SENTENZA N. 355
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, promossi dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la Regione Umbria con ordinanza del 16 novembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la Regione Calabria con ordinanza del 16 novembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la Regione Campania con ordinanze del 14 e 27 ottobre 2009 e del 9 dicembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la Regione siciliana con ordinanza del 14 ottobre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia con ordinanze del 12 novembre e del 29 dicembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la Regione Toscana con ordinanza del 10 dicembre 2009 e dalla Corte dei conti - sezione prima giurisdizionale centrale d’appello con ordinanza del 17 marzo 2010, rispettivamente iscritte al n. 331 del registro ordinanze 2009 e ai numeri 24, 25, 26, 27, 44, 95, 125, 145 e 162 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 4, 7, 9, 14, 18, 21 e 23, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti gli atti di costituzione di D.T.M.L., di P.G., di B.G. ed altri, fuori termine, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 16 novembre 2010 e nella camera di consiglio del 17 novembre 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;
uditi gli avvocati Luigi Manzi per D.T.M.L., Luigi Medugno per P.G. e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Con ordinanza del 16 novembre 2009 la Corte di conti, sezione giurisdizionale per la Regione Umbria (reg. ord. n. 331 2009), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, per violazione, nel complesso, degli artt. 3, 24, primo comma, 54, 81, quarto comma, 97, primo comma, 103, secondo comma, della Costituzione, nonché del combinato disposto dei periodi secondo, terzo e quarto, del suddetto art. 17, comma 30-ter, per violazione dell’art. 111 Cost.
1.1.— Il giudice a quo premette che la procura regionale ha convenuto il presidente, taluni consiglieri di amministrazione e il direttore generale dell’azienda speciale farmacie municipalizzate di Terni (AsFM) perché venissero condannati al risarcimento del danno complessivo di euro 273.165,77, causato alle finanze aziendali per avere, con condotta gravemente colposa, attivato il centro salute «Hera», previsto nel piano- programma per gli anni 2000 e 2001, prima della richiesta delle prescritte autorizzazioni. Inoltre, l’azienda, «per la diffusione mediatica assunta dalla vicenda», avrebbe subito «un danno d’immagine stimato in 40 mila euro».
Il giudice a quo deduce come la controversia abbia ad oggetto soltanto la questione relativa al danno all’immagine, in quanto è stata disposta la separazione di quella avente ad oggetto il danno patrimoniale.
1.2.— Il giudice stesso dubita della legittimità costituzionale del citato art. 17, comma 30-ter, il quale prevede che le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione, di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale.
A tale proposito, il giudice remittente richiama l’orientamento della Corte di cassazione e della stessa Corte dei conti, secondo cui il danno all’immagine e al prestigio della pubblica amministrazione rientrerebbe nella categoria del danno patrimoniale e sarebbe dovuto anche in assenza dell’accertamento di un fatto di reato.
Si assume al riguardo che la questione sollevata sarebbe rilevante sia perché la norma impugnata ha una valenza processuale, che la rende applicabile ai giudizi in corso, sia perché per i fatti per i quali si procede non è stata proposta azione penale.
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, che «la formulazione ellittica della disposizione in rassegna ha indotto il Collegio dapprima a ricercarne una lettura “costituzionalmente orientata” e, all’esito, di vedersi pervaso da dubbi di costituzionalità, quale che fosse la possibile soluzione individuata». In particolare, si rileva come due sarebbero le possibili interpretazioni della norma: una prima dovrebbe condurre a ritenere che il legislatore ha voluto affermare il principio in base al quale il danno all’immagine ed al prestigio della p.a. non possa ricevere tutela giurisdizionale, se non in presenza di fattispecie costituenti anche reato accertato; la seconda, invece, porterebbe a sostenere che la tutela sia piena ma ottenibile in sedi giurisdizionali differenti e cioè innanzi alla Corte dei conti per le fattispecie costituenti anche reato e innanzi ad altro giudice in tutti gli altri casi.
Accedendo alla prima interpretazione la norma impugnata sarebbe illegittima per violazione:
a) dell’art. 3 Cost., in quanto introdurrebbe una irrazionale differenziazione di tutela tra le fattispecie di danno all’immagine e le altre tipologie di danno subito dalla p.a., aventi anch’esse rilievo patrimoniale;
b) dell’art. 24 Cost., in quanto la procura contabile potrebbe agire in giudizio soltanto in presenza del preventivo esercizio dell’azione penale;
c) degli artt. 54 e 97 Cost., in quanto si impedirebbe alla p.a. di ottenere piena tutela in tutte le ipotesi in cui soggetti ad essa collegati da un rapporto di servizio «le abbiano causato il danno all’immagine».
Si osserva, inoltre, come siano state emanate altre disposizioni che si muovono in senso opposto rispetto a quello tracciato dalla norma impugnata. Si richiama, al riguardo, la legge 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti).
Accedendo alla seconda interpretazione, sarebbe violato l’art. 103, secondo comma, Cost., il quale attribuisce alla Corte dei conti la «giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica».
Sempre nell’ambito della seconda interpretazione, si assume, altresì, il contrasto della norma impugnata con il combinato disposto degli artt. 3 e 103 Cost. Ciò in quanto, dinnanzi al giudice contabile varrebbe la limitazione di responsabilità soltanto in presenza di condotte poste in essere con dolo o colpa grave, mentre tale limitazione non opererebbe innanzi al giudice ordinario.
Il Collegio remittente ritiene, infine, che sussistano altre ragioni di contrasto della norma con la Costituzione «distinte ed autonome rispetto a quelle sin qui esplicitate».
In particolare, si assume, in primo luogo, che sarebbe stato violato l’art. 81, quarto comma, Cost., il quale prevede che «ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Nel caso in esame la norma censurata, limitando la responsabilità amministrativa, imporrebbe all’amministrazione di sostenere con proprie risorse il danno subito senza, però, indicare come fare fronte a tale «maggiore spesa».
In secondo luogo, il giudice a quo rileva che le disposizioni impugnate, insieme al quarto periodo, si porrebbero in contrasto con l’art. 111 Cost. Ciò in quanto la disposizione «è suscettibile di provocare una sorta di “doppio binario” processuale, ad assetto variabile, in quanto – per gli stessi fatti – i limiti posti all’azione della procura, sanzionati con la nullità, sono operanti esclusivamente se chi vi ha interesse dia o meno corso al giudizio incidentale per l’accertamento della nullità degli atti istruttori o processuali sui quali si fonda l’addebito».
2.— Si sono costituiti in giudizio (oltre il termine previsto) G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R., chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile per irrilevanza, in quanto il giudice remittente avrebbe dovuto verificare, in via preliminare, se sussistessero i presupposti per la condanna al risarcimento del danno all’immagine; presupposti che non sarebbero presenti essendo, tra l’altro, il relativo diritto prescritto.
Nel merito si svolgono ampie argomentazioni volte a dimostrare la infondatezza di tutte le censure formulate.
3.— Con ordinanza del 16 novembre 2009 (reg. ord. n. 24 del 2010), la Corte di conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, ha sollevato anch’essa questione di legittimità costituzionale del citato art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo.
Il giudice a quo premette, in punto di fatto, che, con provvedimento n. 482 del 6 dicembre 1999, la Regione Calabria delineava le linee guida per la realizzazione delle campagne di screening per la diagnosi precoce e la prevenzione dei tumori femminili.
Con nota n. 6261 del 20 febbraio 2001, il direttore generale dell’assessorato alla sanità richiedeva al predetto assessorato di potere acquistare, con l’impiego dei fondi regionali finalizzati, un particolare sistema mammografico. Tale acquisto veniva autorizzato dall’assessorato con nota del 12 aprile 2001 n. 9086.
Secondo la procura contabile, il predetto acquisto «avrebbe di fatto impedito la realizzazione dei programmi di screening poiché le somme destinate a tale acquisto (pari ad euro 647.822,88) sarebbero state sottratte alla realizzazione del progetto di prevenzione cui erano state originariamente destinate».
Da tali condotte sarebbe derivato, oltre un danno patrimoniale, anche un «danno all’immagine». In relazione a tale ultima voce di danno si pone in evidenza come la vicenda avrebbe avuto una forte risonanza sui mezzi di comunicazione.
3.1.— Esposto ciò, dopo avere rilevato che non sussiste la eccepita nullità dell’atto di citazione per indeterminatezza della notizia di reato, la Corte remittente ha, innanzitutto, sottolineato come le questioni siano rilevanti, in quanto la norma censurata, precludendo l’azione in mancanza di un fatto di reato, impedirebbe, nella specie, di pervenire ad una pronuncia nel merito. Inoltre, tale disposizione presenterebbe natura processuale, con la conseguenza che la stessa si applicherebbe nei giudizi in corso.
3.1.1.— Per quanto attiene al giudizio di non manifesta infondatezza, la Corte premette che il danno all’immagine della pubblica amministrazione avrebbe una valenza pubblicistica e, pertanto, si realizzerebbe non con la lesione del «buon nome» o della «identità personale», ma con il pregiudizio al «prestigio» dell’amministrazione stessa. Ne consegue che, qualora lo Stato, o gli altri enti pubblici, a causa della condotta illecita di un proprio dipendente (o amministratore) perdano di prestigio, si affievolirebbe nei cittadini «il desiderio di partecipazione, il sentimento di appartenenza e di affidamento alle istituzioni».
In questa prospettiva, la tutela dell’immagine dovrebbe essere considerata un diritto che trova la sua matrice costituzionale nell’art. 2 Cost., la cui lesione sarebbe, pertanto, risarcibile ex art. 2059 del codice civile, senza che sia necessario il previo accertamento della sussistenza di una condotta penalmente rilevante.
3.1.2.— Ciò premesso, si assume il contrasto della norma censurata con gli artt. 2 e 24 Cost. Infatti, tale norma, consentendo la risarcibilità soltanto in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna per la commissione di un delitto contro la pubblica amministrazione, negherebbe la possibilità giuridica alla procura contabile di agire in giudizio, «così svuotando di contenuto un diritto riconosciuto alla pubblica amministrazione proprio in virtù dell’art. 2 della Costituzione».
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, come non sarebbe neanche prospettabile una interpretazione conforme a Costituzione, che riconosca “negli altri casi” la sussistenza di una tutela giurisdizionale in altra sede.
Ne consegue che non si porrebbe una questione «di difetto di giurisdizione del giudice contabile a favore di altro giudice ma di carenza di qualsivoglia tutela», con conseguente violazione dell’art. 24 Cost.
3.1.3.— Sotto altro aspetto, si assume il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. Infatti, la disposizione in esame creerebbe una irragionevole ed illogica disparità di trattamento tra la tutela all’immagine assicurata alle persone giuridiche private, per le quali non varrebbe alcun limite, e quella garantita alle persone giuridiche pubbliche, per le quali varrebbero i limiti in esame.
Secondo la Corte, se è pur vero che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può stabilire quali siano i comportamenti idonei a fondare la responsabilità amministrativa, è altrettanto vero che tali scelte devono essere non irragionevoli. La scelta legislativa di limitare la responsabilità ai soli casi di colpa grave e consentire la riduzione dell’addebito avrebbe una motivazione adeguata nell’esigenza di evitare «rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa». Ma nel caso in esame non sarebbe rinvenibile alcuna giustificazione «ove si consideri la peculiare connotazione dell’immagine pubblica».
3.1.4.— Il remittente ritiene che la disposizione censurata abbia un contenuto irragionevole anche perché introdurrebbe una disciplina differenziata tra condotte delittuose, in relazione alle quali si riconosce la tutela, e condotte illecite non delittuose, in relazione alle quali non si riconosce la tutela, ancorché possano comunque causare il danno all’immagine della pubblica amministrazione.
3.1.5.— La violazione dell’art. 3 Cost. sussisterebbe anche perché il legislatore ha inteso limitare la responsabilità soltanto in presenza dei reati previsti dal capo I, titolo II, del libro secondo del codice penale, «precludendo così il risarcimento del danno all’immagine in tutte le altre ipotesi delittuose, tra le quali ve ne sono certamente più gravi». Inoltre, la norma creerebbe una disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e amministratori, in quanto, per questi ultimi, non opererebbero le limitazioni previste dalla disposizione impugnata.
Entrambi questi profili non sarebbero, però, rilevanti, in quanto nel caso in esame non è stata pronunciata alcuna sentenza di condanna.
3.1.6.— Sarebbe, inoltre, violato l’art. 97 Cost., atteso che, sebbene il buon andamento e l’imparzialità «non costituiscono il fondamento costituzionale della tutela dell’immagine pubblica», la «stretta relazione tra l’immagine pubblica e l’agire corretto» e la circostanza che gli stessi costituiscono «criteri cui deve essere improntata l’azione amministrativa affinché il prestigio pubblico non venga leso», comportano che «una ridotta tutela della prima inevitabilmente indebolisce il diritto sostanziale dell’amministrazione ad agire, attraverso i propri funzionari, in modo corretto, imparziale, efficace ed efficiente».
3.1.7.— Viene ipotizzata, poi, la violazione degli artt. 25 e 103 Cost.
