LAVORO DELLE DONNE
Sommario
1. Principi costituzionali
2. Diritto alla conservazione del posto per le lavoratrici che contraggono matrimonio
3. Divieto di discriminazioni in ragione del sesso (rinvio)
4. Rapporto periodico sulla situazione del personale
5. Incentivi diretti a favorire l'occupazione femminile e l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne
6. Organi amministrativi con funzione di vigilanza e garanzia della parità uomo-donna
1. Principi costituzionali
La parità di trattamento ed il contemperamento tra le esigenze familiari e quelle del lavoro, sono i principi
che ai sensi dell'art. 37, comma 1 Cost. regolano la posizione della donna nel mondo del lavoro. L'articolo in
questione, infatti, si apre statuendo che "la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse
retribuzioni che spettano al lavoratore". Nello stesso comma viene poi precisato che le condizioni di lavoro
devono consentire alla donna "l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e
al bambino una speciale adeguata protezione".
Entrambi i principi costituzionali indicati vanno letti ed interpretati alla luce di quanto disposto dall'art. 3
Cost., ossia tenendo presente che il nostro ordinamento non solo sancisce l'uguaglianza formale tra i cittadini,
ma persegue l'obiettivo di assicurare l'uguaglianza sostanziale. Da un lato, dunque, "tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono uguali davanti la legge", senza distinzione alcuna, neppure di sesso (art. 3, comma 1:
"uguaglianza formale"); dall'altro, è compito dello Stato "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà ed uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3,
comma 2: "uguaglianza sostanziale").
Seguendo questa impostazione è stato posto in luce come l'art. 37, comma 1, nel fare riferimento
all'"essenziale" funzione familiare della donna, abbia voluto sottolineare l'essenziale valore sociale del suo ruolo
nella famiglia, onde garantirne la compatibilità con il ruolo lavorativo, attribuendo allo Stato il compito di
rimuovere gli ostacoli che di fatto possono impedire la contestualità delle due posizioni.
La lettura congiunta degli articoli 3 e 37 Cost. rende inoltre evidente come la parità di trattamento non si
esaurisca affatto nella parità retributiva, ma investa globalmente la posizione della donna lavoratrice,
postulando un'uguaglianza "formale" e "sostanziale" con l'uomo lavoratore. Pertanto la parità retributiva, che è
espressamente menzionata dalla Costituzione in considerazione della differenziazione di trattamento retributivo
alla quale la donna è stata soggetta per lungo tempo, non è altro che una delle manifestazioni della parità di
trattamento.
L'attuazione legislativa dei principi costituzionali con specifico riferimento alla tutela della lavoratrice madre
si è realizzata, dapprima, con le leggi n. 1204/1971, n. 903/1977, n. 53/2000 e, poi, con il D.Lgs. n. 151/2001
che ha raccolto in unico testo unico tutta la materia (per un quadro approfondito, si v. la nota Maternità e
paternità).
Per quel che attiene, invece, alla parità di trattamento tra uomo e donna, in precedenza regolata dalle
leggi n. 7/1963, n. 903/1977, n. 125/1991, la relativa disciplina è stata unificata nel Codice delle pari
opportunità (D.Lgs. n. 198/2006), in vigore dal 15 giugno 2006 (oltre ai riferimenti contenuti nella presente nota
illustrativa, si v. l'argomento Discriminazioni).
2. Diritto alla conservazione del posto per le lavoratrici che contraggono matrimonio
Il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, emanato con il D.Lgs. n. 198/2006, ha fatto proprio il
contenuto della L. 9 gennaio 1963, n. 7, prevedendo speciali norme per tutelare il diritto alla conservazione del
posto delle lavoratrici che contraggono matrimonio, ad integrazione della disciplina che limita in generale la
facoltà di recesso del datore di lavoro.
L'art. 35, comma 9, del D.Lgs. n. 198/2006, tutela le lavoratrici dipendenti sia da imprese private - escluse
le addette ai servizi familiari e domestici - che da enti pubblici, salve le clausole di miglior favore previste nei
contratti collettivi e individuali di lavoro.
In particolare, nell'art. 35 del Codice, viene sancita la nullità:
a) delle c.d. clausole di nubilato contenute nei contratti collettivi o individuali di lavoro che prevedano
comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza di matrimonio;
b) delle dimissioni presentate dalla lavoratrice, nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle
pubblicazioni di matrimonio (in quanto segua la celebrazione) ad un anno dopo la celebrazione stessa, salvo
che le dimissioni siano dalla medesima confermate entro un mese alla Direzione provinciale del lavoro;
c) dei licenziamenti intimati a causa di matrimonio.
Licenziamenti attuati a causa di matrimonio
A norma dell'art. 35, comma 3, del D.Lgs. n. 198/2006, si presume a causa di matrimonio il licenziamento
intimato nel periodo che decorre dal giorno della richiesta di pubblicazione di matrimonio (se ed in quanto
segua la celebrazione) fino ad un anno dopo la celebrazione dello stesso.
Lo stesso art. 35, al comma 5, prevede che durante detto periodo il datore di lavoro può legittimamente
licenziare la lavoratrice solo fornendo la prova che il licenziamento stesso dipende da una delle seguenti
ipotesi:
- colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
- cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta;
- ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di
lavoro per la scadenza del termine.
Di contro, al di fuori di detto periodo, spetterà alla lavoratrice provare - se del caso - che il licenziamento è
stato "attuato a causa di matrimonio" ed è, perciò, nullo.
Dall'illegittimità del licenziamento discende quanto meno l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere alla
lavoratrice le retribuzioni decorrenti dalla data del licenziamento sino alla riammissione in servizio.
La lavoratrice che, invitata a riassumere servizio, dichiari, entro 10 giorni dall'invito, di recedere dal
contratto, ha diritto, ex art. 35, comma 7, D.Lgs. 198/2006, al trattamento previsto in caso di dimissioni per
giusta causa (indennità sostitutiva del preavviso), fermo restando il diritto alla retribuzione sino alla data del
recesso.
3. Divieto di discriminazioni in ragione del sesso (rinvio)
E' fatto divieto al datore di lavoro di operare discriminazioni in danno delle lavoratrici in ragione del sesso
a tutti i livelli della gerarchia professionale e qualunque sia il settore o il ramo di attività (art. 27 e ss., D.Lgs. n.
198/2006). Per una completa trattazione dell'argomento v. la nota Discriminazioni.
4. Rapporto periodico sulla situazione del personale
L'art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006, prevede che le aziende che occupano oltre 100 dipendenti (computandosi
- come ha precisato il Ministero del lavoro con circolare n. 48/1992 - tutta la forza lavoro occupata in azienda,
compresi i giovani assunti con contratto di formazione e lavoro) hanno l'obbligo di redigere almeno ogni due
anni un "rapporto" sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in
relazione allo stato delle assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi
di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della C.i.g., dei licenziamenti, dei
pensionamenti e prepensionamenti e della retribuzione effettivamente corrisposta.
