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mercoledì 17 luglio 2013

DIFFAMAZIONE MILITARE PER MESSAGGIO POSTATO NEL FORUM DI FICIESSE, CASSAZIONE ANNULLA CONDANNA A FINANZIERE: VA VALUTATA LA VERITA' DEI FATTI PERCHE' ANCHE I MILITARI SONO TITOLARI DEL DIRITTO COSTITUZIONALE DI CRITICA


Riceviamo da Ficiesse e pubblichiamo


DIFFAMAZIONE MILITARE PER MESSAGGIO POSTATO NEL FORUM DI FICIESSE, CASSAZIONE ANNULLA CONDANNA A FINANZIERE: VA VALUTATA LA VERITA' DEI FATTI PERCHE' ANCHE I MILITARI SONO TITOLARI DEL DIRITTO COSTITUZIONALE DI CRITICA

Importante sentenza della Corte di Cassazione in merito a un procedimento penale militare che vede imputato un appartenente alla Guardia di finanza per una presunta diffamazione conseguente a un messaggio inserito alcuni anni fa nel forum internet di Ficiesse. La Suprema Corte, nell’annullare la sentenza di condanna della Corte Militare di Appello, ha significativamente affermato che si deve <<riconoscere anche ai militari della Guardia di Finanza il diritto costituzionale di critica>> e che il giudice non deve considerare la parola “vessazione” come intrinsecamente diffamatoria ma è obbligato a valutare le condotte tenute in concreto.
Di seguito, il testo della sentenza. Grassetti e sottolineature sono della redazione del sito.  






CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE
SENTENZA 30 GENNAIO – 23 MAGGIO 2013, N. 22051



Ritenuto in fatto


1. Con sentenza del 14/3/2012, la Corte Militare di appello, pronunciando sull'appello avverso la sentenza con cui il Tribunale Militare di Napoli aveva condannato S.G. per il reato di diffamazione pluriaggravata alla pena di giustizia e al risarcimento del danno in favore della parte civile S.G.R., liquidato in via equitativa in Euro 1.500,00, in parziale riforma della sentenza impugnata escludeva l'aggravante dell'offesa ad un corpo militare, riducendo la pena a mesi quattro di reclusione, confermandola per il resto.

All'imputato è contestato di avere inserito un messaggio, usando uno pseudonimo, sul forum del sito internet www.ficiesse.itcontenente giudizi non veritieri ed offensivi della Guardia di Finanza, del Comandante provinciale di ... e del Comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di ....

La Corte riteneva che non vi fosse alcun difetto di correlazione fra accusa e sentenza: l'imputato rispondeva del messaggio letto su internet da più osservatori limitatamente ad una specifica frase, riportata nel capo di imputazione; non rispondeva, invece, del restante contenuto del messaggio di cui - benché diversamente indicato - non era stato allegata copia al decreto che aveva disposto il giudizio.

La Corte riteneva non indispensabile la rinnovazione dibattimentale chiesta dall'appellante, sia quanto all'approfondimento sul lato tecnico della vicenda, ritenendo raggiunta la prova che il post incriminato fosse apparso sul sito già menzionato, sia quanto al tema della veridicità dei fatti narrati nello stesso post, rilevando che non era stata contestata l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati e ritenendo che le espressioni utilizzate non erano compatibili con il diritto di critica, essendo stato ampiamente superato il limite della continenza. In effetti, il post non faceva riferimento solo ad un atteggiamento prevaricatorio degli ufficiali, bensì a concetti più gravi (vessazione, violenza e persecuzione), addirittura aggiungendosi un paragone con la Gestapo.

