SENTENZA N.
245
ANNO 2011
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO
Giudice
- Franco GALLO
”
- Luigi MAZZELLA
”
- Gaetano SILVESTRI
”
- Sabino CASSESE
”
- Giuseppe TESAURO
”
- Paolo Maria NAPOLITANO
”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro CRISCUOLO
”
- Paolo GROSSI
”
- Giorgio LATTANZI
”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile,
come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Tribunale ordinario di Catania nel
procedimento vertente tra P.A. e M.A. e il Ministero
dell’interno, con ordinanza del 17 novembre 2009, iscritta al n. 26 del registro
ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
8, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto
l’atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nella camera di
consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto in
fatto
1.— Il
Tribunale ordinario di Catania ha sollevato – in riferimento agli articoli 2, 3,
29, 31 e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come
modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole
«nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio
italiano».
1.1.— In punto
di fatto, il Tribunale remittente premette di essere stato adíto da una cittadina italiana e da un cittadino marocchino
per la declaratoria dell’illegittimità del diniego opposto dall’ufficiale dello
stato civile alla celebrazione del loro matrimonio.
In particolare,
riferisce che in data 27 luglio 2009 i ricorrenti avevano chiesto all’ufficiale
dello stato civile di procedere alla pubblicazione della celebrazione del
matrimonio, producendo la documentazione prevista dalla allora vigente
formulazione dell’art. 116 cod. civ.
Il successivo 28
agosto, quindi, gli stessi avevano chiesto che il matrimonio venisse celebrato.
Il 31 agosto
2009, l’ufficiale dello stato civile aveva motivato il diniego alla celebrazione
del matrimonio per la mancanza di un «documento attestante la regolarità del
permesso di soggiorno del cittadino marocchino», così come previsto dall’art.
116 cod. civ., come novellato dalla legge n. 94 del 2009, entrata in vigore
nelle more.
1.2.— Tanto
premesso in fatto, il giudice a quo
prospetta l’illegittimità
costituzionale della norma suddetta, giacché essa
contrasterebbe:
con l’art. 2
Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come
singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità;
con l’art. 3
Cost., per violazione del principio di eguaglianza e di
ragionevolezza;
con l’art. 29
Cost., per violazione del diritto fondamentale a contrarre liberamente
matrimonio e di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi sui quali è ordinato
il sistema del matrimonio nel vigente ordinamento
giuridico;
con l’art. 31
Cost., perché interpone un serio ostacolo alla realizzazione del diritto
fondamentale a contrarre matrimonio;
con l’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all’art. 12 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU).
In particolare,
il remittente precisa che il matrimonio costituisce espressione della libertà e
dell’autonomia della persona, ed il diritto di contrarre liberamente matrimonio
è oggetto della tutela di cui agli artt. 2, 3 e 29 Cost., in quanto rientra nei
diritti inviolabili dell’uomo, caratterizzati dall’universalità. Inoltre, l’art.
31 Cost., nel sancire che la Repubblica
agevola la formazione della famiglia, «esclude la legittimità di limitazioni di
qualsiasi tipo alla libertà matrimoniale».
La libertà di
contrarre matrimonio, prosegue il Tribunale di Catania, trova fondamento anche
in altre fonti. A questo riguardo richiama l’art. 16 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, il già citato art. 12 della CEDU e l’art. 9
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il
7 dicembre 2000 e successivamente recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo
del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità
europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. In particolare, con specifico
riferimento all’art. 12 della CEDU, il remittente osserva che la predetta norma
«ricomprende la libertà matrimoniale tra quei diritti e libertà che devono
essere assicurati senza distinzione di sorta» e che, «pur prevedendo che tale
diritto debba essere esercitato nell’ambito di leggi nazionali», tuttavia, la
stessa non consente «che queste ultime possano porre condizioni o restrizioni
irragionevoli».
2.― È
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile e, comunque, non fondata.