Il "rapporto" è trasmesso alle RSA e alla consigliera e al consigliere regionale di parità, che elaborano i
relativi risultati trasmettendoli alla consigliera o al consigliere nazionale di parità, al Ministero del lavoro e al
Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri (art. 46, comma 2, D.Lgs. n.
198/2006).
Sanzioni
L'art. 46, comma 4, del D.Lgs. n. 198/2006, sancisce che nel caso in cui il datore di lavoro non ottemperi
alla trasmissione del rapporto di cui sopra alle R.S.A., alla consigliera e al consigliere di parità, neppure dopo il
successivo invito della Direzione regionale del lavoro, si applica la sanzione di cui all'art. 11 del D.P.R. n. 520
del 19 marzo 1955 e, nei casi più gravi, può essere disposta la sospensione per un anno dei benefici
contributivi eventualmente goduti dal datore di lavoro.
5. Incentivi diretti a favorire l'occupazione femminile e l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne
Azioni positive per le donne
Ai sensi degli artt. 42 e 43, D.Lgs. n. 198/2006, i datori di lavoro pubblici o privati, le associazioni, le
organizzazioni sindacali dei lavoratori, i centri di formazione professionale, il Comitato nazionale (v. par. 6), la
consigliera e i consiglieri di parità, possono adottare iniziative, denominate azioni positive per le donne, volte a
favorire l'occupazione femminile ed a realizzare l'uguaglianza sostanziale delle donne nel lavoro.
Gli scopi che tali iniziative intendono perseguire sono stabiliti dall'art. 42, comma 2, del Codice e sono i
seguenti:
a) eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella
progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità;
b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne, in particolare attraverso l'orientamento
sia scolastico che professionale e attraverso gli strumenti della formazione;
c) favorire l'accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale, nonché la qualificazione
professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici;
d) superare le condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro, che provocano effetti diversi, a
seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell'avanzamento
professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo;
e) promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse
sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità;
f) favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro,
l'equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due
sessi;
f-bis) valorizzare il contenuto professionale delle mansioni a più forte presenza femminile.
Modalità e termini per la presentazione delle richieste di rimborso
A norma dell'art. 44, D.Lgs. n. 198/2006, l'attuazione delle azioni positive per le donne è soggetta al
rimborso da parte del Ministro del lavoro. Pertanto, a partire dal 1º ottobre ed entro il 30 novembre di ogni
anno i datori di lavoro pubblici e privati, i centri di formazione professionale accreditati, le associazioni, le
organizzazioni sindacali nazionali e territoriali possono richiedere al Ministero del lavoro di essere ammessi,
attraverso le modalità indicate nel D.M. 15 marzo 2001, al rimborso totale o parziale di oneri finanziari
connessi all'attuazione dei progetti di azioni positive per le donne presentati in base al programma-obiettivo
annualmente redatto dal Comitato nazionale di parità e pari opportunità nel lavoro (per il programma obiettivo
per l'anno in corso v. infra). I soggetti proponenti, costituiti da almeno due anni, per potere accedere al
finanziamento devono possedere requisiti di onorabilità, che devono essere documentati nella domanda di
ammissione al beneficio a meno che la documentazione non sia già in possesso dell'amministrazione che
procede all'assegnazione del beneficio (art. 1, comma 3, D.M. 15 marzo 2001).
Ai sensi dell'art. 2, del D.M. 15 marzo 2001 la domanda di rimborso deve essere presentata in duplice
copia (di cui una in bollo) con l'allegato progetto, al Ministro del lavoro e della previdenza sociale - Comitato
nazionale di parità.
Tale progetto deve:
- essere compilato in base al programma-obiettivo predisposto ogni anno dal Comitato nazionale di parità
(v. infra);
- essere redatto secondo quanto disposto nel modello di domanda e compilato in ogni parte;
- essere sottoscritto dal legale rappresentante del proponente;
- pervenire in duplice copia, così come tutti gli allegati;
- essere inoltrato, soltanto con raccomandata con ricevuta di ritorno, dal 1º ottobre al 30 novembre di
ciascun anno precedente a quello in cui si vuole realizzare l'iniziativa. Fa fede il timbro di spedizione postale;
- indicare la tipologia di finanziamento prescelto.
Alla domanda deve inoltre essere allegata, secondo la natura del soggetto proponente:
- la documentazione riguardante il soggetto medesimo (come ad esempio statuto e/o atto costitutivo,
visura camerale con dichiarazione antimafia);
- un curriculum dal quale risulti l'attività svolta almeno negli ultimi due anni.
Il decreto prevede che i progetti possono essere articolati in fasi temporali con l'indicazione dei relativi
costi.
I progetti di azione positiva, valutati sulla base del programma-obiettivo dal Comitato nazionale di parità,
sono approvati ed ammessi al finanziamento con decreto del Ministro del lavoro.
A partire dal programma-obiettivo 2001, l'attività istruttoria e le relative decisioni sono definite entro sei
mesi dalla data di ricevimento delle domande.
Il D.M. 15 marzo 2001 stabilisce inoltre che i progetti finanziati non possono essere modificati, a meno che
non vi sia una preventiva approvazione da parte del Comitato nazionale di parità. In caso contrario non
vengono riconosciute le relative spese.
Non sono rimborsate le spese sostenute per i corsi di formazione professionale previsti dal progetto nel
caso in cui i registri di presenza di docenti, tutors e discenti non siano preventivamente vidimati dalla Direzione
provinciale del lavoro competente per territorio.
Non sono ammesse più di due proroghe e comunque per un periodo complessivo non superiore al 40%
della durata inizialmente stabilita per la realizzazione del progetto.