2. Ricorre per cassazione l'imputato S.G. , deducendo la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 516, 521 e 522 cod. proc. pen..
Benché il testo del messaggio non fosse allegato al capo di imputazione e, quindi, l'imputato dovesse rispondere solo per le frasi riportate nello stesso capo, la sentenza di primo grado aveva individuato la condotta offensiva non più nei giudizi e nelle affermazioni non veritieri, bensì nell'attribuzione agli ufficiali della Guardia di Finanza di qualità degne da Gestapo.
La diversità tra il fatto contestato e quello giudicato era stato oggetto di motivo di appello, respinto dalla Corte: ma il Tribunale aveva omesso di verificare la veridicità del contenuto del messaggio - che pure era oggetto dell'imputazione - limitandosi a definire diffamatorio il riferimento alla Gestapo che avrebbe leso la reputazione degli ufficiali della Guardia di Finanza.
Anche la Corte, nel delimitare l'oggetto dell'imputazione, aveva escluso il passo in cui i giudizi venivano ritenuti "non veritieri": eppure, secondo l'originaria accusa, non corrispondeva al vero che gli ufficiali commettessero azioni vessatorie nei confronti del personale o adottassero atteggiamenti persecutori e violenti nei confronti dell'imputato, mentre l'imputazione nulla diceva dell'offensività dell'espressione "Gestapo salentina".
L'immutazione del fatto operata dai giudici di merito aveva violato Il diritto di difesa dell'imputato, che l'aveva impostata sulla veridicità del contenuto delle affermazioni e dei giudizi presenti nel messaggio; il mancato approfondimento del tema della veridicità dei fatti narrati, inoltre, aveva avuto ricadute sull'applicabilità delle scriminanti dell'art. 51 cod. pen. e 596 cod. pen..

In un secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 603, comma 2 e 391 bis cod. proc. pen., con riferimento all'ordinanza della Corte che aveva respinto la richiesta avanzata dall'appellante ai sensi dell'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. di sentire tre testimoni, sul presupposto che due di essi erano già stati escussi in primo grado, che il terzo aveva fatto pervenire una lettera in cui confermava la veridicità dei fatti narrati nel messaggio e che all'imputato non era contestata l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati.

L'escussione di uno dei tre testi era stata resa necessaria da una lettera che egli aveva inviato al difensore del ricorrente dopo aver saputo della condanna di primo grado, a seguito della quale era stato escusso in investigazioni difensive, narrando fatti specifici di vessazioni poste in essere da D. e Sc. anche nei confronti di un militare parzialmente invalido. Si trattava di prova sopravvenuta rilevante che doveva essere ammessa, mentre la motivazione della Corte per respingere l'istanza (la mancata contestazione di un fatto determinato) non teneva conto che l'imputato doveva essere messo in grado di provare l'esercizio del diritto costituzionale di critica ai sensi dell'art. 21 della Costituzione e dell'art. 51 cod. pen.. La Corte aveva, comunque, l'obbligo di valutare la prova offerta dalla difesa.

