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martedì 21 settembre 2010

Guida in stato di ebbrezza e confisca del mezzo: cade l'irretroattività della misura ablativa che, d'ora in poi, è da considerare sanzione penale accessoria (applicabile per i fatti post novella 2008)

SENTENZA N. 196
ANNO 2010
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-           Francesco                   AMIRANTE                          Presidente
-           Ugo                            DE SIERVO                            Giudice
-           Paolo                          MADDALENA                             "
-           Alfio                           FINOCCHIARO                           "
-           Alfonso                      QUARANTA                                "
-           Franco                        GALLO                                         "
-           Luigi                           MAZZELLA                                 "
-           Gaetano                      SILVESTRI                                   "
-           Sabino                        CASSESE                                      "
-           Maria Rita                  SAULLE                                       "
-           Giuseppe                    TESAURO                                    "
-           Paolo Maria                NAPOLITANO                             "
-           Giuseppe                    FRIGO                                           "
-           Alessandro                 CRISCUOLO                                "
-           Paolo                          GROSSI                                        "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati, rispettivamente, dall’art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, promosso dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce nel procedimento penale a carico di P.T. con ordinanza del 27 maggio 2009, iscritta al n. 323 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto in fatto
1.— Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati, rispettivamente, dall’art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125.
1.1.— Il remittente premette, in punto di fatto, di dover decidere in ordine alla richiesta di emissione di decreto penale di condanna, avanzata dal pubblico ministero in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza – per un fatto commesso nel gennaio 2008 – ed alla contestuale richiesta di confisca del veicolo a carico dell’imputato, ai sensi del già citato art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada.
Detta norma, infatti, nel testo novellato dall’art. 4 del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito con modificazioni nella legge n. 125 del 2008, prevede che sia «sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato», in caso di condanna tanto per la fattispecie criminosa di guida in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, purché sia stato accertato a carico del conducente un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro di sostanza ematica, quanto per la fattispecie criminosa (art. 187 del codice della strada) di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti.
La circostanza che nel vigente testo dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada sia espressamente richiamato l’art. 240, primo comma, cod. pen., non dovrebbe lasciare dubbi – secondo il remittente – che, «sotto l’aspetto formale, tale confisca debba essere qualificata come misura di sicurezza patrimoniale», per la quale, quindi, opera il principio – in forza del rinvio all’art. 200, primo comma, cod. pen. contenuto nell’art. 236 del medesimo codice – secondo cui «le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione». Ne consegue, pertanto, che la misura della confisca del veicolo appare destinata ad applicarsi pure «nei riguardi di coloro che, imputati del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool (o di quello di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti), risultino destinatari di una sentenza di condanna o di una sentenza di patteggiamento, anche se il reato venne commesso in epoca anteriore alla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 92 del 2008».
Sottolinea, inoltre, il giudice a quo che tale «soluzione ermeneutica» risulta «conforme al pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità». Essa, «con riferimento ad analoghe forme di confisca, ha sempre affermato» – diversamente da parte della dottrina, secondo cui la previsione dell’art. 200, primo comma, cod. pen. andrebbe riferita esclusivamente all’ipotesi in cui le modifiche legislative concernenti le misure di sicurezza riguardino le loro modalità di esecuzione – «che per tali misure, qualificabili come misure di sicurezza e non come pene accessorie o pene sui generis, non opera il principio di irretroattività», sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., norma concernente «esclusivamente la pena» (richiama, sul punto: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza del 15 gennaio 2009, n. 8404; sezione terza penale, sentenza del 15 ottobre 2002, n. 40703; sezione prima penale, sentenza del 19 maggio 2000, n. 7045; sezione prima penale, sentenza del 19 maggio 1999, n. 3717; sezione seconda penale, sentenza del 3 ottobre 1996, n. 3655; sezione sesta penale, sentenza del 17 novembre 1995, n. 775).
1.2.— Tanto premesso, il giudice a quo ritiene che le norme censurate, «interpretate in conformità al “diritto vivente” di origine giurisprudenziale», siano in contrasto con l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo cui «non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato».
Il suddetto art. 7 – sottolinea il remittente – si pone come «norma interposta», ovvero come disposizione «subcostituzionale», che finisce «per integrare e dare contenuto» al dettato dell’art. 117, primo comma, Cost., sicché la sua violazione da parte di norma di legge ordinaria integra un contrasto con tale parametro costituzionale. Conclusione, questa, proposta «dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007», pronunce che hanno «definitivamente chiarito» – si nota ancora nell’ordinanza di rimessione – «che il giudice è tenuto a valutare la compatibilità costituzionale di ciascuna norma di legge ordinaria, anche nelle materie penalistiche, con le norme della Cedu», le quali, peraltro, rilevano non «in sé considerate», bensì «come prodotto della interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo nelle sue sentenze».
Orbene, «proprio con riferimento al principio fissato dall’art. 7 della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha puntualizzato» – osserva sempre il remittente – che nell’individuazione del concetto di pena è necessario «andare al di là delle apparenze» per valutare «se una data misura costituisca pena ai sensi di tale norma», verificando se essa «sia stata imposta a seguito di una condanna per un reato», per poi attribuire rilievo ad altri elementi, come «la natura e lo scopo della misura in questione; la sua qualificazione nel diritto interno; le procedure correlate alla sua adozione ed esecuzione». Tali affermazioni, fatte dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del 9 febbraio 2005, resa nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito (che, come rammenta il remittente, ha riconosciuto la violazione dell’art. 7 della Convenzione proprio «in un caso di applicazione retroattiva della confisca di beni disposta nei riguardi di un trafficante di droga condannato a non ridotta pena detentiva»), sono state ulteriormente precisate dalla sua successiva giurisprudenza. Essa, infatti, ha specificato che la garanzia sancita dall’art. 7, in quanto «elemento essenziale della preminenza del diritto, occupa un posto fondamentale nel sistema di protezione della Convenzione, come dimostra il fatto che l’art. 15 non autorizza alcuna deroga», sicché la sua interpretazione ed applicazione deve avvenire «in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie», giacché, se la norma de qua «vieta principalmente di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano reati, impone altresì di non applicare la legge penale in maniera estensiva a pregiudizio dell’imputato» (in tal senso, v. la sentenza del 20 gennaio 2009, resa nella causa 75909/2001, Fondi s.r.l. ed altri contro Italia).
1.3.— L’applicazione di tali principi, destinati ad integrare – prosegue il remittente – «il dettato normativo dell’art. 117 Cost.», dovrebbe comportare, «in un’ottica di definitivo superamento della precedente, diversa, soluzione privilegiata dalla Consulta con l’ordinanza n. 392 del 1987», l’illegittimità costituzionale delle norme censurate.
In tale prospettiva, si sottolinea, in primo luogo, che «la confisca del veicolo», piuttosto che «soddisfare un bisogno di natura cautelare», realizzerebbe «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva». Lo confermerebbe la duplice circostanza «che la misura è applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») e che la sua applicazione «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva», sicché, «al di là della “etichetta” formale, la confisca in argomento si traduce in una sanzione patrimoniale di natura repressiva, dunque parificabile, ai fini sopra indicati, alla sanzione penale».
In secondo luogo, si evidenzia che l’efficacia retroattiva «della nuova disciplina che ha introdotto tale forma di confisca comporterebbe un’applicazione estensiva della disposizione penale, sanzionando, in maniera pesantemente pregiudizievole, un soggetto che, all’epoca della commissione del relativo reato, poteva fare affidamento sull’esistenza di una disposizione penale che non prevedeva l’adottabilità di quel tipo di provvedimento ablatorio».
Né, infine, andrebbe trascurata la circostanza – osserva il giudice a quo – che la confisca del veicolo «va disposta anche nei riguardi del conducente che abbia rifiutato di sottoporsi all’esame alcolemico del sangue», ciò che ne confermerebbe la natura di provvedimento repressivo.
1.4.— La correttezza di tali rilievi – secondo il remittente – sarebbe confermata dall’ordinanza n. 97 del 2009 della Corte costituzionale (erroneamente indicata, peraltro, come n. 92 del 2009) che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la confisca “per equivalente” di cui all’art. 322-ter cod. pen. e all’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008).
