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Vento dell'Est
La Russia si è fidata troppe volte della parola data dai lupi e dai banditi in Ucraina. E, purtroppo, la sua diplomazia d'altri tempi non ha ancora imparato la lezione.
Il 21 febbraio 2014 Mosca ha sponsorizzato l'accordo fra l'allora presidente filorusso ucraino Viktor Yanukovich (che ancora controllava saldamente l'esercito, i servizi e le forze di polizia) e i rappresentanti dei gruppi ultranazionalisti "per mettere fine alle violenze". Erano previste elezioni anticipate, un governo di unità nazionale e una riforma della Costituzione. Ma, 2 giorni dopo, Yanukovich è stato costretto a fuggire, decretando così il successo del golpe banderista di EuroMaidan e l'inizio della guerra civile nelle aree russofone.
Poi tutti gli anni preziosi persi con gli accordi di Minsk I e Il, che avrebbero dovuto mirare a congelare il conflitto a Donetsk e Lugansk e conferire autonomia - nell'ambito dello stato ucraino - a quelle due regioni, e il "Quartetto Normandia".
Sappiamo come sono andate a finire le cose.
Petro Poroshenko ha più volte dichiarato che, per il regime ucraino, gli accordi di Minsk "sono stati un successo, in quanto hanno mantenuto i russi oltre i confini dell'Ucraina e concesso del tempo al paese per ripristinare l’economia e creare delle potenti forze armate".
Anche Angela Merkel ha detto che gli accordi di Minsk non erano un tentativo di stabilire la pace, ma puntavano "a dare tempo all'Ucraina per rafforzare il suo esercito".
Quindi, gli accordi di Istanbul della primavera del 2022 di cui ha parlato ieri Putin: la Russia ha ritirato le sue truppe da Kiev, Sumy e Chernihiv, in cambio della promessa di Zelensky di mantenere la neutralità del paese.
Pure in questo caso l'esito è noto. Le truppe russe che hanno lasciato Kiev sono state colpite alle spalle. C'è stato il false flag di Bucha e il primo grande pogrom di massa dei "collaborazionisti filorussi" nei villaggi abbandonati dall'esercito di Mosca.
Infine, altri accordi sempre mediati dalla Turchia, stavolta per permettere all'Ucraina di commerciare grano e cereali utilizzando i porti sul Mar Nero. Accordi siglati e rinnovati dalla Russia, senza ottenere nulla in cambio (nemmeno la possibilità di sbloccare le vendite di ammoniaca). E dopo il danno la beffa: i "corridoi del grano" sono stati sfruttati dagli ucraini per attaccare le navi russe e, inoltre, è ormai certo che i paesi occidentali hanno utilizzato perfino i mercantili per far giungere armi e mercenari al regime di Kiev.
Una diplomazia vecchio stampo, quella russa. Che si fida della parola data dal nemico. Funzionari d'altri tempi i suoi rappresentanti degli Esteri. Cresciuti negli anni 70 e 80, ai tempi della guerra fredda, delle sfere d'influenza e dei canali di dialogo che esistevano, anche nei momenti più cruenti, tra Usa e Urss. Funzionari bravissimi nella costruzione di rapporti geopolitici multipolari con paesi amici, non allineati e sovrani. Ma pesci fuor d'acqua quando devono relazionarsi con gli scagnozzi della Nato di oggi, quando pensano di poter ancora contare sulle firme e le rassicurazioni di lupi e banditi come Poroshenko e Zelensky e di chi li manovra.
Il 21 febbraio 2014 Mosca ha sponsorizzato l'accordo fra l'allora presidente filorusso ucraino Viktor Yanukovich (che ancora controllava saldamente l'esercito, i servizi e le forze di polizia) e i rappresentanti dei gruppi ultranazionalisti "per mettere fine alle violenze". Erano previste elezioni anticipate, un governo di unità nazionale e una riforma della Costituzione. Ma, 2 giorni dopo, Yanukovich è stato costretto a fuggire, decretando così il successo del golpe banderista di EuroMaidan e l'inizio della guerra civile nelle aree russofone.
Poi tutti gli anni preziosi persi con gli accordi di Minsk I e Il, che avrebbero dovuto mirare a congelare il conflitto a Donetsk e Lugansk e conferire autonomia - nell'ambito dello stato ucraino - a quelle due regioni, e il "Quartetto Normandia".
Sappiamo come sono andate a finire le cose.
Petro Poroshenko ha più volte dichiarato che, per il regime ucraino, gli accordi di Minsk "sono stati un successo, in quanto hanno mantenuto i russi oltre i confini dell'Ucraina e concesso del tempo al paese per ripristinare l’economia e creare delle potenti forze armate".
Anche Angela Merkel ha detto che gli accordi di Minsk non erano un tentativo di stabilire la pace, ma puntavano "a dare tempo all'Ucraina per rafforzare il suo esercito".
Quindi, gli accordi di Istanbul della primavera del 2022 di cui ha parlato ieri Putin: la Russia ha ritirato le sue truppe da Kiev, Sumy e Chernihiv, in cambio della promessa di Zelensky di mantenere la neutralità del paese.
Pure in questo caso l'esito è noto. Le truppe russe che hanno lasciato Kiev sono state colpite alle spalle. C'è stato il false flag di Bucha e il primo grande pogrom di massa dei "collaborazionisti filorussi" nei villaggi abbandonati dall'esercito di Mosca.
Infine, altri accordi sempre mediati dalla Turchia, stavolta per permettere all'Ucraina di commerciare grano e cereali utilizzando i porti sul Mar Nero. Accordi siglati e rinnovati dalla Russia, senza ottenere nulla in cambio (nemmeno la possibilità di sbloccare le vendite di ammoniaca). E dopo il danno la beffa: i "corridoi del grano" sono stati sfruttati dagli ucraini per attaccare le navi russe e, inoltre, è ormai certo che i paesi occidentali hanno utilizzato perfino i mercantili per far giungere armi e mercenari al regime di Kiev.
Una diplomazia vecchio stampo, quella russa. Che si fida della parola data dal nemico. Funzionari d'altri tempi i suoi rappresentanti degli Esteri. Cresciuti negli anni 70 e 80, ai tempi della guerra fredda, delle sfere d'influenza e dei canali di dialogo che esistevano, anche nei momenti più cruenti, tra Usa e Urss. Funzionari bravissimi nella costruzione di rapporti geopolitici multipolari con paesi amici, non allineati e sovrani. Ma pesci fuor d'acqua quando devono relazionarsi con gli scagnozzi della Nato di oggi, quando pensano di poter ancora contare sulle firme e le rassicurazioni di lupi e banditi come Poroshenko e Zelensky e di chi li manovra.
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