2.1.―
L’Avvocatura dello Stato precisa, da un lato, che la modifica contenuta nella
disposizione censurata «deve essere letta congiuntamente» al nuovo testo
dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero) che, in generale, prevede l’obbligo di
esibizione della documentazione di soggiorno per gli atti di stato civile;
dall’altro che il requisito della regolarità del soggiorno, richiesto ai fini
della celebrazione del matrimonio, «tende a soddisfare l’esigenza del
legislatore di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo
dei flussi migratori».
La difesa
statale sottolinea che la libertà di contrarre matrimonio e di scegliere il
coniuge attiene alla sfera individuale del singolo sulla quale lo Stato, in
linea di massima, non potrebbe/dovrebbe interferire, salvo che non vi siano
interessi prevalenti incompatibili, quali potrebbero essere la salute pubblica,
la sicurezza e l’ordine pubblico. A questo riguardo, la difesa statale ritiene
che il legislatore, nella propria discrezionalità, abbia considerato «lo status di “clandestino”» come «una
situazione giuridica soggettiva valutabile negativamente in punto di ordine
pubblico e sicurezza» e, pertanto, sufficiente a giustificare la limitazione del
diritto a contrarre matrimonio.
Sostiene
l’Avvocatura che, in un giudizio di bilanciamento di interessi, le prerogative
dello Stato volte a tutelare la sovranità dei confini territoriali ed a
controllare i flussi migratori, anche per evitare matrimoni di comodo, siano
prevalenti e legittimino la scelta legislativa di limitare il diritto a
contrarre matrimonio delle persone che non risultino in regola con le norme che
disciplinano l’ingresso ed il soggiorno nel territorio
nazionale.
2.2.— La norma
censurata, sempre ad avviso della difesa dello Stato, non si porrebbe in
contrasto con le Convenzioni internazionali richiamate dal giudice remittente e,
in particolare, con gli artt. 8 e 12 della CEDU. Entrambe le disposizioni,
infatti, attribuirebbero al legislatore nazionale il potere di limitare il
diritto al matrimonio, in vista della tutela di valori «evidentemente ritenuti
di rango superiore», tra i quali sono inclusi la sicurezza nazionale e l’ordine
pubblico. Siffatto potere di ingerenza sarebbe stato confermato, inoltre, dalla
medesima Corte europea dei diritti dell’uomo.
Da ultimo,
sempre a sostegno dell’esistenza di un’ampia discrezionalità legislativa,
l’Avvocatura dello Stato richiama la giurisprudenza costituzionale e, in
particolare, la sentenza n. 250 del
2010. Con la predetta pronuncia, la Corte
costituzionale, precisa la difesa dello Stato, nel riconoscere al legislatore la
discrezionalità di definire quali condotte costituiscano o meno fatti aventi
rilevanza penale sembra aver «affermato la sussistenza di una discrezionalità
del legislatore nel qualificare la situazione di “clandestinità” come rilevante
in punto di tutela dell’ordine pubblico».
Pertanto, la
necessità di un controllo giuridico dell’immigrazione, in vista della tutela di
valori costituzionali – ordine pubblico, sovranità territoriale, rispetto di
obblighi internazionali – giustifica e legittima la scelta legislativa oggetto
di censura, frutto, prosegue l’Avvocatura, di un bilanciamento di valori, tutti
di rango costituzionale, tale per cui la “clandestinità” è qualificata
situazione ostativa al matrimonio, in ragione di esigenze di ordine pubblico, di
difesa dei confini e di controllo del flusso migratorio.
Del pari
infondati sarebbero i profili di censura relativi alla violazione degli artt. 2,
3, 29 e 31 Cost., poiché la norma impugnata «non è tale da impedire in assoluto
il matrimonio tra il cittadino italiano e il cittadino straniero o tra cittadini
stranieri»; piuttosto essa si limiterebbe a «regolamentare la posizione
giuridica del cittadino straniero che intende contrarre matrimonio in Italia, in
conformità alle norme dell’ordinamento in tema di ingresso e soggiorno degli
stranieri» sul territorio nazionale. Del tutto inconferente sarebbe, infine, la giurisprudenza richiamata
dal Tribunale remittente, poiché essa investirebbe profili diversi rispetto alla
questione sollevata nel giudizio a
quo.