La citata pronuncia, difatti, ha evidenziato che «la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all’indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 c.p.», pervenendo a tale conclusione in base al duplice rilievo che «il secondo comma dell’art. 25 Cost. vieta l’applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto in contrasto con l’art. 7 della Convenzione l’applicazione di una sanzione riconducibile proprio ad un’ipotesi di confisca per equivalente» (si tratta della già citata sentenza del 9 febbraio 2005, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito).
1.5.— Su tali basi, quindi, il remittente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 200 e 236 cod. pen. e degli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del codice della strada.
Dedotta, così, la violazione degli artt. 3 e 117 Cost., il remittente – non senza osservare che la questione è rilevante, essendo il decreto penale parificato, ad ogni effetto, alla sentenza di condanna, ed essendo stato accertato a carico dell’imputato il superamento del limite di 1,50 del tasso alcolemico fissato dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada – ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate «nella parte in cui consentono il sequestro preventivo e, in caso di sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti, la confisca obbligatoria del veicolo, non appartenente a terzo estraneo, con il quale è stato commesso il reato di guida sotto l’influenza dell’alcool o il reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, anche quando tali reati siano stati commessi in epoca anteriore all’entrata in vigore del suddetto decreto-legge».
2.— Non è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1.— Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), articoli, questi ultimi, censurati dal remittente nel testo modificato, rispettivamente, dall’art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125.
1.1.— In particolare, il giudice remittente – essendo stata richiesta dal pubblico ministero, nel giudizio principale, l’emissione di decreto penale di condanna, in relazione alla fattispecie di reato di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada – rimarca il fatto di dover applicare all’imputato, retroattivamente, la misura della confisca del veicolo, non essendo questa prevista all’epoca del commesso reato.
Difatti, in forza di quanto stabilito dall’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, in caso di condanna dell’imputato per la fattispecie criminosa oggetto del giudizio a quo (e per quella di cui all’art. 187 del codice della strada, norma, per tale motivo, anch’essa coinvolta dal remittente nell’incidente di costituzionalità), «è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato». Orbene, proprio il riferimento all’articolo da ultimo citato avrebbe l’effetto di rendere operativa, nella specie, la previsione di cui all’art. 200, primo comma, cod. pen. (cui rinvia, quanto alle misure di sicurezza patrimoniali, l’art. 236, secondo comma, del medesimo codice), in base alla quale «le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione».
1.2.— Tanto premesso in fatto, il giudice a quo ritiene le norme suddette in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.
Sarebbe, infatti, violato l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848), secondo cui «non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato»; norma interpretata dalla Corte di Strasburgo come applicabile anche nei riguardi della misura della confisca (è richiamata la sentenza pronunciata dalla Grande Chambre il 9 febbraio 1995, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito).
In particolare, la confisca del veicolo adoperato per commettere i reati di cui agli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del codice della strada, lungi dal «soddisfare un bisogno di natura cautelare», realizzerebbe – secondo il remittente – «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva».
Lo confermerebbero, per un verso, la circostanza che la misura de qua è destinata a ricevere applicazione «anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») ed inoltre, per altro verso, la constatazione che la sua operatività «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva».
Ne conseguirebbe, così, che, al di là della qualificazione formale, la confisca in argomento si tradurrebbe in una sanzione patrimoniale di natura repressiva, da parificare – in base alla citata sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – «alla sanzione penale» e, dunque, non suscettibile di efficacia retroattiva, se non in violazione del citato art. 7 della CEDU.
Inoltre, la retroattività della misura in esame – sempre secondo il giudice a quo – sarebbe da ritenere costituzionalmente illegittima per il fatto di comportare «un’applicazione estensiva della disposizione penale, sanzionando, in maniera pesantemente pregiudizievole, un soggetto che, all’epoca della commissione del relativo reato, poteva fare affidamento sull’esistenza di una disposizione penale che non prevedeva l’adottabilità di quel tipo di provvedimento ablatorio».
2.— In via preliminare, dovendo questa Corte vagliare la conformità delle norme censurate all’art. 7 della CEDU, è necessario verificare se ricorrano le condizioni in presenza delle quali, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007), uno scrutinio siffatto può essere effettuato.
Ed invero, in particolare la seconda di tali sentenze ha affermato che «questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU», deve preliminarmente accertare l’esistenza del contrasto «e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana» (così la sentenza n. 349 del 2007).
Più di recente, questa Corte – con una decisione intervenuta, tra l’altro, in materia di confisca di beni – ha ribadito che «in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via interpretativa», giacché soltanto «ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge» (sentenza n. 239 del 2009).
2.2.— Nel caso in esame, tuttavia, deve escludersi che il contrasto denunciato potesse essere superato dal remittente in via interpretativa.
2.2.1.— Difatti, la pressoché unanime giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’ipotesi di confisca obbligatoria prevista dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada (nel testo novellato dall’art. 4, comma 1, lettera b, del d.l. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125 del 2008) si applica anche alle condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della novella (in tal senso, Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 4 giugno 2009, n. 32932; sentenza 3 aprile 2009, n. 38179; sentenza 27 gennaio 2009, n. 9986).
È rimasta, dunque, del tutto isolata la decisione della stessa Corte secondo cui il «richiamo all’art. 240, secondo comma, cod. pen.» (contenuto nel testo dell’art. 186, comma 2, lettera c, del codice della strada) avrebbe «solo l’intento di rimarcare l’obbligatorietà della confisca e non quello di affermare che il caso disciplinato rientri tra quelli che detta disposizione contempla», ciò che renderebbe, pertanto, «non estensibile» alla misura qui in esame «la regola dettata dall’art. 200 cod. pen.», vale a dire quella dell’applicazione retroattiva della misura di sicurezza (così sezione IV penale, sentenza 29 aprile 2009, n. 32916).
In queste condizioni, pertanto, è preclusa a questa Corte la possibilità di una soluzione del tipo di quella che è stata proposta, di recente, con riferimento ad analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto – ancora in relazione all’art. 7 della CEDU – la cosiddetta “confisca per equivalente”, ex art. 322-ter del codice penale.
È stata, infatti, proprio la constatazione di quanto «affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce» ad aver permesso a questa Corte di riconoscere a tale ipotesi di confisca «una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 cod. pen.». Su tali basi questa Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza, per erroneità del presupposto interpretativo, della questione allora sollevata (ordinanza n. 97 del 2009).
2.2.2.— Né è senza rilievo, nella medesima prospettiva, la diversa formulazione letterale dell’art. 322-ter cod. pen. rispetto all’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada.
La prima di tali norme, infatti, si limita a stabilire che, nei casi di condanna o applicazione della pena su richiesta per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 cod. pen., anche se commessi dai soggetti indicati nell’articolo 322-bis, primo comma, cod. pen., «è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato», senza, dunque, contenere alcun riferimento all’art. 240 cod. pen.
Anche il dato testuale, pertanto, impone a questa Corte di affermare che il denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e la norma sub-costituzionale invocata dal remittente, come parametro interposto, «sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenza n. 311 del 2009).
3.— L’esame nel merito della presente questione di legittimità costituzionale impone, tuttavia, una ulteriore precisazione preliminare, anche nella prospettiva di una più specifica delimitazione del thema decidendum ora sottoposto al vaglio di questa Corte.
3.1.— Occorre, infatti, muovere dalla constatazione che una pur risalente giurisprudenza costituzionale ha affermato che «la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica», giacché, se il suo contenuto consiste sempre nella «privazione di beni economici», essa «può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varia finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione o di pena, o di misura di sicurezza, ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa» (sentenza n. 29 del 1961).
La necessità di tenere nettamente distinte le singole ipotesi di confisca è, del resto, anche conseguenza della differenza esistente – in campo penale – tra le nozioni di pena e di misura di sicurezza, i cui riflessi, oltretutto, si riverberano nella differente disciplina, fissata dai commi secondo e terzo dell’art. 25 Cost., del fenomeno della successione, nel tempo, delle norme relative ai due istituti.