In un terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 191, 526, 415 bis e 416 cod. proc. pen.: il P.M. non aveva mai depositato la relazione scritta di Aruba, provider del sito su cui era apparso il messaggio, che indicava l'indirizzo IP da cui, ad una certa ora, era partito il messaggio.
Nel corso dell'istruttoria dibattimentale, il teste Maresciallo S. , che aveva svolto le indagini, aveva riferito che tale relazione esisteva certamente, aggiungendo di non avere parlato personalmente con nessun dipendente della società Aruba. L'informazione finale - a chi fosse intestato l'indirizzo IP - era stata fornita dal gestore telefonico Wind, ma non si poteva prescindere dal passaggio intermedio dell'indicazione di Aruba.
Eppure, lo specifico motivo di appello proposto sul punto dell'inutilizzabilità del dato fornito da Aruba, per non essere stata depositata la relazione di tale società , era stata respinta dalla Corte militare, impedendo alla difesa l'esercizio dei controlli necessari sulla correttezza delle informazioni, tenuto anche conto che, nella relazione della polizia giudiziaria, l'ora in cui il messaggio risultava inviato da quell'indirizzo IP era diverso da quello reale; per di più il C.T.U., nel corso del dibattimento di primo grado, aveva escluso che fosse rinvenibile una traccia telematica dell'inserimento del messaggio sul sito www.ficiesse.it, dopo aver monitorato tutti gli indirizzi IP che ad esso avevano avuto accesso, e ciò contraddiceva l'affermazione della pol izia giudiziaria.
La Corte aveva rigettato il motivo di appello, ritenendo sufficiente la circostanza che la Wind avesse fornito l'informazione finale e sostenendo che le indagini avevano dimostrato l'accesso dell'imputato al sito.
Sulla stessa questione veniva dedotta la manifesta illogicità della motivazione, che riteneva provato il contatto tra il computer dell'imputato e il sito www.ficiesse.it sulla base della mera testimonianza del teste s. e delle informazioni della Wind in ordine al titolare di un indirizzo IP, mancando, però, la prova - che sarebbe dovuta provenire da Aruba - che quell'indirizzo IP, all'ora determinata, aveva inviato il messaggio al forum del sito: ma la ricostruzione di un fatto di diffamazione in internet non può prescindere dalla individuazione dei dati informatici e dei diversi operatori che avevano fornito tali dati.
La Corte riproponeva la motivazione illogica della sentenza di primo grado, non tenendo nemmeno conto dell'esito della perizia d'ufficio.
In un quinto motivo si deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 191 e 240 cod. proc. pen..
Nel giudizio di primo grado erano stati utilizzati, oltre a quelli prodotti da accusa e difesa, documenti anonimi aventi ad oggetto la medesima questione della gestione della Guardia di Finanza di Lecce; il C.T.U., in particolare, aveva sostenuto che si trattava di documenti genuini al contrario di quello prodotto dalla difesa: ciò era avvenuto in violazione del divieto di utilizzazione posto dall'art. 240 cod. proc. pen..
In un sesto motivo si deduce la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui ha ritenuto che il foglio prodotto dall'accusa fosse copia di una pagina internet in assenza del documento digitale originale.
Tale giudizio era stato espresso in quanto due fogli cartacei, di contenuto parzialmente diverso, erano circolati all'interno della caserma del Nucleo di Polizia Tributaria di ...: quello prodotto dalla difesa era stato ritenuto anomalo dal perito per una particolarità tecnica (diversa distanza della posizione del nickname sotto l'avatar), ma una consulenza tecnica difensiva aveva fatto rilevare che la comparazione era illogica, potendo dipendere le diverse caratteristiche grafiche dai browser utilizzati per la visualizzazione e stampa dei fogli e non essendo conosciuto quale browser fosse stato utilizzato.
Di conseguenza, in assenza dei documento digitale originale, nessuno dei fogli cartacei poteva essere considerato copia della pagina internet, anche perché non era stata utilizzata la metodologia hashing per realizzare una copia conforme all'originale.

La Corte aveva respinto la richiesta di rinnovazione del dibattimento, precludendo all'imputato la possibilità di difendersi sulla questione e contestualmente aveva enunciato la massima di esperienza secondo cui i diversi browser incidono soltanto sulla dimensione generale della schermata, ma non sulla proporzione tra i suoi contenuti, massima in contrasto con quanto sostenuto nella consulenza tecnica sulla base di dati scientifici: la massima di esperienza doveva essere sottoposta a controllo di logicità e, quindi, le conclusioni, che sostenevano che il post prodotto dalla difesa non era mai apparso sul sito ed era la stampa di una schermata di un computer mai apparsa in internet, erano manifestamente illogiche.
La Corte, invece, per sostenere che la copia prodotta dal P.M. era quella apparsa sul sito, si rifugiava nel dato gerarchico: un ufficiale aveva visto il messaggio sul computer e l'altro l'aveva fatto stampare da altro militare; tuttavia la persona che aveva eseguito la stampa era rimasta ignota, e si trattava dell'unica persona che poteva riferire sulle operazioni narrate dagli ufficiali.
In un settimo motivo, il ricorrente censura la motivazione della sentenza per avere omesso di valutare l'eccepita inattendibilità delle persone offese quali testi nel processo e, in particolare, del maggiore S., che si era costituito parte civile.
La sua testimonianza sulle modalità con cui era stata stampata la schermata apparsa sul sito era piena di omissioni e incertezze e faceva, comunque, emergere la violazione di tutte le regole tecniche dettate per operazioni di questo genere. S. , per di più, era stato smentito dal teste di riferimento N. , indicato come fonte telefonica dell'informazione della presenza di un messaggio attinente la Guardia di Finanza di … sul sito www.ficiesse.it: la circostanza era stata negata dal N. , che non aveva mai visto il messaggio incriminato.
In un ottavo motivo, si deduce la violazione dell'art. 51 cod. pen. e dell'art. 21 della Costituzione, con riferimento alla tesi sostenuta nell'atto di appello della non punibilità dell'imputato con riferimento al diritto di critica.
La Corte, rigettando questa tesi, ha omesso la valutazione dei fatti accaduti in caserma ed, in particolare, le affermazioni del teste G. e ha ritenuto diffamatorio l'uso delle parole "vessazioni", "violenze" e "persecuzioni" e non gravi le condotte stesse; aveva omesso di considerare le espressioni nel contesto in cui venivano riferite e anche di verificare la realtà dei fatti riferiti.
In realtà , si trattava di una critica rivolta all'operato degli ufficiali che soddisfaceva i parametri definiti dalla giurisprudenza, trattandosi di messaggio di interesse per la comunità virtuale dei frequentatori del sito, i fatti narrati corrispondevano a verità e le espressioni utilizzate non contenevano offese gratuite, ma censuravano specifiche condotte poste in essere dagli ufficiali, che ledevano la dignità dei militari del Nucleo di Polizia Tributarla di ….
La Corte avrebbe, quindi, dovuto assolvere l'imputato perché non punibile ai sensi dell'art. 51 cod. pen..
Il ricorrente conclude per l'annullamento della sentenza impugnata.
3. Ricorre per cassazione anche il difensore di S.G., deducendo la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. e il vizio della motivazione in ordine all'esistenza della prova del reato contestato.
La sentenza aveva travisato le conclusioni della C.T.U. redatta dall'ing. S. e, del tutto illogicamente, aveva ritenuto che il foglio prodotto dall'accusa corrispondesse al messaggio apparso sul sito, mentre quello prodotto dalla difesa fosse una rielaborazione mai apparsa su internet: al contrario, non vi erano elementi per ritenere che anche il foglio prodotto dall'accusa non fosse una rielaborazione: e, tenuto conto che la perizia aveva dimostrato la mancanza di tracce telematiche del messaggio e aveva, quindi, concluso che non era possibile affermare che il foglio prodotto dall'accusa corrispondente al messaggio pubblicato sul sito, l'imputato avrebbe dovuto essere assolto.

In un secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 51 e 596 cod. pen. e il vizio della motivazione: la stessa Corte aveva richiamato una sentenza di questa Corte che aveva ritenuto rispettose della continenza anche espressioni più forti; inoltre il giudice non poteva trascurare la verità dei fatti riferiti nel messaggio, al fine di accertare l'operatività dell'esimente del diritto di critica (che limita l'operatività dell'art. 596 cod. pen. ai casi in cui detta esimente non opera), tenuto conto che le accuse non erano gratuite, i fatti narrati rispondevano a verità e la terminologia usata rispettava il principio di continenza, anche nel riferimento alla "Gestapo salentina".
Vengono riproposte le censure concernenti la mancata riapertura dell'istruttoria, motivata in maniera del tutto illogica, nonostante il teste di cui era stata chiesta l'escussione dimostrasse che l'imputato non aveva detto il falso, e sulla volontà della Corte di non approfondire il tema della verità dei fatti narrati.
La questione ha un'incidenza anche sulla prova dell'elemento soggettivo del reato, atteso che il dolo dell'agente non era quello di cagionare un'offesa all'onore altrui, ma quello di esprimere una situazione di difficoltà vissuta all'interno del proprio luogo di lavoro.
Il ricorrente conclude per l'annullamento della sentenza impugnata.
Considerato in diritto

1. I motivi di ricorso attengono complessivamente a due diverse questioni: l'attribuibilità al computer dell'imputato dell'invio del messaggio apparso sul sito internet nell'effettivo contenuto riprodotto dalla copia cartacea fornita dall'accusa e parzialmente riprodotto nel capo di imputazione; la natura diffamatoria del messaggio.
2. Quanto alla prima questione, la motivazione della Corte nel sostenere l'attribuzione all'imputato del messaggio apparso sul sito non appare illogica o contraddittoria.
In particolare la Corte valorizza il dato testimoniale per dimostrare che il post apparso sul sito www.ficiesse.it, che S. aveva letto sullo schermo, era sicuramente corrispondente a quello immediatamente stampato su ordine di D., ritenendo del tutto inverosimile l'ipotesi della falsificazione deliberata del messaggio prima di stamparlo; recepisce, inoltre, il dato proveniente dalla perizia dell'ing. S., secondo cui il messaggio cartaceo prodotto dalla difesa non poteva corrispondere a quello apparso sullo schermo, per le sue caratteristiche grafiche. Si tenga presente che i due post sono confezionati, su supporto cartaceo, in modo da risultare sicuramente incompatibili l'uno con l'altro, nel senso che è impossibile che entrambi siano apparsi sullo schermo, in quan to riportano il medesimo numero del visitatore e lo stesso orario, cosicché la Corte doveva scegliere se ritenere genuino l'uno o l'altro e tale scelta ha motivato richiamando entrambi i dati (testimoniale e tecnico).
Anche la motivazione con la quale la Corte ha ritenuto sufficiente l'escussione del teste s. per ritenere provato che il messaggio fosse stato inviato al sito da un determinato indirizzo IP, corrispondente all'utenza telefonica dell'imputato, è adeguata e non manifestamente illogica: la mancanza della relazione scritta della società Aruba che indicava l'indirizzo IP che si era collegato al sito è ritenuta superata dalla relazione del s. che aveva, appunto, interpellato sia la Aruba che la Wind; né l'imputato è stato leso nel suo diritto di difesa per la mancanza della relazione scritta, poiché l'esito delle indagini del Nucleo Speciali Frodi telematiche della Guardia di Finanza di Roma era già stato esposto al P.M. prima della richiesta di rinvio a giudizio.


3. Appaiono, invece, fondati i motivi di ricorso attinenti alla valutazione del contenuto del messaggio asseritamente diffamatorio.
I giudici di merito hanno del tutto svalorizzato il dato della non veridicità dei fatti narrati, benché il richiamo ad essa fosse presente nell'imputazione, che faceva riferimento a "giudizi ed affermazioni non veritieri offensivi della reputazione ..."; la Corte risolve sbrigativamente la questione, rilevando che non era stata contestata all'imputato l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati.

La questione della veridicità dei fatti narrati deve essere diversamente valutata: per quanto compreso, il messaggio completo conteneva l'indicazione di fatti specifici, cosicché - benché (evidentemente per un errore materiale) l'intero contenuto del messaggio non sia stato inserito nell'imputazione - la valutazione delle espressioni menzionate nel capo di imputazione non può prescindere dal resto del messaggio;in altre parole, se, ad esempio, il messaggio conteneva l'indicazione specifica di episodi di vessazione, risulta illogica una valutazione astratta come quella operata dalla Corte, secondo cui l'uso della parola "vessazione" è diffamatoria in ogni caso.

Questo vale anche per il riferimento alla "Gestapo salentina": espressione certamente forte, ma che potrebbe assumere una diversa valenza nel caso fossero provate condotte come quelle menzionate nella missiva del brigadiere G., che riferisce di impiego indebito di un militare disabile da parte degli ufficiali D. e S..
La rilevanza della questione riguarda sia la valutazione del rispetto del criterio di continenza, dovendosi riconoscere anche ai militari della Guardia di Finanza il diritto costituzionale di critica che, peraltro, deve essere esercitato secondo i limiti generali elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, sia - nel caso il giudice ritenesse non rispettato il limite della continenza - la valutazione complessiva della responsabilità dell'imputato e, quindi, della determinazione della pena: ad esempio, potrebbe non risultare più aderente al fatto e alla personalità dell'imputato la valutazione sull'intensità del dolo operata dalla Corte per negare la prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti ritenute.
D'altro canto, la motivazione adottata dalla Corte per respingere la richieta di apertura dell'istruzione dibattimentale su questo argomento è sostanzialmente mancante: la Corte ritiene "fatto inconsueto" la circostanza che il finanziere G.A. abbia fatto pervenire al difensore dell'imputato una lettera in cui rappresenta la veridicità delle accuse; annotazione del tutto priva di contenuto valutativo.

In effetti, l'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. prevede che, in caso di nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice abbia l'obbligo di disporre la loro ammissione, con il solo limite della rilevanza: non si comprende se il riferimento al "fatto inconsueto" corrisponda ad una valutazione preventiva di assoluta inattendibilità della prova (che sarebbe, ovviamente, inammissibile) o alla negazione della natura di prova nuova.
L'escussione del teste G. potrebbe, poi, indurre la Corte a risentire anche testi già escussi, su circostanze diverse da quelle su cui gli stessi avevano già riferito.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con riferimento alla mancata riapertura dell'istruzione dibattimentale, limitatamente alla questione della veridicità dei fatti narrati nel messaggio, nonché alla valutazione della natura diffamatoria del messaggio.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte Militare d'appello.

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