Si rileva, infatti, che la Corte dei conti, istituzionalmente, ha una giurisdizione esclusiva nelle controversie che riguardano soggetti legati alla pubblica amministrazione da un rapporto di servizio per il danno erariale causato dalla loro condotta, fattispecie, quest’ultima, alla quale deve ricondursi anche il danno all’immagine, che, come più volte chiarito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, deve essere inteso come «la spesa necessaria al ripristino del prestigio», costituendo così un danno a contenuto patrimoniale in quanto suscettibile di valutazione economica.
Orbene, poiché nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, non è possibile configurare l’esercizio dell’azione per il risarcimento di tale danno innanzi ad altra autorità giudiziaria diversa dalla Corte dei conti.
3.1.8.— Infine, il giudice a quo sottolinea come la norma, pur essendo inserita nell’ambito di un decreto-legge volto a razionalizzare le risorse erariali per il rilancio dell’economia, perseguirebbe «l’obiettivo contrario e cioè quello di imporre alle amministrazioni pubbliche le spese effettivamente sostenute a ristoro del detrimento del proprio prestigio».
3.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate vengano dichiarate manifestamente inammissibili e infondate.
In primo luogo, si osserva come la limitazione di responsabilità in esame non sarebbe viziata da manifesta illogicità. A dimostrazione di come il legislatore possa introdurre limiti alla responsabilità contabile, si richiama l’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti) che, al comma 1, prevede che tale responsabilità è configurabile in presenza, tra l’altro, di fatti ed omissioni «commessi con dolo e colpa grave». Questa norma è stata ritenuta non in contrasto con la Costituzione dalla sentenza n. 371 del 1998 di questa Corte.
L’Avvocatura sostiene che i principi enunciati dalla citata pronuncia varrebbero anche nel caso in esame, in quanto verrebbe pur sempre in rilievo una norma che pone limiti alla responsabilità contabile anche se «sotto il diverso profilo oggettivo del danno per il cui ristoro si agisce» e non dei criteri di imputazione della responsabilità.
La difesa dello Stato mette, poi, in rilievo che la norma censurata non esclude in assoluto la risarcibilità del danno all’immagine «ma la limita a quelle fattispecie ritenute di maggiore gravità alle quali si ricollega – con l’esercizio dell’azione penale – anche l’evidente pregiudizio collegato allo strepitus fori».
Del resto, si sottolinea, anche le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 26972 del 2008, hanno posto limiti alla risarcibilità del danno non patrimoniale, richiedendo che la legge debba riguardare un interesse avente rilevanza costituzionale e che la lesione debba essere grave e il danno non futile.
Per quanto attiene, poi, all’asserita violazione dell’art. 24 Cost., si richiama, per dimostrare l’infondatezza della censura, l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, secondo il quale «la garanzia apprestata dall’art. 24 della Costituzione opera attribuendo tutela processuale delle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano riconosciute dal legislatore», trovando dunque confini nel contenuto del diritto sostanziale così come delineato dall’ordinamento (sentenza n. 327 del 1998).
Per quanto attiene alla censura fondata sugli artt. 25 e 103 Cost., se ne deduce l’inammissibilità, «in quanto prospettata in via ipotetica ed eventuale alla luce di una interpretazione della norma che si afferma non possibile». In ogni caso, si aggiunge, «nessuno spostamento di giurisdizione o limitazione di poteri giurisdizionali si verifica nel caso in esame, incidendo la disposizione solo sull’ambito delle pronunce che possono essere rese nel merito dal giudice contabile alla luce dei diritti sostanziali azionabili».
Non sarebbe, inoltre, fondata la censura con cui si deduce la violazione del principio di uguaglianza, in quanto la diversità di trattamento giuridico sarebbe giustificata dalla diversità delle posizioni dei soggetti coinvolti dall’azione di responsabilità.
Per quanto attiene, poi, alla doglianza prospettata con riferimento alla limitazione dei reati posta dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001, si osserva, in primo luogo, come, «ammesso che l’interpretazione delle norme suggerita dalla Corte remittente sia effettivamente corretta, la stessa non esclude l’esperibilità di altri rimedi in altra sede giurisdizionale diversa dalla Corte di conti, sì da consentire un ristoro del danno all’immagine». In secondo luogo, si sottolinea che si sarebbe, in ogni caso, in presenza di una «valutazione discrezionale del legislatore, non irrazionale e quindi non censurabile, essendo in linea di principio ragionevole volere limitare la risarcibilità di un tipo di danno a quelle fattispecie che per l’amministrazione di appartenenza – e quindi dall’opinione pubblica – possono essere percepite come più gravi in quanto rivolte proprie contro l’ente nell’interesse del quale si sarebbe dovuto agire».
Infine, in relazione all’asserita violazione dell’art. 97 Cost., si osserva come «la norma delimiti in maniera equilibrata le ipotesi di risarcibilità di cui si tratta, proprio nel perseguimento di quei fini pubblici che – ha ritenuto il legislatore – rischierebbero di essere obliterati da un troppo severo ampliamento della sfera di responsabilità: essa si riverbererebbe, infatti, inevitabilmente sulla rapidità ed efficacia dell’agire amministrativo».
4.— Analoga questione di legittimità costituzionale della norma in esame ha sollevato, con ordinanza del 14 ottobre 2009, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania (reg. ord. n. 25 del 2010), la quale ha, peraltro, limitato le censure ai soli periodi secondo e terzo del comma 30-ter dell’art. 17.
La remittente premette che la procura contabile aveva evocato in giudizio taluni «esponenti» del Comune di Benevento che, con il loro comportamento gravemente colposo, consistito nel «mancato rispetto degli obblighi inerenti il mancato raggiungimento delle percentuali minime di raccolta differenziata dei rifiuti» per gli esercizi 2003, 2004 e 2005, avevano cagionato, oltre che un rilevante danno patrimoniale, anche un danno derivante dalle spese necessarie per il ripristino del pregiudizio all’immagine dell’ente.
4.1.— La Corte remittente rileva, innanzitutto, come la questione sia rilevante, in quanto la norma censurata, limitando la legittimazione dell’ufficio requirente contabile ad agire in giudizio, avrebbe natura processuale, con la conseguenza che si applicherebbe anche ai giudizi in corso.
4.1.1.— Con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione, si assume, in primo luogo, la violazione dell’art. 2 Cost., in quanto tale articolo, garantendo i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, impone che venga assicurata la tutela del diritto all’immagine sia delle persone fisiche sia delle persone giuridiche, pubbliche e private.
A tale proposito, si rileva come l’art. 2059 cod. civ. riconosca il risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori delle ipotesi in cui le condotte poste in essere integrano gli estremi di fatti di reato, ogniqualvolta venga lesa una posizione giuridica soggettiva tutelata a livello costituzionale.
4.1.2.— Sotto altro profilo, il giudice a quo ritiene che la norma violi l’art. 3 Cost., in quanto creerebbe una disparità di trattamento tra il dipendente pubblico e gli amministratori, compresi quelli degli enti locali, che non sarebbero destinatari della disposizione censurata. Quest’ultima, infatti, ammette il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001, il quale si occupa esclusivamente dei dipendenti pubblici. Inoltre, l’ente si troverebbe in una «ingiustificata posizione di svantaggio nei confronti del dipendente pubblico».
A tale proposito, si puntualizza che «l’irragionevolezza di tale distinzione risulta di tutta evidenza ove si ponga mente alla circostanza che sono proprio gli amministratori, che rappresentano nei rapporti giuridici e politici gli enti pubblici, a porre maggiormente in pericolo il prestigio degli enti stessi, piuttosto che i dipendenti pubblici legati a tali enti da un mero rapporto lavorativo».
Non si comprenderebbero neanche le ragioni della scelta del legislatore, il quale non avrebbe collegato il «privilegio perpetuo» ad una «fondata circostanza».
Un ulteriore profilo di irragionevole disparità di trattamento vi sarebbe tra la pubblica amministrazione e i restanti soggetti dell’ordinamento, «in quanto il deterioramento dell’immagine della prima non è sanzionato se non in casi limite dipendenti dalla commissione di gravi delitti, mentre quello dei secondi è ben tutelato in tutti i casi di commissione di illecito anche di non rilievo penale».
4.1.3.— Secondo il remittente, la norma censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 97 Cost., in quanto, da un lato, «determina un’alterazione della funzionalità degli enti pubblici sotto il delicato profilo della reputazione e della conseguente fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni», dall’altro, «contraddice» il principio di imparzialità «che si risolve essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale».
4.1.4.— Sotto altro aspetto la manifesta irragionevolezza della disposizione in esame risulterebbe dal fatto che la norma è stata introdotta dalla legge di conversione «senza che nel corso della brevissima discussione», avente ad oggetto la norma stessa, «ne siano state valutate a pieno la portata e le conseguenze».
4.1.5.— Sarebbero violati, altresì, gli artt. 24, primo comma, che riconosce a tutti il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi e 113, primo e secondo comma, Cost., che non consentirebbero «alcuna limitazione alla tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi in materia di funzione amministrativa».
4.1.6.— Il contrasto, invece, con l’art. 81, quarto comma, Cost., deriverebbe dal fatto che non sarebbe stata prevista alcuna copertura finanziaria «della minore entrata imposta agli enti pubblici a causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze di natura derivata».
4.1.7.— Infine, si assume la violazione degli artt. 103, secondo comma, e 25, primo comma, Cost. Ciò in quanto, alla luce delle citate disposizioni costituzionali, al legislatore non sarebbe consentito, da un lato, «escludere apoditticamente la giurisdizione della Corte dei conti con riferimento ad ipotesi specifiche di responsabilità rientranti tradizionalmente e genericamente nella materia della contabilità pubblica», dall’altro, distogliere la controversia dal suo giudice naturale «successivamente al verificarsi del fatto generatore».
4.2.— È intervenuto anche in tale giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate vengano dichiarate inammissibili o infondate.
L’Avvocatura, dopo avere svolto la premessa già contenuta nell’atto di intervento depositato nel giudizio riferito all’ordinanza n. 24 del 2010, riprende le stesse argomentazioni con riguardo alle censure formulate in relazione agli artt. 24 (nel caso in esame si richiama anche l’art. 113 ma le deduzioni non mutano) e 97 Cost.
Con riferimento all’asserita violazione del principio di uguaglianza si aggiunge come, «a prescindere dal fatto che è lecito dubitare che l’interpretazione fornita dal remittente sia effettivamente corretta e l’unica possibile sotto il profilo, ad esempio, della non applicabilità della norma in esame agli “amministratori” degli enti e agli altri soggetti legati da (mero) rapporto di servizio», sarebbe sufficiente porre in rilievo la diversità della posizione dei soggetti che provocano o subiscono il danno per giustificare la diversità di trattamento.
Per quanto attiene poi all’asserita violazione dell’art. 81 Cost., l’Avvocatura sottolinea l’inconferenza del parametro costituzionale evocato.
Infine, con riferimento all’asserita violazione degli artt. 25 e 103 Cost., si rileva come «nessuno spostamento di giurisdizione o limitazione dei poteri giurisdizionali si verifica nel caso in esame».
5.— Con ordinanza del 27 ottobre 2009, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania (reg. ord. n. 26 del 2010), ha sollevato una ulteriore questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il medesimo comma 30-ter, limitatamente ai periodi secondo e terzo.
Il giudice a quo premette che la procura contabile aveva citato in giudizio due dipendenti del Ministero delle finanze, uno solo dei quali è stato condannato con sentenza passata in giudicato ma per un reato non rientrante tra quelli indicati nel capo relativo ai «delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione».
5.1.— Ciò premesso, la Corte remittente solleva la questione di legittimità costituzionale per le medesime ragioni contenute nell’ordinanza del 14 ottobre 2009 (r.o. n. 25 del 2009).
In particolare, si aggiunge che «non appare coerente con il sistema costituzionale e con i principi del diritto non considerare dannosi per il prestigio dell’amministrazione gli illeciti penali diversi da quelli specifici contenuti nel capo I del titolo II del libro II del codice penale, in quanto anche gli altri – ove compiuti nell’esercizio delle funzioni pubbliche o in occasione di esse – sono senz’altro lesivi dell’immagine della p.a.».
5.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato un atto avente lo stesso contenuto di quello depositato nel giudizio promosso con l’ordinanza reg. ord. n. 25 del 2006.
6.— La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, ha sollevato, con ordinanza del 9 dicembre 2009 (reg. ord. n. 27 del 2010), altra questione di legittimità costituzionale avente sempre ad oggetto l’art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo.
6.1.— Il giudice a quo premette che la procura contabile aveva evocato in giudizio il sindaco, un dirigente, un capo servizio ed un responsabile di un ufficio del Comune di Marcianise perché gli stessi venissero condannati al pagamento, pro quota, di determinate somme per il «mancato rispetto degli obblighi inerenti il mancato raggiungimento da parte del Comune di Marcianise delle percentuali minime di raccolta differenziata dei rifiuti» per gli esercizi 2003, 2004 e 2005. In particolare, ai soggetti convenuti in giudizio veniva richiesto, tra l’altro, il risarcimento di danni per lesione dell’immagine dell’ente regionale a causa dell’«enorme risonanza nella pubblica opinione dell’emergenza rifiuti, con risalto anche all’estero ed impatto fortemente negativo per il settore turistico».