3.1.1.— Difatti, con la sentenza n. 53 del 1968, questa Corte ha rilevato come «la inserzione della pena e della misura di sicurezza nell’ambito di una categoria unica» (quella generale di sanzione, intesa come «reazione dell’ordinamento alla inosservanza della norma») non abbia avuto come effetto di eliminare «quelli che sono i caratteri particolari dei due mezzi di tutela giuridica». «Nessuno sforzo di accostamento», prosegue la citata sentenza, «potrà infatti valere ad eliminare la differenza, essenziale e di natura, che nettamente si manifesta: la differenza cioè fra la reazione contro un fatto avvenuto, propria della pena, e l’attuazione, propria della misura di sicurezza, di mezzi rivolti ad impedire fatti di cui si teme il verificarsi nel futuro».
Da tale premessa la citata sentenza ha fatto discendere «altre fondamentali note differenziali tra i due mezzi di tutela giuridica». Tra di esse, in particolare, rileva, ai fini che qui interessano, la scelta di individuare «la norma valida per la misura di sicurezza», diversamente da quanto previsto per la pena, in «quella del tempo della sua applicazione».
È in questi termini, dunque, che viene spiegata la formulazione non omogenea dei commi secondo e terzo dell’art. 25 Cost., giacché «soltanto per la pena», l’uno «ribadisce il cosiddetto principio di stretta legalità, disponendo che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”», mentre l’altro «lascia ferma nell’ordinamento la disposizione dell’art. 200 del Codice penale, in forza della quale “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione”; cioè non da un imperativo giuridico anteriore al fatto punibile, ma da quelle disposizioni che via via l’ordinamento riconoscerà più idonee ad una efficace lotta contro il pericolo criminale» (citata sentenza n. 53 del 1968).
3.1.2.— A giustificare, pertanto, la ritenuta retroattività delle misure di sicurezza, con riguardo soprattutto a quelle di natura personale, è la finalità, loro propria, di assicurare una efficace lotta contro il pericolo criminale, finalità che potrebbe richiedere che il legislatore, sulla base di circostanze da esso discrezionalmente valutate, preveda che sia applicata una misura di sicurezza a persone che hanno commesso determinati fatti prima sanzionati con la sola pena (o con misure di sicurezza di minore gravità).
In altri termini, tale retroattività risulta connaturata alla circostanza che le misure di sicurezza personali costituiscono strumenti preordinati a fronteggiare uno stato di accertata pericolosità; funzione che esse assolvono con i mezzi che dalle differenti scienze, chiamate specificamente a fornirli, potranno essere desunti.
3.1.3.— Nondimeno, la presa d’atto proprio delle peculiari caratteristiche e funzioni che, rispetto alle pene, presentano le misure di sicurezza ha portato la dottrina a sottolineare la necessità, a fronte di ogni reazione ad un fatto criminoso che il legislatore qualifichi in termini di misura di sicurezza, di un controllo in ordine alla sua corrispondenza non solo nominale, ma anche contenutistica, alla natura spiccatamente preventiva di detti strumenti. Ciò, al fine di impedire che risposte di segno repressivo, e quindi con i caratteri propri delle pene in senso stretto, si prestino ad essere qualificate come misure di sicurezza, con la conseguenza di eludere il principio di irretroattività valido per le pene.
3.1.4.— Una preoccupazione analoga – e cioè quella di evitare che singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla CEDU, nell’escludere che un determinato illecito ovvero una determinata sanzione o misura restrittiva appartengano all’ambito penale, possano determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale – è, del resto, alla base dell’indirizzo interpretativo che ha portato la Corte di Strasburgo all’elaborazione di propri criteri, in aggiunta a quello della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale, al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione.
In particolare, la Corte europea ha attribuito alternativamente rilievo, a tal fine, o alla natura stessa dell’illecito – da determinare, a propria volta, sulla base di due sottocriteri, costituiti dall’ambito di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione – ovvero alla gravità, o meglio al grado di severità, della sanzione irrogata.
3.1.5.— Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto.
Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito…») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato.
D’altronde, questa Corte non solo ha affermato che, per le misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto, sussiste «l’esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse» (sentenza n. 447 del 1988), ma anche precisato come la necessità «che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire» risulti pur sempre «ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 78 del 1967).
A ciò è da aggiungere che anche la disciplina generale relativa agli illeciti amministrativi depenalizzati – recata dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – ha stabilito che «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione» (art. 1, primo comma), dettando, così, una regola che si pone come principio generale di quello specifico sistema.
3.2.— Orbene, alla luce delle suindicate premesse, occorre verificare se l’ipotesi di confisca prevista dall’art. 186 del codice della strada – secondo la prospettiva indicata dal giudice remittente – costituisca una misura di carattere sanzionatorio e, dunque, se la sua applicazione retroattiva, ponendosi in contrasto con la descritta interpretazione che dell’art. 7 della CEDU ha fornito la Corte dei diritti dell’uomo, integri una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
4.— Tale evenienza ricorre – nei limiti di seguito meglio precisati – nel caso di specie, donde la fondatezza, negli stessi limiti, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada.
4.1.— Preliminarmente deve essere chiarito che il riconoscimento della natura di misura sanzionatoria, propria della confisca in esame, comporta l’inammissibilità delle questioni che investono gli artt. 200 e 236 cod. pen.
Una volta escluso, come si specificherà meglio nel prosieguo, che nel caso in esame venga in rilievo una misura di sicurezza, risulta irrilevante, nel giudizio a quo, la questione relativa alla compatibilità con l’art. 7 della CEDU delle norme suddette, giacché esse hanno la funzione di regolare l’applicazione delle misure di sicurezza in senso proprio e non di misure, in senso lato, sanzionatorie.
4.2.— Del pari inammissibile deve essere considerata la questione di costituzionalità relativa all’art. 187, comma 1, ultimo periodo, del codice della strada, pure sollevata dal remittente, trattandosi di una norma che – estendendo la previsione della confisca del veicolo, stabilita a carico del responsabile del reato di guida in stato di ebbrezza, anche all’autore del reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti – non viene in rilievo nel giudizio a quo.
5.— La natura essenzialmente sanzionatoria della confisca – prevista dall’art. 186 del codice della strada – deve essere affermata, innanzitutto, sulla base degli esatti rilievi formulati dal giudice remittente.
5.1.— Questi, difatti, sottolinea come la confisca che dovrebbe essere applicata nel giudizio a quo, al di là della sua qualificazione formale, presenti «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva» e non invece preventiva. A tale conclusione il remittente perviene sulla base della duplice considerazione che tale «misura è applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») e che la sua operatività «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva», sicché la misura della confisca si presenta non idonea a neutralizzare la situazione di pericolo per la cui prevenzione è stata concepita.
5.2.— D’altra parte, il carattere sanzionatorio, proprio di tale misura, risulta confermato da quanto ritenuto da questa Corte in relazione alla confisca di ciclomotori o motoveicoli, prevista dall’art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, allorché detti mezzi siano «utilizzati per commettere un reato».
Questa Corte – nel ritenere «non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una più intensa risposta punitiva, allorché un reato sia commesso mediante l’uso di ciclomotori o motoveicoli» – ha qualificato come «sanzione accessoria» tale forma di confisca (sentenza n. 345 del 2007, in particolare il punto 5. del Considerato in diritto).
Né, infine, vanno trascurate le peculiari circostanze con riferimento alle quali la citata sentenza è pervenuta a tale conclusione, essendosi questa Corte pronunciata relativamente ad un’ipotesi di confisca disposta proprio «nel caso contemplato dall’art. 186 del codice della strada», rispetto al quale si è riconosciuto «un rapporto di necessaria strumentalità tra l’impiego del veicolo e la consumazione del reato», giustificando, così, anche su queste basi, l’affermazione della natura sanzionatoria della confisca del mezzo (sentenza n. 345 del 2007, ancora al punto 5. del Considerato in diritto).
6.— In conclusione, da quanto sopra consegue che, per rendere compatibile con l’art. 7 della CEDU – e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost. – il novellato testo dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada, è sufficiente limitare la declaratoria di illegittimità costituzionale alle sole parole «ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale», dalle quali soltanto deriva l’applicazione retroattiva della misura in questione.
Tale esito è, infatti, sufficiente a recidere il legame che – in contrasto con le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza tanto di questa Corte, quanto di quella di Strasburgo – l’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, ha inteso stabilire tra detta ipotesi di confisca e la disciplina generale delle misure di sicurezza patrimoniali contenuta nel codice penale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale, limitatamente alle parole «ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale», dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificato dell’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e dell’articolo 187, comma 1, ultimo periodo, del medesimo decreto legislativo n. 285 del 1992, nel testo novellato dall’art. 4, comma 2, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, sollevate – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Alfonso QUARANTA , Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2010.