Considerato in
diritto
1.— Il
Tribunale ordinario di Catania ha sollevato – in riferimento agli articoli 2, 3,
29, 31 e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come
modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole
«nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio
italiano». La novella introdotta dalla predetta legge, in altri termini, fa
carico allo straniero che intenda contrarre matrimonio in Italia di produrre
tale atto.
La questione è
stata sollevata nel corso di un giudizio civile, promosso da una cittadina
italiana e da un cittadino marocchino, avente ad oggetto – previo accertamento
della illegittimità del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile alla
celebrazione del matrimonio tra gli stessi – la richiesta di pronuncia di un
ordine all’ufficiale dello stato civile medesimo di celebrazione del matrimonio
in questione.
1.1.— Il
remittente reputa rilevante detta questione, sul presupposto che la già
intervenuta effettuazione della pubblicazione – sotto il vigore della precedente
formulazione dell’art. 116 cod. civ. – non esclude l’applicazione dello ius superveniens.
Conclusione, questa, che risulta conforme a quanto precisato dalla circolare del
Ministero dell’interno 7 agosto 2009, n. 19, la quale – oltre a confermare che
dall’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 «il matrimonio dello straniero
(extracomunitario) è subordinato alla condizione che lo stesso sia regolarmente
soggiornante sul territorio nazionale» – specifica che la predetta condizione
«deve sussistere all’atto della pubblicazione e al momento della celebrazione
del matrimonio».
1.2.— Con
riguardo, invece, al profilo della non manifesta infondatezza, il Tribunale pone
in luce, in primo luogo, come il matrimonio costituisca espressione della
libertà e dell’autonomia della persona, sicché il diritto a contrarlo
liberamente è oggetto della tutela primaria assicurata dagli artt. 2, 3 e 29
Cost., in quanto rientra nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo.
Tale diritto,
infatti, tende a
3
|
Secondo il
giudice a quo, questa Corte avrebbe
ripetutamente affermato come nella sfera personale di chi si sia risolto a
contrarre matrimonio non possa sfavorevolmente incidere alcunché che vi sia
assolutamente estraneo, al di fuori cioè di quelle regole, anche limitative,
proprie dell’istituto. Infatti, prosegue il remittente, il relativo vincolo, cui
tra l’altro si riconnettono valori costituzionalmente protetti, deve rimanere
frutto di una libera scelta autoresponsabile attenendo
ai diritti intrinseci ed essenziali della persona umana ed alle sue fondamentali
istanze, sottraendosi a ogni forma
di condizionamento indiretto, ancorché eventualmente imposto
dall’ordinamento (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 445 del 2002,
n. 187 del
2000, n. 189
del 1991, n.
123 del 1990, n. 73 del 1987,
n. 179 del
1976, n. 27
del 1969).
Ne deriverebbe,
pertanto, la necessità – conclude sul punto il Tribunale di Catania – di
sottrarre la libertà matrimoniale ad inammissibili condizionamenti, diversi da
quelli giustificati dall’ordine pubblico.
1.3.— Sotto
altro aspetto, inoltre, il remittente rileva che la libertà di contrarre
matrimonio costituisce un diritto fondamentale della persona riconosciuto anche
dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 16), dalla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea (art. 9).
In particolare,
il Tribunale deduce che la CEDU – includendo
la libertà matrimoniale tra quelle che devono essere assicurate senza
distinzione di sorta (di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di
opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di
appartenenza ad una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra
condizione) e pur prevedendo che il relativo diritto debba esser esercitato
nell’ambito delle leggi nazionali – non consentirebbe che queste ultime possano
porre condizioni o restrizioni irragionevoli.