6.1.2.— Si assume che la questione sarebbe rilevante, in quanto la norma impugnata, avendo natura processuale, si applicherebbe ai giudizi in corso, imponendo l’accoglimento dell’eccezione di nullità della domanda risarcitoria di danno all’immagine.
6.1.3.— Per quanto attiene al giudizio di non manifesta infondatezza si assume la violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la norma impugnata, con prescrizione non ragionevole, avrebbe introdotto un limite all’esercizio dell’azione di danno soltanto a favore dei dipendenti pubblici e non anche degli amministratori, nonostante a quest’ultimi sia rimessa «l’attività di formazione degli indirizzi politici dell’ente, laddove ai dipendenti è affidata la fase propriamente gestionale se non addirittura operativa».
6.1.4.— Il giudice a quo assume, inoltre, che sia priva di ragionevole giustificazione la scelta legislativa di ammettere l’azione di risarcimento del danno soltanto in presenza di una condanna definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione e non anche in presenza di altre ipotesi delittuose o di «illeciti gestionali caratterizzati da colpa grave».
6.1.5.— Sarebbe, inoltre, violato anche l’art. 103 Cost., in quanto la norma, escludendo la risarcibilità in presenza di delitti diversi da quelli contro la pubblica amministrazione, inciderebbe sull’ambito della giurisdizione della Corte dei conti.
6.1.6.— Sarebbero, violati, anche gli artt. 24, primo comma, che riconosce a tutti il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi, e 113, primo e secondo comma, Cost.
6.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha esposto, con riguardo agli evocati artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., le argomentazioni già indicate negli altri atti di intervento. La difesa dello Stato ha aggiunto che le norme in esame possono essere interpretate in senso conforme a Costituzione, ritenendo che la responsabilità si estende non solo ai dipendenti ma anche agli amministratori.
7.— La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, ha anch’essa sollevato, con ordinanza del 14 ottobre 2009 (reg. ord. n. 44 del 2010), questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del citato decreto-legge n. 78 del 2009.
7.1.— Il remittente premette che la procura contabile aveva chiesto la condanna di un assistente di polizia penitenziaria presso la casa circondariale di ############### al pagamento della somma di euro 10.000,00, oltre le spese di giudizio, a titolo di danno erariale subito dal Ministero della giustizia. In particolare, veniva contestato al dipendente la lesione dell’immagine dell’ente a causa della condotta tenuta dallo stesso e consistita nella commissione di reati, accertati con sentenza irrevocabile, di violenza sessuale, con abuso di qualità e di poteri, e di concussione ai danni di alcuni detenuti. In concreto la sussistenza del danno sarebbe dimostrata dalla pubblicità che la vicenda in esame avrebbe avuto presso la stampa locale.
7.1.1.— Ciò premesso, il giudice a quo assume che la questione è rilevante, in quanto la norma impugnata, ammettendo la proposizione dell’azione di danno soltanto in presenza di delitti contro la pubblica amministrazione, non consentirebbe un giudizio di merito sull’intera domanda. Inoltre, la nullità dell’azione può essere rilevata d’ufficio dal giudice; ma anche qualora si volesse argomentare diversamente, deve ritenersi, puntualizza la Corte remittente, che il pubblico ministero, sollevando l’eccezione di legittimità costituzionale, «ha implicitamente riconosciuto ed eccepito la nullità sopravvenuta in parte qua dell’atto di citazione».
7.1.2.— Prima di esporre le ragioni a sostegno della non manifesta infondatezza della questione, il remittente precisa che la norma, per il suo chiaro contenuto precettivo, non è suscettibile di essere interpretata in modo conforme a Costituzione.
7.1.3.— Chiarito ciò, si assume, innanzitutto, la violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevolezza della scelta legislativa di ammettere la risarcibilità soltanto in presenza di comportamenti che integrano gli estremi di delitti contro la pubblica amministrazione e non anche di altri reati, quali, ad esempio, i reati di violenza sessuale, che possano avere anche una maggiore idoneità lesiva dell’immagine della pubblica amministrazione, soprattutto quando, come nel caso oggetto del giudizio a quo, essi vengono consumati all’interno di un istituto penitenziario.
7.1.4.— Sotto altro aspetto, si rileva come sarebbe irragionevole la scelta legislativa di ancorare alla tipologia dei reati il ridimensionamento della legittimazione all’esercizio dell’azione.
7.1.5.— Inoltre, la irragionevolezza della norma in esame risulterebbe dal fatto che essa è inserita in un testo legislativo che ha, quale principale finalità, quella di prevedere misure idonee a fronteggiare l’attuale crisi economica. La disposizione in esame, si sottolinea, comporterebbe, invece, addirittura «un maggiore esborso, qualora l’ente danneggiato debba ricorrere alla costituzione di parte civile nel processo penale o alla coltivazione dell’azione risarcitoria direttamente nel giudizio civile per ottenere la piena reintegrazione alla propria immagine lesa».
7.1.6.— La norma censurata comporterebbe, altresì, un’evidente disparità di trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico che, avendo commesso uno dei delitti contro la pubblica amministrazione, sono sottoposti alla giurisdizione contabile, e dipendenti che, pur avendo commesso un altro delitto con abuso delle funzioni ricoperte e nell’esercizio delle stesse, «sono sottoposti, per il risarcimento del danno all’immagine, alla giurisdizione ordinaria, con un differente regime processuale e prescrizionale».
7.1.7.— La Corte remittente ritiene che la norma contrasti anche con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), in quanto, da un lato, «indebolisce l’efficacia deterrente del giudizio di responsabilità; dall’altro, come nella presente fattispecie ed in ipotesi similari, comporta il dispendio di maggiori risorse a carico dell’erario per l’attivazione di plurimi giudizi volti ad ottenere l’“integrale” risarcimento del danno all’immagine, pur essendo state poste in essere condotte da parte di un pubblico dipendente in un unico contesto criminoso, integranti sia le ipotesi delittuose di cui al capo I del titolo II del libro secondo del codice penale che altre fattispecie delittuose».
7.1.8.— Infine, si assume la violazione dell’art. 24 Cost., «dal momento che la limitazione della legittimazione ad agire del pubblico ministero, nella maggior parte dei casi, si configura come una minorata tutela dell’erario giacché l’iniziativa processuale è lasciata alle stesse amministrazioni danneggiate, con possibili pratiche lassiste».
7.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale, dopo avere svolto la premessa già esposta, ha sottolineato come le questioni siano inammissibili, in quanto il remittente, formulando «un giudizio di “maggiore pregnanza” di determinate fattispecie criminose rispetto ad altre, compie in realtà un apprezzamento assolutamente soggettivo e ovviamente opinabile, intendendo così sostituire le proprie valutazioni a quelle del legislatore».
In relazione, poi, all’asserita irragionevolezza della norma, l’Avvocatura dello Stato fa presente come sia lo stesso giudice remittente ad affermare che «non sarebbe preclusa, in caso di presunto danno all’immagine derivante dalla commissione di reati diversi da quelli previsti dalla norma, la possibilità di agire per il risarcimento innanzi ad un giudice diverso dal giudice contabile».
Per quanto attiene, invece, alla irragionevolezza connessa alla collocazione sistematica della norma, si osserva come «a prescindere dalla correttezza di una prassi ormai assolutamente costante dal (solo) punto di vista della “buona tecnica legislativa”, non si vede (né si dimostra in alcun modo) come la sedes prescelta possa in sé aver inficiato le compiute valutazioni del legislatore e la ragionevolezza della norma».
Con riferimento all’asserita differenziazione ingiustificata tra le posizioni dei dipendenti sottoposti o meno alla giurisdizione contabile, si deduce come non sia «del tutto chiaro se la censura si riferisca alla differenza esistente, in linea generale, tra soggetti-dipendenti pubblici sottoposti o sottratti alla giurisdizione contabile (…), ovvero alla differenza di trattamento in ipotesi ravvisata nell’ambito dei soggetti tutti sottoposti a tale giurisdizione con riferimento alla risarcibilità di determinati danni».
Con riferimento alla censura riferita all’art. 24 Cost., si assume come essa sia inammissibile, in quanto formulata in forma eventuale. Nel merito, si ribadiscono le argomentazioni contenute negli altri atti difensivi.
8.— La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, ha anch’essa sollevato, con ordinanza del 29 dicembre 2009 (reg. ord. n. 125 del 2010), questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo.
8.1.— La procura contabile aveva chiesto la condanna di un ispettore di polizia di Stato al risarcimento del danno subito dall’immagine dell’amministrazione di appartenenza. In particolare, si era contestato al convenuto di avere preteso, abusando della propria qualità e dei suoi poteri, di accedere gratuitamente in locali aperti al pubblico.
Per tale vicenda era stato iniziato un procedimento penale per il reato di concussione, che aveva portato alla condanna in primo grado e all’assoluzione in appello perché «il fatto non costituisce reato».
8.1.1.— Secondo il giudice a quo la questione sarebbe rilevante, in quanto la norma, applicabile ai giudizi in corso, in ragione della sua natura processuale, impedirebbe la definizione nel merito della controversia, dovendo la Corte declinare la propria giurisdizione.
8.1.2.— Con riferimento al giudizio sulla non manifesta infondatezza, si assume, innanzitutto, la violazione dell’art. 2 Cost. che, letto in combinato disposto con l’art. 2059 cod. civ., assicurerebbe il risarcimento del danno per lesione del diritto all’immagine della pubblica amministrazione a prescindere dalla sussistenza di un fatto di reato. In questa prospettiva, sottolinea il giudice a quo, la norma censurata porrebbe «un limite irragionevole (e, soprattutto, incomprensibile) alla piena protezione di un primario valore costituzionale garantito anche per una figura soggettiva pubblica».
8.1.3.— Sarebbe violato, altresì, l’art. 97 Cost., in quanto la previsione legislativa censurata favorirebbe «l’irresponsabilità dei dipendenti pubblici, non più soggetti al giudizio di responsabilità innanzi alla Corte di conti in caso di comportamenti illeciti causativi di danno all’immagine dell’ente di riferimento al di fuori delle ipotesi di reato».
8.1.4.— L’asserita violazione dell’art. 3 Cost. deriverebbe dal fatto che sarebbe intrinsecamente irragionevole limitare l’azione risarcitoria in esame prescindendo da qualunque valutazione circa le caratteristiche e la specifica gravità del comportamento illecito.
8.1.5.— La irragionevolezza sarebbe, inoltre, ulteriormente rafforzata dal fatto che la norma è inserita in una corpus normativo che dovrebbe avere la finalità di introdurre misure idonee al recupero di risorse utili per il Paese. La norma impugnata, invece, favorendo il «lassismo e l’irresponsabilità dei (soli) dipendenti pubblici», si muoverebbe in una contraria direzione.
8.1.6.— L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche per la disparità di trattamento che la norma introduce, da un lato, tra l’ente pubblico e le altre figure soggettive, in quanto solo questi ultimi godrebbero di una tutela piena del proprio diritto all’immagine; dall’altro, tra dipendenti pubblici e amministratori, atteso che la norma censurata non comprenderebbe nel proprio ambito applicativo anche tale ultima categoria di soggetti.
8.1.7.— La Corte remittente assume, inoltre, che sarebbe stato violato, anche in relazione all’art. 25, l’art. 103, secondo comma, Cost., che attribuisce in via generale alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, tra le quali rientrerebbe anche quella in esame.
8.1.8.— Sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., in quanto «l’irrazionale e macchinoso “doppio binario”» inciderebbe sulla legittimazione ad agire del pubblico ministero contabile, «con una presumibile minore tutela dell’erario, in carenza di un organo dotato di strumenti di indagine e poteri istruttori di cui gli ordinari uffici pubblici certo non possono disporre».
8.1.9.— Infine, si deduce la violazione dell’art. 77 Cost., in quanto mancherebbero i presupposti di necessità e di urgenza ai fini dell’emanazione della norma censurata; presupposti che dovrebbero esistere anche in relazione alle norme, quale quella censurata, previste direttamente dalla legge di conversione del decreto-legge.
A tale proposito, il giudice a quo sottolinea che il principio affermato nella sentenza n. 391 del 1995 della Corte costituzionale, secondo cui i predetti presupposti non devono sussistere in relazione alle norme introdotte in sede di conversione, sarebbe stato superato dalla successiva giurisprudenza costituzionale (si richiamano le sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007), secondo cui anche gli emendamenti al decreto-legge in sede di conversione, il cui contenuto sia «dissonante» con quello del decreto, devono rispettare i requisiti della straordinaria necessità ed urgenza.
8.2.— È intervenuto anche in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo quanto già esposto a proposito di altre ordinanze di rimessione, con riferimento alle censure prospettate in relazione agli artt. 2, 3, 24, 25, 97, 103 Cost.