news della giornata

“Rischio biologico negli ambulatori ‘Prime Cure’ Inail - Vademecum per l’infermiere - Edizione 2010”

“Rischio biologico negli ambulatori ‘Prime Cure’ Inail - Vademecum per l’infermiere - Edizione 2010”

L'iscritto scrive......l'Avvocato risponde



RICEVO E PUBBLICO - Se vi siete commossi per Sakineh Ashtiani perché non vi interessa Teresa Lewis?

RICEVO E PUBBLICO

Se vi siete commossi per Sakineh Ashtiani perché non vi interessa Teresa Lewis?

Cassazione "...Il rapporto di lavoro dei dipendenti del Corpo di polizia penitenziaria (istituito con legge n. 395 del 1990, che ha soppresso il Corpo degli agenti di custodia), espressamente incluso dal legislatore tra le Forze di polizia di Stato, è soggetto, ai sensi dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, alla disciplina pubblicistica. Né, in senso contrario, rileva la qualificazione dello stesso come "corpo civile", conseguente alla smilitarizzazione e non implicante la privatizzazione del rapporto di lavoro, ovvero l'esistenza di una espressa connotazione pubblicistica del rapporto di lavoro del personale appartenente alla carriera dirigenziale penitenziaria (ex art. 2 della successiva legge n. 154 del 2005), giacché tale personale, pur contemplato nella legge n. 395 cit., non fa parte del Corpo di polizia penitenziaria, ma del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria alle cui dipendenze detto Corpo è posto. Ne consegue che la domanda proposta da un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria, con qualifica non dirigenziale, per ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di un'infermità, ai fini della corresponsione dell'equo indennizzo, è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo..."



Cassazione "...Il rapporto di lavoro dei dipendenti del Corpo di polizia penitenziaria (istituito con legge n. 395 del 1990, che ha soppresso il Corpo degli agenti di custodia), espressamente incluso dal legislatore tra le Forze di polizia di Stato, è soggetto, ai sensi dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, alla disciplina pubblicistica. Né, in senso contrario, rileva la qualificazione dello stesso come "corpo civile", conseguente alla smilitarizzazione e non implicante la privatizzazione del rapporto di lavoro, ovvero l'esistenza di una espressa connotazione pubblicistica del rapporto di lavoro del personale appartenente alla carriera dirigenziale penitenziaria (ex art. 2 della successiva legge n. 154 del 2005), giacché tale personale, pur contemplato nella legge n. 395 cit., non fa parte del Corpo di polizia penitenziaria, ma del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria alle cui dipendenze detto Corpo è posto. Ne consegue che la domanda proposta da un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria, con qualifica non dirigenziale, per ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di un'infermità, ai fini della corresponsione dell'equo indennizzo, è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo..."

Cons:Giust.Amm.Sic.".."Il personale dei ruoli della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia giudicato assolutamente inidoneo per motivi di salute, anche dipendenti da causa di servizio, all'assolvimento dei compiti di Istituto può, a domanda, essere trasferito nelle corrispondenti qualifiche di altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, sempreché l'infermità accertata ne consenta l'ulteriore impiego"...."

Cons:Giust.Amm.Sic.".."Il personale dei ruoli della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia giudicato assolutamente inidoneo per motivi di salute, anche dipendenti da causa di servizio, all'assolvimento dei compiti di Istituto può, a domanda, essere trasferito nelle corrispondenti qualifiche di altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, sempreché l'infermità accertata ne consenta l'ulteriore impiego"...."

Cassazione "...La rimozione dei sigilli effettuata dalle forze dell'ordine, per verificare l'integrità dei reperti per una nuova perizia, è legittima anche in assenza del magistrato incaricato..."

 Cassazione "...La rimozione dei sigilli effettuata dalle forze dell'ordine, per verificare l'integrità dei reperti per una nuova perizia, è legittima anche in assenza del magistrato incaricato..."

Cassazione "...Sbarchi di clandestini: può evitare la condanna lo scafista bloccato dalla Finanza nelle acque «contigue» all'Italia - Giurisdizione esclusa se i trafficanti traghettano cittadini extracomunitari su una nave battente bandiera di uno Stato che non ha ratificato la Convenzione internazionale di Montego Bay: l'inseguimento deve fermarsi a 12 miglia marine dalla costa..."