Programma obiettivo per il 2010
Il programma obiettivo per il 2010, emanato dal Comitato nazionale di parità e pari opportunità nel lavoro
con il provvedimento ministeriale del 9 giugno 2010, si pone i seguenti obiettivi:
1) promuovere la presenza delle donne negli ambiti dirigenziali e gestionali mediante la realizzazione di
specifici percorsi formativi volti all'acquisizione di competenze di vertice e/o di responsabilità e l'attuazione di
buone e nuove prassi per un piano di concreto inserimento nelle strutture esecutive;
2) modificare l'organizzazione del lavoro, del sistema di valutazione delle prestazioni e del sistema
premiante aziendale, sperimentando e attuando azioni integrate che producano effetti concreti misurabili e
documentabili in termini di: superamento della discriminazione di genere; riduzione del differenziale retributivo
tra donne e uomini; progressione delle carriere femminili anche per un'equa distribuzione degli incarichi;
adozione della strategia comunitaria in materia di occupabilità femminile con i criteri di flessicurezza; adozione
di strumenti di valutazione e di autovalutazione nei sistemi organizzativi aziendali per misurare e valutare i
livelli di attuazione di politiche di pari opportunità (certificazione di genere);
3) sostenere iniziative per:
a) lavoratrici con contratti non a tempo indeterminato in particolare giovani neolaureate e neodiplomate. Le
azioni proposte dovranno mirare a stabilizzare la situazione occupazionale, in una percentuale non inferiore al
50%, delle destinatarie dell'azione, favorendo anche la crescita professionale e implementando percorsi
formativi qualificanti, che ne migliorino le competenze e l'occupabilità;
b) disoccupate inattive, in cassa integrazione e/o in mobilità, con particolare attenzione a quelle di età
maggiore di 45 anni. Il progetto può essere proposto da aziende, o per conto di aziende, o da quanti
intendano effettivamente attuare iniziative mirate all'inserimento e/o reinserimento lavorativo di almeno il 50%
delle destinatarie di questo specifico target attraverso azioni di formazione, orientamento e accompagnamento;
c) agevolare l'inserimento e/o il reinserimento lavorativo di donne attraverso azioni di formazione, di
qualificazione/riqualificazione, orientamento e accompagnamento finalizzate all'acquisizione di competenze per
la creazione di imprese da costituirsi entro i termini di chiusura del progetto;
4) consolidare imprese a titolarità e/o prevalenza femminile nella compagine societaria attraverso: studi di
fattibilità per lo sviluppo di nuovi prodotti, servizi e mercati anche in settori emergenti come la Green Economy;
azioni di supervisione, supporto e accompagnamento secondo la tecnica del mentoring
(imprenditori/imprenditrici che accompagnano altre imprenditrici); counselling alla gestione di impresa;
formazione altamente professionalizzante rivolta alla titolare o alla compagine societaria; iniziative tra più
imprese femminili per la definizione e la promozione dei propri prodotti/servizi anche attraverso la fruizione in
comune di servizi di supporto; la creazione e la promozione di marchi; la creazione di sistemi consorziati di
distribuzione e promozione nel mercato;
5) promuovere la qualità della vita personale e professionale anche attraverso la rimozione degli stereotipi,
in un'ottica di pari opportunità, con azioni di sistema integrate che tengano conto delle indicazioni delle
strategie comunitarie, che producano effetti concreti sul territorio, concordate e attuate da almeno tre tra i
seguenti differenti soggetti: associazioni di genere, organizzazioni sindacali, organizzazioni datoriali, enti
pubblici, associazioni migranti, ordini professionali.
Finanziamento e procedure di verifica
Entro due mesi dal rilascio dell'autorizzazione si deve procedere, a pena di decadenza, ad attuare il
progetto. I progetti di azioni positive concordate dai datori di lavoro per le organizzazioni sindacali hanno
precedenza nell'accesso ai benefici (art. 44, D.Lgs. n. 198/2006). L'avvio deve essere comprovato con atto di
data certa e deve essere immediatamente notificato alla Direzione provinciale del lavoro competente per
territorio.
Il finanziamento concesso è corrisposto in due quote secondo diverse modalità, tra loro alternative (art. 4,
D.M. 15 marzo 2001).
La prima modalità comporta l'erogazione della prima quota, pari al 10% del finanziamento, all'avvio
dell'iniziativa e successivamente, a conclusione di tutte le azioni programmate, viene corrisposto il restante
saldo del 90%.
La seconda modalità invece prevede l'erogazione della prima quota, fino ad un massimo dell'80% del
finanziamento autorizzato, previa presentazione di apposita fidejussione bancaria o polizza assicurativa di
importo uguale alla somma da corrispondere. Il saldo viene erogato a conclusione di tutte le azioni
programmate.
La prima quota del finanziamento viene erogata in seguito all'esito positivo della verifica ispettiva,
effettuata entro i 30 giorni successivi alla notifica dell'avvio dell'iniziativa, e finalizzata ad accertare sia la
veridicità dei dati contenuti nella domanda di finanziamento che l'avvio entro due mesi dall'autorizzazione.
La seconda quota invece viene corrisposta sulla base di una verifica, effettuata entro 90 gironi dalla
richiesta della Segreteria tecnica dal Comitato, di contenuto amministrativo-contabile.
Il Comitato può, comunque, in ogni momento disporre visite ispettive, richiedere relazioni sullo stato di
avanzamento dei progetti, fare intervenire i consiglieri di parità competenti per territorio e procedere ad
audizioni delle parti coinvolte in un progetto.
Parametri dei costi e costi inammissibili
I costi che devono essere inseriti nel preventivo devono fare riferimento, per quanto applicabili e
compatibili, ai massimali utilizzati dal Ministero del lavoro (art. 6, D.M. 15 marzo 2001).
Non sono rimborsabili le seguenti spese:
- mancata produzione;
- acquisto di macchinari ed attrezzature;
- borse di studio ed indennità varie;
- ristrutturazione di impianti;
- fidejussione;
- spese derivanti da modifiche non autorizzate (art. 7, D.M. 15 marzo 2001).
Decadenza
Nell'ipotesi in cui la Direzione provinciale del lavoro - Servizio ispezioni, territorialmente competente,
verifichi la mancata attuazione del progetto si ha la decadenza totale dei contributi erogati e la ripetizione delle
relative somme.
In caso di attuazione parziale, la decadenza opera limitatamente alla parte non attuata.
6. Organi amministrativi con funzione di vigilanza e garanzia della parità uomo-donna
Gli organi amministrativi, con compiti prevalentemente di vigilanza e di garanzia della parità uomo-donna,
sono:
a) la "Commissione per le pari opportunità fra uomo e donna", la quale, ai sensi del regolamento per il
riordino della Commissione stessa emanato con D.P.R. 14 maggio 2007, n. 115, opera presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per i diritti e le pari opportunità e ha durata di tre anni a decorrere
dalla data di entrata in vigore del regolamento.
La Commissione, composta da ventisei membri tra cui il Ministro per i diritti e le pari opportunità che la
presiede, fornisce consulenza e supporto tecnico-scientifico nell'elaborazione e nell'attuazione delle politiche di
genere, sui provvedimenti di competenza dello Stato.
In particolare la Commissione, nell'esercizio delle sue competenze:
- propone il programma annuale di lavoro, indicando le esigenze finanziarie conseguenti;
- controlla sistematicamente gli sviluppi delle politiche delle pari opportunità in ambito sopranazionale e
comunitario;
- segnala al Ministro le iniziative necessarie per realizzare l'effettiva parità dei sessi nell'amministrazione;
- redige un rapporto annuale per il Ministero sullo stato di attuazione delle politiche di pari opportunità,
rilevando altresì l'eventuale mancato rispetto degli impegni comunitari;
- può effettuare audizioni, pubblicare i propri lavori nonché le ricerche svolte e predisporre la realizzazione
di campagne informative;
b) il "Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento economico ed uguaglianza di
opportunità tra lavoratori e lavoratrici" (art. 8, D.Lgs. n. 198/2006). Esso è istituito presso il Ministero del lavoro
e promuove, nell'ambito della competenza statale, la rimozione delle discriminazioni e di ogni altro ostacolo
che limiti di fatto l'uguaglianza fra uomo e donna nell'accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione
professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche
complementari collettive di cui al D.Lgs. n. 252/2005 ed ha, tra l'altro, ex art. 10, D.Lgs. n. 198/2006, i compiti
di:
- formulare proposte, iniziative e promuovere azioni positive per la realizzazione dell'obiettivo della parità
uomo-donna;
- formulare entro il 31 maggio di ogni anno un programma-obiettivo nel quale siano indicate le tipologie di
progetti di azioni positive che si intende promuovere, i soggetti ammessi per le singole tipologie ed i criteri di
valutazione;
- proporre soluzioni alle controversie collettive, anche indirizzando gli interessati all'adozione di progetti di
azioni positive per la rimozione delle discriminazioni pregresse o di situazioni di squilibrio nella posizione di
uomini e donne in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e promozione professionale, delle
condizioni di lavoro e retributive;
- esprimere il parere sulla domanda di finanziamento per la realizzazione di azioni positive per la parità
uomo-donna, operare il controllo sui progetti "in itinere" e redigere la relativa relazione sugli esiti finali del
progetto;
- elaborare iniziative per favorire il dialogo tra le parti sociali, al fine di promuovere la parità di trattamento,
avvalendosi dei risultati dei monitoraggi effettuati sulle prassi nei luoghi di lavoro, nell'accesso al lavoro, alla
formazione e promozione professionale, nonché sui contratti collettivi, sui codici di comportamento, ricerche o
scambi di esperienze e buone prassi;
- elaborare iniziative per favorire il dialogo con le organizzazioni non governative che hanno un legittimo
interesse a contribuire alla lotta contro le discriminazioni fra donne e uomini nell'occupazione e nell'impiego;
- provvedere allo scambio di informazioni disponibili con gli organismi europei corrispondenti in materia di
parità fra donne e uomini nell'occupazione e nell'impiego;
- provvedere, anche attraverso la promozione di azioni positive, alla rimozione degli ostacoli che limitino
l'uguaglianza tra uomo e donna nella progressione professionale e di carriera, allo sviluppo di misure per il
reinserimento della donna lavoratrice dopo la maternità, alla più ampia diffusione del part-time e degli altri
strumenti di flessibilità a livello aziendale che consentano una migliore conciliazione tra vita lavorativa e
impegni familiari;
c) le "Consigliere e i Consiglieri di parità", effettivi e supplenti, a livello nazionale, regionale e provinciale
che svolgono funzioni di promozione e di controllo dell'attuazione dei principi di uguaglianza, di opportunità e
di non discriminazione tra donne e uomini nel lavoro (art. 13, D.Lgs. n. 198/2006). A tal fine intraprendono ogni
utile attività per il rispetto del principio di non discriminazione e la promozione di pari opportunità per lavoratori
e lavoratrici ed in particolare, ex art. 15, D.Lgs. n. 198/2006, hanno, tra l'altro il compito di:
- rilevare le situazioni di squilibrio, allo scopo di intraprendere le funzioni promozionali e di garanzia contro
le discriminazioni nell'accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, ivi compresa la
progressione professionale e di carriera, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in
relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al D.Lgs. n. 252/2005;
- promuovere progetti di "azioni positive" e di programmare una coerente politica di sviluppo territoriale in
materia di pari opportunità;
- collaborare con le Direzioni provinciali e regionali del lavoro per individuare procedure efficaci di
rilevazione delle violazioni e discriminazioni commesse in materia e progettare adeguati pacchetti formativi;
- sostenere le politiche attive del lavoro, comprese quelle formative, sotto il profilo della promozione e
realizzazione di pari opportunità;
- promuovere l'attuazione delle politiche di pari opportunità da parte dei soggetti pubblici e privati che
operano nel mercato del lavoro;
- provvedere alla diffusione della conoscenza e dello scambio di buone prassi e attività di informazione e
formazione culturale sui problemi delle pari opportunità e sulle varie forme di discriminazioni;
- verificare i risultati della realizzazione dei progetti di azioni positive previsti dal Codice delle pari
opportunità;
- collaborare con gli assessorati al lavoro degli enti locali e con organismi di parità degli enti locali.
Inoltre, la consigliera o il consigliere nazionale di parità svolge inchieste indipendenti in materia di
discriminazioni sul lavoro e pubblica relazioni indipendenti e raccomandazioni in materia di discriminazioni sul
lavoro.
Le Direzioni provinciali e regionali del lavoro territorialmente competenti, su richiesta delle consigliere e dei
consiglieri di parità, acquisiscono, nei luoghi di lavoro, informazioni sulla situazione occupazionale maschile e
femminile (stato delle assunzioni, della formazione e promozione professionale, delle retribuzioni, delle
condizioni di lavoro, della cessazione del rapporto di lavoro ed ogni altro elemento utile). Entro il 31 dicembre
di ogni anno le consigliere ed i consiglieri di parità regionali e provinciali presentano un rapporto, sull'attività
svolta, agli organi che hanno provveduto alla designazione e alla nomina. La consigliera o il consigliere di
parità che non presenta il rapporto, o lo fa con ritardo superiore a tre mesi, decade dall'ufficio;
d) il "Collegio istruttorio" e la "Segreteria tecnica" del Comitato, con funzioni prevalentemente strumentali
all'attività del Comitato stesso e delle consigliere ed i consiglieri di parità (art. 11, D.Lgs. n. 198/2006).
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venerdì 1 ottobre 2010
"..mentre lo stesso art. 24 della legge 1° aprile 1981, n. 181 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza»), nel descrivere i compiti istituzionali della Polizia di Stato, prevede che essa debba sollecitare la collaborazione dei cittadini..."
SENTENZA N. 274
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi per conflitti di attribuzione tra enti sorti a seguito del decreto del Ministro dell’interno dell’8 agosto 2009, recante: «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», promossi dalle Regioni Toscana ed Emilia-Romagna con ricorsi notificati il 5 ed il 7 ottobre 2009, depositati in cancelleria l’8 ed il 13 ottobre 2009 ed iscritti ai nn. 10 e 11 del registro conflitti tra enti 2009.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi gli avvocati Lucia Bora per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 5 ottobre 2009 e depositato il successivo 8 ottobre (reg. confl. enti n. 10 del 2009), la Regione Toscana ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009, pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 183 dell’8 agosto 2009, recante «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», prospettando la violazione dell’art. 117, commi secondo, lettera h), quarto e sesto, della Costituzione e del principio di leale collaborazione.
La ricorrente espone che con il decreto impugnato è stata data attuazione ai commi da 40 a 44 dell’art. 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), i quali consentono ai sindaci di avvalersi della collaborazione di associazioni di cittadini ai fini della segnalazione alle Forze di polizia dello Stato o locali di eventi pericolosi per la sicurezza urbana ovvero di situazioni di disagio sociale. La ricorrente deduce, altresì, di avere già proposto questione di legittimità costituzionale in via principale nei confronti delle disposizioni di cui ai commi 40, 41, 42 e 43 del citato 3, per contrasto con i medesimi parametri dianzi indicati.
Come rilevato in tale sede, dette disposizioni non potrebbero essere infatti inquadrate nella materia «ordine pubblico e sicurezza», nella quale lo Stato ha competenza legislativa esclusiva (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia da intendere, per consolidata giurisprudenza costituzionale, in senso restrittivo, e cioè come comprensiva dei soli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso, quest’ultimo, quale complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui cui si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale.
In assenza di ogni indicazione limitativa in tale direzione, il concetto di «sicurezza urbana» abbraccerebbe, infatti, anche misure volte a contrastare il degrado delle città e a favorire l’ordinato sviluppo delle relazioni socio-economiche, riconducibili alla materia «polizia amministrativa locale», di competenza regionale esclusiva (art. 117, comma secondo, lettera h, e quarto, Cost.). A sua volta, l’espressione «disagio sociale» comprenderebbe situazioni di difficoltà di integrazione dell’individuo nel tessuto sociale derivanti dalle più varie cause, evocative, come tali, di interventi rientranti nella materia «politiche sociali», anch’essa di competenza regionale residuale: competenza che la ricorrente ha, in effetti, esercitato con la legge regionale 24 febbraio 2005, n. 41 (Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), il cui art. 58 prevede specificamente l’adozione di «politiche per le persone a rischio di esclusione sociale».
Tali considerazioni varrebbero anche in rapporto al decreto ministeriale attuativo su cui si fonda l’odierno conflitto. I suoi primi sette articoli devolvono, infatti, al prefetto – cioè ad un rappresentante territoriale del Governo – senza alcun coinvolgimento delle Regioni, tutte le funzioni e le competenze: in specie, la tenuta dell’elenco delle associazioni di osservatori (art. 1), la definizione del contenuto delle convenzioni che i sindaci possono stipulare con le associazioni stesse (art. 4, comma 2), la revoca delle iscrizioni (art. 6) e la revisione degli elenchi (art. 7); realizzando, con ciò, una inammissibile intromissione nelle attribuzioni regionali in materia di «polizia amministrativa locale» e di «politiche sociali». Meramente eventuale e del tutto marginale sarebbe, d’altronde, la forma di partecipazione delle Regioni prefigurata dall’art. 8 del decreto, concernente l’organizzazione di corsi di formazione e di aggiornamento per gli osservatori volontari.
Risulterebbe violato, di conseguenza, anche l’art. 117, sesto comma, Cost., in forza del quale lo Stato può esercitare la potestà regolamentare solo nelle materie di sua competenza legislativa esclusiva: violazione tanto più evidente ove si consideri che la ricorrente ha già disciplinato la materia con la legge regionale 3 aprile 2006, n. 12 (Norme in materia di polizia comunale e provinciale), il cui art. 7 prevede specificamente che i comuni e le province possano stipulare convenzioni con le associazioni di volontariato iscritte nel registro regionale, «per realizzare collaborazioni tra queste ultime e le strutture di polizia locale rivolte a favorire l’educazione alla convivenza, al senso civico e al rispetto della legalità».
Particolarmente lesiva, per questo verso, risulterebbe la norma transitoria di cui all’art. 9 del decreto impugnato, la quale – incidendo sulla citata disciplina regionale – consente alle associazioni che già collaboravano con le autorità locali di continuare ad esercitare l’attività solo per un limitato periodo di tempo, dovendo indi uniformarsi a quanto stabilito dal decreto censurato e, dunque, passare sotto la vigilanza del prefetto.
Da ultimo, l’atto impugnato risulterebbe lesivo del principio di leale collaborazione, giacché, disciplinando ambiti di competenza regionale, avrebbe dovuto prevedere quantomeno l’intesa con le Regioni interessate o, comunque, adeguate forme di concertazione con queste ultime.
Per le ragioni esposte, la ricorrente chiede che la Corte dichiari che il decreto ministeriale censurato è lesivo delle attribuzioni regionali e, per l’effetto, lo annulli.
2. – Avverso il medesimo decreto ministeriale ha proposto conflitto di attribuzione anche la Regione Emilia-Romagna con ricorso notificato il 7 ottobre 2009 e depositato il successivo 13 ottobre (reg. confl. enti n. 11 del 2009), denunciando la violazione degli artt. 117, secondo, quarto e sesto comma, e 118 Cost., nonché del principio di leale collaborazione.
Premesso di avere anch’essa proposto questione di legittimità costituzionale in via principale nei confronti delle norme legislative statali attuate dal decreto impugnato, la ricorrente rileva come l’accoglimento di tale questione comporterebbe automaticamente l’illegittimità del decreto attuativo, per lesione delle prerogative costituzionali della Regione: in particolare, per avere disciplinato materie quali la «polizia amministrativa locale», la «sicurezza urbana» (in quanto materia ulteriore rispetto all’«ordine pubblico e sicurezza») e il «disagio sociale», che l’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., riserverebbe alla potestà legislativa regionale.
Il decreto impugnato risulterebbe emesso anche in violazione del sesto comma dell’art. 117 Cost., che limita la potestà regolamentare dello Stato alle materie di cui al secondo comma dello stesso articolo.
Passando quindi analiticamente in rassegna i contenuti del decreto, la ricorrente rileva come ne resti avvalorata la conclusione che esso disciplina l’attività dei volontari in relazione ai servizi di polizia amministrativa locale: attività che la Regione Emilia-Romagna ha regolato con la legge 4 dicembre 2003, n. 24 (Disciplina della polizia amministrativa locale e promozione di un sistema integrato di sicurezza).
Rimarchevole sarebbe la circostanza che, malgrado ciò, non venga riconosciuto alcun ruolo alle Regioni, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 8, in tema di organizzazione di corsi di formazione e aggiornamento per gli osservatori volontari: disposizione da considerare, peraltro, anch’essa illegittima, non spettando al regolamento statale prevedere e disciplinare l’attività regionale di formazione.
Anche la Regione Emilia-Romagna ravvisa, d’altro canto, nella disposizione transitoria dell’art. 9 – concernente le associazioni che già svolgevano attività di volontariato «comunque riconducibili» alle previsioni dell’art. 3, comma 40, della legge n. 94 del 2009 – una palese interferenza con la disciplina regionale già in vigore, dettata, nella specie, dalla citata legge n. 24 del 2003.
La ricorrente assume, inoltre, che talune disposizioni del decreto, tra cui quelle da ultimo indicate, andrebbero oltre la stessa previsione dell’art. 3, comma 43, della legge n. 94 del 2009, secondo la quale il Ministro dell’interno era chiamato solo a determinare gli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, i requisiti per la loro iscrizione negli appositi elenchi e le modalità di tenuta di questi. Per tale parte, l’atto impugnato sarebbe dunque illegittimo in via autonoma, e non già come conseguenza dell’incostituzionalità delle norme legislative attuate.
In via subordinata, e per l’ipotesi in cui si ritenesse sussistente una esigenza di disciplina unitaria delle attività di volontariato in relazione alle materie «ordine pubblico e sicurezza» e «polizia amministrativa locale», la Regione Emilia-Romagna lamenta che, in violazione del principio di leale collaborazione, il decreto impugnato sia stato emanato senza la previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, ovvero, in via di ulteriore subordine, senza avere sentito tale Conferenza (o la Conferenza unificata), rimarcando come la previsione di «forme di coordinamento» con le Regioni nella materia «ordine pubblico e sicurezza» risulti doverosa anche alla luce dello specifico disposto dell’art. 118, terzo comma, Cost.
Alla luce di tali considerazioni, la ricorrente chiede, quindi, che la Corte dichiari che non spettava allo Stato adottare, a mezzo del Ministro dell’interno, l’atto impugnato e, conseguentemente, lo annulli.
3. – Si è costituito, in entrambi i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto dei ricorsi.
Ad avviso della difesa dello Stato, l’attività degli osservatori volontari sarebbe, in realtà, integralmente riconducibile alla materia «ordine pubblico e sicurezza»: e ciò quantomeno alla luce del criterio della prevalenza, di cui la giurisprudenza costituzionale ha già fatto specifica applicazione in rapporto a situazioni di astratto concorso con la competenza regionale in materia di «polizia amministrativa locale».
Quanto, infatti, al concetto di «sicurezza urbana», la relativa definizione, offerta dal decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, è già passata al vaglio della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 196 del 2009 – emessa a seguito di un conflitto di attribuzione proposto dalla Provincia autonoma di Bolzano – ha ritenuto che detto decreto concerna esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati.
Neppure il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» intaccherebbe le competenze regionali, e in particolare quella relativa ai «servizi sociali». Gli osservatori volontari non sarebbero, infatti, chiamati ad erogare tali servizi, ma soltanto a segnalare situazioni critiche riscontrate nel corso del loro operato.
Parimenti infondate risulterebbero le censure di violazione del principio di leale collaborazione. La piena competenza statale in materia renderebbe, infatti, del tutto legittimi i meccanismi configurati dal legislatore per le predisposizione degli elenchi delle associazioni, la disciplina degli iscritti e il controllo sugli stessi. Né potrebbero invocarsi forme di coordinamento ulteriori rispetto a quelle insite nel previsto coinvolgimento, in forma consultiva, del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, alle cui sedute possono essere chiamati a partecipare i responsabili degli enti locali.
4. – Nell’imminenza dell’udienza pubblica, entrambe le Regioni ricorrenti hanno depositato memorie illustrative, volte a contestare le tesi della difesa dello Stato.
Le ricorrenti rilevano, in particolare, come la definizione della «sicurezza urbana» offerta dal decreto ministeriale del 2008 sia stata ritenuta conforme al dettato costituzionale dalla Corte sulla base di specifici argomenti esegetici, non riproponibili in rapporto al decreto oggi impugnato. Né – secondo la Regione Toscana – sarebbe comunque possibile una lettura delle disposizioni censurate che eviti la lesione delle competenze regionali, perché ciò significherebbe affidare a privati cittadini una funzione necessariamente pubblica (quale quella della prevenzione dei reati e del mantenimento dell’ordine pubblico).
Quanto, poi, alle situazioni di «disagio sociale», anche l’attività di mera segnalazione rientrerebbe nella competenza regionale in materia di «politiche sociali», non essendo ipotizzabile che alle Regioni spetti solo il compito di intervenire ex post – quando, cioè, le situazioni di disagio sono già insorte – lasciando allo Stato la determinazione della disciplina applicabile all’attività di prevenzione.
Né, d’altro canto, la competenza statale potrebbe essere affermata sulla base del criterio della prevalenza, giacché, a tacer d’altro, mancherebbe il relativo presupposto di applicabilità, rappresentato dall’identità di ratio delle disposizioni oggetto di censura.
Del tutto inidoneo a soddisfare il principio di leale collaborazione sarebbe, infine, il previsto intervento del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica (circoscritto, peraltro, alla formulazione di un parere circa il possesso, da parte delle associazioni, dei requisiti necessari ai fini dell’iscrizione nell’elenco), anche perché in tale organo possono essere coinvolti i responsabili degli enti locali, ma non anche quelli della Regione interessata.
Considerato in diritto
1. – Le Regioni Toscana ed Emilia-Romagna hanno proposto conflitti di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009, recante disposizioni attuative dei commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), i quali prevedono che i sindaci possano avvalersi, alle condizioni e con le modalità ivi stabilite, della collaborazione di associazioni di cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali «eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale».
Premesso di avere proposto questioni di legittimità in via principale nei confronti delle norme legislative attuate, le ricorrenti deducono che, per le medesime ragioni esposte in quella sede, anche la disciplina recata dal decreto attuativo risulterebbe lesiva delle attribuzioni regionali. Essa esorbiterebbe, infatti, dall’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia da intendere, per consolidata giurisprudenza costituzionale, in senso restrittivo, ossia come comprensiva dei soli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico.
Il concetto di «sicurezza urbana» abbraccerebbe, infatti, anche misure volte a contrastare il degrado delle città e a favorire l’ordinato sviluppo della convivenza civile, riconducibili alla materia «polizia amministrativa locale», di competenza regionale esclusiva, ai sensi dei commi secondo, lettera h), e quarto dell’art. 117 Cost.; mentre la formula «disagio sociale» comprenderebbe situazioni di emarginazione della più varia origine, da fronteggiare con interventi rientranti nella materia «politiche sociali», anch’essa di competenza regionale residuale.
Sarebbe quindi violato anche il sesto comma dell’art. 117 Cost., avendo lo Stato esercitato una potestà regolamentare in materia non di propria competenza legislativa esclusiva: violazione particolarmente apprezzabile in rapporto alla norma transitoria dell’art. 9 del decreto, che impone alle associazioni di volontariato, già operanti in ambiti «comunque riconducibili» a quelli considerati, di uniformarsi – dopo un breve lasso di tempo – alle previsioni del decreto stesso, con conseguente interferenza su rapporti regolati da leggi regionali in vigore.
Le ricorrenti censurano, per altro verso, che il decreto demandi al prefetto ogni competenza – segnatamente in rapporto alla tenuta dell’elenco delle associazioni, alla definizione del contenuto delle convenzioni stipulate con esse dai sindaci, alla revoca delle iscrizioni e alla revisione degli elenchi – senza contemplare alcuna forma di coinvolgimento delle Regioni, fatta eccezione per quella, del tutto marginale, prefigurata all’art. 8, attinente all’organizzazione di corsi di formazione e aggiornamento dei volontari: donde – secondo la Regione Toscana – anche la violazione del principio di leale collaborazione.
In via subordinata, la Regione Emilia-Romagna lamenta – sotto il profilo della violazione del medesimo principio – che il decreto sia stato emanato senza la previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni o, in via di ulteriore subordine, senza avere sentito tale Conferenza (o la Conferenza unificata), rimarcando come la previsione di «forme di coordinamento» con le Regioni nella materia dell’ordine pubblico e sicurezza debba ritenersi doverosa anche alla luce dello specifico disposto dell’art. 118, terzo comma, Cost., che risulterebbe, dunque, esso pure violato.
2. – I ricorsi sollevano conflitti di attribuzione aventi ad oggetto il medesimo atto e basati su censure in larga parte analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
3. – In via preliminare, va rilevato che, successivamente alla proposizione dei ricorsi, il decreto ministeriale impugnato è stato oggetto di modifica ad opera del decreto del Ministro dell’interno 4 febbraio 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 30 del 6 febbraio 2010.
Si è trattato, peraltro, di modifiche marginali (soppressione del divieto, per gli osservatori volontari, di avvalersi di mezzi motorizzati; proroga del termine entro il quale le associazioni già operanti possono continuare l’attività in difetto di iscrizione nell’elenco), manifestamente prive di incidenza sul thema decidendum.
4. – Nel merito, i ricorsi sono parzialmente fondati, secondo quanto di seguito specificato.
4.1. – Nelle more del giudizio, questa Corte si è pronunciata, con la sentenza n. 226 del 2010, sulle questioni di legittimità costituzionale proposte dalle ricorrenti, aventi ad oggetto le norme legislative cui si è proposto di dare attuazione il decreto ministeriale impugnato (art. 3, commi 40, 41, 42 e 43, della legge n. 94 del 2009).
Nell’occasione, la Corte ha preliminarmente rimarcato come la normativa concernente gli osservatori volontari venisse vagliata nella sola prospettiva della verifica della denunciata invasione delle competenze regionali, avuto riguardo, in specie, alla spettanza del potere di stabilire le condizioni alle quali i Comuni possono avvalersi della collaborazione di associazioni di privati per il controllo del territorio; mentre restava affatto estraneo allo scrutinio – e dunque impregiudicato, ai sensi dell’art. 18, primo comma, Cost. – il diritto di associazione dei cittadini ai fini dello svolgimento dell’attività di segnalazione descritta dalle disposizioni censurate. Questo rilievo vale evidentemente anche con riferimento al giudizio odierno.
Ciò premesso, si è osservato, nella citata sentenza n. 226 del 2010, come il problema nodale posto dai quesiti di costituzionalità attenesse alla valenza delle formule «sicurezza urbana» e «situazioni di disagio sociale», impiegate nel comma 40 dell’art. 3 per identificare i compiti di segnalazione degli osservatori volontari, e segnatamente alla loro riconducibilità o meno alla materia, di competenza statale esclusiva, «ordine pubblico e sicurezza» (all’art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia che – in contrapposizione alla «polizia amministrativa locale», da essa espressamente esclusa – va intesa restrittivamente, ossia come relativa alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza della comunità nazionale (ex plurimis, sentenze n. 129 del 2009, n. 237 e 222 del 2006, n. 383 e n. 95 del 2005, n. 428 del 204).
All’interrogativo si è data una risposta differenziata.
Quanto al concetto di «sicurezza urbana», il dettato della norma impugnata è stato ritenuto non in contrasto con il riparto costituzionale delle competenze. Si è reputata difatti valevole, al riguardo, la conclusione già raggiunta in rapporto al decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, recante la definizione del suddetto concetto agli effetti del potere di ordinanza dei sindaci di cui all’art. 54, comma 4, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali): e, cioè, che esso ha ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati (sentenza n. 196 del 2009). La titolazione della legge n. 94 del 2009 (che richiama anch’essa la «sicurezza pubblica»); il collegamento sistematico tra la norma impugnata e il citato art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000; i richiami a tale articolo e al decreto ministeriale del 2008 contenuti del decreto attuativo oggi impugnato; la complessiva disciplina dettata dai commi 40-43 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 (coerente con una lettura del concetto di «sicurezza pubblica» evocativa dei soli interventi di prevenzione e repressione delle attività criminose) sono tutti elementi che convergono nella direzione dianzi indicata.
Si è negata, inoltre, validità alla tesi della ricorrente Regione Toscana – oggi riproposta – secondo cui detta conclusione comporterebbe un inammissibile affidamento a privati di una funzione pubblica, quale appunto quella di prevenzione dei reati. A tale tesi va, infatti, obiettato che i volontari svolgono attività di mera osservazione e segnalazione e che qualsiasi privato cittadino può denunciare i reati, perseguibili d’ufficio, di cui venga a conoscenza (art. 333 del codice di procedura penale) e finanche procedere all’arresto in flagranza (art. 383 cod. proc. pen.); mentre lo stesso art. 24 della legge 1° aprile 1981, n. 181 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza»), nel descrivere i compiti istituzionali della Polizia di Stato, prevede che essa debba sollecitare la collaborazione dei cittadini.
Il riferimento alternativo al «disagio sociale» non è stato, per converso, reputato suscettibile di una lettura costituzionalmente conforme, in base alla quale detta formula evocherebbe le sole situazioni implicanti un concreto pericolo di commissione di fatti penalmente illeciti: trattandosi di lettura che – in contrasto con l’impiego da parte del legislatore della disgiuntiva «ovvero» – ricondurrebbe interamente la nozione considerata nel preliminare richiamo agli eventi pericolosi per la sicurezza urbana, rendendola pleonastica. Nella sua genericità, la formula «disagio sociale» si presta dunque ad abbracciare un vasto ambito di ipotesi di emarginazione o di difficoltà di inserimento dell’individuo nel tessuto sociale, derivanti dalle più varie cause (condizioni economiche, di salute, età, rapporti familiari e così via dicendo): situazioni che reclamano interventi ispirati a finalità di politica sociale, riconducibili alla materia dei «servizi sociali», di competenza legislativa regionale residuale. Né a questo fine rileva che gli osservatori si limitino a mere segnalazioni, senza erogare servizi. Il monitoraggio delle «situazioni critiche» rappresenta, infatti, la necessaria premessa conoscitiva degli interventi intesi alla rimozione e al superamento del «disagio sociale»: onde la determinazione delle condizioni e delle modalità con le quali i comuni possono avvalersi, per tale attività, dell’ausilio di privati volontari rientra anch’essa nelle competenze del legislatore regionale.
Da ultimo, si è negato che la competenza statale possa essere affermata sulla base del criterio della prevalenza, mancando il presupposto di applicabilità di tale criterio, rappresentato dall’esistenza di una disciplina che, collocandosi alla confluenza di un insieme di materie, sia espressione di un’esigenza di regolamentazione unitaria. Il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» si presenta, infatti, come un elemento «spurio ed eccentrico rispetto alla ratio ispiratrice delle norme impugnate», che finisce «per rendere incongrua la stessa disciplina da esse dettata» (sentenza n. 226 del 2010).
Il comma 40 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 è stato dichiarato, di conseguenza, costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 117, quarto comma, Cost., limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale».
Derivando la lesione del riparto costituzionale delle competenze esclusivamente dalla eccessiva ampiezza della previsione del comma 40, sono state dichiarate non fondate le restanti questioni, concernenti i commi 41, 42 e 43, che, rispettivamente, prevedono l’iscrizione delle associazioni di volontari in apposito elenco tenuto dal prefetto, stabiliscono criteri di scelta tra le stesse e demandano al Ministro dell’interno il compito di determinare, con decreto da adottare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge, «gli ambiti operativi delle disposizioni di cui ai commi 40 e 41, i requisiti per l’iscrizione nell’elenco e […] le modalità di tenuta dei relativi elenchi» (disposizione, quest’ultima, in base alla quale è stato emanato l’atto qui impugnato).
4.2. – La decisione sugli odierni ricorsi non può evidentemente che orientarsi nella medesima direzione, consistendo le censure di fondo delle Regioni ricorrenti (così come le difese dell’Avvocatura generale dello Stato) in una mera replica delle argomentazioni già svolte in sede di impugnazione in via principale delle norme legislative attuate.
Premesso che l’atto impugnato richiama, quanto al concetto di «sicurezza urbana», la definizione offerta dal d.m. 5 agosto 2008 (art. 1, comma 2), mentre non fornisce alcuna precisazione in ordine alla valenza del concetto alternativo di «disagio sociale», si deve concludere che – per le ragioni già indicate nella citata sentenza n. 226 del 2010 e dianzi ricordate – la tesi delle ricorrenti non è fondata in rapporto alla prima delle due formule, mentre lo è rispetto alla seconda, in quanto comprensiva di interventi riconducibili alla materia «servizi sociali», di competenza legislativa regionale residuale (art. 117, quarto comma, Cost.).
Ne deriva che, per la parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di «situazioni di disagio sociale», l’atto impugnato viola anche il sesto comma dell’art. 117 Cost., che circoscrive la potestà regolamentare dello Stato alle sole materie di sua competenza legislativa esclusiva. Il presupposto, non contestato dalla difesa dello Stato, da cui muovono le ricorrenti – e, cioè, che l’atto impugnato, pur non recando formalmente tale denominazione, abbia natura di regolamento – corrisponde, infatti, ai contenuti sostanziali dell’atto, il quale detta norme intese a disciplinare, in via generale e astratta, i requisiti delle associazioni e degli osservatori volontari ad esse appartenenti, il loro ambito di operatività e i procedimenti amministrativi connessi, vincolando con ciò i comportamenti dei diversi soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’attività in questione (lo stesso art. 9 del decreto reca, del resto, la rubrica «norme transitorie»). Eventuali profili di illegittimità dell’atto conseguenti a tale qualificazione, legati segnatamente alla mancata osservanza della procedura di cui all’art. 17, comma 4, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), esulano dal tema del presente giudizio.
Al fine di eliminare la rilevata lesione delle attribuzioni regionali è sufficiente, peraltro, rimuovere i riferimenti alle «situazioni di disagio sociale» che compaiono nei commi 1 e 2 dell’art. 1 e nel comma 1 dell’art. 2 del decreto impugnato, con riguardo, rispettivamente, all’elenco delle associazioni di osservatori volontari, agli scopi e ai compiti di queste (l’ulteriore riferimento che figura nel quarto capoverso del preambolo ha carattere meramente descrittivo dei contenuti delle norme primarie attuate).
Anche in questo caso, va esclusa la necessità di interventi sulle restanti previsioni del decreto (ivi compresa la norma transitoria di cui all’art. 9, sulla quale in modo particolare si appuntano le censure delle ricorrenti). Una volta circoscritta l’attività degli osservatori volontari alla segnalazione degli eventi pericolosi per la «sicurezza urbana» – e, dunque, in un ambito riconducibile alla prevenzione e repressione dei reati – dette previsioni perdono, infatti, automaticamente ogni carattere invasivo delle competenze regionali.
Il discorso vale anche in rapporto alla lesione del «principio di legalità», denunciata dalla Regione Emilia-Romagna sull’assunto che il decreto ministeriale impugnato, in alcune sue parti, avrebbe travalicato l’ambito di intervento assegnatogli dall’art. 3, comma 43, della legge n. 94 del 2009. Tale ipotizzato profilo di illegittimità dell’atto resta, infatti, irrilevante in questa sede, qualora non ridondi in una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione.
Con riguardo, poi, alle censure formulate in via subordinata dalla medesima Regione Emilia-Romagna, va escluso che l’atto impugnato sia tenuto comunque a prevedere forme di coordinamento con le Regioni, anche qualora l’attività degli osservatori volontari rimanga ristretta nell’ambito dell’«ordine pubblico e sicurezza». Come già rilevato da questa Corte, infatti, l’art. 118, terzo comma, Cost., nel prevedere una riserva di legge statale ai fini della disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’art. 117 Cost. (immigrazione, ordine pubblico e sicurezza), non impegna indefettibilmente lo Stato a prevedere un simile coordinamento ogni qualvolta rechi disposizioni riferibili alle suddette materie (sentenza n. 226 del 2010).
Neppure, da ultimo, richiede una soluzione differenziata la disposizione dell’art. 8 del decreto, attinente all’organizzazione dei corsi di formazione e di aggiornamento, avuto riguardo alla censura della Regione Emilia-Romagna, secondo la quale il regolamento statale non potrebbe comunque prevedere e disciplinare l’attività regionale di formazione. Al riguardo, è sufficiente considerare che l’organizzazione dei suddetti corsi è configurata dalla norma come una mera facoltà delle Regioni e degli enti locali che vi abbiano interesse («Le regioni e gli enti locali interessati possono organizzare corsi di formazione e aggiornamento …»), circostanza che esclude in ogni caso l’attitudine lesiva della previsione.
5. – Va, dunque, dichiarato che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dell’interno adottare il decreto impugnato, limitatamente alla parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di situazioni di disagio sociale.
Il medesimo decreto deve essere conseguentemente annullato in tale parte, secondo quanto in precedenza specificato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dell’interno, adottare il decreto 8 agosto 2009, recante «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», nella parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di situazioni di disagio sociale;
annulla, per l’effetto, l’art. 1, comma 1, limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale», l’art. 1, comma 2, limitatamente alle parole «ovvero del disagio sociale,» e l’art. 2, comma 1, limitatamente alle parole «, ovvero situazioni di disagio sociale», del citato decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il il 7 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010.
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