Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 21215 del 14/10/2010
La Corte d’appello del L’Aquila, pronunciando su rinvio di questa Corte (Cass. 27 febbraio 2004 n. 4061), ha confermato, con sentenza depositata in data 28 dicembre 2005, la decisione di primo grado del Tribunale del lavoro di Larino del 14 giugno 2001, che aveva annullato il licenziamento intimato da [omissis] al proprio dipendente operaio [omissis] con lettera del 12 novembre 1992 (per assenza ingiustificata dal lavoro dal precedente giorno 6 novembre), con le conseguenze di cui all’art. 18 S.L. e aveva condannato la società a pagare al [omissis] determinati importi, a titolo di risarcimento del danno emergente, del danno biologico e del danno morale.
In particolare, quanto al licenziamento, la Corte territoriale ha anzitutto richiamato il principio affermato da questa Corte suprema in sede di accoglimento del secondo motivo del ricorso per cassazione del [omissis], secondo cui “Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato”.
I giudici di appello, valutando conseguentemente gli atti, hanno quindi espresso seri dubbi sulla effettiva gravità della mancanza che aveva condotto al licenziamento del [omissis], ponendo in evidenza:
a) che la società poteva avere interesse ad approfittare dell’assenza del dipendente per liberarsi di lui, che era reduce da una lunga assenza per un grave infortunio sul lavoro imputabile alla responsabilità della datrice di lavoro;
b) che la stessa non aveva dedotto e provato alcun elemento utile per valutare la gravità del fatto, come sarebbe stato suo onere ai sensi dell’art. 2697 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 5;
c) e non aveva esposto le ragioni per cui le mancanze contestate al lavoratore avrebbero cagionato la perdita di fiducia, alla luce delle mansioni affidate al lavoratore e all’eventuale incidenza della sua assenza sulla funzionalità aziendale;
d) che, comunque, il comportamento tenuto nella circostanza dal lavoratore poteva ritenersi giustificato, su di un piano di buona fede, dal fatto che questi era reduce da un grave infortunio e aveva denunciato disturbi in atto, tanto che alcuni colleghi (sia pure non autorizzati a concedergli permessi) gli avevano consigliato di ritornare a casa, sicché egli aveva potuto ritenere di essere in permesso o comunque assente giustificato quel giorno e nei giorni immediatamente successivi, non essendo stato poi avvisato dalla società del fatto che essa lo ritenesse viceversa assente ingiustificato.
Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la società [omissis], con cinque motivi.
Resiste alle domande [omissis] con rituale controricorso.
Motivi della decisione
1 – Col primo motivo di ricorso, la società deduce la violazione dell’art. 132 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza impugnata.
La ricorrente lamenta infatti l’assenza in quest’ultima della indicazione delle conclusioni rese dalle parti in tale sede di riassunzione nonché della data di deliberazione della sentenza stessa.
2 – Col secondo motivo di ricorso, viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonché dell’art. 2697 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 5.
Censurando il fatto che la società non avrebbe dedotto e provato elementi utili per la valutazione della gravità del fatto, la Corte territoriale avrebbe infatti anzitutto violato l’art. 112 c.p.c., in quanto nei precedenti gradi di giudizio mai il lavoratore avrebbe eccepito il mancato assolvimento di un tale onere probatorio.
La censura sarebbe altresì errata in quanto sarebbe stato onere della datrice di lavoro in un caso come il presente, di assenza ingiustificata del lavoratore, dedurre e provare unicamente questa nella sua obiettività, mentre costituirebbe onere del lavoratore dimostrane la possibile giustificazione.
3 – Col terzo motivo, la ricorrente lamenta il vizio della motivazione della sentenza, la quale illogicamente, senza riscontro negli atti di causa e senza indicare le fonti del proprio convincimento, aveva ritenuto, in maniera stringata e meramente assertiva, come di buona fede il comportamento del [omissis] che aveva dato luogo al licenziamento dello stesso.
4 – Col quarto motivo, la società denuncia l’omessa motivazione della sentenza in ordine alla mancata indicazione del titolo, contrattuale o extra contrattuale fatto valere in giudizio per il risarcimento danni, necessaria in ragione della diversa regola relativa alla ripartizione dell’onere probatorio.
Inoltre nella sentenza mancherebbe ogni motivazione in ordine alla mancanza di prova relativamente al danno biologico e morale liquidato dalla sentenza di primo grado, confermata da quella impugnata.
5 – Col quinto motivo, condizionato al rigetto di quelli che investono la ritenuta legittimità del licenziamento, la ricorrente censura l’omessa motivazione della sentenza relativamente all’ordine di reintegra nel posto di lavoro, al risarcimento del danno e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
La società deduce inoltre che la Corte territoriale non avrebbe fornito alcuna risposta alla deduzione di inidoneità del lavoratore, per ragioni di salute, a riprendere il lavoro, formulata dalla società con una richiesta di C.T.U. disattesa dal giudice di prime cure, al fine di dedurne l’impossibilità della reintegrazione (con conseguente incidenza anche sull’ammontare del risarcimento danni).
Infine la Corte, secondo la ricorrente, avrebbe omesso di accertare l’aliunde perceptum e percipiendum da sottrarre dall’ammontare del risarcimento.
Il ricorso conclude pertanto con la richiesta di annullamento della sentenza impugnata.
6 – Nel controricorso, il [omissis] deduce l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366-bis c.p.c..
Nel merito deduce l’infondatezza del ricorso di cui chiede il rigetto.