Cassazione "...Sbarchi di clandestini: può evitare la condanna lo scafista bloccato dalla Finanza nelle acque «contigue» all'Italia - Giurisdizione esclusa se i trafficanti traghettano cittadini extracomunitari su una nave battente bandiera di uno Stato che non ha ratificato la Convenzione internazionale di Montego Bay: l'inseguimento deve fermarsi a 12 miglia marine dalla costa..."

SCUOLA: NOVE SINDACI SI DIMETTONO CONTRO TAGLI IN SARDEGNA

(ANSA) - SASSARI, 21 SET - Nove sindaci di altrettanti paesi
del nord Sardegna hanno rassegnato le dimissioni, oggi a
Sassari, nelle mani del vice prefetto Italo Mancaleoni per
protestare contro i tagli all'Istituto professionale di Bono.
I primi cittadini di Bono, Bultei, Anela, Benetutti, Nule,
Bottida, Illorai, Burgos ed Esporlatu hanno raggiunto stamani
Sassari, insieme a un centinaio di studenti e docenti
dell'istituto dove 17 alunni (tra cui uno portatore di handicap)
non potranno frequentare la Quarta a causa dei tagli previsti
dal ministro Gelmini.
In assenza del prefetto Marcello Fulvi, i sindaci sono stati
ricevuti dal vice prefetto, ma venerdi' mattina alle 10
torneranno a Sassari per parlare direttamente con il
rappresentante del Governo sul territorio che li ha convocati
per un vertice in Prefettura. ''Il comune di Bono e tutti i
comuni del Goceano - ha detto Piero Molotzu, primo cittadino di
Bono - rientrano tra i centri definiti a rischio di devianza
minorile e giovanile e come tali sono inseriti nel Piano
Operativo Nazionale Sicurezza Goceano, elaborato dal Ministero
dell'Interno. Privare il territorio della scuola - ha concluso
il sindaco di Bono - e' un atto gravissimo che comporta oneri e
conseguenze sociali ed economiche per i giovani e per l'intera
comunita'''. (ANSA).

YE4-FO
21-SET-10 13:41 NNNN

"Non cancelliamo la memoria di Peppino Impastato"


Polizia di Stato - 3° Corso Armaioli




"Condotta antisindacale, condannato il questore Santi Giuffré"



"Il giudice: il questore è antisindacale"



LETTERA DI UN AGENTE DI POLIZIA .” stipendio ridicolo, turni massacranti e pericoli per la vita.Non siamo noi statali il male del paese” (Commenta la notizia)


“Sono un agente della Polizia di Stato, stipendio ridicolo paragonandolo alle grosse responsabilità e alle mansioni a cui si è tenuti ad adempire (retribuzione di circa un 1/3 inferiore rispetto ai colleghi europei francesi, tedeschi, inglesi ecc…), turni che coprono le 24 ore, tutti i festivi a lavoro, compresi Natale, Pasqua e Capodanno compatibilmente al proprio turno e salvo eventuali sostituzioni di terzi, sacrifici enormi , pericoli per la propria vita ogni volta che si esce per lavoro, sempre al servizio per la sicurezza e la tutela altrui, turni che diventano sempre più lunghi (la mancanza delle nuove leve si fa sentire), straordinari spesso obbligatori, quasi sempre senza copertura finanziaria, quindi non retribuiti regolarmente nelle mensilità con arretrati vecchi più di un anno o due, in occasione dei servizi per l’ordine pubblico si resta sempre più spesso coinvolti in scontri fisici con conseguenti lesioni personali create da altri incontrollabili scalmanati, contratto collettivo scaduto nel 2006 coperto da una misera indennità di vacanza contrattuale vecchia di tre anni, si lavora al caldo al freddo con pioggia neve e altro, personalmente negli ultimi due anni lavorativi ho usufruito solamente di 10 giorni di malattia,………….E, se mi dovessi ammalare dopo una giornata passata sotto il sole a 40 gradi o sotto la pioggia o la neve , magari per soccorrere un utente stradale ferito e rilevarne l’incidente, che faccio ci rimetto pure i soldi…?! ..e allora vuol dire che non conviene più farsi il proprio dovere, avere sani ideali di altruismo e giustizia ma prevale il fatto che devo tutelare principalmente la mia salute, anche nelle situazioni più banali, soprattutto per le diagnosi più lievi nelle quali mi decurtano un tot relativo ai primi 10 gg di malattia, quindi se bisogna intervenire durante le giornate con intemperie, almeno aspettare che spiova…….E se proprio capitasse di ammalarsi, allora visto che ormai ci siamo, altro che 10gg, minimo devono essere (20;30gg) così oltre alla cura della patologia, visto che si paga, pensiamo anche ad ottenere un meritato riposo al calduccio, tra le coccole delle nostre amate famiglie, per chi può ancora permettersi una famiglia e riesce a sostenerla con il proprio ridicolo stipendio!!! Tanto se per altro non ci meritiamo nemmeno un adeguato rinnovo contrattuale tanto vale starsene a casa, almeno risparmiamo sulla benzina che giorno per giorno si fa sempre più cara perché si adegua al reale costo della vita, e che per noi pendolari “forzati” in quanto non ci è dato nemmeno scegliere la sede lavorativa più vicina alla nostra abitazione ma questa ci viene imposta da esigenze di organici e di raccomandazioni varie…!ed è per questo che Ho appena formulato la disdetta al mio sindacato, e se almeno tutti, come me, lo facessero almeno temporaneamente, anche i relativi rappresentanti capirebbero cosa significhi non ricevere l’adeguato compenso per il proprio servizio e magari imparano a tutelarci meglio!!! Cari cittadini, ma sapete poi quele sarebbe il mio misuratore di produttività e quello dei ?mio o meglio quello legato ai colleghi che fanno Polizia Stradale? Viene calcolato e inviato ai vari signori ministri in base alle sanzioni che affliggiamo a voi ignari Utenti, e se per caso un giorno si rientra in caserma con il blocchetto verbali non usato sono rimproveri e provvedimenti ricattatori su concessioni di ferie e permessi vari… perchè se la pattuglia rientra senza verbali il comandante non ci fa bella figura nei confronti delle statistiche e del suo redditometro!!!! beati voi che ce l’avete con tutti gli statali e pensate che siano loro il male dello spreco del Paese!

Garante Privacy: sul regime dei controlli dei file porno scaricati dal lavoratore sul pc aziendale

Garante per la protezione dei dati personali
Provvedimento 10.06.10, n.1736780
Garante Privacy: sul regime dei controlli dei file porno scaricati dal lavoratore sul pc aziendale

IL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

NELLA riunione odierna, in presenza del prof. Francesco Pizzetti, presidente, del dott. Giuseppe Chiaravalloti, vicepresidente, del dott. Mauro Paissan e del dott. Giuseppe Fortunato, componenti, e del dott. Daniele De Paoli, segretario generale;