Alla stregua di
tali principi, la disposizione censurata – secondo il remittente – sarebbe
«limitativa della libertà matrimoniale, sia per lo straniero che per i cittadini
italiani», e sembrerebbe «determinare una discriminazione nell’esercizio di un
diritto fondamentale dell’uomo legata ad una mera condizione personale, che non
appare ragionevole», in assenza di esigenze «di salvaguardia di altri valori
costituzionalmente rilevanti di pari grado», tali da giustificare un «limite al
diritto fondamentale in esame».
2.― Tanto
premesso sul contenuto dell’ordinanza di rimessione, appare opportuno procedere,
in via preliminare, alla ricognizione del quadro normativo nel quale si
inserisce la norma oggetto del vaglio di costituzionalità.
2.1.― In
particolare, la questione sollevata attiene alla disciplina del matrimonio dello
straniero in Italia, quale prevista dall’art. 116 cod.
civ.
Prima della
modifica legislativa, intervenuta con la citata legge n. 94 del 2009, ai sensi
di tale norma lo straniero, intenzionato a contrarre matrimonio in Italia,
doveva presentare all’ufficiale dello stato civile solo un nulla osta rilasciato
dall’autorità competente del proprio Paese.
Oltre al
predetto requisito formale, sul piano sostanziale, il nubendo doveva in ogni caso (e deve tuttora) rispettare le
condizioni previste dalla normativa italiana riguardanti la capacità di
contrarre matrimonio (tra l’altro, libertà di stato, età minima) e l’assenza di
situazioni personali ostative (ad esempio, impedimenti per parentela ed
affinità). Si tratta, infatti, di norme di applicazione necessaria secondo
l’ordinamento interno, che devono comunque essere osservate, anche se non sono
previste dalla legge nazionale dello straniero.
2.2.— Con la
citata legge n. 94 del 2009 è stato modificato l’art. 116, primo comma, cod.
civ.
La nuova norma
stabilisce che «lo straniero che vuole contrarre matrimonio nella Repubblica
deve presentare all’ufficiale dello stato civile», oltre al nulla osta, di cui
sopra, «un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio
italiano».
Detta norma deve
essere letta anche alla luce delle modifiche introdotte dal legislatore in
merito ai requisiti necessari per l’acquisto della cittadinanza a seguito di
matrimonio dello straniero con il cittadino italiano, disciplinati dalla legge 5
febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza).
La legge n. 94
del 2009, al fine di ridurre il fenomeno dei cosiddetti “matrimoni di comodo”,
come risulta dai suoi lavori preparatori (Senato della Repubblica, XVI
legislatura, relazione al disegno di legge n. 733, che reca “Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica”), ha sostituito l’art. 5 della predetta legge n.
91 del 1992, prevedendo:
al comma 1, che
«il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la
cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno
due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del
matrimonio se residente all’estero, qualora», al momento dell’adozione del
decreto di acquisto della cittadinanza, «non sia intervenuto lo scioglimento,
l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non
sussista la separazione personale dei coniugi»;
al successivo
comma 2, che i termini sono, peraltro, «ridotti della metà in presenza di figli
nati o adottati dai coniugi».
3.— Così
ricostruito il quadro complessivo in cui si inserisce la disposizione censurata,
si può procedere al chiesto scrutinio di costituzionalità.
La questione è
fondata.
3.1.— Giova
ricordare come questa Corte (sentenze n. 61 del 2011,
n. 187 del
2010 e n. 306
del 2008) abbia affermato che al legislatore italiano è certamente
consentito dettare norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con
obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri
extracomunitari in Italia.
Tali norme,
però, devono costituire pur sempre il risultato di un ragionevole e
proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale,
implicati dalle scelte legislative in materia di disciplina dell’immigrazione,
specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti
fondamentali, tra i quali certamente rientra quello «di contrarre matrimonio,
discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato
nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e
nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali» (sentenza n. 445 del
2002).