Per quanto attiene all’asserita violazione dell’art. 77 Cost., si assume che la stessa non è fondata, in quanto i requisiti della necessità ed urgenza devono essere presenti soltanto con riferimento al decreto-legge e non anche alla legge di conversione. Si puntualizza, a tale proposito, che la sentenza n. 128 del 2008 della Corte, richiamata nell’ordinanza a sostegno della fondatezza della doglianza, riguarderebbe una fattispecie in cui l’asserito difetto dei presupposti era riferito alla norma contenuta nel decreto-legge.
9.— L’art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, è stato censurato anche, con ordinanza del 10 dicembre 2009 (reg. ord. n. 145 del 2010), dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana.
9.1.— Il giudice a quo espone che la procura contabile aveva citato in giudizio taluni agenti della polizia di Stato in servizio presso la stazione ferroviaria di ############### perché venissero condannati al risarcimento del danno all’immagine subito dall’amministrazione, in conseguenza della condanna dei predetti agenti, con sentenza irrevocabile, per avere commesso, con abuso di autorità, reati di violenza sessuale e di falsità ideologica in atti pubblici.
9.1.2.— La questione di costituzionalità sarebbe rilevante, in quanto la norma impugnata consente la proposizione dell’azione di risarcimento del danno all’immagine soltanto in presenza di delitti contro la pubblica amministrazione. Ne conseguirebbe che, nella specie, se la norma non venisse dichiarata incostituzionale, la Corte dovrebbe dichiarare il proprio difetto di giurisdizione.
9.1.3.— Esposto ciò, si assume, innanzitutto, che la norma censurata contrasterebbe con l’art. 3 Cost., in quanto essa, in maniera irragionevole ed arbitraria, ammetterebbe la tutela risarcitoria del diritto all’immagine della pubblica amministrazione soltanto in presenza di talune condotte illecite.
9.1.4.— Sarebbe, altresì, violato l’art. 24, primo comma, Cost., in quanto la norma limiterebbe il diritto della pubblica amministrazione di agire in giudizio per fare valere i propri diritti ed interessi.
9.1.5.— Viene evocato anche l’art. 97 Cost., in quanto sarebbe violato, da un lato, il principio di buon andamento in ragione della «perdita di fiducia che i cittadini possono nutrire nei confronti delle istituzioni, dando luogo ad una visione poco affidabile dell’amministrazione»; dall’altro, il principio di imparzialità «per gli evidenti effetti distorsivi che ciò comporta sull’organizzazione della pubblica amministrazione sotto il duplice profilo della ridotta potenzialità operativa ed efficienza nella cura dell’interesse pubblico».
9.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo le argomentazioni già esposte negli altri atti difensivi al fine di dimostrare la infondatezza anche della questione in esame.
10.— Il medesimo comma 30-ter, periodi secondo e terzo, è stato censurato anche, con ordinanza del 17 marzo del 2010 (reg. n. 162 del 2010), dalla Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’appello.
10.1.— La Corte remittente, in via preliminare, illustra la vicenda oggetto del giudizio nei seguenti termini.
La procura contabile aveva evocato in giudizio il Presidente dell’Anas, carica ricoperta dal Ministro pro-tempore dei lavori pubblici (dal 22 luglio 1989 al 28 giugno 1992), perché egli venisse condannato, a titolo di responsabilità amministrativa, al pagamento in favore dell’erario della somma 32 miliardi di lire. Tale danno erariale si sarebbe prodotto a causa dei maggiori costi sostenuti dall’amministrazione per l’abnorme diffusione del sistema delle trattative private in luogo delle licitazioni.
Successivamente veniva notificato un atto di citazione integrativo con il quale, oltre a rimodulare l’importo del danno erariale patrimoniale (da 32 a poco più di 20 miliardi di lire), la procura contestava, quale ulteriore voce non ricompresa nell’atto, il danno all’immagine dell’amministrazione.
Con sentenza di primo grado del 17 ottobre 2007, n. 1527 la sezione giurisdizionale per il Lazio ha condannato il convenuto al risarcimento del danno patrimoniale per l’importo di euro 5.000.000. Con la stessa sentenza è stata, invece, dichiarata inammissibile la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale perché la relativa contestazione sarebbe stata introdotta per la prima volta nell’atto di citazione integrativa realizzando una non consentita mutatio libelli.
La predetta sentenza è stata appellata dalla procura. Il giudice remittente, con sentenza del 5 febbraio 2010 n. 75, ha accolto l’appello, ritenendo ammissibile la domanda di risarcimento per danno all’immagine, in quanto la stessa era stata preceduta da uno specifico invito a dedurre, sicché «la contestazione del danno all’immagine doveva prefigurarsi non come una mutatio libelli, bensì come una nuova ed autonoma domanda». A seguito di tale decisione si sarebbe dovuto disporre il rinvio al giudice di primo grado per l’analisi nel merito. A questo punto il giudice a quo si è posto la questione relativa alla disamina dell’eccezione della nullità dell’atto processuale introduttivo del giudizio di appello sollevata dall’appellato alla luce proprio di quanto previsto dalla norma impugnata. Il Collegio ha ritenuto, a tale proposito, che tale norma fosse suscettibile di applicazione in sede di appello «in quanto la sentenza di prime cure ha pronunciato l’inammissibilità della citazione sul punto del danno all’immagine senza entrare nel merito». Pertanto, la Corte invece di disporre il rinvio al giudice di primo grado in relazione al danno all’immagine, ha sollevato, con l’ordinanza sopra citata, questione di legittimità costituzionale della norma in esame.
Per quanto attiene poi al procedimento penale, il giudice a quo descrive in maniera dettagliata tutti i passaggi di tale procedimento, rilevando come esso si sia concluso con una sentenza (n. 2257 del 2005), emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma, di assoluzione «perché il fatto non sussiste». Ma ciò, si puntualizza, non è avvenuto «a seguito di un sostanziale riesame di merito, ovvero per vizi propri della sentenza di primo grado», ma «per la dichiarata incompetenza funzionale del collegio per i reati ministeriali (accertata dalla Corte d’appello applicando i principi resi da una sentenza della Corte costituzionale nelle more intervenuta) e a seguito dell’approvazione legislativa di una nuova norma di garanzia, incidente anche sul valore probatorio delle dichiarazioni già correttamente rese».
10.1.2.— Ciò premesso, il giudice remittente sottolinea come la questione proposta sia rilevante, in quanto l’applicazione della norma impugnata precluderebbe l’analisi nel merito della domanda di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione.
10.1.3.— Prima di esporre, nello specifico, le ragioni poste a fondamento del giudizio di non manifesta infondatezza, il predetto giudice rileva come la norma censurata possa «prefigurare due distinte opzioni interpretative, tra loro alternative». Secondo una prima interpretazione la disposizione in esame avrebbe ridotto l’area di configurabilità del danno all’immagine. Secondo una diversa interpretazione, invece, il legislatore avrebbe inteso ripartire la cognizione dei comportamenti lesivi del diritto all’immagine della pubblica amministrazione tra giudice contabile e giudice ordinario.
Entrambe «le possibilità interpretative», puntualizza il giudice remittente, «non sembrano costituzionalmente conformi ed orientate». Infatti, in entrambe le evenienze verrebbero violati i principi di ragionevolezza e uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché il principio di buon andamento (art. 97 Cost.). La prima interpretazione contrasterebbe, inoltre, con gli artt. 24 e 25 Cost.
10.1.4.— L’ordinanza assume che la norma impugnata violerebbe il principio di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost., in quanto «l’immagine della pubblica amministrazione si immedesima con il buon andamento e con l’imparzialità costituzionalmente protetti» e «rappresenta uno strumento per la percezione esterna della correttezza della gestione».
10.1.5.— Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza, atteso che il legislatore avrebbe limitato, senza alcuna giustificazione, che non potrebbe essere neanche individuata nella gravità delle condotte, il risarcimento del danno ai soli casi in cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica amministrazione.
10.1.6.— La Corte remittente ritiene che sia stato violato anche l’art. 25 Cost., in quanto, accedendo all’interpretazione del «doppio binario», si distoglierebbe sia il dipendente, sia la pubblica amministrazione dal suo giudice naturale, che sarebbe sempre, nella materia della responsabilità amministrativa, la Corte dei conti.
10.1.7.— La norma censurata si porrebbe in contrasto pure con l’art. 24 Cost., atteso che, in presenza della lesione di un bene garantito dall’art. 2 Cost. anche alle persone giuridiche, non sarebbe assicurata all’amministrazione pubblica «una tutela completa ed efficace».
10.1.8.— Secondo la Corte remittente sarebbe violato, inoltre, il principio di uguaglianza, perché si creerebbe una disparità di trattamento: a) tra la pubblica amministrazione e le altre persone giuridiche pubbliche; b) tra condotte caratterizzate dalla violazione degli obblighi di servizio con idoneità lesiva dell’immagine, che restano prive di sanzione, e condotte disciplinate dalla norma censurata, nonostante si tratti di situazioni sostanzialmente simili. Infine, sempre in relazione al parametro costituzionale in esame, richiedendo la disposizione censurata l’esistenza di una sentenza penale di condanna passata in giudicato, si verrebbe a creare una «forma inusuale di pregiudizialità penale».
10.2.— Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo, con riferimento alle censure riferite agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost., le argomentazioni difensive già contenute nei precedenti interventi.
10.3.— Si è costituito in giudizio il già Ministro dei lavori pubblici G.P., convenuto nel giudizio a quo, rilevando come la questione sollevata sia priva del requisito della rilevanza, in quanto la Corte avrebbe dovuto limitarsi a disporre la restituzione degli atti al giudice di primo grado, spettando a quest’ultimo il potere di pronunciarsi sull’eccezione di nullità. Si aggiunge che «la questione di costituzionalità avrebbe potuto assumere rilevanza dinanzi al giudice d’appello soltanto ove quest’ultimo avesse ritenuto di convertire la quaerela nullitatis in eccezione intesa a far valere il difetto di giurisdizione della magistratura contabile sulla domanda oggetto dell’appello della Procura (per inesistenza, nelle condizioni date, del potere di azione esercitato). Ma ciò non è avvenuto, avendo la Sezione centrale optato (…) per un diverso percorso decisionale, fondato sull’accoglimento del motivo di gravame dedotto dalla parte pubblica (con il quale veniva censurata la declaratoria di inammissibilità della citazione introduttiva dell’azione risarcitoria per il danno non patrimoniale)».
11.— Con ordinanza del 12 novembre 2009 (reg. ord. n. 95 del 2010) la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 30-ter, del medesimo decreto-legge n. 78 del 2009, limitatamente al quarto periodo di detto comma.
11.1.— La Corte remittente premette che uno dei convenuti aveva chiesto la declaratoria di nullità di tutti gli atti istruttori e processuali del giudizio di responsabilità amministrativa, «ritenendo che l’iniziativa della procura sia stata intrapresa in assenza di una “specifica e concreta” notizia di danno, ovvero su di una verifica ispettiva del 2004 ed una relazione di accertamento del 2006, ritenute generiche, prive di quantificazioni economiche del danno e senza iscrizione di eventi fattuali a nessun soggetto nominativamente individuato». Analoga istanza di nullità sarebbe stata formulata da un altro convenuto in ragione della «genericità ed inidoneità funzionale: a) dell’atto di costituzione in mora 8.11.2006 inoltrato dall’a. delegato della casa da gioco di Campione d’Italia al Trevisan per danni erariali; b) dell’invito a dedurre inoltrato dalla procura contabile al Trevisan; c) della citazione in giudizio della procura nei confronti del Trevisan».
Il giudice a quo sottolinea che l’accoglimento delle istanze di nullità «comporta la caducazione del giudizio di merito per responsabilità amministrativa-contabile, con conseguente ricaduta in punto di rilevanza ai fini del decidere».
11.1.2.— Chiarito ciò, il giudice remittente assume l’incostituzionalità della norma in esame, in base alla quale qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al più volte citato comma 30-ter dell’art. 17 del d.l. n. 78 del 2009, «salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta».
11.1.3.— In primo luogo, secondo il remittente, l’illegittimità costituzionale discenderebbe dal fatto che il procedimento, a cognizione sommaria, disciplinato dalla norma impugnata, non prevedrebbe né la notifica dell’istanza alle parti costituite, né la partecipazione all’incidentale procedimento «innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, delle parti in giudizio, né di quella pubblica attrice, né delle parti convenute», nonostante il contenuto decisorio dell’istanza di nullità e la espressa previsione in tal senso contenuta, quale regola generale, in tutte le norme processuali generali e speciali.
Tale omissione legislativa, si osserva, violerebbe, in assenza di esigenze di celerità, il principio costituzionale del diritto alla difesa e quello del contraddittorio ex artt. 24, primo e secondo comma, e 111 Cost.
11.1.4.— Il giudice a quo rileva come, anche a volere ritenere che il procedimento decisorio preveda «implicitamente» il contraddittorio tra le parti costituite «da instaurare con provvedimento del Presidente della sezione giudicante da notificare alle parti costituite e statuente una camera di consiglio ad hoc e/o il deposito di memorie», il termine perentorio di trenta giorni dal deposito dell’istanza per decidere sulla stessa, con cognizione sommaria, ma con contenuto sostanzialmente decisorio, sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto «irragionevolmente breve». Da ciò conseguirebbe la violazione degli artt. 3, 24, 103, secondo comma, e 111 Cost. per «eccessiva brevità del termine a difesa» (si cita, tra l’altro, la sentenza n. 42 del 1981).