VISTO il ricorso pervenuto al Garante il 5 marzo 2010, presentato da XY nei confronti di Telepost S.p.A., con il quale il ricorrente, dopo aver ricevuto una contestazione disciplinare cui ha fatto seguito il licenziamento senza preavviso anche a causa di una verifica effettuata sul disco fisso del computer datogli in dotazione dall'azienda e dalla quale è emersa la presenza, nello stesso, di numerosi files contenenti "materiale pornografico", ha ribadito la richiesta, già avanzata ai sensi dell'art. 7 del Codice in materia di protezione dei dati personali (d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196), volta ad opporsi all'ulteriore trattamento dei dati personali, anche sensibili, che lo riguardano e a chiederne la cancellazione; ad avviso del ricorrente, gli stessi sarebbero stati illecitamente acquisiti dal datore di lavoro accedendo indebitamente al computer datogli in uso, "in sua assenza e alla presenza di un terzo esterno all'azienda"; ciò, in violazione dei principi di pertinenza e non eccedenza, sottoponendo a verifica il pc aziendale e "portando via fisicamente l'hard disk" al fine di effettuare "un esame tecnico specialistico approfondito dell'apparecchiatura che consenta di individuare tutto il reale contenuto non ancora verificato"; rilevato che, ad avviso del ricorrente, il trattamento dei predetti dati sarebbe avvenuto in violazione dei principi di liceità e correttezza, tenuto anche conto che "la normativa per l'utilizzo dei servizi informatici aziendali è stata inviata per e-mail dal direttore della società il giorno 13.1.2010, appena 24 ore solari prima del controllo individuale (…)" e che, nella stessa, "si esplicitano solo controlli difensivi aziendali relativi ad accessi, indirizzi/siti internet visitati, e-mail in entrata/uscita, non includendo tra essi, quindi, i controlli su file giacenti nel disco fisso (…)"; rilevato che il ricorrente ha chiesto la liquidazione in proprio favore delle spese del procedimento;

VISTI gli ulteriori atti d'ufficio e, in particolare, la nota del 15 marzo 2010, con la quale questa Autorità, ai sensi dell'art. 149, comma 1 del Codice ha invitato il predetto titolare del trattamento a fornire riscontro alle richieste dell'interessato, nonché la nota del 26 aprile 2010 con la quale è stata disposta, ai sensi dell'art. 149, comma 7, la proroga dei termini del procedimento;

VISTE le note datate 12 e 14 aprile 2010 con le quali la società resistente, nel ricostruire l'accaduto, ha rappresentato che: a) già in data 1 febbraio 2009 la società capogruppo TNT Post Italia (di cui Telepost s.p.a. è parte) ha adottato la "Policy di gruppo relativa alle procedure di sicurezza informatica destinata a tutti i dipendenti, consulenti e terze parti delle società del gruppo", nella quale è specificato che "il servizio di connessione internet aziendale non deve essere utilizzato per commettere azioni punibili e/o reprensibili quali ad esempio (…) infrangere i diritti di proprietà intellettuale (…) e visitare siti pornografici (…)" e che, successivamente, in data 13 gennaio 2010, la resistente stessa ha "provveduto ad inoltrare nuovamente a tutti i dipendenti la normativa per l'utilizzo dei servizi informatici aziendali" (in cui, alla lett. A), punto 5, è specificato che "non si può scaricare né produrre copie di software e/o file protetti da licenza d'uso, né aziendali né esterni all'azienda" (documentazione di cui ha allegato copia); b) in data 7 gennaio 2010 Telecom Italia s.p.a., in qualità di fornitore dei servizi di posta elettronica ed accesso ad internet per tutti i computer in uso in Telepost s.p.a, ha inviato "a tutto il personale della resistente due e-mails con le quali informava Telepost della presenza su host ad essa assegnato di materiale presumibilmente coperto da diritto d'autore, chiedendo quindi di procedere alla sua immediata rimozione (…)"; successivamente Telecom Italia s.p.a. ha contattato la resistente "affermando che tali illegittime operazioni di scarico di materiale erano state effettuate dall'user id n. (…)", che è stato accertato corrispondere a quella del ricorrente; c) in data 14 gennaio 2010, dopo che nel corso della giornata precedente la resistente aveva tentato invano di contattare l'interessato (che aveva richiesto per l'indomani un giorno di ferie) per rappresentargli l'esigenza che lo stesso fosse presente in ufficio a causa di specifiche esigenze di servizio, "il direttore centrale della società Sig. (…), unitamente a personale tecnico del fornitore dell'hardware Sig. (…), hanno proceduto ad aprire la busta sigillata contenente la password di accesso al pc fornito in dotazione esclusiva al ricorrente (…) ed hanno ispezionato alcune cartelle presenti nella memoria del pc ed in particolare una cartella di files denominata "travaso", nella quale è stata rinvenuta una grande quantità di materiale pornografico (almeno 50 filmati pornografici, nonché centinaia di foto pornografiche) ed altro materiale che è sembrato – ad una prima superficiale analisi – totalmente estraneo all'attività lavorativa"; si è quindi provveduto "a rimuovere e custodire l'unità centrale del pc" e, "una volta depositato formale atto di denuncia-querela nei confronti dell'interessato, a porlo a disposizione della polizia postale per lo svolgimento delle indagini che riterrà opportune";

VISTA la nota datata 22 aprile 2010 con la quale il ricorrente, nel rilevare che la richiamata "Policy TNT del 2.2.2009 è stata disattesa da Telepost s.p.a.", laddove la stessa recita che "non ci saranno controlli individuali sull'uso di internet. In caso siano riscontrati problemi di banda, (…) il gruppo TNT Post ha diritto di monitare anche la singola connessione" e che la stessa "normativa per l'uso dei servizi informatici aziendali in Telepost (pervenuta per e-mail appena 24 ore prima dell'ispezione), nella parte relativa a verifica da parte dell'azienda, nulla specifica sulle modalità da seguire per eventuali controlli sia occasionali che consensuali" (facendo piuttosto riferimento ai "c.d. controlli difensivi che prevedono verifiche su indirizzi/siti internet visitati o e-mail in entrata/uscita ad eccezione dei contenuti delle e-mail e dei relativi allegati"), ha sottolineato come, nella contestazione disciplinare, "nulla mi è stato contestato in proposito e la verifica è stata effettuata sul contenuto del disco fisso"; rilevato che il ricorrente, oltre a lamentare che "non risulta che il tecnico HP intervenuto alla verifica sia un soggetto autorizzato all'assolvimento di tali compiti" (ai sensi della normativa in materia di protezione dei dati personali), ha inoltre rimarcato che, mentre nella memoria di controparte vi sono riferimenti a "connessioni ad internet e al divieto di scaricare e produrre copie di software e/o file protetti da licenza d'uso", la contestazione di addebito "contiene solo un generico riferimento alla presunta "presenza" di materiale pornografico";

VISTA la nota datata 5 maggio 2010 con la quale la società resistente ha affermato che "l'indagine condotta era diretta ad accertate la presenza sull'host di materiale coperto da diritto d'autore e non alla verifica della periodicità e continuità degli accessi ad internet" e che "la contestazione effettuata fa esplicito riferimento a filmati presenti nel pc in uso presso la società e quindi a scarico di "file protetti da licenza d'uso""; rilevato che la resistente ha altresì sottolineato che "al riguardo, la policy aziendale prevede chiaramente al punto 4.3 che il servizio di connessione internet aziendale non deve essere utilizzato per commettere azioni punibili e/o reprensibili, quali ad esempio infrangere diritti o interessi di terze parti, i diritti di proprietà intellettuale ovvero divulgare o reperire materiale osceno, ingiurioso o offensivo di qualsiasi genere (…), visitare siti pornografici (…), scaricare, visionare o usare software e/o informazioni illegali o provenienti da fonti pirata o non correttamente licenziate"; rilevato che la resistente ha altresì affermato che il tecnico che ha ispezionato il pc dell'interessato è dipendente della "società HP, che si occupa della manutenzione del software e hardware in uso presso la società Telepost" e che il trattamento dei dati personali dell'interessato da parte della predetta società è lecito in quanto previsto nell'informativa fornita ai dipendenti il 20 dicembre 2004 (per il trattamento dei dati da parte di società esterne e/o fornitori); visto che, secondo la resistente, la presenza del predetto tecnico "era necessaria, essendo l'unico soggetto in grado sia di verificare sull'hard disk la presenza di materiale coperto da diritto d'autore senza danneggiare o manomettere il contenuto del disco fisso sia di capire quale tipo di file avrebbe potuto avere tale provenienza così evitando il controllo su dati ed elementi che esulavano dall'indagine stessa";