In altri
termini, è certamente vero che la «basilare differenza esistente tra il
cittadino e lo straniero» – «consistente nella circostanza che, mentre il primo
ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il
secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo» – può «giustificare un
loro diverso trattamento» nel godimento di certi diritti (sentenza n. 104 del
1969), in particolare consentendo l’assoggettamento dello straniero «a
discipline legislative e amministrative» ad hoc, l’individuazione delle quali
resta «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici» (sentenza n. 62 del
1994), quali quelli concernenti «la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine
pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema
di immigrazione» (citata sentenza n. 62 del
1994). Tuttavia, resta pur sempre fermo – come questa Corte ha di recente
nuovamente precisato – che i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost.,
spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità
politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello
straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela
di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e
peggiorativi» (sentenza n. 249 del
2010).
Sebbene, quindi,
la ratio
della disposizione censurata – proprio alla luce della ricostruzione che ne ha
evidenziato il collegamento con le nuove norme sull’acquisto della cittadinanza
e, dunque, la loro comune finalizzazione al contrasto dei cosiddetti “matrimoni
di comodo” – possa essere effettivamente rinvenuta, come osserva l’Avvocatura
dello Stato, nella necessità di «garantire il presidio e la tutela delle
frontiere ed il controllo dei flussi migratori», deve osservarsi come non
proporzionato a tale obiettivo si presenti il sacrificio imposto – dal novellato
testo dell’art. 116, primo comma, cod. civ. – alla libertà di contrarre
matrimonio non solo degli stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini
italiani che intendano coniugarsi con i primi.
È, infatti,
evidente che la limitazione al diritto dello straniero a contrarre matrimonio
nel nostro Paese si traduce anche in una compressione del corrispondente diritto
del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare.
Ciò comporta che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale
coinvolti deve necessariamente
tenere anche conto della posizione giuridica di chi intende, del tutto
legittimamente, contrarre matrimonio con lo straniero.
Si impone,
pertanto, la conclusione secondo cui la previsione di una generale preclusione
alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti uno straniero non regolarmente presente nel
territorio dello Stato, rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un
ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella
presente ipotesi, specie ove si consideri che il decreto legislativo 25 luglio
1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) già disciplina
alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”.
Ed infatti, in
particolare, l’art. 30, comma 1-bis,
del citato d.lgs. n. 286 del 1998 prevede:
con riguardo
agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che
abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o
di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri
regolarmente soggiornanti, che il permesso di soggiorno «è immediatamente
revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva
convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole»;
con riguardo
allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso per
ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio
familiare nei casi previsti dall’articolo 29, del medesimo d.lgs., ovvero con
visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore, che la richiesta di
rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno «è rigettata e il permesso di
soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto
luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel
territorio dello Stato».
3.2.— Del pari,
è ravvisabile, nella specie, la violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost.
In proposito, si
deve notare che la Corte europea dei
diritti dell’uomo è recentemente intervenuta sulla normativa del Regno Unito in
tema di capacità matrimoniale degli stranieri (sentenza
14 dicembre 2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom).
In particolare,
la Corte europea ha
affermato che il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può
estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e
indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89
della sentenza). Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un
divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità
del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della
Convenzione.
Detta evenienza
ricorre anche nel caso previsto dalla norma ora censurata, giacché il
legislatore – lungi dal rendere più agevole le condizioni per l’accertamento del
carattere eventualmente “di comodo” del matrimonio di un cittadino con uno
straniero – ha dato vita, appunto, ad una generale preclusione a contrarre
matrimonio a carico di stranieri extracomunitari non regolarmente soggiornanti
nel territorio dello Stato.
per
questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità
costituzionale
dell’articolo
116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15,
della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la
regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio
2011.
F.to:
Alfonso
QUARANTA, Presidente e Redattore
Gabriella
MELATTI, Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 25 luglio 2011.