LATTANZI                                                          
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, commi 2, lettere c) e q), e 4; 11, comma 1, lettera d); 19, con l’allegato A; 20; 21, con l’allegato E; 22, con l’allegato D, e 26 della legge della Regione Basilicata 29 dicembre 2009, n. 41 (Polizia locale e politiche di sicurezza urbana), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 1°-4 marzo 2010, depositato in cancelleria il 10 marzo 2010 ed iscritto al n. 41 del registro ricorsi 2010.
Udito nell’udienza pubblica del 14 dicembre 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
udito l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 1° marzo 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettere h) ed l), della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale in via principale degli artt. 4, commi 2, lettere c) e q), e 4; 11, comma 1, lettera d); 19, con l’allegato A; 20; 21, con l’allegato E; 22, con l’allegato D, e 26 della legge della Regione Basilicata 29 dicembre 2009, n. 41 (Polizia locale e politiche di sicurezza urbana).
Il ricorrente premette che la citata legge lucana detta norme in materia di polizia locale e politiche di sicurezza urbana, dando attuazione ai principi contenuti nella legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge quadro sull’ordinamento della polizia locale).
Ad avviso del Governo, con le norme denunciate la Regione avrebbe esorbitato dai limiti delle proprie competenze legislative, invadendo quelle statali.
La prima censura investe l’art. 4, comma 2, lettera c), della legge regionale, il quale prevede che gli appartenenti alla polizia locale dei Comuni e delle Province esercitano «funzioni di polizia giudiziaria secondo le disposizioni della vigente legislazione statale, rivestendo, a tal fine, la qualifica di Ufficiale di Polizia Giudiziaria riferita ai Comandanti, Ufficiali e Ispettori di Polizia Locale, a seguito di nomina da parte dell’Amministrazione di appartenenza in riferimento al disposto dell’art. 55 del codice di procedura penale, e di Agente di Polizia Giudiziaria, riferita agli Assistenti-Istruttori e agli Agenti di Polizia Locale».
Tale disposizione, sebbene richiami la legislazione statale vigente, violerebbe la competenza esclusiva dello Stato in tema di giurisdizione penale, attribuita dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla legge statale la materia «giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale». Come chiarito, infatti, da questa Corte costituzionale con la sentenza n. 313 del 2003, la polizia giudiziaria – la quale opera, di propria iniziativa o per disposizione o delega dell’autorità giudiziaria, ai fini dell’applicazione della legge penale – rientra nell’ambito della materia dianzi indicata: con la conseguenza che la legge regionale non sarebbe competente a disporre il riconoscimento della qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria, a prescindere dalla conformità o dalla difformità alla legge dello Stato, trattandosi di disciplina demandata esclusivamente a questa legge.
2. – La seconda censura concerne l’art. 4, commi 2, lettera q), e 4, della legge regionale, nella parte in cui prevede che possano essere raggiunte intese di collaborazione nell’attività di pubblica sicurezza tra le amministrazioni locali, anche al di fuori dei rispettivi territori di appartenenza, inviandone comunicazione al prefetto solo nel caso in cui riguardino personale avente la qualità di agente in servizio armato.
Secondo il ricorrente, detta norma violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., e si porrebbe, altresì, in contrasto con la legge statale n. 65 del 1986, che, all’art. 5, comma 1, lettera c), definisce «ausiliarie» le funzioni di pubblica sicurezza della polizia locale ai sensi dell’art. 3 della medesima legge, secondo il quale gli addetti al servizio di polizia municipale collaborano, «nell’ambito delle proprie attribuzioni, con le Forze di polizia dello Stato, previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità».
Al riguardo, è richiamata la distinzione tra la «polizia di sicurezza», la cui disciplina legislativa forma oggetto di riserva a favore dello Stato in base al citato precetto costituzionale, e la «polizia amministrativa locale», esplicitamente sottratta alla predetta competenza esclusiva. Alla luce della definizione fornita dal comma 2 dell’art. 159 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), la polizia di sicurezza concerne, in particolare, «le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni».
Per converso, i compiti di polizia amministrativa locale attengono – come puntualizzato dalla giurisprudenza costituzionale – alle «attività di prevenzione o di repressione dirette a evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati alle persone o alle cose nello svolgimento delle materie sulle quali si esercitano le competenze regionali […], senza che ne risultino lesi o messi in pericolo i beni o gli interessi tutelati in nome dell’ordine pubblico». In altri termini, la rilevanza dei compiti di polizia amministrativa dovrebbe necessariamente esaurirsi all’interno delle attribuzioni regionali, senza poter toccare quegli interessi di fondamentale importanza per l’ordinamento complessivo, che è compito dello Stato curare.
Se i criteri distintivi appena enunciati valgono per la delimitazione «per attribuzioni» della competenza legislativa regionale, ad analoga conclusione dovrebbe pervenirsi – a parere del ricorrente – «anche in relazione alla delimitazione “territoriale” della competenza legislativa regionale, in quanto la possibilità di raggiungere intese con altri enti locali, per tutelare la sicurezza pubblica anche al di fuori del territorio regionale, si tradurrebbe in una indebita invasione della competenza legislativa statale che, per definizione, riguarda l’intero territorio nazionale».
3. – Forma, altresì, oggetto di impugnazione l’art. 11, comma 1, lettera d), della legge della Regione Basilicata n. 41 del 2009, il quale prevede – quale requisito ulteriore, rispetto a quelli stabiliti dalla vigente legislazione statale, ai fini dell’ammissione ai concorsi per posti di polizia locale – che il candidato non debba «essere in possesso dello status di obiettore di coscienza».