11.1.5.— Sotto altro aspetto, si deduce che non sussisterebbe alcuna ragione cautelare di urgenza idonea a giustificare la previsione di un termine così breve.
11.1.6.— Infine, si deduce che la norma sarebbe costituzionalmente illegittima, in quanto «non prevede alcun effetto giuridico derivante dal mancato deposito della decisione della sezione nel “perentorio” termine o dal suo tardivo deposito: che ciò comporti l’invalidazione dei successivi atti processuali o che tale inerzia o ritardo non abbia conseguenze sostanziali e/o processuali, non è dato comprendere e ciò si ripercuote, in punto di legittimità costituzionale, ancora una volta sul diritto alla difesa delle parti (art. 24 Cost.)».
11.2.— Si è costituito in giudizio il sig. M.L.D.T., convenuto, unitamente ad altri nel giudizio a quo, chiedendo che la questione sollevata venga dichiarata non fondata.
11.3.— È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate vengano dichiarate inammissibili e infondate.
In particolare, con riferimento alla lamentata violazione del diritto di difesa e del contraddittorio, si deduce come sia possibile una interpretazione conforme a Costituzione, postulata dallo stesso remittente.
Per quanto attiene poi alla doglianza relativa alla brevità del termine, si osserva come l’apposizione di un termine per lo svolgimento di un’attività processuale costituisca valutazione di merito rimessa alla discrezionalità del legislatore, non sindacabile dalla Corte costituzionale, se non nel caso, non ricorrente nella controversia in esame, di valutazione assolutamente arbitraria e irragionevole (si richiama la sentenza n. 427 del 1999).
In relazione alla censura con cui il giudice a quo assume che non sussisterebbero ragioni cautelari e di urgenza tali da giustificare la previsione di un regime diverso rispetto alle altre eccezioni di rito, si deduce, in primo luogo, come tale valutazione sia rimessa alla discrezionalità del legislatore. In secondo luogo sussisterebbe l’opportunità di una immediata decisione sulla eccezione di nullità sia nel caso di un suo rigetto, per rimuovere immediatamente un possibile ostacolo alla definizione del giudizio, sia nel caso di accoglimento, al fine di procedere alla rinnovazione degli atti dichiarati nulli.
Infine si deduce come quella impugnata non sia l’unica norma processuale che prevede l’imposizione di un termine per il giudicante.
Considerato in diritto
1.— La Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per le Regioni Umbria (reg. ord. n. 331 del 2009), Calabria (reg. ord. n. 24 del 2010), Campania (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010), Siciliana (reg. ord. n. 44 del 2010), Toscana (reg. ord. n. 145 del 2010), Lombardia (reg. ord. n. 125 del 2010), nonché sezione prima giurisdizionale centrale d’appello (reg. ord. n. 162 del 2010), con distinte ordinanze, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, per violazione, nel complesso, degli articoli 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103, 111 e 113 della Costituzione.
1.1.— La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia con altra ordinanza (reg. ord. n. 95 del 2010), ha censurato, specificamente, soltanto il quarto periodo del predetto comma 30-ter.
2.— Considerata la sussistenza di spiccati elementi di connessione oggettiva tra i dieci giudizi sopra indicati − due dei quali discussi in udienza pubblica (reg. ord. n. 95 e n. 162 del 2010) e gli altri otto esaminati in camera di consiglio (reg. ord. n. 331 del 2009, numeri 24, 25, 26, 27, 44, 125 e 145 del 2010) − gli stessi devono essere riuniti per una trattazione unitaria e decisi con unica sentenza.
3.— Le disposizioni censurate prevedono, ai periodi secondo e terzo del suindicato comma 30-ter, che le procure regionali della Corte dei conti esercitino l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale ultimo fine, si precisa che il decorso del termine di prescrizione, di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale.
Il richiamato art. 7 della legge n. 97 del 2001, a sua volta, ai fini della delimitazione dell’ambito applicativo dell’azione risarcitoria, fa riferimento alle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale, vale a dire quelli di peculato (artt. 314 e 316), malversazione a danno dello Stato (art. 316-bis), indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter), concussione (art. 317), corruzione per un atto d’ufficio (art. 318), corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319), corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter), corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320), istigazione alla corruzione (art. 322), peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 322-bis), abuso d’ufficio (art. 323), utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragioni di ufficio (art. 325), rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326), rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328), rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica (art. 329), interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità (art. 331), sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa (art. 334), violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa (art. 335).
3.1.— Il medesimo comma 30-ter, al quarto periodo – che, sebbene censurato anche dalla sezione giurisdizionale per la Regione Campania (reg. ord. n. 27 del 2010), nonché dalla sezione giurisdizionale per la Regione Umbria (reg. ord. n. 331 del 2009), è la sola norma oggetto di doglianza da parte della sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, con l’ordinanza n. 95 del 2010 – stabilisce che «qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta».
4.— Preliminarmente, deve essere dichiarata la inammissibilità della costituzione in giudizio dei signori G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R. (reg. ord. n. 331 del 2009), che, pur assumendo di essere parti nel processo a quo, si sono costituiti oltre il termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, computato secondo quanto previsto dall’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, essendo tale termine, per costante giurisprudenza, perentorio (ex plurimis, sentenza n. 234 del 2007).
5.— Ancora in via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile la questione sollevata dalla Corte di conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia (reg. ord. n. 95 del 2010), per carente descrizione della fattispecie, che determina l’insanabile astrattezza della questione stessa e, dunque, la sua inammissibilità nel presente giudizio di costituzionalità (ex multis, sentenza n. 179 del 2009 e ordinanza n. 5 del 2010).
In punto di fatto, dall’ordinanza di remissione si rilevano soltanto una serie di nomi di persone indicate come soggetti convenuti in un giudizio di responsabilità, il nome di uno di essi, D.T.M.L., che ha presentato una istanza diretta alla declaratoria di nullità di atti istruttori e processuali, la presentazione di una analoga istanza avanzata dalla difesa del «convenuto Trevisan», nonché l’indicazione di un «atto di costituzione in mora 8-11-2008 inoltrato (testualmente, n.d.r.) dall’a. delegato della casa da gioco di Campione d’Italia al Trevisan per danni erariali» e di una «citazione in giudizio della Procura nei confronti del Trevisan». Nulla di più è dato evincere per quanto concerne la descrizione della fattispecie, in particolare, con riguardo alle posizioni funzionali dei convenuti, alle loro qualifiche, alle vicende per effetto delle quali si sarebbero prodotti danni all’immagine di un ente pubblico e, soprattutto, al contenuto degli addebiti contestati ai singoli convenuti, con specifico riferimento alla posizione di ciascuno di essi.
In tale situazione, deve ritenersi del tutto carente, per genericità, la descrizione della fattispecie da parte del giudice a quo nella sua ordinanza.
Di qui l’inammissibilità della questione così come proposta.
5.1.— Con riguardo, invece, ai giudizi introdotti con le ordinanze n. 331 del 2009 e n. 162 del 2010, le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, la prima operante nella Regione Umbria e la seconda in sede centrale d’appello, prospettano due questioni, senza porle in rapporto tra loro di subordinazione: una, relativa alla limitazione del danno all’immagine della pubblica amministrazione soltanto nelle ipotesi di fatti di reato specificamente indicati; l’altra, relativa all’introduzione di due diverse forme di tutela innanzi a sedi giurisdizionali differenti e cioè alla Corte dei conti per le fattispecie costituenti anche reato e all’autorità giudiziaria ordinaria in tutti gli altri casi.
Così operando, i giudici a quibus hanno omesso di chiarire quale sia l’interpretazione della norma censurata da essi fatta propria. Siffatta omissione, oltre a conferire carattere sostanzialmente ancipite alla loro prospettazione, rende perplessa la motivazione sulla rilevanza e determina l’inammissibilità della questione sollevata.
Anche tali questioni, sulla base di una costante giurisprudenza di questa Corte, devono essere dichiarate inammissibili, restando assorbita l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, sollevata dalla parte privata nel giudizio incardinato sulla base dell’ordinanza n. 162 del 2010.
5.2.— Del pari inammissibile, infine, deve ritenersi la questione indirizzata avverso il quarto periodo del comma 30-ter dell’art. 17 dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Campania (reg. ord. n. 27 del 2010).
Risulta, infatti, carente – sul punto – qualsiasi autonoma motivazione, tanto sulla rilevanza nei giudizi a quibus di tale specifica questione, quanto sulla sua non manifesta infondatezza.
6.— Nel merito, pertanto, devono essere esaminate le censure rivolte nei confronti di quella parte della disposizione impugnata che pone limiti al risarcimento del danno per lesione all’immagine della pubblica amministrazione, secondo le prospettazioni delle ordinanze di rimessione.
Al riguardo, in via preliminare, è necessario individuare, anche al fine di una corretta delimitazione del thema decidendum, l’esatta portata della normativa impugnata.
Il legislatore ha ammesso la proposizione dell’azione risarcitoria per danni all’immagine dell’ente pubblico da parte della procura operante presso il giudice contabile soltanto in presenza di un fatto di reato ascrivibile alla categoria dei «delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione»; ciò per effetto del richiamo, contenuto nella norma censurata, all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, che fa, appunto, espresso riferimento ai delitti previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale.
Non vi è dubbio che la formulazione della disposizione non consente di ritenere che, in presenza di fattispecie distinte da quelle espressamente contemplate dalla norma impugnata, la domanda di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione possa essere proposta innanzi ad un organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti, adita in sede di giudizio per responsabilità amministrativa ai sensi dell’art. 103 Cost. Deve, quindi, ritenersi che il legislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione imputabile a un dipendente di questa. In altri termini, non è condivisibile una interpretazione della normativa censurata nel senso che il legislatore abbia voluto prevedere una responsabilità nei confronti dell’amministrazione diversamente modulata a seconda dell’autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria. La norma deve essere univocamente interpretata, invece, nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria.
Del resto, costituisce dato pacifico, come riconosciuto anche da questa Corte con la sentenza n. 371 del 1998, sulla quale si ritornerà nel prosieguo, che la limitazione della responsabilità amministrativa, sul piano soggettivo, al dolo o alla colpa grave, non implica che il dipendente pubblico, qualora la sua condotta si caratterizzi per la presenza di un minore grado di colpa, possa essere evocato in giudizio innanzi ad una autorità giudiziaria diversa dal giudice contabile.
7.— Così definita la portata della disposizione impugnata, si può passare ad analizzare le singole doglianze prospettate dai giudici a quibus. In questa analisi si procederà mediante un accorpamento delle diverse questioni, avendo riguardo ai parametri costituzionali evocati.
8.— In tale indagine, ha carattere prioritario la censura relativa all’art. 77 Cost. In particolare, con la richiamata ordinanza n. 125 del 2010, la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lombardia lamenta la mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza, ai fini dell’emanazione della norma contestata, che – a suo dire – dovrebbero sussistere anche in relazione alle norme, quale quella in esame, introdotte soltanto in sede di conversione in legge del decreto-legge n. 78 del 2009.
La questione non è fondata.
Questa Corte, in passato, ha affermato che, con riferimento alla adozione di nuove norme da parte del Parlamento nel corso dell’esame di un disegno di legge di conversione di un decreto-legge, non è pertinente il richiamo all’art. 77 Cost. Ciò in quanto «la valutazione preliminare dei presupposti della necessità e dell’urgenza investe (…), secondo il disposto costituzionale, soltanto la fase della decretazione di urgenza esercitata dal Governo, né può estendersi alle norme che le Camere, in sede di conversione del decreto-legge, possano avere introdotto come disciplina “aggiunta” a quella dello stesso decreto: disciplina imputabile esclusivamente al Parlamento e che – a differenza di quella espressa con la decretazione d’urgenza del Governo – non dispone di una forza provvisoria, ma viene ad assumere la propria efficacia solo al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione» (sentenza n. 391 del 1995).
Successivamente, però, questa stessa Corte, con la sentenza n. 171 del 2007, ha mutato orientamento sul punto, precisando − dopo aver ribadito che la legge di conversione non ha efficacia sanante di eventuali vizi del decreto-legge − che «le disposizioni della legge di conversione in quanto tali» – nei limiti, cioè, in cui «non incidono in modo sostanziale sul contenuto normativo delle disposizioni del decreto», come nel caso (allora) in esame – «non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso». La Corte ha aggiunto che «a conferma di ciò, si può notare che la legge di conversione è caratterizzata nel suo percorso parlamentare da una situazione tutta particolare, al punto che la presentazione del decreto per la conversione comporta che le Camere vengano convocate ancorché sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.) e il suo percorso di formazione ha una disciplina diversa da quella che regola l’iter dei disegni di legge proposti dal Governo».
Seguendo il suddetto più recente orientamento, va ulteriormente precisato che la valutazione in termini di necessità e di urgenza deve essere indirettamente effettuata per quelle norme, aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d’urgenza; mentre tale valutazione non è richiesta quando la norma aggiunta sia eterogenea rispetto a tale contenuto.