7 – Preliminarmente va disattesa la deduzione di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366-bis c.p.c..
Tale norma (oggi abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), con effetto sui ricorsi per cassazione proposti avverso sentenze pubblicate successivamente alla data del 3 luglio 2009, ai sensi dell’art. 58, comma 5 della medesima legge) era infatti applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data del 1 marzo 2006, ai sensi del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, artt. 6 e 27, comma 2.
Poiché nel caso in esame il ricorso è stato proposto avverso una sentenza pubblicata il 28 dicembre 2005, la norma processuale invocata non era ad esso applicabile ratione temporis.
8 – Nel merito, il ricorso è infondato.
Con riguardo al primo motivo di ricorso, costituisce infatti orientamento costante di questa Corte l’affermazione secondo cui “la mancata o incompleta trascrizione nella sentenza delle conclusioni delle parti costituisce, di norma, una semplice irregolarità formale irrilevante ai fini della sua validità, occorrendo, perchè siffatta omissione od incompletezza possa tradirsi in vizio tale da determinare un effetto invalidante della sentenza stessa, che l’omissione abbia in concreto inciso sull’attività del giudice, nel senso di averne comportato o una omissione di pronuncia sulle domande o sulle eccezioni delle parti, oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi prospettati” (cfr., per tutte, Cass. 23 febbraio 2007 n. 4208).
Poiché nel caso in esame, come risulterà altresì dall’esame degli ultimi due motivi di ricorso, è esclusa una tale incidenza sull’attività della Corte d’appello, la censura in esame non ha pregio.
Costituisce inoltre orientamento altrettanto uniforme di questa Corte il rilievo secondo cui “Anche nelle controversie di lavoro, l’indicazione della data di deliberazione della sentenza non è (a differenza dell’indicazione della data di pubblicazione, che ne segna il momento di acquisto della rilevanza giuridica) elemento essenziale dell’atto processuale, e la sua mancanza non integra, pertanto, gli estremi di alcuna ipotesi di nullità deducibile con l’impugnazione” (cfr., ad es. Cass. 12 maggio 2005 n. 9968).
Il secondo e il terzo motivo di ricorso vanno esaminati congiuntamente. Le relative censure investono infatti alternative, autonome motivazioni di sostegno alla decisione della Corte territoriale di conferma della valutazione di illegittimità del licenziamento del [omissis] e pertanto il rigetto anche di una sola di esse, rende superfluo l’esame delle altre.
Di tali censure sicuramente infondata è quella di cui al terzo motivo di ricorso, che investe la motivazione della sentenza in ordine alla valutazione dei fatti che avevano condotto al licenziamento e alla loro rilevanza sul piano del rapporto fiduciario in base alla loro rappresentazione in giudizio.
In proposito, va qui ribadito che il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata.
Il vizio di motivazione non può viceversa consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove operato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (cfr., per tutte, recentemente Cass. 26 marzo 2010 n. 7394 e 6 marzo 2008 n. 6064).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha ritenuto, sia pure con motivazione stringata, sulla base delle prove acquisite in ordine ai fatti di causa, che il comportamento del lavoratore di abbandono del lavoro per motivi di salute il venerdì alle ore 14,00 e di prolungamento dell’assenza dal lavoro per i primi tre giorni della settimana successiva poteva ritenersi giustificato su di un piano di buona fede dal fatto che il [omissis] era reduce da un grave infortunio e aveva denunciato al momento dell’abbandono disturbi in atto, tanto che alcuni colleghi (sia pure non autorizzati a concedergli permessi) gli avevano consigliato di ritornare a casa, sicché egli aveva potuto ritenere di essere in permesso o comunque assente giustificato quel giorno e nei giorni immediatamente successivi, non essendo stato poi avvisato dalla società, a conoscenza dell’allontanamento, del fatto che essa lo riteneva viceversa assente ingiustificato.
Un tale accertamento è investito dalla cesura di arbitrarietà, in quanto senza riscontro negli atti di causa e di illogicità, ma tale censura è in realtà svolta enucleando dal materiale istruttorio acquisito elementi che non incidono sulla valutazione dei giudici di merito interrompendone la consequenzialità logica o determinandone una interna contraddittorietà, quali l’aver trascurato o completamente travisato un fatto controverso avente il carattere della decisività in senso opposto a quello ritenuto dalla Corte.
Ne consegue che la censura in esame si risolve nel tentativo di sovrapporre alle valutazioni dei giudici di merito proprie opposte valutazioni, fondate sul medesimo materiale probatorio, in quanto ritenute in grado di spiegare meglio il reale andamento dei fatti e stabilirne la effettiva rilevanza sul piano considerato.
Il che, come già rilevato, non appare consentito proporre al controllo di legittimità delle sentenze, risolvendosi in un diverso apprezzamento dei fatti e delle prove, riservato al giudizio di merito.
Anche gli ultimi due motivi di ricorso sono manifestamente infondati.
In violazione della regola della autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui cfr., anche recentemente, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09), la ricorrente omette infatti, in alcuni casi, di riferire se ha ritualmente svolto le censure in esame in sede di giudizio di riassunzione e comunque non ne riproduce mai in maniera specifica il contenuto, necessario per consentire a questa Corte di valutare la rilevanza e decisività dei vizi denunciati.
Concludendo, alla stregua delle considerazioni svolte il ricorso va respinto.
L’alternanza di decisioni nelle fasi precedenti al giudizio di cassazione consiglia l’integrale compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese di questo giudizio.
Depositata in Cancelleria il 14.10.2010