VISTA la nota datata 17 maggio 2010 con la quale il ricorrente, nel ribadire quanto già rappresentato nelle memorie precedenti, ha insistito sulle proprie richieste sottolineando, in particolare, che: a) nella contestazione di addebito "non si fa alcuna menzione di avere scaricato file protetti da licenza d'uso, ma solo di presunta generica presenza nel disco fisso di materiale pornografico"; b) nella "policy di gruppo" e nella "normativa per l'uso dei servizi informatici in Telepost" inviata via e-mail il 13.1.2010 non vi è alcuna "specificazione in merito ad un eventuale controllo di tutto il contenuto del disco fisso, come in realtà accaduto"; c) non appare chiaro il collegamento tra l'indagine effettuata e "la segnalazione di Telecom diretta a più di 300 indirizzi mail di ogni parte d'Italia" né se la stessa sia stata intrapresa sulla base di "precise segnalazioni di irregolarità oppure se si sia trattato di controllo a campione come dichiarato nella contestazione e nel provvedimento di licenziamento";

VISTE le note datate 3 e 10 giugno 2010 con le quali la resistente, nel fornire riscontro a una richiesta di informazioni di questa Autorità, ha ribadito la correttezza e pertinenza del controllo effettuato sul pc del ricorrente, "a prescindere dalle ragioni che hanno condotto a tale controllo";

RILEVATO che il datore di lavoro può riservarsi di controllare (direttamente o attraverso la propria struttura) l'effettivo adempimento della prestazione lavorativa e, se necessario, il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro (cfr. artt. 2086, 2087 e 2104 cod. civ.), ma che lo stesso, anche nell'esercizio di tale prerogativa, deve rispettare la libertà e la dignità dei lavoratori nonché, con specifico riferimento alla disciplina in materia di protezione dei dati personali, i principi di correttezza (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori), di pertinenza e non eccedenza di cui all'art. 11, comma 1, del Codice; ciò tenuto anche conto che tali controlli, indipendentemente dalla loro liceità, possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche non pertinenti o idonee a rivelare convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, lo stato di salute o la vita sessuale (cfr. § 5.2 e 6.1 del provv. del Garante del 1° marzo 2007 "Lavoro: le linee guida del Garante per posta elettronica e internet" pubblicate in G. U. n. 58 del 10 marzo 2007, di seguito "Linee guida per posta elettronica e Internet");

RILEVATO che, nel caso di specie, la società resistente ha affermato di avere effettuato un controllo sull'hard disk del computer in uso al ricorrente allo scopo di "accertare la presenza sull'host di materiale coperto da diritto d'autore", dichiarando altresì che il predetto controllo è stato determinato da una segnalazione – non documentata - proveniente da Telecom s.p.a. di "illegittime operazioni di scarico effettuate dall'user id" dell'interessato; considerato che, dalla documentazione acquisita al procedimento, risulta che la resistente ha esperito l'anzidetto controllo informatico in assenza di una previa idonea informativa all'interessato relativa al trattamento dei dati personali (art. 13 del Codice) e, più specificamente, al trattamento di dati che il datore di lavoro potrebbe effettuare in attuazione di eventuali controlli sugli strumenti informatici affidati ai lavoratori per esclusive finalità professionali, ovvero alle modalità da seguire per gli stessi (ad es., circa la presenza dell'interessato, di rappresentanti sindacali, di personale all'uopo incaricato); rilevato infatti che, a tal fine, non possono ritenersi sufficienti le indicazioni che la società ha dichiarato di avere impartito ai propri dipendenti, contenute nella "Policy di gruppo relativa alle procedure di sicurezza informatica" e nella "Normativa per l'uso dei servizi informatici in Telepost" (quest'ultima, peraltro, diramata al personale solo il giorno precedente all'ispezione);

CONSIDERATO che, fermo restando il diritto della società di verificare la violazione da parte del ricorrente degli obblighi a cui lo stesso era soggetto in qualità di prestatore di lavoro (e ciò avendo conservato su uno strumento messo a sua disposizione per l'attività lavorativa file ad essa non attinenti), la società resistente ha effettuato un trattamento di dati eccedente rispetto alle finalità perseguite. Nel caso di specie, stante il divieto, contenuto nella citata "normativa per l'uso dei servizi informatici in Telepost" di "visitare siti e /o memorizzare file che abbiano un contenuto contrario a norme di legge, all'ordine pubblico o al buon costume", la resistente avrebbe potuto accertare la non conformità del comportamento del ricorrente agli obblighi contrattuali in tema di uso corretto degli strumenti affidati sul luogo di lavoro, limitandosi a constatare l'esistenza, nel computer, di una cartella - "travaso_XY - che già nella denominazione rimandava ad un contenuto di carattere personale, senza la necessità di prendere conoscenza degli specifici "contenuti" della cartella medesima, rispetto ai quali è scaturito un trattamento di informazioni personali eccedenti e non pertinenti (art. 11 del Codice);

RITENUTO, alla luce delle considerazioni sopra esposte, di dover accogliere il ricorso e di dover disporre, ai sensi dell'art. 150, comma 2, del Codice, quale misura a tutela dei diritti dell'interessato, il divieto per la società resistente di trattare ulteriormente le informazioni relative agli specifici file conservati nella cartella "travaso_XY" contenuti nell'hard disk del pc in uso al ricorrente e raccolte nei modi contestati con il ricorso;

RITENUTO che sussistono giusti motivi per compensare le spese tra le parti alla luce della peculiarità della vicenda esaminata;

VISTA la documentazione in atti;

VISTI gli artt. 145 e s. del Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lg. 30 giugno 2003, n. 196);
VISTE le osservazioni dell'Ufficio formulate dal segretario generale ai sensi dell'art. 15 del regolamento del Garante n. 1/2000;

RELATORE il dott. Giuseppe Chiaravalloti;

TUTTO CIÒ PREMESSO IL GARANTE:

a) accoglie il ricorso e dispone, ai sensi dell'art. 150, comma 2, del Codice, quale misura a tutela dei diritti dell'interessato, il divieto per la società resistente di trattare ulteriormente le informazioni conservate nella cartella "travaso_XY" contenuti nell'hard disk del pc in uso al ricorrente e raccolte nei modi contestati con il ricorso;

b) dichiara compensate le spese tra le parti.

Roma, 10 giugno 2010

IL PRESIDENTE
Pizzetti

IL RELATORE
Chiaravalloti

IL SEGRETARIO GENERALE
De Paoli

Garante Privacy: no alla webcam in negozio senza tutele per i lavoratori

 
 
Garante per la protezione dei dati personali
Provvedimento 10.06.10, n.1736167
Garante Privacy: no alla webcam in negozio senza tutele per i lavoratori

IL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

In data odierna, in presenza del prof. Francesco Pizzetti, presidente, del dott. Giuseppe Chiaravalloti, vice presidente, del dott. Mauro Paissan e del dott. Giuseppe Fortunato, componenti, e del dott. Daniele De Paoli, segretario generale;

VISTO il d.lg. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali);

VISTO il provvedimento generale del Garante del 29 aprile 2004 in materia di trattamento di dati personali effettuati tramite sistemi di videosorveglianza, recentemente sostituito dal provvedimento generale dell'8 aprile 2010 (in www.garanteprivacy.it, doc. web n. 1712680);

ESAMINATA la documentazione in atti;

VISTA la segnalazione inviata in data 29 settembre 2009 dalla sig.ra Fiorella Vaccaro, avente ad oggetto l'installazione, presso due distinti punti vendita siti in Maida e Soverato (CZ) e gestiti dalla ditta individuale Irene Curcio (in favore della quale la segnalante ha in passato operato in qualità di dipendente), di una webcam in asserita violazione della disciplina di protezione dei dati personali e della pertinente normativa di settore in tema di controlli a distanza sull'attività dei lavoratori (art. 4, legge n. 300/1970);

VISTE le risultanze degli accertamenti ispettivi svolti in loco in data 26 gennaio 2010, per conto del "Nucleo speciale privacy" della Guardia di finanza, su delega di questa Autorità;

VISTO che presso il punto vendita ubicato in Maida risulta predisposto un impianto per il quale non sono state espletate le procedure previste dall'art. 4, comma 2 della l. n. 300/1970, perché ancora "non […] entrato in funzione";

VISTO che, al contrario, presso il punto vendita di Soverato è già stata "messa in funzione da circa un anno" una webcam, "in grado di riprendere l'intera sala destinata ad esposizione e vendita";

PRESO ATTO che, in base alle dichiarazioni rese dalla titolare anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 168 del Codice, "l'impianto di videosorveglianza [presso il punto vendita di Soverato] è stato posto in essere esclusivamente ai fini di sicurezza" (dato anche il contesto territoriale di riferimento) e che lo stesso funge altresì da "deterrente […] contro eventuali furti da parte dei clienti", peraltro già verificatisi in passato;

VISTE le precisazioni rese in relazione alle "modalità di attuazione delle disposizioni di cui all'art. 4 della legge nr. 300/1970", con specifico riferimento al fatto che alle singole dipendenti di volta in volta succedutesi presso il punto vendita di Soverato è stata "sempre rappresentat[a] la presenza della videocamera e le finalità di sicurezza cui [la stessa] era destinata", e che a ciò è sempre seguita l'acquisizione di un "consenso orale" da parte di costoro;

PRESO ATTO che la webcam, secondo quanto dichiarato, verrebbe "accesa sporadicamente", prevalentemente "nei giorni in cui [la titolare non è] presente presso […] il punto vendita";

RILEVATO che, in base alle osservazioni formulate dagli agenti verbalizzanti, non risulta essere stata "fornita alcuna informativa agli interessati" e che la medesima "informativa (minima o circostanziata) non è presente neanche all'esterno dei locali", ragion per cui non risulta che "gli avventori interessati [siano] informati del fatto che accedono in una zona videosorvegliata";

RILEVATO che tale circostanza è stata ribadita dalla titolare in sede di verbalizzazione delle operazioni compiute, alla luce delle quali risulta che non si è "provveduto alla posa di eventuali cartelli o altre segnalazioni per indicare l'esistenza della telecamera" a causa di "una […] dimenticanza";

PRESO ATTO, come da documentazione in atti, dell'attivazione dell'autonomo procedimento di contestazione della violazione amministrativa di cui all'art. 161 del Codice, rispetto alla quale la titolare ha fatto pervenire proprie osservazioni con nota del 2 marzo 2010 (da cui si evince, tra l'altro, che a seguito dell'ispezione si è provveduto a "ri-collocare l'informativa nel negozio");

PRESO ATTO di tali ultime dichiarazioni, alla luce delle quali, limitatamente a detto profilo (e ferma restando la valutazione dei presupposti per l'irrogazione della sanzione di cui al menzionato art. 161 del Codice), allo stato non si ritiene che sussistano elementi per formulare specifiche prescrizioni nei confronti della ditta individuale Curcio Irene;

RILEVATO che, in base alle risultanze degli accertamenti espletati, allo stato non risulta provato che l'installazione delle webcam ubicate presso i due punti vendita sia avvenuta nel rispetto della disciplina di settore prevista per i controlli a distanza sull'attività dei lavoratori (art. 4, comma 2 della legge n. 300/1970); ciò, anche alla luce dell'orientamento giurisprudenziale secondo cui il divieto di controllo a distanza dell'attività lavorativa non è escluso né dalla circostanza che le apparecchiature installate non siano ancora funzionanti, né dal fatto che il controllo sia destinato ad essere discontinuo (cfr. Cass. 6 marzo 1986, n. 1490);

RILEVATO che, in ragione della violazione del predetto art. 4, comma 2 l. n. 300/1970, il trattamento di dati personali effettuato a mezzo webcam presso il punto vendita di Soverato, allo stato degli atti, non risulta lecito (artt. 11, comma 1, lett. a), e 114 del Codice);

CONSIDERATO che il Garante ha il compito di disporre il blocco del trattamento ai sensi degli artt. 143, comma 1, lett. c), 144 e 154, comma 1, lett. d) del Codice in caso di trattamento di dati illecito o, comunque, non corretto;

RITENUTO pertanto di dover disporre, nei confronti della ditta individuale Curcio Irene, in attesa dell'eventuale espletamento delle procedure previste dall'art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il blocco del trattamento dei dati personali effettuato a mezzo videosorveglianza presso il punto vendita sito in Soverato;

RILEVATO, al contrario, che la webcam installata presso il punto vendita di Maida non è risultata in funzione, sicché, ferma restando l'inosservanza delle procedure di cui al predetto art. 4, in mancanza di un effettivo (e, allo stato, non comprovato) trattamento di dati personali, non sussistono i presupposti per l'emanazione di un provvedimento da parte di questa Autorità;

RILEVATO che, in caso di inosservanza del presente provvedimento, si renderanno applicabili le sanzioni (rispettivamente penale e amministrativa) di cui agli artt. 170 e 162, comma 2-ter, del Codice;

RITENUTO di dover disporre la trasmissione degli atti e di copia del presente provvedimento all'autorità giudiziaria per le valutazioni di competenza in ordine agli illeciti penali che riterrà eventualmente configurabili;

VISTE le osservazioni formulate dal segretario generale ai sensi dell'art. 15 del regolamento del Garante n. 1/2000;

RELATORE il dott. Giuseppe Chiaravalloti;

TUTTO CIÒ PREMESSO, IL GARANTE

ai sensi degli artt. 143, comma 1, lett. c), 144 e 154, comma 1, lett. d) del Codice, dispone, nei confronti della ditta individuale Curcio Irene, in attesa dell'eventuale espletamento delle procedure previste dall'art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il blocco del trattamento dei dati personali effettuato a mezzo videosorveglianza presso il punto vendita sito in Soverato.

Roma, 10 giugno 2010

IL PRESIDENTE
Pizzetti

IL RELATORE
Chiaravalloti

IL SEGRETARIO GENERALE
De Paoli