Orbene, nella specie, per le ragioni che meglio risulteranno nel prosieguo della motivazione, la norma contenuta nel comma 30-ter, aggiunto all’art. 17 del decreto-legge n. 78 del 2009, non si trova in una condizione di totale eterogeneità rispetto al contenuto del decreto-legge in esame; sicché rispetto ad essa rileva la indispensabile sussistenza dei requisiti di necessità e di urgenza.
I giudici remittenti, a questo riguardo, osservano che la norma censurata sarebbe priva di siffatti requisiti.
A giudizio di questa Corte, invece, deve in contrario osservarsi, innanzi tutto, che la valutazione in ordine alla sussistenza, in concreto, dei requisiti in parola è rimessa al Parlamento all’atto della approvazione dell’emendamento ora oggetto di censure. Tale valutazione non deve tradursi in una motivazione espressa, che sarebbe incompatibile con le caratteristiche del procedimento di formazione legislativa. Né, a questo riguardo, può assumere rilievo il contenuto del preambolo allo stesso decreto-legge che, proveniente dal Governo, concerne le sole disposizioni originarie del medesimo provvedimento.
In realtà, la suindicata valutazione è rimessa alla discrezionalità delle Camere e può essere sindacata innanzi a questa Corte soltanto se essa sia affetta da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, ovvero per mancanza evidente dei presupposti (sentenza n. 116 del 2006). Evenienze queste che non possono ritenersi sussistenti nella specie, in quanto non è dato evincere la carenza, nella censurata disposizione introdotta dal Parlamento in sede di conversione del decreto-legge n. 78 del 2009, dei necessari presupposti di necessità ed urgenza. Né, sotto altro aspetto, può ritenersi che la norma stessa sia del tutto dissonante rispetto al contenuto della decretazione di urgenza emessa con il citato decreto-legge nel quadro generale di «provvedimenti anticrisi, nonché proroga dei termini». E ciò con specifico riguardo alla esigenza di limitare ambiti, ritenuti dal legislatore troppo ampi (come, d’altronde, dimostrano il numero delle ordinanze di remissione e – soprattutto – la tipologia delle contestazioni), di responsabilità dei pubblici dipendenti cui sia imputabile la lesione del diritto all’immagine delle amministrazioni di rispettiva appartenenza.
A questo proposito, può ritenersi palese l’intento del legislatore di intervenire in questa materia sulla base della considerazione secondo cui l’ampliamento dei casi di responsabilità di tali soggetti, se non ragionevolmente limitata in senso oggettivo, è suscettibile di determinare un rallentamento nell’efficacia e tempestività dell’azione amministrativa dei pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali, in definitiva, è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa. D’altronde, a tale precipuo scopo risulta preordinato lo stesso potere discrezionale del giudice contabile (c.d. “potere riduttivo”) di graduare la condanna sulla base della gravità della colpa, così determinando il debito risarcitorio del convenuto (sentenze n. 184 e n. 183 del 2007). Ed allo stesso scopo è preordinata anche la limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998).
Sotto altro aspetto, deve pure osservarsi che, nella stessa ottica finalistica, il legislatore – come emerge chiaramente dal tenore delle rispettive previsioni normative – ha introdotto, anche in questo caso ex novo nel testo del decreto-legge n. 78 del 2009, ulteriori disposizioni contenute nei commi 30-bis e 30-quater. Esse perseguono lo scopo, da un lato, di attenuare il regime dei controlli della Corte dei conti e, dall’altro lato, di limitare ulteriormente l’area della gravità della colpa del dipendente incorso in responsabilità, proprio all’evidente scopo di consentire un esercizio dell’attività di amministrazione della cosa pubblica, oltre che più efficace ed efficiente, il più possibile scevro da appesantimenti, ritenuti dal legislatore eccessivamente onerosi, per chi è chiamato, appunto, a porla in essere.
In definitiva, dunque, la stessa ampiezza della disposizione della rubrica del decreto-legge in questione, nonché il complessivo quadro legislativo che deriva dalle originarie disposizioni della decretazione di urgenza e da quelle, aggiuntive, contenute nella relativa legge di conversione, consentono di ricondurre anche la norma ora in esame, limitativa della particolare forma di responsabilità per i danni da lesione dell’immagine della pubblica amministrazione, all’alveo dei meccanismi, previsti con il citato decreto-legge, aventi lo scopo di introdurre nell’ordinamento misure dirette al superamento della attuale crisi in cui versa il Paese.
9.— In più ordinanze di rimessione sono state formulate, sia pure con argomentazioni non sempre coincidenti tra loro, censure volte a denunciare l’asserita violazione dell’art. 3 Cost., in alcuni casi richiamato unitamente all’art. 97 Cost.
Un primo gruppo di ordinanze ha prospettato la irragionevolezza della norma, sul piano oggettivo, per avere il legislatore limitato il risarcimento del danno ai soli casi in cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica amministrazione e non anche in presenza di condotte non delittuose altrettanto gravi (reg. ord. n. 24, n. 27, n. 44 e n. 125 del 2010) ovvero in presenza di reati diversi da quelli espressamente indicati (reg. ord. n. 26, n. 27 e n. 44 del 2010).
La questione non è fondata.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della scelta, conformare le fattispecie di responsabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dover fare fronte. Senza volere indagare in questa sede quale sia la effettiva natura della responsabilità derivante dalla lesione del diritto all’immagine di un ente pubblico, è indubbio che la responsabilità amministrativa, in generale, presenti una peculiare connotazione, rispetto alle altre forme di responsabilità previste dall’ordinamento, che deriva dalla accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998). In questa prospettiva, il legislatore ha, tra l’altro, il potere di delimitare l’ambito di rilevanza delle condotte perseguibili, stabilendo, «nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza», quanto «del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (citata sentenza n. 371 del 1998).
Nel caso in esame, il legislatore ha ulteriormente delimitato, sul piano oggettivo, gli ambiti di rilevanza del giudizio di responsabilità, ammettendo la risarcibilità del danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione soltanto in presenza di un fatto che integri gli estremi di una particolare categoria di delitti. La scelta di non estendere l’azione risarcitoria anche in presenza di condotte non costituenti reato, ovvero costituenti un reato diverso da quelli espressamente previsti, può essere considerata non manifestamente irragionevole. Il legislatore ha ritenuto, infatti, nell’esercizio della predetta discrezionalità, che soltanto in presenza di condotte illecite, che integrino gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l’altro, proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio dell’amministrazione, possa essere proposta l’azione di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’ente pubblico. In altri termini, la circostanza che il legislatore abbia inteso individuare esclusivamente quei reati che contemplano la pubblica amministrazione quale soggetto passivo concorre a rendere non manifestamente irragionevole la scelta legislativa in esame.
In definitiva, pertanto, la particolare struttura e funzione della responsabilità amministrativa, unitamente alla valutazione della specifica natura del bene giuridico protetto dalle norme penali richiamate dalla disposizione impugnata, rende non palesemente arbitraria la scelta con cui è stato delimitato il campo di applicazione dell’azione risarcitoria esercitatile dalla procura operante presso le sezioni della Corte dei conti.
10.— Le medesime ordinanze di rimessione prospettano, inoltre, la violazione dell’art. 3 Cost., sul piano soggettivo, per la disparità di trattamento che la norma censurata determinerebbe tra dipendenti e amministratori dell’ente pubblico, questi ultimi esclusi dall’ambito applicativo della norma per effetto del richiamo, da parte della disposizione impugnata, all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, il quale ammette il risarcimento del danno all’immagine dell’amministrazione per i soli dipendenti di questa (reg. ord. n. 25, n. 26, n. 27 e n. 125 del 2010). Altro profilo di violazione dell’art. 3 Cost. per asserita disparità di trattamento è dedotto con riferimento alle posizioni dei dipendenti, da un lato, e delle persone giuridiche, dall’altro (reg. ord. n. 24 del 2010), o tra la pubblica amministrazione e altri soggetti dell’ordinamento, «in quanto il deterioramento dell’immagine della prima non è sanzionato se non in casi limite» rappresentati «dalla commissione di gravi delitti, mentre quello dei secondi è ben tutelato in tutti i casi di commissione di illecito di non rilievo penale» (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010; in analogo senso reg. ord. n. 125 del 2010).
Le questioni prospettate sono in parte inammissibili e in parte non fondate.
È, innanzi tutto, inammissibile quella relativa alla dedotta disparità di trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico, contemplati espressamente dalla norma (art. 7 della legge n. 97 del 2001) cui fa rinvio la disposizione impugnata, e gli amministratori dell’ente stesso cui, invece, le due disposizioni non fanno riferimento. Ciò in quanto, prescindendo dalla condivisibilità o meno dell’interpretazione proposta da alcuni dei remittenti (comunque rimessa ai giudici competenti) che esclude gli amministratori pubblici dalla sfera di applicazione della norma in esame, in nessuna delle ordinanze di remissione, che propongono la questione, i giudici a quibus si sono posti il problema del tipo di responsabilità per danni arrecati dagli amministratori dell’ente per violazione dell’immagine di quest’ultimo e, conseguentemente, dell’autorità giudiziaria eventualmente competente a conoscere della correlata vicenda contenziosa. Essi, infatti, avrebbero dovuto esplorare la percorribilità di soluzioni costituzionalmente orientate, prima di sollevare la questione di costituzionalità della norma ora impugnata.
Quanto poi alle restanti censure relative alla presunta disparità di trattamento tra la situazione giuridica del dipendente, da un lato, e quelle delle persone giuridiche private e pubbliche, dall’altro, deve rilevarsene la non fondatezza, attesa la eterogeneità delle situazioni poste a confronto.
11.— Ancora con riferimento all’art. 3 Cost., deve essere esaminata la censura con cui alcuni remittenti deducono, da un lato, la irragionevolezza derivante dall’inserimento di una norma, che comporta un maggiore esborso economico, in un testo legislativo che persegue, quale principale finalità, quella di adottare misure idonee a fronteggiare l’attuale crisi economica (reg. ord. n. 24, 44 e 125 del 2010), nonché, dall’altro, la mancata valutazione, nel corso della «brevissima discussione» svolta in sede di conversione, della portata e delle conseguenze che sarebbero derivate dalla sua applicazione; né sarebbero emerse esigenze di natura finanziaria o di interesse pubblico idonee a giustificare la introduzione nel sistema della norma censurata (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010).
Tali questioni non sono fondate.
A prescindere da valutazioni, sulle quali si ritornerà tra breve, circa la correttezza dell’assunto secondo cui la norma censurata comporterebbe una maggiore spesa per la pubblica amministrazione, deve ritenersi, in relazione alla prima questione, come non possa considerarsi manifestamente irragionevole il precetto normativo in esame, almeno avendo riguardo alla peculiarietà della vicenda oggetto del presente giudizio.
Con riferimento poi alla seconda doglianza, è sufficiente rilevare come non occorra che gli atti legislativi contengano una motivazione, ovvero che questa comunque risulti dal loro iter di approvazione, circa le esigenze che è necessario assicurare, essendo sufficiente che la norma stessa non sia viziata da palese irragionevolezza o arbitrarietà.
12.— Infine, è destituita di fondamento la ulteriore censura, prospettata anch’essa con riferimento all’art. 3 Cost., con cui si lamenta che la disposizione in esame comporterebbe una evidente disparità di trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico che, avendo commesso uno dei delitti contro la pubblica amministrazione, sono sottoposti alla giurisdizione contabile, e dipendenti che, pur avendo commesso un altro delitto con abuso delle funzioni ricoperte e nell’esercizio delle stesse, «sono sottoposti, per il risarcimento del danno all’immagine, alla giurisdizione ordinaria, con un differente regime processuale e prescrizionale» (reg. ord. n. 44 del 2010).
A tale riguardo, è sufficiente richiamare quanto già sopra precisato (punto 6) in ordine alla definizione del campo di applicazione della norma e, in particolare, ai limiti con i quali tale tipologia di responsabilità è stata configurata dal legislatore e alla esclusione di forme di concorrenza di altre giurisdizioni in relazione a fattispecie diverse da quelle contemplate dalla norma stessa.
13.— Sotto altro aspetto taluni giudici remittenti assumono la violazione dell’art. 2 Cost., in un caso evocato unitamente all’art. 24 Cost. (reg. ord. n. 24 del 2010), in quanto tale norma, da leggere in combinato disposto con l’art. 2059 del codice civile (reg. ord. n. 125 del 2010), imporrebbe una tutela piena, e non limitata, come nel caso in esame, dei diritti della personalità, tra i quali deve essere ricompreso quello all’immagine della pubblica amministrazione (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 125 del 2010).
La questione non è fondata.
La tutela dei diritti della persona ha conosciuto negli ultimi anni una complessa evoluzione, con particolare riferimento alla portata e all’ampiezza del risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla loro lesione.