Ad avviso del ricorrente, tale previsione si porrebbe in contrasto con l’art. 1 della legge 23 agosto 2004, n. 226 (Sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva e disciplina dei volontari di truppa in ferma prefissata, nonché delega al Governo per il conseguente coordinamento con la normativa di settore), che sospende, a decorrere dal 1° gennaio 2005, le chiamate per lo svolgimento del servizio di leva, ledendo nuovamente, con ciò, la competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.).
La disposizione censurata sarebbe, in effetti, incoerente con la sospensione del servizio di leva, giacché lo «status di obiettore di coscienza» assumerebbe rilevanza solo in presenza di una chiamata alle armi obbligatoria.
Osserva, inoltre, l’Avvocatura dello Stato che l’art. 11, comma 1, della legge regionale introduce il censurato requisito negativo per l’ammissione ai concorsi per posti di polizia locale insieme ad «altri specifici requisiti», i quali non sarebbero, in realtà, affatto «specifici», corrispondendo a quelli, di ordine generale, previsti dall’art. 5, comma 2, della legge n. 65 del 1986; laddove, al contrario, il solo requisito di cui alla lettera d) esula totalmente dalle previsioni della legge statale.
4. – Parimenti lesivi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. risulterebbero gli artt. 19, con l’allegato A, 20, 21, con l’allegato E, e 22, con l’allegato D, della legge regionale censurata.
Nel definire le caratteristiche delle uniformi degli addetti alla polizia locale, le richiamate disposizioni prevedrebbero, infatti, colori, forme, mostreggiature e gradi somiglianti a quelli delle uniformi in uso alla polizia di Stato: ciò, in contrasto con quanto stabilito dall’art. 6 della legge n. 65 del 1986, secondo cui le divise della polizia municipale devono essere tali da escludere la «stretta somiglianza» con quelle delle Forze di polizia e delle Forze armate dello Stato.
5. – Infine, secondo la Presidenza del Consiglio dei ministri, l’art. 26 della legge regionale violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., che impone alle Regioni l’osservanza dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
La norma impugnata, infatti, prevedendo l’istituzione di un numero telefonico unico regionale (a tre o quattro cifre) per la polizia locale, si porrebbe in contrasto con la direttiva 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale), che ha imposto agli Stati membri di istituire il numero unico di emergenza «112», al fine di garantire ai cittadini adeguata risposta alle chiamate di emergenza attraverso un sistema di gestione unificato delle telefonate.
Nel recepire la direttiva, il d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche a livello statale) ha stabilito, all’art. 76, che il Ministero provvede affinché, oltre ad altri eventuali numeri di emergenza nazionali, indicati nel piano nazionale di numerazione, gli utenti finali di servizi telefonici accessibili al pubblico possano chiamare gratuitamente i servizi di soccorso, digitando, per l’appunto, il numero di emergenza unico europeo «112». Ai sensi del medesimo art. 76, inoltre, i numeri di emergenza nazionali sono, innanzitutto, stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita, in merito alla disponibilità dei numeri, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni – quale «autorità nazionale di regolamentazione» cui si riferisce la direttiva comunitaria – e sono, quindi, recepiti dall’Autorità nel piano nazionale di numerazione.
Tutto ciò, allo scopo di garantire la certezza circa il numero o i numeri di emergenza cui fare riferimento ed evitare il rischio di sovrapposizioni.
6. – Il 23 novembre 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, nell’interesse del Presidente del Consiglio dei ministri, una memoria illustrativa, insistendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.
In particolare, ha richiamato la sentenza n. 167 del 2010, intervenuta nelle more del giudizio, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge della Regione Friuli Venezia Giulia 29 aprile 2009, n. 9 (Disposizioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale): il cui contenuto risulterebbe – secondo il ricorrente – in larga misura sovrapponibile a quello delle norme oggetto dell’odierno scrutinio.
Il rilievo varrebbe, in specie, per l’art. 15, comma 1, della citata legge friulana, il quale – in modo analogo all’art. 4, comma 2, lettera c), della legge reg. Basilicata n. 41 del 2009 – attribuisce agli addetti alla polizia locale la qualifica di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria. Nel dichiarare l’incostituzionalità della norma in riferimento al medesimo parametro oggi invocato (l’art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.), la citata sentenza n. 167 del 2010 ha affermato che tale attribuzione deve ritenersi invasiva della sfera di competenza esclusiva statale in materia di giurisdizione penale, senza che rilevi, in senso contrario, l’esistenza di norme statali (quale, in particolare, l’art. 5 della legge n. 65 del 1986) che già riconoscono la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria al personale della polizia locale.
La medesima sentenza ha dichiarato, inoltre, l’incostituzionalità – per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. – dell’art. 8, comma 6, della legge friulana, recante una previsione assai simile, secondo l’Avvocatura dello Stato, a quella dell’impugnato art. 4, comma 2, lettera q), della legge reg. Basilicata n. 41 del 2009 («nell’esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza previste dalla normativa statale, la polizia locale assume il presidio del territorio tra i suoi compiti primari, al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana negli ambiti territoriali di riferimento»).
Nell’occasione, la Corte – dopo avere ribadito i propri orientamenti in ordine alle nozione di ordine pubblico e sicurezza – ha rilevato che, «quanto alla necessità di una collaborazione fra forze di polizia municipale e forze di polizia di Stato, l’art. 118, terzo comma, Cost. ha provveduto espressamente a demandare alla legge statale il compito di disciplinare eventuali forme di coordinamento nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza»; concludendo, quindi, che la norma regionale in questione, «disciplinando non solo modalità di esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza da parte della polizia locale, ma anche le forme della collaborazione con le forze della polizia dello Stato», violava la competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.
Ad avviso del ricorrente, tale iter argomentativo sarebbe estensibile anche alla questione avente ad oggetto la norma della Regione Basilicata che qui interessa, concernente le intese di collaborazione nelle attività di pubblica sicurezza tra reparti di polizia locale di diversi comuni. Ciò troverebbe, del resto, conferma, «a contrario», in quanto affermato, nell’ambito della medesima citata sentenza, in relazione allo «sviluppo di politiche di sicurezza transfrontaliere», essendo stato al riguardo ulteriormente ribadito che solo «nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e nelle forme disciplinati da leggi dello Stato (sentenza n. 238 del 2004)».
Nel caso di specie, sarebbe quindi evidente che l’art. 4, comma 2, lettera q), della legge regionale in esame, stabilendo che le amministrazioni locali possono raggiungere intese di collaborazione nell’attività di pubblica sicurezza, anche al di fuori dei rispettivi territori di appartenenza, esorbiti dal limite delle competenze regionali fissato dal parametro costituzionale invocato.
Considerato in diritto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in via principale di plurime disposizioni della legge della Regione Basilicata 29 dicembre 2009, n. 41 (Polizia locale e politiche di sicurezza urbana) – recante norme in materia di polizia locale e politiche di sicurezza urbana «in armonia con i principi stabiliti dalla legge 7 marzo 1986, n. 65» (Legge quadro sull’ordinamento della polizia locale) – deducendo la violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettere h) ed l), della Costituzione.
2. – Il ricorrente censura, in primo luogo, l’art. 4, comma 2, lettera c), della citata legge lucana, ove si prevede che gli appartenenti alla polizia locale dei Comuni e delle Province esercitano «funzioni di polizia giudiziaria secondo le disposizioni della vigente legislazione statale, rivestendo, a tal fine, la qualifica di Ufficiale di Polizia Giudiziaria riferita ai Comandanti, Ufficiali e Ispettori di Polizia Locale, a seguito di nomina da parte dell’Amministrazione di appartenenza in riferimento al disposto dell’art. 55 del codice di procedura penale, e di Agente di Polizia Giudiziaria, riferita agli Assistenti-Istruttori e agli Agenti di Polizia Locale».
Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la norma esorbiterebbe dall’ambito delle competenze legislative regionali, disponendo nella materia «giurisdizione penale», demandata alla competenza legislativa esclusiva statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
La questione è fondata.
Questa Corte ha già affermato in più occasioni che, «quanto alla polizia giudiziaria che, a norma dell’art. 55 del codice di procedura penale, opera, di propria iniziativa e per disposizione o delega dell’Autorità giudiziaria, ai fini dell’applicazione della legge penale, l’esclusione della competenza regionale risulta dalla competenza esclusiva dello Stato in materia di giurisdizione penale disposta dalla lettera l) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione» (sentenza n. 313 del 2003; nello stesso senso, sentenza n. 167 del 2010).
D’altro canto, il vigente codice di procedura penale ha configurato la polizia giudiziaria come soggetto ausiliario di uno dei soggetti del rapporto triadico in cui si esprime la funzione giurisdizionale (il pubblico ministero).
Ne consegue che va ritenuta costituzionalmente illegittima una norma regionale che – al pari di quella oggi impugnata – provveda ad attribuire al personale della polizia locale la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria, trattandosi di compito riservato in via esclusiva alla legislazione statale (sentenze n. 167 del 2010 e n. 313 del 2003 cit.).
Né il richiamo, contenuto nella legge regionale, alla legge statale (e, comunque, la conformità della prima alla seconda) vale ad emendare il vizio denunciato. Il problema qui in discussione, infatti, «non è di stabilire se la legislazione regionale sia o non sia conforme a quella statale, ma, ancor prima, se sia competente o meno a disporre il riconoscimento» delle qualifiche di cui si tratta, «indipendentemente dalla conformità o dalla difformità rispetto alla legge dello Stato» (sentenza n. 313 del 2003; in senso analogo, sentenza n. 167 del 2010). La giurisprudenza di questa Corte è, del resto, costante nell’affermare che «la novazione della fonte con intrusione negli ambiti di competenza esclusiva statale costituisce causa di illegittimità della norma» regionale (ex plurimis, sentenze n. 167 del 2010 e n. 26 del 2005).
3. – Il ricorrente impugna, in secondo luogo, l’art. 4, commi 2, lettera q), e 4, della legge della Regione Basilicata n. 41 del 2009, nella parte in cui prevede che possano essere raggiunte intese di collaborazione nell’attività di pubblica sicurezza tra le amministrazioni locali, anche al di fuori dei rispettivi territori di appartenenza, inviandone comunicazione al prefetto solo nel caso in cui riguardino personale avente la qualità di agente in servizio armato.
La previsione normativa censurata violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., ponendosi, altresì, in contrasto con la legge statale n. 65 del 1986: legge che – dopo aver stabilito che gli addetti al servizio di polizia municipale collaborano, «nell’ambito delle proprie attribuzioni, con le Forze di polizia dello Stato, previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità» (art. 3) – qualifica come «ausiliarie» le funzioni di pubblica sicurezza esercitate dal suddetto personale (art. 5, comma 1, lettera c).
Anche tale questione è fondata.
L’art. 4, comma 1, lettera q), della legge regionale, nella parte oggetto di censura, consente agli appartenenti alla polizia locale dei Comuni e delle Province di esercitare «attività di concorso alla tutela della sicurezza pubblica», anche al di fuori del «rispettivo territorio di competenza», sulla base di intese tra le amministrazioni interessate; con la precisazione che le «intese di collaborazione tra reparti di diversi Comuni» possono essere raggiunte «solamente previo parere favorevole del Comandante del Corpo o Servizio, inviando comunicazione al Prefetto allorquando riguardino personale avente qualità di agente di pubblica sicurezza in servizio armato».
La descrizione dell’attività oggetto delle intese è fornita dal successivo comma 4 del medesimo art. 4 – cui la citata lettera q) del comma 2 rinvia – ai sensi del quale la polizia locale è chiamata a esercitare, «nei limiti previsti dalle deliberazioni dei comitati provinciali per l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, funzioni di tutela della sicurezza urbana, intesa come necessario presupposto dello sviluppo economico e sociale e della salvaguardia della vita delle persone residenti nel territorio, perseguita attraverso la coniugazione delle attività di prevenzione, mediazione dei conflitti, controllo e repressione».
In questa prospettiva – come attestano, da un lato, la stessa qualificazione dell’attività come di «concorso alla tutela della sicurezza pubblica» e, dall’altro, i riferimenti alla «salvaguardia della vita delle persone» tramite interventi di prevenzione e repressione – la regolamentazione delle «intese di collaborazione» oggetto di censura viene a collocarsi nell’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza legislativa esclusiva statale: materia che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, attiene «alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico», inteso quest’ultimo quale «complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale» (ex plurimis, sentenza n. 129 del 2009 e – in rapporto a fattispecie nelle quali veniva specificamente in rilievo il concetto di «sicurezza urbana» – sentenze n. 274 e n. 226 del 2010, n. 196 del 2009). Donde la sussistenza della violazione denunciata.
Va, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 2, lettera q), e 4, della legge della Regione Basilicata n. 41 del 2009, nella parte in cui prevede che possano essere raggiunte intese di collaborazione nell’attività di pubblica sicurezza tra le amministrazioni locali, anche al di fuori dei rispettivi territori di appartenenza, inviandone comunicazione al prefetto solo nel caso in cui riguardino personale avente la qualità di agente in servizio armato.
4. – Secondo il ricorrente, anche l’art. 11, comma 1, lettera d), della legge regionale censurata invaderebbe l’ambito della potestà legislativa statale esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza, definito dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.
Nel prevedere – quale requisito ulteriore, rispetto a quelli stabiliti dalla vigente legislazione statale, ai fini dell’ammissione ai concorsi per posti di polizia locale – che il candidato non debba «essere in possesso dello status di obiettore di coscienza», la menzionata disposizione si porrebbe, difatti, in contrasto con l’art. 1 della legge 23 agosto 2004, n. 226 (Sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva e disciplina dei volontari di truppa in ferma prefissata, nonché delega al Governo per il conseguente coordinamento con la normativa di settore), che sospende le chiamate per lo svolgimento del servizio di leva a decorrere dal 1° gennaio 2005. Ciò, in quanto lo «status» di obiettore di coscienza potrebbe assumere rilevanza solo in presenza di una chiamata alle armi obbligatoria.
La questione è inammissibile.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, infatti, pur deducendo la violazione di una competenza legislativa statale esclusiva – e, dunque, l’inesistenza di qualsiasi competenza regionale nella materia considerata – ravvisa contraddittoriamente la violazione della riserva statale solo nell’asserita incompatibilità della norma denunciata con la disciplina dettata dalla legge n. 226 del 2004 (ciò, a differenza di quanto avviene in rapporto alla questione precedentemente esaminata, rispetto alla quale la normativa statale risulta evocata, nella sostanza, solo al fine di dare conto del modo in cui la rivendicata potestà esclusiva è stata esercitata). Ne discende l’inammissibilità della questione, «non potendo coesistere – se non in un rapporto di subordinazione, non dedotto nel ricorso – una censura attinente sia all’an, sia al quomodo dell’esercizio della potestà regionale» (sentenza n. 391 del 2006).
A ciò va aggiunto che il parametro evocato è palesemente inconferente, giacché il requisito dell’assenza dello «status» di obiettore di coscienza, considerato nel contesto della disciplina in esame, incide sull’accesso a un pubblico concorso volto al reclutamento di personale che svolge funzioni di polizia amministrativa locale: dunque, su un ambito certamente estraneo alla materia «ordine pubblico e sicurezza», quale intesa dalla giurisprudenza costituzionale dianzi richiamata.
5. – Una ulteriore censura investe gli artt. 19, con l’allegato A, 20, 21, con l’allegato E, e 22, con l’allegato D, della legge regionale.
Ad avviso del ricorrente, le norme impugnate – nel definire le caratteristiche delle uniformi degli addetti alla polizia locale – avrebbero adottato colori, forme, mostreggiature e gradi somiglianti a quelli in uso alla polizia di Stato: ciò, in contrasto con quanto stabilito dall’art. 6 della legge statale n. 65 del 1986, ai sensi del quale le uniformi della polizia locale devono essere tali da escludere la «stretta somiglianza» con quelle delle Forze di polizia e delle Forze armate dello Stato. Per questo verso, le disposizioni regionali tornerebbero a invadere la sfera della potestà legislativa esclusiva statale prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.
Anche tale questione è inammissibile, per la contraddittorietà della sua prospettazione.
Il ricorrente abbina, difatti, nuovamente l’allegazione dell’inesistenza della potestà legislativa regionale – insita nella denunciata violazione di un titolo di competenza statale esclusiva – con una censura che attiene, per converso, unicamente alle modalità con le quali detta potestà è stata concretamente esercitata, tali da porre le disposizioni impugnate in asserito contrasto con un precetto posto dalla legge statale.
6. – Da ultimo, la Presidenza del Consiglio dei ministri impugna l’art. 26 della legge regionale, il quale prevede che la polizia locale «disporrà di un numero telefonico unico (a 3 o 4 cifre) per il pronto intervento».
Secondo il ricorrente, la norma violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con la direttiva 2002/22/CE, recepita con d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche a livello statale), che ha imposto agli Stati membri di istituire il numero unico di emergenza «112». La disposizione regionale vanificherebbe, difatti, la finalità della direttiva comunitaria e, conseguentemente, della normativa statale di recepimento: finalità che consisterebbe nel «garantire la certezza per la cittadinanza in ordine al numero o ai numeri di emergenza cui fare riferimento onde evitare il rischio di sovrapposizioni».
La questione è infondata.
L’intento della richiamata direttiva è quello di fornire ai cittadini il medesimo codice di accesso («112») ai servizi di emergenza su tutto il territorio dell’Unione, eliminando le differenze preesistenti relative ai numeri per le chiamate di emergenza. Detta uniformità non implica, tuttavia, l’esclusione di ulteriori numeri di emergenza nazionali o anche locali. Al contrario – analogamente a quanto già stabilito dalla decisione 91/396/CEE del Consiglio, la quale aveva introdotto il numero unico europeo «parallelamente a ogni altro numero nazionale esistente per tali chiamate» (art. 1) – la citata direttiva 2002/22/CE consente espressamente agli Stati membri di prevedere ulteriori numeri di emergenza nazionali (art. 26).
A conferma di ciò, nel recepire la direttiva, il d.lgs. n. 259 del 2003, all’art. 76, ha ribadito la possibilità che siano previsti numeri di emergenza nazionali e ha stabilito le modalità per la loro determinazione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, lettera c), della legge della Regione Basilicata 29 dicembre 2009, n. 41 (Polizia locale e politiche di sicurezza urbana);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 2, lettera q), e 4, della legge della Regione Basilicata n. 41 del 2009, nella parte in cui prevede che possano essere raggiunte intese di collaborazione nell’attività di pubblica sicurezza tra le amministrazioni locali, anche al di fuori dei rispettivi territori di appartenenza, inviandone comunicazione al prefetto solo nel caso in cui riguardino personale avente la qualità di agente in servizio armato;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 11, comma 1, lettera d), 19, con l’allegato A, 20, 21, con l’allegato E, e 22, con l’allegato D, della legge della Regione Basilicata n. 41 del 2009, sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge della Regione Basilicata n. 41 del 2009, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2011.


Opposizione a contravvenzioni e deposito in cancelleria e non al domicilio eletto: incostituzionale. Viene elevata una contravvenzione, opposto un ricorso, ma tutte le comunicazioni vengono fatte tramite deposito in cancelleria e non al domicilio del ricorrente che abita in altro luogo. La Suprema Corte dichiara che con le nuove tecnologie, se il ricorrente indica una modalità di comunicazione alternativa (fax, mail o altro) la cancelleria deve tenerne conto.




SENTENZA N. 365
ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo                         DE SIERVO                                                  Presidente
- Paolo                       MADDALENA                                               Giudice
- Alfio                       FINOCCHIARO                                                 
- Alfonso                   QUARANTA                                                       
- Franco                     GALLO                                                                
- Luigi                       MAZZELLA                                                        
- Gaetano                  SILVESTRI                                                         
- Sabino                     CASSESE                                                            
- Maria Rita               SAULLE                                                              
- Giuseppe                 TESAURO                                                           
- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                   
- Giuseppe                 FRIGO                                                                 
- Alessandro              CRISCUOLO                                                      
- Paolo                       GROSSI                                                               
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 22, quarto e quinto comma, della legge 11 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal Giudice di pace di Milano nel procedimento vertente tra F.M. e il Comune di Segrate con ordinanza del 28 ottobre 2008, iscritta al n. 170 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 1° dicembre 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese.
Ritenuto in fatto
1. – Il Giudice di pace di Milano, sezione II, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con ordinanza del 28 ottobre 2008 (reg. ord. n. 170 del 2010), in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dell’art. 22, quarto e quinto comma, della legge 11 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui pone a carico del ricorrente l’onere di eleggere domicilio nel luogo in cui ha sede il giudice adito e stabilisce che, in difetto, le comunicazioni al medesimo avvengano mediante semplice deposito presso la cancelleria.
2. – L’art. 22, quarto comma, della legge n. 689 del 1981, prevede che, nel caso di opposizione a sanzioni amministrative, «il ricorso deve contenere altresì, quando l’opponente non abbia indicato un suo procuratore, la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito». Il successivo quinto comma dispone che «se manca l’indicazione del procuratore oppure la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio, le notificazioni al ricorrente vengono eseguite mediante deposito in cancelleria».
3. – Il giudice rimettente riporta che il ricorrente nel giudizio principale, con atto depositato in data 30 ottobre 2007 presso l’Ufficio del Giudice di pace di Milano, ha proposto opposizione al verbale della Polizia Locale di Segrate n. 27888/2007-R22935 del 3 settembre 2007, notificatogli il 24 settembre 2007, a seguito di violazione dell’art. 146, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo Codice della Strada). L’opponente, residente ad Antegnate (Bergamo), non ha eletto domicilio in Milano e, pertanto, la comunicazione di fissazione dell’udienza è stata effettuata – ai sensi dell’art. 22, quinto comma, della legge n. 689 del 1981 – mediante deposito nella cancelleria dell’Ufficio del Giudice di pace di Milano, sezione IV. All’udienza del 4 aprile 2008 è comparso il ricorrente, ma non si è presentato il Comune opposto che, con atto depositato in cancelleria, ha chiesto un rinvio della causa. Il giudice ha quindi fissato una nuova udienza al 4 ottobre 2008, con avviso al Comune non presente. L’8 luglio 2008 la causa è stata riassegnata al Giudice di pace della sezione II, odierno rimettente, che ha fissato altra udienza per il 28 ottobre 2008. Il provvedimento è stato regolarmente notificato al Comune, mentre è stato comunicato al ricorrente mediante il solo deposito in cancelleria. All’udienza del 28 ottobre 2008 si è presentato il rappresentante del Comune opposto, ma non è comparso il ricorrente.
3.1. – Il giudice a quo rileva, innanzitutto, che il cambiamento del magistrato investito del giudizio, per di più appartenente ad altra sezione, ha reso ancor più problematica ed aleatoria la possibilità per il ricorrente di essere tempestivamente a conoscenza dell’avvenuto deposito ed ancor maggiore la conseguente difficoltà a farsi parte attiva presso la cancelleria, diversa da quella a lui nota. Il giudice rimettente sottolinea, inoltre, che la mancata comparazione del ricorrente riproduce un comportamento assenteista pressoché costante a fronte della comunicazione del provvedimento di convocazione con semplice deposito presso la cancelleria e legittima la supposizione che tale assenza si debba ricondurre proprio alla difficoltà spesso insormontabile di pervenire a conoscenza della comunicazione della data di udienza, considerando di fatto anche l’imprevedibilità dei tempi di deposito del provvedimento.
3.2. – In ordine alla rilevanza, il giudice rimettente osserva che il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, è determinante agli effetti del giudizio. Quest’ultimo, infatti, «dipende dai diversi elementi di prova di cui il giudice potrebbe disporre a seconda che sia o meno affermata l’illegittimità costituzionale delle norme considerate, per la parte a carico del ricorrente stesso, posto nell’impossibilità concreta di proporli laddove si ritenga legittima la sua convocazione mediante la sola comunicazione in cancelleria». Ad avviso del giudice rimettente, nel caso di specie, per la mancata notifica della sostituzione del giudice, con l’avviso di udienza in data modificata, l’opponente non si è presentato e non ha sviluppato le proprie difese, mentre, dall’altra parte, il Comune opposto non ha prodotto alcunché da cui desumere l’illegittimità o meno della sanzione impugnata. Secondo il giudice a quo, mancherebbero, dunque, i presupposti per una corretta pronuncia di merito.
3.3 – Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente premette che, in base all’interpretazione prevalente dell’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, la comunicazione in cancelleria è legittima ogni volta che non sia stato indicato alcun indirizzo di residenza o domicilio nel luogo dove ha sede il giudice adito. Secondo il giudice a quo, inoltre, sarebbe già stata esclusa la illegittimità costituzionale delle norme censurate (con l’ordinanza n. 391 del 2007), talché non vi sarebbe alcuna violazione della Costituzione laddove sia prevista una diversa forma di comunicazione fra la pubblica amministrazione, da un lato, e i cittadini, dall’altro, trattandosi di materia riservata alla libera valutazione discrezionale del legislatore. Al giudice rimettente sarebbe quindi precluso adottare altro criterio di applicazione delle norme in questione, come quello che riconosca la possibilità di attuare la notifica mediante deposito presso la cancelleria solo nell’ipotesi in cui l’opponente non abbia indicato in assoluto alcun luogo di residenza o di domicilio e non quando abbia, invece, dichiarato la propria residenza in altro Comune.
Il giudice a quo, tuttavia, asserisce di proporre la questione di legittimità costituzionale in termini che non sono ancora stati sottoposti all’esame di questa Corte. Secondo il giudice rimettente, l’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, lederebbe il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e nell’esercizio del loro diritto di tutela giudiziaria nei confronti di qualsiasi atto della pubblica amministrazione (artt. 3, 24 e 113 Cost.), in quanto comporterebbe «una sperequazione fra coloro che risiedono o possono eleggere domicilio – di regola presso un difensore o procuratore legale» nel comune dove ha sede il giudice adito «e coloro che tale possibilità non hanno». Tale disparità contrasterebbe con il principio di uguaglianza perché introdurrebbe «un elemento discriminatorio e privo di qualunque giustificazione progettuale del legislatore, proprio fra i singoli cittadini». Né vi sarebbe altra spiegazione razionale, ad avviso del giudice a quo, data la possibilità per gli uffici di porre in essere altre forme di comunicazione alternative, quali l’uso di telefono, fax, internet, attualmente previsti e utilizzati nelle cause civili. Peraltro, il giudice rimettente rileva che una simile soluzione non sarebbe consentita nel caso delle opposizioni a sanzioni amministrative, trattandosi di materia regolata con norme a carattere eccezionale e, perciò, non interpretabili in via analogica o con applicazione estensiva delle norme generali. La normativa censurata, dunque, secondo il giudice a quo, sarebbe irragionevole, perché non contiene alcuna spiegazione a giustificazione del diverso trattamento dei cittadini, ma è basata soltanto sul fatto della residenza o della possibilità di eleggere o meno domicilio dove ha sede il giudice adito. Né sarebbe invocabile la discrezionalità del legislatore, in quanto si risolverebbe in puro arbitrio, inammissibile per i principi della Costituzione, «che prevede l’impegno dello Stato a rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’uguaglianza dei cittadini». L’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, dunque, imponendo modalità di ricorso al giudice ordinario in condizioni differenziate per le diverse categorie di cittadini, con riferimento a situazioni di fatto che «ostacolano ad alcuni e non ad altri l’esercizio del loro diritto di tutela giurisdizionale», violerebbe gli artt. 3, 24 e 113 Cost.
4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata infondata.
La difesa dello Stato rileva che questa Corte è già stata investita in passato delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge n. 689 del 1981, in termini analoghi a quelli contenuti nell’ordinanza di rimessione del presente giudizio, optando per l’inammissibilità di tale questione. In particolare, con riferimento all’art. 3 Cost., la Corte ha affermato che «le differenze riscontrabili fra la disciplina delle notificazioni alla parte che non nomina un procuratore ed a quella costituita a mezzo di procuratore legale rispecchiano le differenze esistenti fra la situazione del soggetto che sceglie di difendersi personalmente, ed è perciò interessato a seguire gli sviluppi di un’unica vicenda processuale e la situazione del soggetto che, avendo optato per l’assistenza di un legale, ha diritto di attendersi che quest’ultimo sia in grado di svolgere efficacemente l’attività professionale in sua difesa» (ordinanza n. 42 del 1988). Con riguardo al diritto di difesa, inoltre, questa Corte ha precisato che «il regime di notificazione previsto dalla norma impugnata non rende né impossibile, né eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto di difesa, ma si inserisce razionalmente nell’ambito di una normativa diretta a snellire e a semplificare le procedure relative alle infrazioni di lieve entità “depenalizzate”» (ordinanza n. 42 del 1988).
L’Avvocatura generale dello Stato osserva, infine, che, questa Corte avrebbe rilevato che una analoga disciplina per la notifica dei provvedimenti è prevista in disposizioni di contenuto similare, anche per altri procedimenti, tanto da poter affermarsi che tale assetto rappresenta un dato dell’ordinamento variabile in relazione a diversi modelli procedimentali su cui non è possibile operare muovendo da una singola norma e valutando, all’interno del quadro sistematico complessivo, una singola ratio, dovendo, pertanto, riconoscersi che si tratta di materia riservata alla discrezionalità del legislatore (sentenza n. 431 del 1992).
Considerato in diritto
1. – Con ordinanza del 28 ottobre 2008, il Giudice di pace di Milano, sezione II, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dell’art. 22, quarto e quinto comma, della legge 11 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui pone a carico del ricorrente l’onere di eleggere domicilio nel luogo in cui ha sede il giudice adito e stabilisce che, in difetto, le comunicazioni al medesimo avvengano mediante semplice deposito presso la cancelleria.
1.1. – La normativa censurata riguarda le modalità delle notificazioni al ricorrente che abbia proposto opposizione a sanzione amministrativa. L’art. 22, quarto comma, della legge n. 689 del 1981, prevede che «il ricorso deve contenere altresì, quando l’opponente non abbia indicato un suo procuratore, la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito». Il successivo quinto comma stabilisce che «se manca l’indicazione del procuratore oppure la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio, le notificazioni al ricorrente vengono eseguite mediante deposito in cancelleria».
1.2. – Secondo il giudice rimettente, l’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, lederebbe il principio di uguaglianza dei cittadini in ordine al loro esercizio del diritto di tutela giudiziaria nei confronti di qualsiasi atto della pubblica amministrazione, in quanto comporterebbe «una sperequazione fra coloro che risiedono o possono eleggere domicilio – di regola presso un difensore o procuratore legale» nel comune dove ha sede il giudice adito «e coloro che tale possibilità non hanno». Ad avviso del giudice a quo, pertanto, la normativa censurata sarebbe irragionevole, perché non contiene alcuna spiegazione a giustificazione del diverso trattamento dei cittadini, ma è basata soltanto sul fatto della residenza o della possibilità di eleggere o meno domicilio dove ha sede il giudice adito. L’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, sostiene il rimettente, imponendo modalità di ricorso al giudice ordinario in condizioni differenziate per le diverse categorie di cittadini, con riferimento a situazioni di fatto che ostacolano l’esercizio della tutela giurisdizionale, violerebbe gli artt. 3, 24 e 113 Cost.
2. – La questione è fondata.
2.1. – Il procedimento giurisdizionale di opposizione alle sanzioni amministrative, regolato in via generale dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981, si caratterizza «per una semplicità di forme del tutto peculiare, all’evidenza intesa a rendere il più possibile agevole l’accesso alla tutela giurisdizionale nella specifica materia» (sentenza n. 98 del 2004). Una volta introdotto il giudizio (art. 22, terzo comma), «l’opponente – cui è data facoltà di stare in giudizio personalmente (art. 23, quarto comma) – non è infatti gravato da alcun ulteriore incombente al fine della instaurazione del contraddittorio, essendo fatto carico alla cancelleria di provvedere alla notificazione alle parti del ricorso stesso e del decreto del giudice contenente la fissazione dell’udienza di comparizione (art. 23, secondo comma). All’udienza i mezzi di prova necessari sono disposti dal giudice anche d’ufficio e la citazione dei testimoni – cui pure si provvede d’ufficio, così come ad ogni comunicazione e notificazione nel corso del processo (art. 23, nono comma) – può essere disposta anche senza formulazione di capitoli (art. 23, sesto comma)» (così ancora la sentenza n. 98 del 2004).
2.2. – In tale contesto, l’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, detta modi di notificazione differenziati. Se, infatti, l’opponente non ha dichiarato la propria residenza, né ha eletto domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito, le notificazioni al ricorrente sono eseguite mediante deposito in cancelleria. Se, invece, l’opponente ha dichiarato di risiedere o ha eletto domicilio nel comune sede del giudice adito, le notificazioni sono effettuate, a cura della cancelleria (ai sensi dell’art. 23, nono comma , della legge n. 689 del 1981), secondo le norme del codice di procedura civile.
Tale differenziazione rappresenta, in contrasto con la semplificata struttura processuale degli art. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981, un fattore di dissuasione anche di natura economica dall’utilizzo del mezzo di tutela giurisdizionale, in considerazione tra l’altro dei costi, del tutto estranei alla funzionalità del giudizio, che l’intervento personale può comportare nei casi, certamente non infrequenti, in cui il foro dell’opposizione non coincida con il luogo di residenza dell’opponente, come questa Corte ha già affermato nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 22 della legge n. 689 del 1981 nella parte in cui non consente l’utilizzo del servizio postale per la proposizione dell’opposizione (sentenza n. 98 del 2004). La normativa censurata, pertanto, produce una sperequazione fra coloro che risiedono nel comune dove ha sede il giudice adito e coloro che risiedono altrove, con conseguente limitazione del diritto di difesa, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
2.3. – Questa Corte ha ritenuto legittimo l’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981 (da ultimo, ordinanza n. 391 del 2007).
Tuttavia, da un lato, la questione, nel presente giudizio, è stata prospettata in termini nuovi, in quanto non era stata ancora lamentata, dinanzi a questa Corte, la discriminazione tra cittadini, determinata dalle disposizioni censurate, «basata soltanto sul fatto della residenza o della possibilità di eleggere o meno domicilio dove ha sede il giudice adito».
Dall’altro lato, in considerazione dei mutamenti intervenuti recentemente nei sistemi di comunicazione, il legislatore ha modificato il quadro normativo riguardante le notificazioni. Il decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), convertito in legge 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito, infatti, un nuovo articolo – il 149-bis – nella sezione IV «Delle comunicazioni e delle notificazioni» del libro I del codice di procedura civile. Tale articolo, intitolato «Notificazione a mezzo posta elettronica», prevede che «Se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi a mezzo posta elettronica certificata, anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo» (primo comma). Successivamente, la legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), ha emendato, tra l’altro, l’art. 204-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), relativo al ricorso al giudice di pace avverso sanzioni amministrative e pecuniarie comminate per illeciti previsti dal codice della strada. In base al nuovo comma 3, «il ricorso e il decreto con cui il giudice fissa l’udienza di comparizione sono notificati, a cura della cancelleria, all’opponente o, nel caso sia stato indicato, al suo procuratore, e ai soggetti di cui al comma 4-bis, anche a mezzo di fax o per via telematica all’indirizzo elettronico comunicato ai sensi dell’articolo 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 2001, n. 123» (si tratta del «Regolamento recante disciplina sull’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti»).
Le recenti modifiche del quadro normativo mostrano un favor del legislatore per modalità semplificate di notificazione, divenute possibili grazie alla diffusione delle comunicazioni elettroniche. Tale orientamento si rintraccia anche nella disciplina legislativa del procedimento amministrativo, la quale prevede diverse norme per la comunicazione personale agli interessati, da eseguire a cura del responsabile del procedimento, anche con strumenti telematici (artt. 3-bis, 6, 7, 8 e 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»). La modifica dell’art. 204-bis del codice della strada, inoltre, ha avuto il chiaro intento di porre rimedio al problema lamentato dal giudice rimettente, consistente nel «pressoché costante comportamento assenteista» dell’opponente a fronte della comunicazione del provvedimento di convocazione con deposito presso la cancelleria, previsto dall’art. 22 della legge n. 689 del 1981.
2.4. – In conclusione, sia lo sviluppo tecnologico e la crescente diffusione di nuove forme di comunicazione, sia l’evoluzione del quadro legislativo, hanno reso irragionevole l’effetto discriminatorio determinato dalla normativa censurata, che contempla il deposito presso la cancelleria quale unico modo per effettuare notificazioni all’opponente che non abbia dichiarato residenza o eletto domicilio nel comune sede del giudice adito né abbia indicato un suo procuratore. L’art. 22, quarto e quinto comma, della legge n. 689 del 1981, pertanto, vìola gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, a richiesta del ricorrente, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria.
3. – Resta assorbito ogni altro profilo di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, quarto e quinto comma, della legge 11 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevede, a richiesta dell’opponente, che abbia dichiarato la residenza o eletto domicilio in un comune diverso da quello dove ha sede il giudice adito, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Sabino CASSESE, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 dicembre 2010.

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