Come è noto, nelle prime interpretazioni che sono state fornite dell’art. 2059 cod. civ. – nella parte in cui prevede tale forma di risarcimento soltanto nei casi previsti dalla legge – si riteneva che la legge richiamata fosse esclusivamente quella penale. In questa prospettiva, diretta a valorizzare il profilo sanzionatorio del danno non patrimoniale – inteso come danno morale subiettivo (sentenza n. 184 del 1986) – era, pertanto, necessario che la condotta posta in essere integrasse gli estremi di un fatto penalmente illecito.
La successiva giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 233 del 2003) e anche della Corte di cassazione (Cass., Sezioni unite, sentenza 11 novembre 2008, n. 26972) – dopo avere spostato il centro dell’analisi sul danneggiato, e dunque sui profili restitutori, e dopo avere identificato l’esatta natura del danno non patrimoniale come avulsa da qualunque forma di rigidità dommatica legata all’impiego di etichette o fuorvianti qualificazioni – ha allargato le maglie del risarcimento del danno non patrimoniale, affermando che esso deve essere riconosciuto, fermo restando la sussistenza di tutti gli altri requisiti richiesti ai fini del perfezionamento della fattispecie illecita, oltre che nei casi specificamente previsti dal legislatore, quando viene leso un diritto della persona costituzionalmente tutelato. In definitiva, l’attuale sistema della responsabilità civile per danni alla persona, fondandosi sulla risarcibilità del danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ. e non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., è, pertanto, essenzialmente un sistema bipolare. La Corte di cassazione, riconducendo ad organicità tale sistema, ha, inoltre, elaborato taluni criteri, legati alla gravità della lesione, idonei a selezionare l’area dei danni effettivamente risarcibili (citata sentenza n. 26972 del 2008). Di significativo rilievo, in particolare, sono le considerazioni che le Sezioni unite hanno espresso in ordine al fatto: che la lesione deve riguardare un interesse di rilievo costituzionale; l’offesa deve essere grave, nel senso che deve superare una soglia minima di tollerabilità; il danno deve essere risarcito quando non sia futile, vale a dire riconducibile a mero disagio o fastidio.
Inoltre, per quanto attiene specificamente alla responsabilità per violazione dell’immagine dell’ente pubblico, deve rilevarsi, in linea con quanto affermato dalla Cassazione con la stessa sentenza n. 26792 del 2008, che il relativo danno, in ragione della natura della situazione giuridica lesa, ha valenza non patrimoniale e trova la sua fonte di disciplina nell’art. 2059 cod. civ. D’altra parte, il riferimento, contenuto nella giurisprudenza della Corte dei conti, alla patrimonialità del danno stesso – in ragione della spesa necessaria per il ripristino dell’immagine dell’ente pubblico – deve essere inteso come attinente alla quantificazione monetaria del pregiudizio subito e non alla individuazione della natura giuridica di esso.
Né può ritenersi che l’inquadramento della responsabilità per la lesione del diritto all’immagine dell’ente pubblico nell’ambito della responsabilità amministrativa, devoluta alla giurisdizione contabile della Corte dei conti, possa condurre ad una diversa qualificazione della peculiare forma di responsabilità disciplinata dalla norma ora censurata.
Nondimeno, deve rilevarsi che la responsabilità amministrativa presenta, per le ragioni già esposte, una struttura ed una funzione diverse da quelle che connotano la comune responsabilità civile. Non si può, pertanto, lamentare, come fanno taluni giudici a quibus, la violazione dell’art. 2 Cost., evocando l’elaborazione giurisprudenziale che ha avuto riguardo a tale forma di responsabilità per violazione di diritti costituzionalmente protetti della persona umana.
Identificato, infatti, il danno derivante dalla lesione del diritto all’immagine della p.a. nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha di sé in conformità al modello delineato dall’art. 97 Cost., è sostanzialmente questa norma costituzionale ad offrire fondamento alla rilevanza di tale diritto.
Né varrebbe richiamare, data la specialità della relativa norma e la ratio che ne ha giustificato l’introduzione nel sistema, quanto stabilito dall’art. 69 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), il quale riconosce la possibilità, ricorrendo i presupposti specificamente ivi contemplati, di condannare il dipendente al risarcimento dei danni all’immagine subiti dall’amministrazione di appartenenza in conseguenza di sue assenze ingiustificate dal lavoro.
Quanto esposto non significa che non sia possibile riconoscere l’esistenza di diritti “propri” degli enti pubblici e conseguentemente ammettere forme peculiari di risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui i suddetti diritti vengano violati. Ma tale riconoscimento deve necessariamente tenere conto della peculiarità del soggetto tutelato e della conseguente diversità dell’oggetto di tutela, rappresentato dall’esigenza di assicurare il prestigio, la credibilità e il corretto funzionamento degli uffici della pubblica amministrazione (sentenza n. 172 del 2005). In questa prospettiva, non è manifestamente irragionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, che si possono attuare a livello legislativo, anche mediante forme di protezione dell’immagine dell’amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti, specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla persona fisica.
Sulla base delle suindicate considerazioni, la norma censurata non può ritenersi in contrasto con l’art. 2 Cost., in quanto la peculiarità del diritto all’immagine della pubblica amministrazione, unitamente all’esigenza di costruire un sistema di responsabilità amministrativa in grado di coniugare le diverse finalità prima richiamate, può giustificare una altrettanto particolare modulazione delle rispettive forme di tutela.
14.— Secondo taluni giudici remittenti, sarebbe violato, altresì, l’art. 24 Cost., in quanto la previsione contenuta nella disposizione censurata si risolverebbe in una limitazione del diritto della pubblica amministrazione di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi (reg. ord. n. 44 e n. 145 del 2010). Tale parametro costituzionale viene evocato, in alcune ordinanze (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010), unitamente all’art. 113 Cost., che non ammette «alcuna limitazione alla tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi in materia di funzione amministrativa». Secondo, poi, l’ordinanza n. 125 del 2010, l’art. 24 Cost. sarebbe violato, in quanto «l’irrazionale e macchinoso “doppio binario”» (giudice contabile, ricorrendo i presupposti previsti dalla norma censurata, e giudice ordinario negli altri casi) inciderebbe sulla legittimazione ad agire del pubblico ministero, «con una presumibile minore tutela dell’erario, in carenza di un organo dotato di strumenti di indagine e poteri istruttori di cui gli ordinari uffici pubblici certo non possono disporre».
La questione non è fondata.
La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che la garanzia apprestata dall’art. 24 Cost. «opera attribuendo la tutela processuale delle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano riconosciute dal legislatore; di modo che quella garanzia trova confini nel contenuto del diritto al quale serve, e si modella sui concreti lineamenti che il diritto riceve dall’ordinamento» (ex multis, sentenze n. 453 e n. 327 del 1998). Pertanto, una volta ritenuto che sia esente dai prospettati vizi di costituzionalità la configurazione ricevuta, nel caso in esame, dalla specifica situazione giuridica qui in rilievo, non è ravvisabile alcun vulnus alle conseguenti modalità di tutela processuale.
Per analoghe ragioni non è fondata la censura riferita all’art. 113 Cost.
15.— La lesione del quarto comma dell’art. 81 Cost. ad opera della norma censurata è prospettata da taluni giudici a quibus, in quanto non sarebbe stata prevista alcuna copertura finanziaria «della minore entrata imposta agli enti pubblici a causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze di natura derivata» (in particolare, reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010).
Anche tale questione non è fondata.
La norma costituzionale evocata, prevedendo che la «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte», è, nella specie, inconferente, in quanto l’art. 81 Cost. «attiene ai limiti al cui rispetto è vincolato il legislatore ordinario nella sua politica finanziaria, ma non concerne le scelte che il medesimo compie nel ben diverso ambito della disciplina della responsabilità amministrativa» (sentenze numeri 371 e 327 del 1998).
In ogni caso non può ritenersi che una astratta limitazione del risarcimento del danno spettante alla pubblica amministrazione, determinando una possibile minore entrata, comporti «nuove o maggiori spese». In altri termini, non è possibile porre una equiparazione fra «nuova o maggiore spesa» ed il mancato risarcimento di danni cagionati ad una pubblica amministrazione (sentenza n. 46 del 2008). Del resto, non potendosi procedere alla quantificazione delle minori entrate, essendo tale diminuzione eventuale e comunque connessa a variabili concrete non determinabili a priori, non sarebbe neanche possibile, come sottolineato dall’Avvocatura generale dello Stato nelle sue difese, prevedere la necessaria copertura finanziaria.
16.— Alcune ordinanze di remissione evocano, sia pure sotto diversi angoli prospettici, talora in connessione con l’art. 54, l’art. 97 Cost. per lamentarne la violazione. In particolare, si osserva che, sebbene il buon andamento e l’imparzialità non costituiscano il «fondamento costituzionale della tutela dell’immagine pubblica», la «stretta relazione tra l’immagine pubblica e l’agire corretto» e la circostanza che essi costituiscono «criteri cui deve essere improntata l’azione amministrativa affinché il prestigio pubblico non venga leso», comportano che «una ridotta tutela della prima inevitabilmente indebolisce il diritto sostanziale dell’amministrazione ad agire, attraverso i propri funzionari, in modo corretto, imparziale, efficace ed efficiente» (reg. ord. n. 24 del 2010). In altre ordinanze si assume che la norma impugnata violi l’evocato parametro costituzionale in quanto: a) «determina un’alterazione della funzionalità degli enti pubblici sotto il delicato profilo della reputazione e della conseguente fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni» (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010); b) «contraddice» il principio di imparzialità «che si risolve essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale» e per « gli evidenti effetti distorsivi che ciò comporta sull’organizzazione della pubblica amministrazione sotto il duplice profilo della ridotta potenzialità operativa ed efficienza nella cura dell’interesse pubblico» (reg. ord. n. 145 del 2010); c) favorisce «l’irresponsabilità dei dipendenti pubblici, non più soggetti al giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti in caso di comportamenti illeciti causativi di danno all’immagine dell’ente di riferimento al di fuori delle ipotesi di reato» (reg. ord. n. 125 del 2010); d) da un lato, «indebolisce l’efficacia deterrente del giudizio di responsabilità; dall’altro, come nella presente fattispecie ed in ipotesi similari, comporta il dispendio di maggiori risorse a carico dell’erario per l’attivazione di plurimi giudizi volti ad ottenere l’“integrale” risarcimento del danno all’immagine, pur essendo state poste in essere condotte da parte di un pubblico dipendente in un unico contesto criminoso, integranti sia le ipotesi delittuose di cui al capo I del titolo II del libro II del codice penale che altre fattispecie delittuose» (reg. ord. n. 44 del 2010).
Anche tali questioni non sono fondate.
L’art. 97 Cost. impone la costruzione, sul piano legislativo, di un modello di pubblica amministrazione che ispiri costantemente la sua azione al rispetto dei principi generali di efficacia, efficienza e imparzialità. Si tratta di regole che conformano, all’“interno”, le modalità di svolgimento dell’attività amministrativa.
È indubbio come sussista una stretta connessione tra la tutela dell’immagine della pubblica amministrazione e il rispetto del suddetto precetto costituzionale. Può ritenersi, infatti, che l’autorità pubblica sia titolare di un diritto “personale” rappresentato dall’immagine che i consociati abbiano delle modalità di azione conforme ai canoni del buon andamento e dell’imparzialità. Tale relazione tendenzialmente esistente tra le regole “interne”, improntate al rispetto dei predetti canoni, e la proiezione “esterna” di esse, giustifica il riconoscimento, in capo all’amministrazione, di una tutela risarcitoria.
Il legislatore, nell’esercizio non manifestamente irragionevole della sua discrezionalità, ha ritenuto che tale tutela sia adeguatamente assicurata mediante il riconoscimento del risarcimento del danno soltanto in presenza di condotte che integrino gli estremi di fatti di reato che tendono proprio a tutelare, tra l’altro, il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa. In altri termini, il legislatore ha inteso riconoscere la tutela risarcitoria nei casi in cui il dipendente pubblico ponga in essere condotte che, incidendo negativamente sulle stesse regole, di rilevanza costituzionale, di funzionamento dell’attività amministrativa, sono suscettibili di recare un vulnus all’immagine dell’amministrazione, intesa, come già sottolineato, quale percezione esterna che i consociati hanno del modello di azione pubblica sopra descritto.
Sotto altro profilo, neppure può ritenersi che una modulazione del giudizio di responsabilità, che tenga conto dei diversi interessi in gioco, possa in qualche modo incidere negativamente sulle regole di efficienza, efficacia e imparzialità dell’azione amministrativa.
17.— In alcune ordinanze si assume anche la violazione dell’art. 103, secondo comma, Cost., in quanto non sarebbe consentito «escludere apoditticamente la giurisdizione della Corte dei conti con riferimento ad ipotesi specifiche di responsabilità rientranti tradizionalmente e genericamente nella materia della contabilità pubblica» (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010). Si assume, inoltre, la violazione del primo comma dell’art. 25 Cost., non essendo possibile distogliere la controversia dal giudice naturale «successivamente al verificarsi del fatto generatore, sia nel senso di attribuzione ad altro organo giudiziario che di esclusione di ogni forma di giurisdizione» (reg. ord. n. 25 del 2010; reg. ord. n. 24 e n. 125 del 2010, ove si evocano, contestualmente, gli artt. 125 e 103 Cost.).
La questione non è fondata.
Il secondo comma dell’art. 103 Cost. prevede che la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che «la puntuale attribuzione della giurisdizione in relazione alle diverse fattispecie di responsabilità amministrativa», non operando automaticamente in base al disposto costituzionale, è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario (da ultimo sentenza n. 46 del 2008).
Nel caso in esame va osservato – come si è già chiarito − che il legislatore non ha neanche inteso attribuire la cognizione di talune fattispecie di responsabilità amministrativa ad una diversa autorità giudiziaria, essendosi limitato a conformare, su un piano sostanziale, la disciplina di un particolare profilo della responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti (sentenza n. 371 del 1998).
Per quanto attiene, poi, all’asserita violazione dell’art. 25 Cost., é sufficiente rilevare come non sia la Corte dei conti «il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni pubblici» (sentenza n. 641 del 1987). A ciò si aggiunga che, nel caso in esame, il legislatore ha ridefinito i contorni, sul piano sostanziale ed oggettivo, della responsabilità amministrativa, escludendo la possibilità di proporre l’azione risarcitoria in mancanza degli elementi indicati dalla norma censurata, senza incidere in alcun modo sulle modalità di individuazione del giudice competente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibile l’intervento in giudizio dei signori G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R.;
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, sollevate, in riferimento, da un lato, nel complesso, agli artt. 3, 24, primo comma, 54, 81, quarto comma, 97, primo comma, 103, secondo comma, e 111 della Costituzione, dall’altro, agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost., rispettivamente dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Umbria e dalla Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, con le ordinanze, indicate in epigrafe, iscritte al n. 331 del 2009 e al n. 162 del 2010 del registro ordinanze;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, del decreto-legge n. 78 del 2009, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 111 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, con l’ordinanza, indicata in epigrafe, iscritta al n. 95 del 2010;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, del decreto-legge n. 78 del 2009, sollevata, in riferimento nel complesso agli artt. 3, 24, 103 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, con l’ordinanza, indicata in epigrafe, iscritta al n. 27 del 2010;
4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del decreto-legge n. 78 del 2009, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico ed amministratori dello stesso, dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per la Campania e per la Lombardia, con le ordinanze, indicate in epigrafe, iscritte rispettivamente ai numeri 25, 26 e 27 del 2010 ed al n. 125 del 2010.
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del decreto-legge n. 78 del 2009, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103, e 113 Cost., dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per le Regioni Calabria, Campania, Lombardia e Toscana, nonché dalla sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, con le ordinanze, indicate in epigrafe, iscritte rispettivamente ai numeri 24, 25, 26, 27, 125 e 145 del 2010 ed al n. 44 del 2010.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 dicembre 2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Alfonso QUARANTA , Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2010.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
SENTENZA N. 356
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile promosso dal Tribunale di Arezzo nel procedimento vertente tra S. M. e l’INPS con ordinanza del 16 giugno 2009 iscritta al n. 281 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione di S. M. e dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 16 novembre 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;
uditi l’avvocato Antonietta Coretti per l’INPS e l’avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di Arezzo, con ordinanza emessa il 16 giugno 2009 nel corso di un giudizio promosso da S. M. contro l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile, nella parte in cui prevede che al lavoratore sottoposto a dialisi è attribuita l’indennità di malattia nel limite di centottantagiorni in un anno.
Il giudice a quo, in punto di fatto, riferisce che il ricorrente, affetto da insufficienza renale, nel corso dell’anno 2007, dopo aver usufruito del numero massimo di giorni di malattia per i quali è prevista la relativa indennità, si è assentato dal lavoro per sottoporsi al trattamento di dialisi per ulteriori diciassette giorni per i quali l’INPS, in applicazione dell’art. 2110 cod. civ., non ha riconosciuto il suddetto beneficio.
Il suddetto diniego era conseguenza del fatto che l’Istituto, ai fini del calcolo dei giorni per i quali è prevista l’indennità in esame, somma le giornate di assenza dal lavoro per l’esecuzione della terapia dialitica a quelle conseguenti a un’altra eventuale malattia che determina l’incapacità lavorativa.
Così riportata la fattispecie sottoposta al suo esame, il Tribunale ritiene la disciplina contenuta nell’art. 2110 cod. civ. non ragionevole e contraria al principio di uguaglianza, in quanto prevede una tutela attenuata per i lavoratori affetti da insufficienza renale rispetto a quelli colpiti da tubercolosi o da un infortunio sul lavoro che, sottoposti ad una differente e specifica normativa, possono godere dell’indennità di malattia anche oltre il termine di centottanta giorni.
Il remittente ritiene, poi, l’art. 2110 cod. civ. in contrasto con 1’art. 38, secondo comma, Cost. e, in particolare, con i principi di solidarietà sociale da esso previsti a tutela dei lavoratori, volti a garantire a questi ultimi «mezzi adeguati» alle loro esigenze di vita proprio in caso di malattia.
Infine, la norma censurata violerebbe l’art. 32 Cost., rappresentando la salute un diritto fondamentale finalizzato «a garantire le condizioni di integrità psico-fisica delle persone bisognose di cura», soprattutto allorquando ricorrano circostanze di indispensabilità come nei casi in cui, per i dializzati, si è in presenza di trattamenti «salvavita».
Il Tribunale osserva, poi, che la rilevanza «della questione del giudizio a quo risiede nel fatto che essa dipende dall’accoglimento della domanda nel merito».
2. – Si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio principale chiedendo l’accoglimento della sollevata questione.
La parte privata, dopo aver riportato le norme che nel tempo hanno disciplinato le prestazioni economiche che spettano al lavoratore in caso di malattia, rileva che dalla formulazione della norma impugnata si evince che solo l’infortunio, la malattia professionale, la gravidanza e il puerperio, in quanto oggetto di trattamenti previdenziali differenziati, non sono sottoposti al limite massimo di periodo indennizzabile da essa previsto.
Il ricorrente nel giudizio a quo ritiene, pertanto, che la mancata inclusione tra tali ipotesi dei trattamenti dialitici si pone in contrasto con i parametri costituzionali indicati dal remittente.
3. – Si è costituito in giudizio l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) chiedendo, in via preliminare, che la Corte dichiari la questione inammissibile.
3.1 – Rileva l’Istituto che il remittente non avrebbe correttamente individuato la norma applicabile nel giudizio a quo, essendo il ricorrente un dipendente di una società che svolge attività di commercio e risultando, pertanto, a lui applicabile l’art. 3 del d.lgs. C.p.S. 31 ottobre 1947, n. 1304 (Trattamento di malattia dei lavoratori del commercio, del credito, dell’assicurazione e dei servizi tributari appaltati), il quale fissa in centottanta giorni il periodo massimo di malattia indennizzabile per il lavoratore.
Sempre in punto di ammissibilità, l’INPS osserva che il rimettente ha omesso di verificare se il contratto collettivo nazionale applicabile nel caso di specie preveda, o meno, un’ulteriore tutela della malattia rispetto a quella previdenziale. Il legislatore, infatti, avrebbe rimesso all’autonomia collettiva la possibilità di porre a carico del datore di lavoro l’eventuale riconoscimento dell’indennità di malattia anche per un periodo superiore a quello fissato in via generale dalla legge.
3.2 – Nel merito l’Istituto di previdenza ritiene la questione non fondata.
Quanto alla presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione, l’INPS si limita ad osservare che le fattispecie poste a raffronto sono tra loro eterogenee, in quanto la tutela privilegiata prevista per i casi di tubercolosi si giustifica con il fatto che a tale malattia era collegata un’elevata mortalità e una estrema facilità di trasmissione, tali da fare qualificare questa patologia come malattia sociale.
Analoghe considerazioni valgono per la tutela prevista per i casi di infortunio sul lavoro o malattia professionale, la quale, peraltro, risulta affidata ad un ente diverso dall’INPS, cioè all’INAIL.
Quanto alla presunta violazione degli artt. 32 e 38 Cost., l’Istituto osserva che il remittente ha richiesto alla Corte un intervento lasciato alla discrezionalità del legislatore, derivando proprio dall’eventuale accoglimento della sollevata questione quella irragionevolezza tra situazioni analoghe lamentata dal Tribunale. Resterebbero, infatti, esclusi dalla estensione del periodo massimo indennizzabile i lavoratori sottoposti a trattamenti medici altrettanto rilevanti rispetto a quello oggetto del caso concreto.
4. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per una pronuncia di inammissibilità o infondatezza della questione.
In via preliminare, la difesa erariale rileva che la questione ha ad oggetto l’art. 2110 cod. civ. il quale, però, rimette ad altre fonti la determinazione del periodo massimo indennizzabile in caso di malattia del lavoratore.
Nel merito l’Avvocatura osserva che la disciplina contenuta nell’art. 2110 cod. civ. è frutto dell’esercizio legittimo della discrezionalità del legislatore, potendosi ravvisare una eventuale violazione dei parametri costituzionali indicati dal remittente solo nel caso in cui nella disposizione indicata venga esclusa, ai fini del riconoscimento della menzionata indennità, una qualsiasi forma di malattia.
In particolare, quanto alla presunta violazione dell’art. 3 Cost., non sarebbe irragionevole la scelta del legislatore di riservare una particolare disciplina per le persone affette da tubercolosi, stante la differenza che esiste tra tale patologia e quella da cui è affetto il ricorrente nel giudizio principale.
Anche le censure che hanno come riferimento gli artt. 32 e 38 Cost. sarebbero infondate, in quanto, da un lato, tali parametri rimettono al legislatore la determinazione dell’entità delle cure che devono essere garantite dallo Stato; e, dall’altro, non risulta che quelle di cui ha usufruito il ricorrente nel giudizio principale non abbiano soddisfatto il requisito dell’adeguatezza richiesto dalle indicate norme costituzionali.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Arezzo dubita, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile, nella parte in cui limita a centottanta giorni all’anno il riconoscimento dell’indennità di malattia a favore del lavoratore che si sottopone a dialisi.
2. – Il giudizio principale ha ad oggetto il ricorso proposto da una persona affetta da insufficienza renale contro l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) e, in particolare, il diniego da esso opposto al riconoscimento dell’indennità di malattia per i giorni eccedenti il limite sopra indicato.
Il limite in tal senso imposto dall’art. 2110 cod. civ. sarebbe, a parere del remittente, in contrasto con gli evocati parametri costituzionali, in quanto prevede una tutela attenuata per i lavoratori sottoposti a dialisi rispetto a quella garantita al lavoratore in stato di infortunio o colpito da tubercolosi.
Tale disciplina, oltre ad essere irrazionale e in contrasto con il principio di uguaglianza, non garantirebbe il rispetto dei principi fissati dagli artt. 32 e 38 della Costituzione in ordine alla adeguatezza delle cure e al sostegno economico che lo Stato deve garantire ai lavoratori in occasione della malattia.
3. – La questione è inammissibile per l’inesatta identificazione del quadro normativo rispetto al sollevato dubbio di costituzionalità (ex plurimis ordinanza n. 92 del 2009).
L’art. 2110, primo comma, cod. civ. prevede che in caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità.
Tale disposizione si limita a garantire, in caso di malattia del lavoratore, il diritto al trattamento economico ed alla conservazione del posto di lavoro nella misura e nei tempi determinati dalla legge e dalle norme contrattuali. Essa, quindi, non determina il termine massimo indennizzabile per i periodi di malattia dei lavoratori riservando tale disciplina a altre fonti legali, ai contratti collettivi, agli usi e all’equità.
Il Tribunale ha ricostruito il quadro normativo senza tener conto di tali ulteriori fonti applicabili nel caso di specie quale il d.lgs. C.p.S. 31 ottobre 1947, n. 1304 (Trattamento di malattia dei lavoratori del commercio, del credito, dell’assicurazione e dei servizi tributari appaltati), il quale in caso di malattia pone a carico dell’allora Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie (INAM), al quale oggi è subentrato l’INPS, il pagamento della relativa indennità. In particolare, l’art. 3 espressamente stabilisce che «L’indennità giornaliera di malattia è dovuta a decorrere dal quarto giorno di malattia e per un periodo massimo di 180 giorni in un anno».
L’indicazione del periodo massimo indennizzabile è stata poi ripresa dal contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da aziende del commercio, dei servizi e del terziario, stipulato il 24 luglio 2004, che all’art. 104 prevede che «Durante la malattia, il lavoratore non in prova ha diritto alla conservazione del posto per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare […]», precisando il successivo art. 105 (Trattamento economico di malattia) che «Durante il periodo di malattia, previsto dall’articolo precedente, il lavoratore avrà diritto alle normali scadenze dei periodi di paga […]».
L’inconferenza della disposizione censurata nonché il mancato esame da parte del remittente delle disposizioni indicate e l’incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento compromettono l’iter logico argomentativo posto a fondamento della sollevata censura e ne determinano l’inammissibilità precludendone lo scrutinio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2110 del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di Arezzo con l’ordinanza indicata in epigrafe;
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 dicembre 2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Maria Rita SAULLE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2010.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA