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mercoledì 14 novembre 2018
N. 194 SENTENZA 26 settembre - 8 novembre 2018 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Lavoro - Disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti - Tutela meramente economica dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, licenziati illegittimamente (in assenza di giustificato motivo soggettivo o oggettivo ovvero di giusta causa) - Misura dell'indennita' risarcitoria. - Legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonche' in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), art. 1, comma 7, lettera c); decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), artt. 2, 3 e 4. - (GU n.45 del 14-11-2018 )
N. 194 SENTENZA 26 settembre - 8 novembre 2018
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Lavoro - Disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti -
Tutela meramente economica dei lavoratori assunti con contratto a
tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, licenziati
illegittimamente (in assenza di giustificato motivo soggettivo o
oggettivo ovvero di giusta causa) - Misura dell'indennita'
risarcitoria.
- Legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di
riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e
delle politiche attive, nonche' in materia di riordino della
disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva e di
tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di
lavoro), art. 1, comma 7, lettera c); decreto legislativo 4 marzo
2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo
indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10
dicembre 2014, n. 183), artt. 2, 3 e 4.
-
(GU n.45 del 14-11-2018 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Giuliano AMATO, Silvana
SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto
Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 7,
lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo
in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per
il lavoro e delle politiche attive, nonche' in materia di riordino
della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva e
di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di
lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015,
n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo
indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10
dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Roma,
terza sezione lavoro, nel procedimento vertente tra Francesca Santoro
e Settimo senso s.r.l., con ordinanza del 26 luglio 2017, iscritta al
n. 195 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno
2018.
Visti l'atto di costituzione di Francesca Santoro, nonche' gli
atti di intervento della Confederazione generale italiana del lavoro
(CGIL) e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 25 settembre 2018 il Giudice
relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Amos Andreoni per la Confederazione generale
italiana del lavoro (CGIL), Carlo de Marchis e Amos Andreoni per
Francesca Santoro e l'avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 26 luglio 2017 (reg. ord. n. 195 del 2017),
il Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e
117, primo comma, della Costituzione - questi ultimi due articoli in
relazione all'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul
licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della
relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a
Ginevra dalla Conferenza generale dell'Organizzazione internazionale
del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall'Italia) e
all'art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta
a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la
legge 9 febbraio 1999, n. 30 - questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10
dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli
ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche
attive, nonche' in materia di riordino della disciplina dei rapporti
di lavoro e dell'attivita' ispettiva e di tutela e conciliazione
delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4
del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia
di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Va precisato che l'ordinanza di rimessione aveva indicato quali
disposizioni censurate (in particolare, al secondo rigo del punto 2.
e al secondo rigo del dispositivo), oltre all'art. 7, comma 1,
lettera c), della legge n. 183 del 2014, gli «artt. 2, 4 e 10» del
d.lgs. n. 23 del 2015. Su richiesta della ricorrente nel giudizio a
quo, il giudice rimettente, con provvedimento del 2 agosto 2017,
rilevato che l'ordinanza di rimessione «indica erroneamente sia a
pag. 4 che a pag. 10 gli articoli del D.Lgs. n. 23/2015 sospettati di
incostituzionalita', come si evince chiaramente dal resto della parte
motiva dell'ordinanza, che invece li riporta con esattezza anche nel
contenuto», ha disposto la correzione di questa «nel senso che, nella
seconda riga del parg. 2 e nella seconda riga dopo il "P.Q.M.", in
luogo delle parole "artt. 2, 4 e 10" debbano intendersi scritte le
parole "artt. 2, 3 e 4"». Il provvedimento di correzione di errore
materiale e' stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, prima serie speciale, n. 3 del 17 gennaio 2018, insieme
con l'ordinanza di rimessione.
Va altresi' dato atto che, su richiesta della Cancelleria della
Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica,
prima serie speciale, n. 7 del 14 febbraio 2018, e' stato pubblicato
il seguente avviso di rettifica, relativo all'ordinanza n. 195 del
2017: «Nell'ordinanza citata in epigrafe, emessa dal Tribunale di
Roma, pubblicata nella sopraindicata Gazzetta Ufficiale, alla pag. 41
e seguenti, sia nel titolo che nel testo, il nome della parte nel
giudizio a quo e' Santoro Francesca anziche' Santoro Federica».
1.1.- Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di
essere investito del ricorso proposto da Francesca Santoro avverso il
licenziamento intimatole dalla Settimo senso s.r.l. il 15 dicembre
2015, dopo pochi mesi dall'assunzione, avvenuta l'11 maggio 2015; che
tale licenziamento era basato sulla motivazione che, «a seguito di
crescenti problematiche di carattere economico-produttivo che non ci
consentono il regolare proseguimento del rapporto di lavoro, la Sua
attivita' lavorativa non puo' piu' essere proficuamente utilizzata
dall'azienda. Rilevato che non e' possibile, all'interno
dell'azienda, reperire un'altra posizione lavorativa per poterLa
collocare, siamo costretti a licenziarLa per giustificato motivo
oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604»;
che la societa' convenuta e' rimasta contumace.
Il giudice a quo prende atto che quest'ultima, dichiarata
contumace, non ha adempiuto l'onere di dimostrare la fondatezza della
citata motivazione del licenziamento ne' ha contestato di possedere i
requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della
legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e
dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita'
sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento),
implicitamente allegati dalla ricorrente con l'invocazione della
tutela prevista dall'art. 3 (e non anche dall'art. 9) del d.lgs. n.
23 del 2015.
Cio' premesso, il giudice a quo rappresenta che, poiche' la
lavoratrice ricorrente e' stata assunta dopo il 6 marzo 2015, la
tutela a essa applicabile e' costituita dagli artt. 3 e 4 del d.lgs.
n. 23 del 2015 e, in particolare, dai citati comma 1 dell'art. 3 e
comma unico dell'art. 4.
Invece, per i lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015, la tutela
avverso i licenziamenti illegittimi e' quella prevista dall'art. 18
della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge 28 giugno
2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del
lavoro in una prospettiva di crescita), e, in particolare: dal
settimo comma dell'art. 18, «per il caso di assenza del motivo
oggettivo (definito come difetto di giustificazione, manifesta
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento), che richiama
il comma 4 e il comma 5 a seconda della gravita' del vizio»; dal
sesto comma dell'art. 18, «per il caso di difetto di motivazione».
Cio' esposto, il giudice a quo afferma di ritenere che, «a fronte
della estrema genericita' della motivazione addotta e della assoluta
mancanza di prova della fondatezza di alcune delle circostanze
laconicamente accennate nell'espulsione, il vizio ravvisabile sia il
piu' grave fra quelli indicati, vale a dire la "non ricorrenza degli
estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo"».
Lo stesso giudice osserva quindi che la lavoratrice ricorrente:
se fosse stata assunta prima del 7 marzo 2015, avrebbe usufruito,
applicando il quarto comma dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970,
della tutela reintegratoria e di un'indennita' commisurata a dodici
mensilita' e, applicando il quinto comma dello stesso art. 18, della
tutela indennitaria tra dodici e ventiquattro mensilita'; poiche' e'
stata assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, «ha diritto soltanto a
quattro mensilita', e solo in quanto la contumacia del convenuto
consente di ritenere presuntivamente dimostrato il requisito
dimensionale, altrimenti le mensilita' risarcitorie sarebbero state
due». Il rimettente soggiunge che, «[a]nche nel caso si ravvisasse un
mero vizio della motivazione, la tutela nel vigore dell'art. 18
sarebbe stata molto piu' consistente (6-12 mensilita' risarcitorie a
fronte di 2)».
1.2.- Con riguardo alla non manifesta infondatezza, il
rimettente, prima di esporre piu' diffusamente le ragioni della
violazione dei singoli parametri costituzionali invocati, afferma, in
generale, che i censurati artt. 1, comma 7, lettera c), della legge
n. 183 del 2014 e 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, «priva[no la]
ricorrente di gran parte delle tutele tuttora vigenti per coloro che
sono stati assunti a tempo indeterminato prima del 7.3.2015» e
«preclud[ono] qualsiasi discrezionalita' valutativa del giudice» - in
precedenza esercitabile, ancorche' nel rispetto dei criteri previsti
dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui
licenziamenti individuali) e dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970
- «imponendo[gli] un automatismo in base al quale al lavoratore
spetta, in caso di [...] illegittimita' del licenziamento, la piccola
somma risarcitoria [da essi] prevista».
Lo stesso rimettente anticipa che le successive considerazioni in
tema di non manifesta infondatezza saranno incentrate sul contrasto
delle disposizioni censurate con: l'art. 3 Cost., perche' «l'importo»
dell'indennita' risarcitoria da esse prevista non ha «carattere
compensativo ne' dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie» e
perche' la totale eliminazione della discrezionalita' valutativa del
giudice «finisce per disciplinare in modo uniforme casi molto
dissimili fra loro»; gli artt. 4 e 35 Cost., perche' «al diritto al
lavoro, valore fondante della Carta, e' attribuito un controvalore
monetario irrisorio e fisso»; gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost.,
perche' le sanzioni previste per il licenziamento illegittimo sono
«inadeguat[e]» rispetto a quanto previsto dagli obblighi discendenti,
tra l'altro, dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
e dalla Carta sociale europea.
Il giudice a quo precisa ancora, sempre in via preliminare, che
il contrasto con la Costituzione non e' da lui ravvisato in ragione
dell'eliminazione della tutela reintegratoria - tranne che per i
licenziamenti nulli e discriminatori e per specifiche ipotesi di
licenziamento disciplinare ingiustificato - e, quindi, dell'integrale
monetizzazione della garanzia assicurata al lavoratore, ma in ragione
della disciplina dell'indennita' risarcitoria dettata dagli articoli
censurati. Quest'ultima sostituirebbe la reintegrazione quale
risarcimento in forma specifica e dunque avrebbe dovuto essere «ben
piu' consistente ed adeguata». Il rimettente afferma che la Corte
costituzionale ha piu' volte statuito che la regola generale di
integralita' della riparazione e di equivalenza della stessa al
pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale,
purche' sia garantita l'adeguatezza del risarcimento. Profilo,
quest'ultimo, rispetto al quale la normativa censurata non si
sottrarrebbe al dubbio di legittimita' costituzionale.
1.2.1.- Il rimettente espone, in primo luogo, le ragioni del
contrasto di tale normativa con l'art. 3 Cost.
Egli asserisce anzitutto che la previsione di un'indennita'
«cosi' modesta, fissa e crescente solo in base alla anzianita' di
servizio» non costituisce un adeguato ristoro per i lavoratori
assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 e illegittimamente licenziati.
Tale «regresso di tutela per come irragionevole e sproporzionato
viola l'art. 3 Cost. differenziando tra vecchi e nuovi assunti,
pertanto non soddisfa il test del bilanciamento dei contrapposti
interessi in gioco imposto dal giudizio di ragionevolezza».
La mancanza di «carattere compensativo» dell'indennita' si
evincerebbe da due circostanze. Anzitutto, dal fatto che l'assunzione
della lavoratrice ricorrente ha consentito al datore di lavoro «la
fruizione di uno sgravio contributivo per 36 mesi», previsto dalla
legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di
stabilita' 2015)», di importo molto piu' consistente di quello della
condanna che egli potra' ricevere nel giudizio a quo. In secondo
luogo, dal fatto che la «misura fissa» dell'indennita' non consente
al giudice di valutare in concreto il pregiudizio sofferto dalla
lavoratrice - tenuto conto che la motivazione del licenziamento «e'
tautologica e generica al massimo» - e comporta di «apprestare
identica tutela a situazioni molto dissimili nella sostanza».
Le stesse circostanze sarebbero sintomatiche della mancanza anche
di «carattere dissuasivo» della prevista indennita', dato che, come
detto, il licenziamento illegittimo dopo pochi mesi dall'assunzione
per la quale e' riconosciuto lo sgravio contributivo costituisce un
«affare» per il datore di lavoro. Il rimettente ribadisce quindi
l'inadeguatezza, sul piano dissuasivo e sanzionatorio,
dell'indennita' prevista, il cui importo «contenuto, scisso
dall'effettivo pregiudizio provocato, sottratto, nella sua
quantificazione, alla valutazione del giudice [...] e addirittura
inferiore al correlato beneficio contributivo» non induce le imprese
a condotte virtuose ma si risolve, al contrario, in un incentivo
all'inadempimento dell'impegno da esse assunto con la stipulazione
del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Il rimettente deduce ancora che un tale sistema risulta
discriminatorio nei confronti dei lavoratori assunti, anche nella
stessa azienda, successivamente al 6 marzo 2015, essendo evidente
che, a fronte di un medesimo contratto di lavoro, in caso di
necessita' di ridurre il personale, l'azienda privilegera' sempre il
meno costoso e problematico licenziamento dei lavoratori cui si
applica il regime di tutela previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015. Il
giudice a quo precisa di conoscere l'orientamento della Corte
costituzionale secondo cui «il fluire del tempo puo' costituire un
valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche»
(sentenza n. 254 del 2014), ma ritiene che «la data di assunzione
appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che
in nulla e' idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parita'
di ogni altro profilo sostanziale».
Il giudice a quo afferma poi che l'XI Commissione lavoro «del
Parlamento», nella seduta del 17 febbraio 2015, aveva approvato lo
schema di decreto legislativo, poi divenuto il d.lgs. n. 23 del 2015,
ritenendo tuttavia che, «per i licenziamenti ingiustificati ai quali
non si applica la sanzione conservativa, occorra incrementare la
misura minima e la misura massima dell'indennizzo economico dovuto al
lavoratore»; invito disatteso, pero', dal Governo.
L'irragionevole disparita' di trattamento determinata dalle
disposizioni impugnate emergerebbe dal confronto, oltre che tra
lavoratori assunti prima o a decorrere dal 7 marzo 2015 e tra
«lavoratori licenziati con provvedimenti affetti da illegittimita'
macroscopiche ovvero da vizi meramente formali, tutti
irragionevolmente tutelati, oggi, con un indennizzo del medesimo
importo», anche, «quanto agli assunti dopo il 7.3.2015, fra dirigenti
e lavoratori privi della qualifica dirigenziale, dal momento che i
primi, non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di
indennizzi di importo minimo e massimo ben piu' consistente».
1.2.2.- Il giudice a quo espone, in secondo luogo, le ragioni del
contrasto della normativa denunciata con gli artt. 4, primo comma, e
35, primo comma, Cost. e asserisce che tali parametri non possono
ritenersi rispettati da una normativa come quella denunciata, che
«sostanzialmente "valuta" il diritto al lavoro, [...] strumento di
realizzazione della persona e mezzo di emancipazione sociale ed
economico, con una quantificazione tanto modesta ed evanescente, in
comparazione con la normativa ex lege 92/2012 ancora vigente, ed
oltretutto fissa e crescente in base al parametro della mera
anzianita'».
Il rimettente sottolinea come la tutela contro i licenziamenti
illegittimi trascenda la vicenda del recesso e la tutela della
stabilita' dell'occupazione e del reddito, giacche' sostiene la forza
contrattuale del lavoratore nelle relazioni quotidiane sul luogo di
lavoro e ne protegge le liberta' fondamentali in tale luogo.
Il giudice a quo conclude sul punto affermando di ritenere che la
quantificazione dell'indennita' operata dalle disposizioni censurate
sia costruita «su una consapevole rottura del principio di
uguaglianza e solidarieta' nei luoghi di lavoro»; rottura che ha
effetto anche sugli altri diritti costituzionali dei lavoratori,
quali la liberta' di espressione e sindacale.
1.2.3.- Il rimettente espone infine le ragioni del contrasto
della normativa denunciata con gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost.
Dopo avere richiamato il contenuto dell'art. 35, terzo comma,
Cost., e avere rammentato che l'art. 7, comma 1, della legge di
delegazione n. 183 del 2014 detta il criterio direttivo della
«coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni
internazionali», il giudice a quo asserisce che gli invocati
parametri costituzionali sarebbero violati in relazione: all'art. 30
CDFUE, che «impone [...] di garantire una adeguata tutela in caso di
licenziamento ingiustificato»; alla Convenzione OIL n. 158 del 1982
sul licenziamento (e' citato, in particolare, il testo dell'art. 10
di tale Convenzione); all'art. 24 della Carta sociale europea,
secondo cui, «[p]er assicurare l'effettivo esercizio del diritto ad
una tutela in caso di licenziamento, le Parti s'impegnano a
riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati
senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro
condotta o basato sulle necessita' di funzionamento dell'impresa,
dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori
licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra
adeguata riparazione» (primo comma).
Il giudice a quo rappresenta che la congruita' e l'adeguatezza
del ristoro da garantire ai lavoratori licenziati senza valido motivo
ai sensi di quest'ultima disposizione sono stati oggetto di diverse
decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali che, pur dando
atto che la tutela puo' essere anche solo indennitaria, ha affermato
che il suddetto ristoro deve essere adeguato (dal punto di vista del
lavoratore) e dissuasivo (dal punto di vista del datore di lavoro).
Cio' che confermerebbe, sul piano internazionale, quanto in
precedenza argomentato.
Il rimettente cita, in particolare, le decisioni del 31 gennaio
2017 emesse su due reclami collettivi proposti dalla Finnish Society
of Social Rights contro la Finlandia (reclami n. 106/2014 e n.
107/2014) e relativi alla lamentata violazione dell'art. 24 della
Carta sociale europea da parte delle disposizioni della legge
finlandese che disciplinano, rispettivamente, la responsabilita'
datoriale nel caso di licenziamento illegittimo e le condizioni per
intimare un licenziamento economico. Il rimettente deduce che il
Comitato, dopo avere affermato che, ai sensi del citato art. 24 della
Carta, ai lavoratori licenziati senza un valido motivo deve essere
attribuito un adeguato indennizzo o altro adeguato rimedio, ha
specificato che deve ritenersi adeguata compensazione quella che
include, tra le altre, la compensazione a un livello sufficientemente
elevato per dissuadere il datore di lavoro e risarcire il danno
subito dal dipendente.
Da tali decisioni deriverebbe che, in linea di principio,
qualsiasi limite risarcitorio che precluda una compensazione
commisurata alla perdita subita dal lavoratore e sufficientemente
dissuasiva per il datore di lavoro sarebbe in contrasto con la Carta.
Lo stesso Comitato avrebbe rilevato - sempre secondo il giudice a quo
- che la previsione di un limite massimo dell'indennizzo puo'
condurre a situazioni in cui il risarcimento attribuito al lavoratore
non e' commisurato alla perdita da lui subita; sicche' il
«plafonnement dell'indennita'» integrerebbe una violazione dell'art.
24 della Carta.
Il rimettente rappresenta ancora che lo stesso Comitato europeo
dei diritti sociali, nelle conclusioni del 2016 relative alla
legislazione italiana vigente nel 2014 (e, quindi, alla legge n. 92
del 2012), ha rammentato il divieto di qualunque tetto alle
indennita' riconoscibili al lavoratore tale da determinare che esse
non siano in rapporto con il pregiudizio da lui subito e
sufficientemente dissuasive per il datore di lavoro.
1.3.- Con riguardo alla rilevanza, il rimettente, oltre a
rinviare a quanto esposto in ordine ai fatti di causa, alle ragioni
dell'illegittimita' del licenziamento della ricorrente e alle tutele
a essa spettanti, afferma che l'accoglimento delle questioni
sollevate «consentirebbe [...] di riconoscere alla ricorrente una
tutela compensativa del reale pregiudizio subito, che sarebbe in tal
caso costituita dalla tutela di cui all'art. 18, commi 4 e 7 (in
subordine, comma 5) della legge n. 300/1970 come modificata dalla
legge n. 92/2012».
Il giudice a quo afferma altresi' l'impraticabilita' di
un'interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni
denunciate, in particolare, di quell'interpretazione consistente
nell'ampliare l'ambito applicativo della tutela reintegratoria
stabilita per gli «altri casi di nullita' previsti dalla legge». Tale
opzione costituirebbe, pero', una «forzatura interpretativa
(consentita solo se la Corte costituzionale adita dovesse indicare
tale via con una pronuncia interpretativa di rigetto del quesito)» e,
«[i]n assenza di riscontro nelle conclusioni del ricorso»,
contrasterebbe con il principio che la causa petendi dell'azione
proposta dal lavoratore per contestare la validita' e l'efficacia del
licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimita'
dedotto nel ricorso introduttivo.
1.4.- Il rimettente dichiara quindi rilevanti e non
manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, e
degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 «per contrasto con gli
artt. 3, 4, 76 e 117, comma 1, della Costituzione, letti
autonomamente ed anche in correlazione tra loro».
2.- Si e' costituita nel giudizio Francesca Santoro, ricorrente
nel processo principale, chiedendo che le questioni siano dichiarate
fondate.
La parte costituita indica e argomenta quattro profili di
contrasto con la Costituzione delle disposizioni impugnate.
2.1.- In primo luogo, queste determinerebbero un'ingiustificata
disparita' di trattamento tra i lavoratori assunti con contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015
- per i quali l'art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del
2014 e «gli articoli attuativi contenuti nella delega» prevedono «una
sostanziale modifica peggiorativa delle condizioni di tutela» - e i
lavoratori assunti con identico contratto, anche nella stessa
azienda, prima del 7 marzo 2015.
Secondo la parte costituita, l'affievolimento della tutela
apprestata dalle disposizioni denunciate rispetto a quella
concorrente prevista dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970 sarebbe
evidente ove si consideri che, per il licenziamento economico, dette
disposizioni, da un lato, escludono la reintegrazione e, dall'altro,
stabiliscono che «l'indennizzo nella misura massima si ottiene
decorsi 12 anni di lavoro»; il menzionato art. 18, invece, non
esclude a priori la reintegrazione, mentre «la tutela massima puo'
essere immediatamente accordata in ragione di vari fattori che
concorrono a determinare la misura, permettendo quella "elasticita'"
applicativa che costituisce la regula iuris nel caso concreto tipica
della funzione del magistrato, vanificata dalla riforma».
Operato il raffronto tra le concorrenti e differenti tutele
apprestate, rispettivamente, dalle disposizioni denunciate e
dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, la parte afferma la
mancanza di una ragionevole giustificazione dell'evidenziata
disparita' di trattamento.
A tale proposito, essa sottolinea che il denunciato nuovo sistema
di tutela non introduce un diverso modello di contratto di lavoro
subordinato ma si limita a disciplinare diversamente le conseguenze
sanzionatorie del recesso illegittimo da tale contratto di lavoro,
sicche' le due fattispecie poste a raffronto «sono [...] identiche e
diversificate solo dal distinto e sostanzialmente difforme grado di
tutela».
Il fattore di differenziazione del medesimo rapporto di lavoro
«sul quale insistono i due diversi regimi sanzionatori» e' dunque
costituito «dal decorso del tempo che separa i due interventi
normativi». Tale fattore, tuttavia, «non assume [...] rilevanza ai
fini della disparita' normativa», atteso che «non ha generato alcun
elemento di valida "novita'" nel rapporto di lavoro».
La parte ritiene dunque che il tempo, «ove non abbia
concretamente determinato una modifica delle condizioni di
applicazione della normativa modificata, non rappresenta, quindi, una
valida ragione per giustificare un trattamento differenziato che
diviene, pertanto, irragionevole con riferimento a identici rapporti
contestuali ma assoggettati a diverse sanzioni».
2.2.- In secondo luogo, le disposizioni censurate sarebbero in
se' irragionevoli «rispetto alla finalita' dichiarata e agli effetti
prodotti», atteso che, costituendo una tutela del tutto inadeguata,
inidonea a dissuadere il datore di lavoro dall'intimare licenziamenti
non conformi al paradigma normativo, lo stesso datore di lavoro
esercitera' il potere di recesso «sulla base di una valutazione
soggettiva di convenienza e non oggettiva dell'esigenza».
Risulterebbe allora evidente l'intrinseca irragionevolezza della
normativa denunciata rispetto al fine di «rafforzare le opportunita'
di ingresso nel mondo del lavoro». Essa, infatti, lungi dal favorire
l'ingresso in una realta' aziendale, «incentiva, viceversa,
l'estromissione» del lavoratore assunto dopo il 6 marzo 2015, non
bilanciando adeguatamente gli effetti dell'insufficiente garanzia del
posto di lavoro sugli altri diritti fondamentali della persona
coinvolti in un rapporto di durata connotato in senso fortemente
gerarchico e verticistico; i quali vengono, cosi', del tutto
sacrificati.
L'intrinseca irrazionalita' della normativa censurata rispetto al
suo obiettivo dichiarato sarebbe evidente, atteso che il legislatore
avrebbe depotenziato la sanzione posta a presidio della legittimita'
del recesso datoriale «in una prospettiva a favore dell'iniziativa
privata, non controbilanciata da concreti risultati occupazionali,
con sacrifici abnormi di pari e contrapposti diritti sociali».
2.3.- In terzo luogo, le disposizioni censurate sarebbero in se'
irragionevoli «rispetto all'omesso bilanciamento di valori
costituzionali coinvolti».
Premesso che la giustificazione del licenziamento corrisponde a
un valore costituzionale, la parte afferma che la previsione di un
risarcimento tanto modesto e inadeguato, limitando la tutela efficace
a fattispecie marginali o a rapporti di lunga durata, non costituisce
un corretto bilanciamento dei diritti costituzionali che spettano al
lavoratore a prescindere dalla sua anzianita' lavorativa, per il solo
fatto di vantare la titolarita' di un diritto sociale in virtu' del
rapporto in essere. Infatti, la radicale assenza di protezione contro
il licenziamento ingiustificato, che rende vano il principio della
causalita' del recesso, specie per i neo assunti, comporta che il
diritto al lavoro, nella sua connotazione di garanzia di stabilita',
venga sottoposto a un sacrificio sproporzionato.
La sanzione contro il licenziamento ingiustificato, che assicura
un ristoro inadeguato, costituirebbe, in effetti, «una misura
repressiva irragionevole rispetto al bene protetto perche' priva la
norma a presidio del diritto del carattere di proporzionalita' e di
concreta efficacia dissuasiva alla violazione»; irragionevolezza che
riguarderebbe sia «l'entita' che [...] la rigidita' intrinseca del
modello».
Ne consegue - sempre ad avviso della parte costituita - che
«[l]'unico interesse effettivamente "protetto" finisce per essere
quello del datore di lavoro (e quindi dell'iniziativa privata)»; in
specie, l'interesse «a vedere consolidati gli effetti della sua
iniziativa organizzativa e prescindendo dalle condizioni di
legittimita' sulla base di una sanzione inadeguata che rende
discrezionale un potere, viceversa, vincolato». Sarebbe, infatti,
incontestabile che la prevista misura indennitaria, «nel suo
automatismo, svincolata dagli effetti concretamente verificatisi
dalla condotta e dalle caratteristiche che connotano il
licenziamento», vanifica il contrapposto interesse del lavoratore al
mantenimento del posto di lavoro, tutelato dagli artt. 1, 4 e 35
Cost.
La degradazione della tutela del lavoro operata dagli artt. 3 e 4
del d.lgs. n. 23 del 2015, basati su un «meccanismo "anonimo" di
monetizzazione», si porrebbe, pertanto, in evidente collisione con la
promozione del lavoro e la garanzia di stabilita' del relativo
rapporto imposte dagli artt. 4 e 35 Cost.
L'assenza di gradazione della tutela, assicurata mediante
automatismi legislativi che privano l'ordinamento di un'effettiva
capacita' di reazione alle violazioni, e la misura inadeguata
dell'indennizzo violerebbero «il principio di uguaglianza che esige
[...] che la sanzione sia proporzionata al disvalore e alle
conseguenze del fatto illecito commesso». La sanzione prevista,
«improntata su un sistema di tetti progressivi legati a un fattore
neutro, quale l'anzianita' lavorativa», da un lato, impedirebbe ogni
valutazione e gradazione rispetto all'effettiva lesione causata, al
disvalore dell'atto e alle circostanze del caso concreto, dando luogo
a un sistema connotato da irragionevolezza intrinseca, dall'altro,
renderebbe «pressoche' privo di una adeguata causalita' il potere di
recesso che, non adeguatamente sanzionato, non trova di fatto limiti
al suo esercizio».
2.4.- Infine, le disposizioni denunciate violerebbero i
«parametri della legge delega rappresentati dal rispetto della
regolazione dell'Unione europea e delle convenzioni internazionali
nonche' degli art. 10 e 117 Cost.».
La parte afferma anzitutto che l'art. 1, comma 7, lettera c),
della legge di delegazione n. 183 del 2014, nello stabilire, come
parametro per l'esercizio della delega, «per le nuove assunzioni», un
modello sanzionatorio «crescente con l'anzianita' di servizio» e
«certo» nell'ammontare del «plafond», con esclusione, per i
licenziamenti economici, della reintegrazione del lavoratore nel
posto di lavoro, fornirebbe al legislatore delegato criteri direttivi
in contrasto con i principi di effettivita', adeguatezza e
dissuasivita' della misura sanzionatoria stabiliti dalle norme
dell'Unione europea e dai trattati internazionali, che pure la stessa
legge di delegazione, contraddittoriamente, richiama. Ne consegue che
tale legge presenta «in se'» i vizi di costituzionalita' evidenziati
dal rimettente, perche' impone principi e criteri direttivi in
contrasto con i parametri dallo stesso invocati.
I censurati artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015,
nell'attuare una delega illegittima, in quanto in contrasto con le
norme internazionali pur da essa stessa richiamate, si pongono
necessariamente in conflitto con tali norme internazionali
interposte, che sono tenuti a rispettare.
Sulla base di tali considerazioni, la parte afferma di
condividere la scelta, operata dal giudice a quo, di censurare sia la
legge di delegazione che il decreto delegato.
Quanto al merito di tali censure, la parte afferma che i
«principi di effettivita', deterrenza e adeguatezza della sanzione»,
violati dalla normativa denunciata, costituiscono i parametri che, a
livello sia interno sia internazionale, connotano le norme a tutela
del posto di lavoro; principi che risulterebbero dall'art. 24 della
Carta sociale europea, le cui previsioni «assumono diretta efficacia
nell'ordinamento interno quale norma interposta».
Le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali avrebbero
individuato, quali requisiti che devono caratterizzare la misura
sanzionatoria, quelli di adeguatezza, effettivita' e dissuasivita'
(nei confronti del datore di lavoro).
Il carattere universale del diritto sociale affermato dal
Comitato europeo dei diritti sociali sarebbe alla base della
valutazione dello stesso che, ai fini della tutela, non rilevano le
dimensioni dell'azienda (la parte cita, in proposito, le Conclusioni
2003 del Comitato, riguardanti l'art. 24 della Carta sociale europea
in riferimento alla Bulgaria). A maggior ragione, si dovrebbe
ritenere che «il "valore" del diritto universale fondamentale non
puo' [...] variare, sulla base di tetti prestabiliti, in ragione
dell'anzianita' lavorativa», dovendo, invece, la tutela assicurata a
un tale diritto «garantire un valore in se' che nella sua assolutezza
non puo' essere limitata da aspetti estranei al suo riconoscimento».
In tale prospettiva, un sistema caratterizzato da un «plafond»
progressivo legato all'anzianita' di servizio, come quello imposto
dalla legge di delegazione e attuato dal d.lgs. n. 23 del 2015,
sarebbe incompatibile con la Carta sociale europea atteso che il
Comitato europeo dei diritti sociali avrebbe ritenuto che «ogni
risarcimento per licenziamento illegittimo deve essere proporzionale
alla perdita subita dal danneggiato e sufficientemente dissuasivo per
il datore di lavoro. E' vietato qualunque tetto nella misura della
compensazione che precluda la valutazione di danni e renda non
dissuasiva la sanzione si ponga come ostacolo alla valutazione del
danno».
E' infine citata la decisione del 31 gennaio 2017, emessa sul
reclamo collettivo proposto dalla Finnish Society of Social Rights
contro la Finlandia (reclamo n. 106/2014), nella quale il Comitato
avrebbe affermato l'incompatibilita' con la Carta sociale europea di
una normativa che preveda la reintegrazione nel posto di lavoro solo
nel caso di licenziamenti discriminatori e che - come quella
censurata - introduca un meccanismo sanzionatorio indennitario
caratterizzato da un tetto e dall'esclusione dell'azione contrattuale
generale civilistica.
Secondo la parte costituita, i rapporti del Comitato europeo dei
diritti sociali - sia quelli sui rapporti periodici presentati dagli
Stati contraenti sull'applicazione della Carta, sia quelli sui
reclami collettivi - costituirebbero atti interpretativi del
contenuto materiale, vivente e dinamico, della Carta, vincolanti per
gli stessi Stati con riguardo all'ampiezza e ai contenuti dei diritti
sociali previsti dalla Carta.
La parte ricorda ancora che, ai sensi dell'art. 151 del Trattato
sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), i diritti definiti
nella Carta sociale europea sono «tenuti presenti» dall'Unione
europea e dagli Stati membri nell'ambito della politica sociale
dell'Unione.
La stessa parte rappresenta poi che il sistema sanzionatorio
previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015, in particolare, quello stabilito
dalle disposizioni censurate dal giudice a quo, e' stato oggetto di
un reclamo collettivo - presentato ai sensi del Protocollo
addizionale alla Carta sociale europea che prevede un sistema di
reclami collettivi, fatto a Strasburgo il 9 novembre 1995, ratificato
e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 298 - ai fini della
verifica della sua compatibilita' con la Carta.
Il principio di adeguatezza della tutela avverso il licenziamento
illegittimo sarebbe poi sancito, nell'ordinamento dell'Unione
europea, dall'art. 30 CDFUE.
Ne' si potrebbe negare la sussistenza, nelle disposizioni
denunciate, di una «fattispecie europea», atteso che esse
costituiscono l'attuazione del modello di flexsecurity promosso
dall'Unione europea e oggetto di numerose raccomandazioni e «trovano
applicazione anche con riferimento ai licenziamenti economici
comprensivi di quelli collettivi, attuativi della direttiva
comunitaria 98/59/CE».
Infine, anche la Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul
licenziamento, come interpretata dal Consiglio di amministrazione
dell'Organizzazione, nel privilegiare la reintegrazione nel posto di
lavoro, stabilisce il principio di effettivita' della misura
risarcitoria, in quanto idonea a garantire un ristoro effettivo e
adeguato del danno subito dal lavoratore in conseguenza della lesione
del suo diritto fondamentale.
La necessaria adeguatezza della sanzione assumerebbe «diretta
rilevanza come obbligo per lo Stato di non attuare, nelle more della
ratifica [della Convenzione], una legislazione in contrasto con
l'obbligazione assunta a livello internazionale».
La parte afferma quindi che il «combinato disposto degli art. 3 e
4 [del d.lgs. n. 23 del 2015] letti autonomamente anche in concorso
con la legge delega» introduce un sistema di tutela inadeguato, che
contrasta con l'obbligo internazionale, sancito dalle tre fonti
invocate, di «assicurare la piena tutela satisfattiva di un diritto
sociale fondamentale assicurando al contempo una adeguata funzione
deterrente».
3.- E' intervenuta la Confederazione generale italiana del lavoro
(CGIL), chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
fondate.
3.1.- La CGIL afferma anzitutto la rilevanza e l'idoneita' del
petitum delle questioni sollevate.
3.2.- La stessa Confederazione argomenta poi la propria
legittimazione a intervenire nel giudizio di legittimita'
costituzionale, ancorche' non sia stata parte del giudizio a quo.
Essa asserisce, in particolare, che l'interesse qualificato,
immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio,
idoneo a legittimare tale intervento, ben puo' consistere in un
interesse che si distingue da quelli di cui sono titolari le parti
del giudizio a quo, per il suo carattere collettivo o comunque sopra
individuale, di rilievo pubblicistico e costituzionale; interesse
che, come tale, viene a essere direttamente inciso dall'esito del
giudizio davanti alla Corte costituzionale.
Tanto premesso, la CGIL riporta il contenuto dagli artt. 4 e 13
del proprio statuto, approvato l'8 maggio 2014, nonche' la delibera
10, attuativa dello stesso.
In aggiunta, l'interveniente sottolinea che una disciplina
vincolistica dei licenziamenti e un'efficace sanzione dei recessi
illegittimi, oltre a garantire l'effettivita' dei diritti individuali
afferenti al rapporto di lavoro, consente il libero dispiegarsi
dell'azione sindacale senza i severi condizionamenti datoriali che
sono propri dei rapporti resolubili ad nutum. Il tema posto
all'attenzione della Corte costituzionale dall'ordinanza di
rimessione presenterebbe dunque un «indissolubile intreccio tra
diritti individuali e diritti collettivi».
La CGIL rappresenta ancora come lo Stato sociale riconosca ai
gruppi non solo la dignita' di formazioni sociali, ai sensi dell'art.
2 Cost., ma anche il «diritto alla autotutela come il potere di agire
non solo per la promozione degli interessi del gruppo (collettivi)
ma, attraverso la contrapposizione e la composizione degli interessi
delle collettivita' professionali, anche per la modificazione dei
rapporti di organizzazione economica e sociale interne allo
stato-comunita'». Cio' costituirebbe una ragione in piu' per
ammettere l'intervento adesivo.
3.3.- Quanto al merito delle questioni, la CGIL prospetta
deduzioni identiche a quelle della parte costituita.
4.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate non
fondate.
L'interveniente deduce che, con la tutela prevista all'art. 3,
comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 per il caso in cui venga accertato
che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, il legislatore ha inteso «riequilibrare i rapporti
tra datore di lavoro e lavoratore con il ridimensionamento della
tutela c.d. reale della reintegrazione del lavoratore nel posto di
lavoro».
Il Presidente del Consiglio dei ministri nega che, in tale
quadro, siano riscontrabili i vizi di legittimita' costituzionale
denunciati dal rimettente, atteso che rientrerebbe nella sfera di
discrezionalita' del legislatore la determinazione dell'indennita'
risarcitoria, da porre a carico del datore di lavoro, nella misura
compresa tra un minimo e un massimo.
Il Presidente del Consiglio dei ministri sottolinea che la Corte
costituzionale ha affermato, da un lato, che la regola generale di
integralita' della riparazione e di equivalenza della stessa al
pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale
(e' citata la sentenza n. 148 del 1999), purche' sia garantita
l'adeguatezza del risarcimento (sono citate le sentenze n. 303 del
2011, n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991); dall'altro, che la tutela
reintegratoria non costituisce l'unico paradigma attuativo degli
artt. 4 e 35 Cost. (e' nuovamente citata la sentenza n. 303 del
2011).
L'interveniente passa poi a esaminare le singole censure mosse
dal giudice a quo alle disposizioni denunciate.
Egli esamina anzitutto la censura basata sul fatto che
l'indennita' risarcitoria da queste prevista in misura fissa non
avrebbe carattere compensativo perche' l'assunzione della ricorrente
nel giudizio a quo ha consentito al datore di lavoro di fruire dello
sgravio contributivo previsto dalla legge n. 190 del 2014. Il
Presidente del Consiglio dei ministri osserva anzitutto che, nel caso
di specie, il beneficio goduto dalla societa' resistente nel giudizio
a quo, corrispondente ai contributi previdenziali per il periodo di
sette mesi dal cui versamento e' stata esonerata, non e' superiore
all'indennizzo dovuto alla lavoratrice ai sensi dell'art. 3 del
d.lgs. n. 23 del 2015, che ammonta a quattro mensilita'. In ogni
caso, il rapporto tra lo sgravio contributivo usufruito dal datore di
lavoro e l'indennizzo da lui eventualmente dovuto per il
licenziamento ingiustificato non assumerebbe alcuna rilevanza ai fini
della valutazione della costituzionalita' delle disposizioni
impugnate, atteso che detto sgravio e' stato previsto in misura piena
solo per i rapporti di lavoro costituiti nel 2015 (art. 1, commi 118
e 119, della legge n. 190 del 2014) e nella misura ridotta del 40 per
cento per i rapporti di lavoro costituiti nel 2016 (art. 1, comma
178, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge
di stabilita' 2016)»).
Quanto alla censura della disparita' di trattamento tra
lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 e lavoratori assunti
prima di tale data, l'interveniente richiama l'orientamento della
giurisprudenza costituzionale secondo cui non contrasta con il
principio di eguaglianza la previsione di un trattamento
differenziato applicato alle stesse fattispecie ma in momenti
temporalmente diversi, dato che il fluire del tempo puo' costituire
un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche.
Infine, quanto alla denunciata inadeguatezza - anche in relazione
alla CDFUE, alla Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento e
alla Carta sociale europea - della forma e della misura della
riparazione prevista dalle disposizioni censurate, l'interveniente
rappresenta che l'indennita' da queste stabilita «e' superiore
rispetto a quanto previsto nella maggior parte degli altri Paesi
Europei».
5.- In prossimita' dell'udienza pubblica, la ricorrente nel
giudizio a quo ha depositato una memoria con la quale, dopo avere
argomentato l'ammissibilita' delle questioni sollevate, ne ribadisce
la fondatezza sotto tutti i profili prospettati nel proprio atto di
costituzione in giudizio.
La stessa parte costituita evidenzia che, nelle more del giudizio
di legittimita' costituzionale, e' intervenuto il decreto-legge 12
luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignita' dei
lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella
legge 9 agosto 2018, n. 96, il cui art. 3, comma 1, ha modificato il
censurato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in particolare,
elevando le misure minima e massima dell'indennita' prevista da tale
disposizione, rispettivamente, da quattro a sei e da ventiquattro a
trentasei mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR).
Ad avviso della parte, peraltro, tale ius superveniens non
«incide [...] ai fini del giudizio di legittimita' costituzionale»
atteso che, da un lato, «[l]a fattispecie rimessa al giudice a quo
dovra' [...] essere [...] decisa ratione temporis sulla base della
disciplina oggetto del giudizio di rimessione», dall'altro, che «la
struttura anelastica e per tetti [...] propria del d.lgs. 23/2015
[...] rimane invariata nella "filosofia" del d.l. 87/18 mentre la
tutela massima di 36 mensilita' trovera' attuazione solo nei
confronti di rapporti di lavoro instaurati nel 2015 e cessati nel
2030».
6.- In prossimita' della pubblica udienza, anche la CGIL ha
depositato una memoria con la quale, dopo avere ribadito la propria
legittimazione a intervenire nel giudizio di legittimita'
costituzionale e ulteriormente argomentato l'ammissibilita' delle
questioni sollevate, ne riafferma la fondatezza sotto tutti i profili
prospettati nel proprio atto di intervento, precisandoli
ulteriormente.
Anche ad avviso della CGIL l'emanazione del decreto-legge n. 87
del 2018 «e' irrilevante per il caso in discussione in ragione
dell'applicabilita' del decreto ai licenziamenti comminati
successivamente alla data della sua pubblicazione».
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale: dell'art. 1,
comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al
Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei
servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonche' in materia di
riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita'
ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita
e di lavoro); e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo
2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo
indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10
dicembre 2014, n. 183).
1.1.- L'art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014,
al dichiarato «scopo di rafforzare le opportunita' di ingresso nel
mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di
occupazione», delego' il Governo ad adottare uno o piu' decreti
legislativi, «in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le
convenzioni internazionali», nel rispetto dei principi e criteri
direttivi della «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a
tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianita' di
servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilita'
della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo
un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianita' di
servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti
nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento
disciplinare ingiustificato, nonche' prevedendo termini certi per
l'impugnazione del licenziamento».
Gli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 - adottato dal
Governo nell'esercizio di tale delega - dettano il regime di tutela
del lavoratore contro i licenziamenti, rispettivamente,
«discriminatorio, nullo e intimato in forma orale» (art. 2), «per
giustificato motivo e giusta causa» quando si accerti che non
ricorrono gli estremi di tali causali (art. 3) e affetto da «[v]izi
formali e procedurali» (art. 4).
Come previsto, in generale, per il regime di tutela contro i
licenziamenti illegittimi introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015, anche
i denunciati artt. 2, 3 e 4 si applicano ai lavoratori, con
«qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di
entrata in vigore del [...] decreto» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n.
23 del 2015); quindi, ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato
instaurati a decorrere dal 7 marzo 2015. Ai lavoratori assunti prima
di tale data continua pertanto ad applicarsi il "precedente" regime
dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela
della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e
dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge 28
giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato
del lavoro in una prospettiva di crescita).
1.2.- Ad avviso del rimettente, le disposizioni denunciate,
prevedendo che, nei casi di licenziamento illegittimo, al lavoratore
assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a
decorrere dal 7 marzo 2015 spetta un'indennita' «in misura [...]
modesta», stabilita in modo «automati[co]» - con esclusione, quindi,
di «qualsiasi discrezionalita' valutativa del giudice» - e, in
particolare, «crescente solo in base alla anzianita' di servizio»,
contrastano con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e
117, primo comma, della Costituzione.
1.2.1.- Con riferimento all'art. 3 Cost., il giudice a quo
prospetta quattro distinti profili di illegittimita' costituzionale.
Con il primo, lamenta che le disposizioni denunciate violano il
principio di eguaglianza perche' tutelano i lavoratori assunti a
decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore
rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale
data - i quali continuano a godere del piu' favorevole regime di
tutela previsto dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, come
modificato dall'art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012 -,
considerato che «la data di assunzione appare come un dato
accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla e' idoneo a
differenziare un rapporto da un altro a parita' di ogni altro profilo
sostanziale».
Con il secondo profilo, deduce che le stesse disposizioni violano
il principio di eguaglianza anche perche', nell'ambito degli assunti
a decorrere dal 7 marzo 2015, tutelano i lavoratori privi di
qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto
ai dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina,
continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben
piu' consistente».
Con il terzo profilo, viene dedotto che le disposizioni censurate
violano, ancora una volta, il principio di eguaglianza perche' il
carattere «fiss[o] e crescente solo in base all'anzianita' di
servizio» dell'indennita' da esse prevista comporta anche che
«situazioni molto dissimili nella sostanza» (quanto, in particolare,
alla gravita' del pregiudizio subito dal lavoratore) vengano tutelate
in modo ingiustificatamente identico.
Con il quarto profilo, e' dedotta l'irragionevolezza delle
disposizioni censurate perche' l'indennita' da esse prevista, in
quanto «modesta, fissa e crescente solo in base all'anzianita' di
servizio», non costituisce ne' un adeguato ristoro del concreto
pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento
illegittimo ne' un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal
licenziare illegittimamente, sicche' «non [e'] soddisfa[tto] il test
del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco».
1.2.2.- Con riferimento agli artt. 4, primo comma, e 35, primo
comma, Cost., il giudice a quo deduce che la normativa denunciata non
puo' ritenersi rispettosa del valore attribuito al lavoro da tali
parametri costituzionali giacche' «sostanzialmente "valuta" il
diritto al lavoro [...] con una quantificazione [...] modesta ed
evanescente [...] ed oltretutto fissa e crescente in base al
parametro della mera anzianita'» e considerato anche che «[l]e tutele
dei licenziamenti [...] sostengono la forza contrattuale del
lavoratore nella relazione quotidiana sul luogo di lavoro» e
«protegg[ono] le liberta' fondamentali di lavoratrici e lavoratori»
in tale luogo.
1.2.3.- Con riferimento, infine, agli artt. 76 e 117, primo
comma, Cost., il rimettente deduce che le disposizioni denunciate non
rispettano, quanto all'art. 76 Cost., il criterio direttivo, dettato
dall'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, della «coerenza
con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni
internazionali» e, quanto all'art. 117, primo comma, Cost., i
«vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali», perche' si pongono in contrasto con le norme
dell'Unione europea e internazionali che sanciscono il diritto del
lavoratore «a una tutela efficace nei confronti di un licenziamento
[...] ingiustificato».
I suddetti parametri costituzionali sarebbero violati, in
particolare, per il tramite di tre norme interposte.
Anzitutto, per il tramite dell'art. 30 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che, con
lo stabilire che «[o]gni lavoratore ha il diritto alla tutela contro
ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto
dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali», «impone agli
Stati membri di garantire una adeguata tutela in caso di
licenziamento ingiustificato».
In secondo luogo, per il tramite dell'art. 10 della Convenzione
sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della
relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a
Ginevra dalla Conferenza generale dell'Organizzazione internazionale
del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall'Italia),
la' dove stabilisce che se il giudice o l'organismo arbitrale
competenti che abbiano reputato ingiustificato il licenziamento non
hanno il potere di annullarlo, e/o di ordinare o di proporre la
reintegrazione del lavoratore, o non ritengono che cio' sia possibile
nella situazione data, «dovranno essere abilitati ad ordinare il
versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di
riparazione considerata come appropriata».
In terzo luogo, per il tramite dell'art. 24 della Carta sociale
europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996,
ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30,
secondo cui, «[p]er assicurare l'effettivo esercizio del diritto ad
una tutela in caso di licenziamento, le Parti s'impegnano a
riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati
senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro
condotta o basato sulle necessita' di funzionamento dell'impresa,
dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori
licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra
adeguata riparazione» (primo paragrafo).
2.- Per prima cosa, deve essere confermata la dichiarazione di
inammissibilita' dell'intervento spiegato dalla Confederazione
generale italiana del lavoro (CGIL), per le ragioni esposte
nell'ordinanza letta nel corso dell'udienza pubblica e allegata alla
presente sentenza.
3.- In linea preliminare, occorre rilevare che, successivamente
all'ordinanza di rimessione, e' entrato in vigore il decreto-legge 12
luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignita' dei
lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella
legge 9 agosto 2018, n. 96. Tale decreto, all'art. 3, comma 1, ha
modificato una delle disposizioni oggetto del presente giudizio, e
cioe' l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente
alla parte in cui stabilisce il limite minimo e il limite massimo
entro cui e' possibile determinare l'indennita' da corrispondere al
lavoratore ingiustamente licenziato. Il citato art. 3, comma 1, del
d.l. n. 87 del 2018 ha innalzato tali limiti, rispettivamente, da
quattro a sei mensilita' (limite minimo) e da ventiquattro a
trentasei mensilita' (limite massimo) dell'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR).
Il rimettente denuncia l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015, in quanto dispone che il giudice, una volta accertato che non
ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa,
condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennita', non
assoggettata a contribuzione previdenziale, che deve essere di
importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, entro una soglia
minima e una soglia massima.
Non e' dunque il quantum delle soglie minima e massima entro cui
puo' essere stabilita l'indennita' al cuore delle doglianze, ma il
meccanismo di determinazione dell'indennita', configurato dalla norma
censurata. Il rimettente lamenta, infatti, che la norma in esame
introduce un criterio rigido e automatico, basato sull'anzianita' di
servizio, tale da precludere qualsiasi «discrezionalita' valutativa
del giudice», in violazione dei principi di eguaglianza e di
ragionevolezza, in quanto in contrasto con l'esigenza di assicurare
un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore,
nonche' un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare
ingiustamente.
Poiche' il contenuto della novella legislativa e' circoscrivibile
entro questi confini, ben puo' questa Corte autonomamente valutare in
che misura lo ius superveniens incida sul presente giudizio
incidentale e se si spinga fino a modificare «la norma censurata
quanto alla parte oggetto delle censure di legittimita'
costituzionale» (sentenza n. 125 del 2018). Nel caso in esame non e'
stato intaccato il meccanismo contestato, sicche' non mutano i
termini essenziali della questione posta dal giudice a quo.
Tanto basta per escludere la necessita' di restituire gli atti al
giudice rimettente perche' valuti la permanenza o no dei dubbi di
legittimita' costituzionale espressi nell'ordinanza di rimessione.
4.- Prima di esaminare le questioni di legittimita'
costituzionale sollevate, va rilevato che, nel proprio atto di
costituzione in giudizio, Francesca Santoro ha dedotto
l'irragionevolezza delle disposizioni censurate sotto il profilo,
ulteriore rispetto a quelli indicati nell'ordinanza di rimessione,
che esse sarebbero inidonee a conseguire lo scopo dichiarato di
«rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte
di coloro che sono in cerca di occupazione».
Tale censura si traduce in una questione non sollevata dal
giudice rimettente ed e', percio', inammissibile.
Infatti, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte,
«"l'oggetto del giudizio di legittimita' costituzionale in via
incidentale e' limitato alle disposizioni e ai parametri indicati
nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in
considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalita'
dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a
quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto
delle stesse ordinanze" (ex plurimis, sentenze n. 251 del 2017, n.
214 del 2016, n. 231 e n. 83 del 2015)» (sentenza n. 4 del 2018,
punto 2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n.
29 del 2017).
5.- Sempre in via preliminare, devono essere esaminati,
d'ufficio, alcuni profili che attengono all'ammissibilita' delle
questioni sollevate dal giudice rimettente.
5.1.- Anzitutto, e' necessario verificare, alla luce di quanto
risulta dall'ordinanza di rimessione, l'effettiva applicabilita' nel
giudizio a quo delle diverse disposizioni denunciate e,
conseguentemente, l'effettiva rilevanza delle questioni di
costituzionalita' delle stesse.
Va osservato che, nel descrivere la fattispecie al suo esame, il
giudice rimettente espone che la lavoratrice ricorrente era stata
licenziata, il 15 dicembre 2015, «per giustificato motivo oggettivo
ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604» e aveva
impugnato il licenziamento «invoca[ndo] la tutela di cui all'art. 3
del D.Lgs. 23/2015». Lo stesso rimettente afferma poi di ritenere
che, «a fronte della estrema genericita' della motivazione addotta e
della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle
circostanze laconicamente accennate nell'espulsione, il vizio
ravvisabile sia il piu' grave fra quelli indicati, vale a dire la
"non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo"» e che, poiche' la lavoratrice ricorrente e' stata
assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, «ha diritto soltanto a quattro
mensilita'».
Dall'esposizione del giudice a quo si evince in modo
inequivocabile che il giudizio principale ha a oggetto un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che la lavoratrice
ricorrente ha chiesto la tutela prevista dall'art. 3 del d.lgs. n. 23
del 2015 per i casi in cui non ricorrono gli estremi, tra le altre,
di tale causale e che anche il rimettente ritiene che il caso
sottoposto al suo esame sia inquadrabile in tale fattispecie e
comporti la tutela («quattro mensilita'») di cui all'art. 3 (comma 1)
del d.lgs. n. 23 del 2015, nel testo originario.
5.1.1.- Alla luce di questi elementi, quali emergono dalla stessa
ordinanza di rimessione, e' del tutto evidente l'inapplicabilita' nel
giudizio a quo dell'art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.
Quest'ultimo, infatti, stabilisce la tutela per i casi di
licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale,
completamente estranei allo stesso giudizio.
Da cio' l'irrilevanza delle questioni aventi a oggetto l'art. 2
del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.2.- Parimenti inapplicabile nel giudizio a quo e' l'art. 4
del d.lgs. n. 23 del 2015.
Questo articolo, infatti, stabilisce la tutela per le ipotesi, in
esso indicate, di vizi formali e procedurali del recesso datoriale,
anch'esse estranee al medesimo giudizio.
E' lo stesso rimettente a considerare il vizio formale di
motivazione del licenziamento in termini di mera ipotesi, ipotesi che
egli stesso pero' scarta, in favore del vizio sostanziale della «non
ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo».
Da cio' l'irrilevanza anche delle questioni aventi a oggetto
l'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.3.- Passando all'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, nonostante
il rimettente lo censuri nella sua interezza, risulta evidente che
egli non deve fare applicazione ne' del comma 2 ne' del comma 3 di
tale articolo. Comunque, egli non fornisce alcuna motivazione sul
perche' debba fare applicazione degli stessi.
5.1.3.1.- Quanto al comma 2, esso stabilisce la tutela per i casi
di «licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta
causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza
del fatto materiale contestato al lavoratore», cioe' per fattispecie
diverse da quella oggetto del giudizio a quo. Inoltre, il comma 2
dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 prevede una tutela che consiste
nell'annullamento del licenziamento e nella condanna del datore di
lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre che al pagamento di
un'indennita'. Si tratta di una tutela completamente diversa da
quella, meramente monetaria, che lo stesso rimettente afferma di
dovere applicare, prevista non dal comma 2 ma dal comma 1 dell'art. 3
del d.lgs. n. 23 del 2015.
Da cio' l'irrilevanza delle questioni aventi a oggetto il comma 2
di tale articolo.
5.1.3.2.- Quanto al comma 3, esso stabilisce che al licenziamento
dei lavoratori che, a norma dell'art. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015,
rientrano nel campo di applicazione di tale decreto, «non trova
applicazione l'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e
successive modificazioni».
Questo articolo, come sostituito dall'art. 1, comma 40, della
legge n. 92 del 2012, prevede che il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo disposto dai datori di lavoro che hanno i requisiti
dimensionali di cui all'art. 18, ottavo comma, della legge n. 300 del
1970, deve essere preceduto da una procedura preventiva conciliativa
obbligatoria. Il comma 3 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015
dispone dunque che tale procedura non si applica ai licenziamenti per
giustificato motivo oggettivo, rientranti nel campo di applicazione
del d.lgs. n. 23 del 2015.
Sul perche' debba fare applicazione di tale comma, il rimettente
nulla dice.
Sotto altro profilo, non spiega neppure perche' dubiti che esso
contrasti con i parametri costituzionali invocati. Nulla si
eccepisce, in effetti, a proposito dell'esclusione dell'applicazione
dell'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui
licenziamenti individuali) ai licenziamenti per giustificato motivo
oggettivo che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23
del 2015, prevista dal comma 3 dell'art. 3 di tale decreto.
Da cio' l'inammissibilita', per difetto di motivazione sulla
rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, delle questioni aventi
a oggetto il comma 3 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.4.- Da quanto sin qui esposto risulta che, tra le
disposizioni del d.lgs. n. 23 del 2015 denunciate, l'unica che il
rimettente deve effettivamente applicare e' l'art. 3, comma 1.
Esso stabilisce che «[s]alvo quanto disposto dal comma 2, nei
casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato
motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il
rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore
di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a
contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilita'
dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura
comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro
mensilita'».
Del resto, le censure e le relative argomentazioni dell'ordinanza
di rimessione riguardano tutte il contrasto con gli invocati
parametri costituzionali dell'indennita' disciplinata da tale
disposizione.
5.2.- Quest'ultimo rilievo consente di valutare un ulteriore
profilo di inammissibilita' che riguarda le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183
del 2014.
L'unico specifico riferimento che l'ordinanza di rimessione fa
all'art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, quale
oggetto del giudizio di legittimita' costituzionale (nella stessa
ordinanza, l'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e' anche,
come si e' visto, parametro interposto delle questioni sollevate in
riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost.), e' costituito
dall'affermazione che le tutele previste dagli artt. 3 e 4 del d.lgs.
n. 23 del 2015 sono «frutto della delega contenuta nella legge n.
183/2014»
Questa laconica frase non fornisce, all'evidenza,
un'argomentazione sufficiente del contrasto del denunciato art. 1,
comma 7, lettera c), con i parametri costituzionali invocati.
Del resto, si deve osservare che, ancorche' non intenda
chiaramente censurare tutti i principi e criteri direttivi dettati
dall'art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 - si
pensi, oltre a quello «generale», invocato come parametro interposto,
della «coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le
convenzioni internazionali», all'«esclu[sione] per i licenziamenti
economici [del]la possibilita' della reintegrazione del lavoratore
nel posto di lavoro», che nell'ordinanza di rimessione si nega
espressamente di voler contestare - il giudice a quo omette finanche
di specificare quali di essi ritenga possano recare un vulnus ai
parametri costituzionali invocati.
Da cio' l'inammissibilita' delle questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183
del 2014 per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
5.3.- Dalle argomentazioni che precedono consegue, pertanto, che
le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 7,
lettera c), della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 2, 3, commi 2 e
3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 devono essere dichiarate
inammissibili per difetto, rispettivamente, di rilevanza (artt. 2, 3,
comma 2, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015), di motivazione sulla
rilevanza e sulla non manifesta infondatezza (art. 3, comma 3) e di
motivazione sulla non manifesta infondatezza (art. 1, comma 7,
lettera c, della legge n. 183 del 2014).
5.4.- Il giudizio di legittimita' costituzionale resta, dunque,
circoscritto al solo art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.
Prima di scrutinare il merito delle questioni aventi a oggetto
tale disposizione, occorre verificare l'ammissibilita' di quella
sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in
relazione allo specifico parametro interposto dell'art. 10 della
Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento.
Questa convenzione internazionale, che ha vocazione
costituzionale, nello spirito dell'art. 35, terzo comma, Cost., non
e' stata ratificata dall'Italia, pertanto non e' da ritenersi
vincolante, ne' puo' integrare il parametro costituzionale evocato,
poiche' l'art. 117, primo comma, Cost., fa riferimento al rispetto
dei «vincoli» derivanti dagli «obblighi internazionali».
Non si puo' pervenire a diversa conclusione neanche con riguardo
alla possibile idoneita' di tale Convenzione a integrare il parametro
dell'art. 76 Cost. Se e' vero, infatti, che l'alinea dell'art. 1,
comma 7, della legge di delegazione n. 183 del 2014 fa riferimento,
senza ulteriori specificazioni, alle «convenzioni internazionali», da
tale generica dicitura non si puo' certamente far discendere
l'obbligo per il legislatore delegato del rispetto di convenzioni cui
l'Italia, non avendo inteso ratificarle, non e' vincolata.
Dall'inidoneita' della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul
licenziamento, in quanto non ratificata dall'Italia, a integrare i
parametri degli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., discende
l'inammissibilita' della questione sollevata dal rimettente in
relazione all'art. 10 della stessa.
Tale conclusione deve essere ribadita anche con riferimento a
quanto sembrerebbe ritenere la parte costituita Francesca Santoro.,
secondo cui la Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 «assume
diretta rilevanza come obbligo per lo Stato di non attuare, nelle
more della ratifica, una legislazione in contrasto con l'obbligazione
assunta a livello internazionale».
L'obbligo di buona fede stabilito dall'art. 18 della Convenzione
sul diritto dei trattati, adottata a Vienna il 23 maggio 1969,
ratificata e resa esecutiva con la legge 12 febbraio 1974, n. 112,
che si sostanzia, tra l'altro, nell'astensione degli Stati dal
compiere atti suscettibili di privare un trattato del suo oggetto e
del suo scopo, non puo' spingersi fino a escludere la
discrezionalita' della ratifica e l'ineludibilita' di essa ai fini
dell'obbligatorieta' del trattato - per l'Italia - sul piano
internazionale. Si conferma, pertanto, l'inidoneita' dell'invocata
Convenzione OIL a integrare il parametro dell'art. 117, primo comma,
Cost.
6.- Si puo' ora passare allo scrutinio della prima delle
questioni sollevate in riferimento all'art. 3 Cost., con la quale il
rimettente deduce che l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015
viola il principio di eguaglianza, perche' tutela i lavoratori
assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente
deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda,
prima di tale data.
La questione non e' fondata.
Va anzitutto dato atto della correttezza del presupposto - da cui
il rimettente muove nel sollevarla - secondo cui il regime di tutela
dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile agli
assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, e' meno favorevole di quello
dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, applicabile ai lavoratori
assunti prima di tale data. Infatti, quando sia accertata
l'insussistenza degli estremi del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta
causa, il censurato art. 3, comma 1, prevede, in ogni caso, la tutela
solo economica costituita dall'indennita' di importo pari a due
mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
TFR per ogni anno di servizio, col minimo di quattro (ora sei) e il
massimo di ventiquattro (ora trentasei) mensilita'. L'art. 18 della
legge n. 300 del 1970 prevede invece la tutela specifica della
reintegrazione nel posto di lavoro, oltre alla tutela per equivalente
del risarcimento del danno fino a un massimo di dodici mensilita'
dell'ultima retribuzione globale di fatto, nei casi di «manifesta
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo» (settimo comma, secondo periodo, prima
frase, secondo cui il giudice «[p]uo'» applicare tale disciplina),
nonche', nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per
giusta causa, nei casi di «insussistenza del fatto contestato» e nei
casi in cui tale fatto «rientra tra le condotte punibili con una
sanzione conservativa sulla base [...] dei contratti collettivi
ovvero dei codici disciplinari applicabili» (quarto comma, primo
periodo). Negli altri casi prevede la tutela per equivalente del
risarcimento del danno tra un minimo di dodici e un massimo di
ventiquattro mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto
(quinto comma, cui pure rinvia il settimo comma, secondo periodo,
seconda frase).
Si deve osservare che, denunciando la disparita' di trattamento
tra nuovi assunti (cui si applica il meno favorevole regime di tutela
del d.lgs. n. 23 del 2015) e vecchi assunti (cui si applica il piu'
favorevole regime di tutela dell'art. 18 della legge n. 300 del
1970), il rimettente, diversamente che nelle altre questioni
sollevate, non censura la disciplina sostanziale del primo di tali
regimi, ma il criterio di applicazione temporale della stessa,
costituito dalla data di assunzione del lavoratore a decorrere
dall'entrata in vigore del decreto. L'asserita irragionevolezza del
deteriore trattamento dei nuovi assunti e' infatti motivata
censurando non tanto il regime di tutela per essi dettato dal d.lgs.
n. 23 del 2015, quanto, piuttosto, il criterio di applicazione
temporale di tale regime. Si afferma che «la data di assunzione
appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che
in nulla e' idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parita'
di ogni altro profilo sostanziale».
Se questo e' il contenuto della censura in esame, occorre
ricordare che, a proposito della delimitazione della sfera di
applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel
tempo, nella giurisprudenza di questa Corte e' costante
l'affermazione - nota anche al giudice rimettente - che «non
contrasta, di per se', con il principio di eguaglianza un trattamento
differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti
diversi nel tempo, poiche' il fluire del tempo puo' costituire un
valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche
(ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170
del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)» (sentenza n. 254 del 2014, punto
3. del Considerato in diritto). Questa Corte ha al riguardo
argomentato che «[s]petta difatti alla discrezionalita' del
legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la
sfera temporale di applicazione delle norme [...] (sentenze n. 273
del 2011, punto 4.2. del Considerato in diritto, e n. 94 del 2009,
punto 7.2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 104 del 2018,
punto 7.1. del Considerato in diritto).
E' proprio tale «canone di ragionevolezza» che il rimettente
mostra di ritenere violato, quando afferma che «la data di assunzione
appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che
in nulla e' idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parita'
di ogni altro profilo sostanziale».
La modulazione temporale dell'applicazione del d.lgs. n. 23 del
2015, censurata dal rimettente, non contrasta con il «canone di
ragionevolezza» e, quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa
si guarda alla luce della ragione giustificatrice - del tutto
trascurata dal giudice rimettente - costituita dallo «scopo»,
dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le
opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che
sono in cerca di occupazione» (alinea dell'art. 1, comma 7, della
legge n. 183 del 2014).
Lo scopo dell'intervento, cosi' esplicitato, mostra come la
predeterminazione e l'alleggerimento delle conseguenze del
licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo
indeterminato siano misure dirette a favorire l'instaurazione di
rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, e, in
particolare, a favorire l'instaurazione di rapporti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato.
Il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 si
rivela coerente con tale scopo. Poiche' l'introduzione di tutele
certe e piu' attenuate in caso di licenziamento illegittimo e'
diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare
coerente limitare l'applicazione delle stesse tutele ai soli
lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli,
cioe', la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita.
Pertanto, l'applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 ai lavoratori
assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere
dalla data della sua entrata in vigore, in quanto conseguente allo
scopo che il legislatore si e' prefisso, non puo' ritenersi
irragionevole. Di conseguenza, il deteriore trattamento di tali
lavoratori rispetto a quelli assunti prima di tale data non viola il
principio di eguaglianza.
Tanto chiarito circa la non irragionevolezza del contestato
regime temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in
valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita
dal legislatore puo' aver conseguito.
7.- Con la seconda delle questioni sollevate in riferimento
all'art. 3 Cost., il rimettente deduce che l'art. 3, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015 viola il principio di eguaglianza perche',
nell'ambito degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutela i
lavoratori privi di qualifica dirigenziale in modo
ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, «non
soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi
di importo minimo e massimo ben piu' consistente».
La questione non e' fondata.
Questa Corte ha da tempo chiarito che il dirigente, pur
rientrando, per espressa previsione dell'art. 2095, primo comma, del
codice civile, tra i lavoratori subordinati, «si caratterizza per
alcune significative diversita' rispetto alle altre figure dei
quadri, impiegati ed operai» (sentenza 228 del 2001, punto 2. del
Considerato in diritto). Sicche' «le due categorie non sono affatto
omogenee ed i due rapporti di lavoro sono nettamente differenziati»
(sentenza 309 del 1992, punto 3. del Considerato in diritto).
La diversita' del lavoro dei dirigenti ha indotto questa Corte a
piu' riprese a ribadire che non contrasta con l'art. 3 Cost.
l'esclusione degli stessi dall'applicazione della generale disciplina
legislativa sui licenziamenti individuali, compresa la regola della
necessaria giustificazione del licenziamento (sentenze n. 228 del
2001, n. 309 del 1992 e n. 121 del 1972, ordinanza n. 404 del 1992;
queste ultime due pronunce riguardano, in particolare, l'art. 10
della legge n. 604 del 1966, che esclude i dirigenti
dall'applicazione, tra l'altro, dell'art. 1 di tale legge, cioe'
della disposizione che richiede l'esistenza di una «giusta causa» o
di un «giustificato motivo» di licenziamento).
In ragione di questa perdurante esclusione si deve confermare
che, anche nel sistema vigente, i dirigenti non sono comparabili alle
altre categorie dei prestatori di lavoro di cui all'art. 2095, primo
comma del codice civile.
8.- Del pari non fondata e' la prima delle questioni sollevate in
riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., con cui il
giudice rimettente deduce che l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015 viola tali disposizioni costituzionali per il tramite del
parametro interposto dell'art. 30 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea.
A norma dell'art. 51 CDFUE, «[l]e disposizioni della presente
Carta si applicano [...] agli Stati membri esclusivamente
nell'attuazione del diritto dell'Unione» (comma 1, primo periodo).
Sulla base di tale disposizione, la Corte di giustizia dell'Unione
europea ha costantemente asserito che le disposizioni della CDFUE
sono applicabili agli Stati membri «quando agiscono nell'ambito di
applicazione del diritto dell'Unione» (ex plurimis, Grande sezione,
sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren contro Hans
Åkerberg Fransson e, piu' recentemente, Ottava sezione, ordinanza 26
ottobre 2017, causa C-333/17, Caixa Economica Montepio Geral contro
Carlos Samuel Pimenta Marinh e altri). Questa Corte ha percio'
affermato che, «perche' la Carta dei diritti UE sia invocabile in un
giudizio di legittimita' costituzionale, occorre, dunque, che la
fattispecie oggetto di legislazione interna "sia disciplinata dal
diritto europeo - in quanto inerente ad atti dell'Unione, ad atti e
comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell'Unione,
ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una
misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell'Unione
- e non gia' da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale
diritto" (sentenza n. 80 del 2011)» (sentenza n. 63 del 2016, punto
7. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 111
del 2017 e ordinanza n. 138 del 2011).
Nessun elemento consente di ritenere che la censurata disciplina
dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia stata adottata in
attuazione del diritto dell'Unione, in particolare, per attuare
disposizioni nella materia dei licenziamenti individuali.
Piu' nel dettaglio, ai fini dell'applicabilita' della CDFUE,
l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 dovrebbe rientrare
nell'ambito di applicazione di una norma del diritto dell'Unione
diversa da quelle della Carta stessa (ex plurimis, Corte di
giustizia, terza sezione, sentenza 1° dicembre 2016, causa C-395/15,
Mohamed Daouidi contro Bootes Plus SL e altri, punto 64; ottava
sezione, ordinanze 8 dicembre 2016, causa C-27/16, Angel Marinkov
contro Predsedatel na Darzhavna agentsia za balgarite v chuzhbina,
punto 49, e 16 gennaio 2014, causa C-332/13, Ferenc Weigl contro
Nemzeti Innovacios Hivatal, punto 14; terza sezione, ordinanza 12
luglio 2012, causa C-466/11, Gennaro Curra' e altri contro
Bundesrepublik Deutschland, punto 26).
Il solo fatto che l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015
ricada in un settore nel quale l'Unione e' competente ai sensi
dell'art. 153, paragrafo 2, lettera d), del Trattato sul
funzionamento dell'Unione europea (TFUE) non puo' comportare
l'applicabilita' della Carta dato che, riguardo alla disciplina dei
licenziamenti individuali (e, tanto meno, nella situazione
specificamente regolata dall'art. 3, comma 1), l'Unione non ha in
concreto esercitato tale competenza, ne' ha adottato, mediante
direttive, prescrizioni minime (ex plurimis, Corte di giustizia,
decima sezione, sentenza 5 febbraio 2015, causa C-117/14, Grima Janet
Nisttahuz Poclava contro Jose Maria Ariza Toledano, punto 41; quinta
sezione, sentenza 10 luglio 2014, causa C-198/13, Victor Manuel
Julian Hernandez e altri contro Regno di Spagna e altri, punti 36 e
46; settima sezione, ordinanza 16 gennaio 2008, causa C-361/07,
Olivier Polier contro Najar EURL, punto 13).
Contrariamente a quanto mostra di reputare la difesa della parte
costituita, non si puo' ritenere che la normativa censurata sia stata
adottata in attuazione della direttiva 20 luglio 1998, n. 98/59/CE
(Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti
collettivi), poiche', come e' chiaro, l'art. 3, comma 1, del d.lgs.
n. 23 del 2015 disciplina i licenziamenti individuali.
Al fine di sostenere la sussistenza, nelle disposizioni
denunciate, di una «fattispecie europea», la parte costituita ha
argomentato - in verita', in modo assai generico - che esse
ricadrebbero nell'ambito della politica dell'occupazione dell'Unione
e, in particolare, nell'ambito delle misure adottate in risposta alle
raccomandazioni del Consiglio. Tali raccomandazioni, previste
dall'art. 148, paragrafo 4, TFUE all'esito dell'esame annuale svolto
dalle istituzioni europee circa la situazione dell'occupazione
nell'Unione, rientrano nella discrezionalita' del Consiglio e sono
prive di forza vincolante.
Non vi sono dunque disposizioni del diritto dell'Unione che
impongano specifici obblighi agli Stati membri - ne' all'Italia in
particolare - nella materia disciplinata dal censurato art. 3, comma
1, del d.lgs. n. 23 del 2015. Si deve pertanto escludere che la CDFUE
sia applicabile alla fattispecie e che l'art. 30 della stessa Carta
possa essere invocato, quale parametro interposto, nella presente
questione di legittimita' costituzionale. Da cio' la non fondatezza
della stessa.
9.- Le ulteriori questioni, con cui il rimettente lamenta che
l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, prevedendo una tutela
contro i licenziamenti ingiustificati rigida e inadeguata, viola gli
artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma,
Cost. - questi ultimi due articoli in relazione all'art. 24 della
Carta sociale europea - sono fondate nei limiti che saranno ora
indicati.
Prima di esaminarle singolarmente, e' utile prendere le mosse
dalla giurisprudenza di questa Corte che, sin da epoca risalente, si
e' soffermata sugli aspetti peculiari della disciplina dei
licenziamenti per delineare i confini della giustificazione, da un
lato, e della tutela avverso quelli illegittimi, dall'altro.
9.1.- Nel dichiarare non fondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 2118 cod. civ., sollevata in riferimento
all'art. 4 Cost., questa Corte affermo' che il diritto al lavoro,
«fondamentale diritto di liberta' della persona umana», pur non
garantendo «il diritto alla conservazione del lavoro», tuttavia
«esige che il legislatore [...] adegui [...] la disciplina dei
rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare
a tutti la continuita' del lavoro, e circondi di doverose garanzie
[...] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario
far luogo a licenziamenti» (sentenza n. 45 del 1965, punti 3. e 4.
del Considerato in diritto). Questa esortazione, come e' noto, fu
accolta con l'approvazione della legge n. 604 del 1966, che sanci',
all'art. 1, il principio della necessaria giustificazione del
licenziamento, da considerarsi illegittimo se non sorretto da una
«giusta causa» o da un «giustificato motivo».
Si e' in seguito affermato il «diritto [garantito dall'art. 4
Cost.] a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o
irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9. del Considerato
in diritto) e si e' poi ribadita la «garanzia costituzionale [del]
diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (sentenza n. 541
del 2000, punto 2. del Considerato in diritto e ordinanza n. 56 del
2006).
L'«indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro
previsto dagli artt. 4 e 35 Cost., che ha portato, nel tempo, a
introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro»
(sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto), si
riscontra in una successiva pronuncia, in cui si afferma che «la
materia dei licenziamenti individuali e' oggi regolata, in presenza
degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della
necessaria giustificazione del recesso» (sentenza n. 41 del 2003,
punto 2.1. del Considerato in diritto).
L'affermazione sempre piu' netta del «diritto al lavoro» (art. 4,
primo comma, Cost.), affiancata alla «tutela» del lavoro «in tutte le
sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), si
sostanzia nel riconoscere, tra l'altro, che i limiti posti al potere
di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto
esistente nel contratto di lavoro. Il forte coinvolgimento della
persona umana - a differenza di quanto accade in altri rapporti di
durata - qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale,
cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele.
9.2.- Al percorso della giurisprudenza costituzionale ora
evocato, si e' affiancato quello - parallelo e qui piu' direttamente
rilevante - concernente la tutela del lavoratore nel caso di
licenziamento illegittimo.
Questa giurisprudenza ha valorizzato la discrezionalita' del
legislatore in materia.
Gia' la sentenza n. 194 del 1970, dopo avere affermato che i
principi cui si ispira l'art. 4 della Costituzione «esprimono
l'esigenza di un contenimento della liberta' del recesso del datore
di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell'ampliamento della
tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di
lavoro», preciso' che «[l]'attuazione di questi principi resta
tuttavia affidata alla discrezionalita' del legislatore ordinario,
quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla
situazione economica generale» (punto 4. del Considerato in diritto).
Nello stesso senso si sono successivamente espresse le sentenze
n. 55 del 1974, n. 189 del 1975 e n. 2 del 1986.
Piu' di recente, questa Corte ha espressamente negato che il
bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su
cui non puo' non esercitarsi la discrezionalita' del legislatore,
imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000,
punto 5. del Considerato in diritto).
Il legislatore ben puo', nell'esercizio della sua
discrezionalita', prevedere un meccanismo di tutela anche solo
risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purche' un tale
meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza.
Il diritto alla stabilita' del posto, infatti, «non ha una propria
autonomia concettuale, ma e' nient'altro che una sintesi
terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati
dall'invalidita' dell'atto non conforme» (sentenza n. 268 del 1994,
punto 5. del Considerato in diritto).
10.- Questa breve disamina dell'evoluzione della giurisprudenza
costituzionale in materia di licenziamenti serve a enucleare l'ambito
delle tutele fondate sugli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma,
Cost., interpretati congiuntamente. Su questo sfondo si deve
collocare l'analisi della tutela prevista dal censurato art. 3, comma
1.
Si tratta di una tutela non specifica dell'interesse del
lavoratore all'adempimento del contratto di lavoro a tempo
indeterminato - la reintegrazione e', infatti, preclusa - ma per
equivalente e, quindi, soltanto economica.
E' necessario fin da ora chiarire che questo meccanismo di tutela
sorregge l'intero impianto della disciplina delineata dal
legislatore, anche nei casi in cui non ricorrono gli estremi del
licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa
(salve le ipotesi, disciplinate dal comma 2 dell'art. 3 del d.lgs. n.
23 del 2015, in cui «sia direttamente dimostrata in giudizio
l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore»).
Questa Corte non puo' dunque esimersi da uno scrutinio complessivo
del denunciato art. 3, comma 1, entro cui rientra anche il caso in
cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, fattispecie quest'ultima che ricorre nel giudizio a
quo.
La qualificazione come «indennita'» dell'obbligazione prevista
dall'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 non ne esclude la
natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento.
Quest'ultimo, anche se efficace, in quanto idoneo a estinguere il
rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito, essendo
adottato in violazione della preesistente non modificata norma
imperativa secondo cui «il licenziamento del prestatore di lavoro non
puo' avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 del Codice
civile o per giustificato motivo» (art. 1 della legge n. 604 del
1966).
Quanto alla misura della stessa indennita' - e, quindi, del
risarcimento riconosciuto al lavoratore per il danno causato dal
licenziamento illegittimo, che specularmente incide nella sfera
economica del datore di lavoro - essa e' interamente prestabilita dal
legislatore in due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio.
Il meccanismo di quantificazione indicato connota l'indennita'
come rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri
diversi dall'anzianita' di servizio, e la rende uniforme per tutti i
lavoratori con la stessa anzianita'. L'indennita' assume cosi' i
connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata,
proprio perche' ancorata all'unico parametro dell'anzianita' di
servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall'illegittima
estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Il meccanismo di quantificazione dell'indennita' opera entro
limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l'alto. Verso il
basso la previsione di una misura minima dell'indennita' e' pari a
quattro (ora sei) mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del TFR, verso l'alto la previsione di una misura
massima dell'indennita' e' pari a ventiquattro (ora trentasei)
mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
TFR.
Una tale predeterminazione forfetizzata del risarcimento del
danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile, pur
volendone fornire la relativa prova. Nonostante il censurato art. 3,
comma 1 - diversamente dal vigente art. 18, quinto comma, della legge
n. 300 del 1970 - non definisca l'indennita' «onnicomprensiva», e' in
effetti palese la volonta' del legislatore di predeterminare
compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo, in
conformita' al principio e criterio direttivo dettato dalla legge di
delegazione di prevedere un indennizzo economico «certo».
11.- Ricostruite le caratteristiche della tutela prevista dal
denunciato art. 3, comma 1, tale disposizione, nella parte in cui
determina l'indennita' in un «importo pari a due mensilita'
dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta,
anzitutto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo
dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse (terzo dei
profili di violazione dell'art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).
Come si e' visto, nel prestabilirne interamente il quantum in
relazione all'unico parametro dell'anzianita' di servizio, la citata
previsione connota l'indennita', oltre che come rigida, come uniforme
per tutti i lavoratori con la stessa anzianita'.
E' un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla
casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari
casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralita' di
fattori. L'anzianita' nel lavoro, certamente rilevante, e' dunque
solo uno dei tanti.
Prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 il
legislatore ha ripetutamente percorso la strada che conduce
all'individuazione di tali molteplici fattori.
L'art. 8 della legge n. 604 del 1966 (come sostituito dall'art.
2, comma 3, della legge n. 108 del 1990), ad esempio, lascia al
giudice determinare l'obbligazione alternativa indennitaria, sia pure
all'interno di un minimo e un massimo di mensilita' dell'ultima
retribuzione globale di fatto, «avuto riguardo al numero dei
dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianita' di
servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni
delle parti». Inoltre, a conferma dell'esigenza di scrutinare in modo
accurato l'entita' della misura risarcitoria e di calarla
nell'organizzazione aziendale, la stessa disposizione da' rilievo
all'anzianita' di servizio per ampliare ulteriormente la
discrezionalita' del giudice, relativamente ai datori di lavoro che
occupano piu' di quindici prestatori di lavoro. L'anzianita' di
servizio superiore a dieci o a venti anni consente, infatti, la
maggiorazione dell'indennita' fino, rispettivamente, a dieci e a
quattordici mensilita'. Anche l'art. 18, quinto comma, della legge n.
300 del 1970 (come sostituito dall'art. 1, comma 42, lettera b, della
legge n. 92 del 2012) prevede che l'indennita' risarcitoria sia
determinata dal giudice tra un minimo e un massimo di mensilita',
seguendo criteri in larga parte analoghi a quelli indicati in
precedenza, avuto riguardo anche alle «dimensioni dell'attivita'
economica».
Il legislatore ha dunque, come appare evidente, sempre
valorizzato la molteplicita' dei fattori che incidono sull'entita'
del pregiudizio causato dall'ingiustificato licenziamento e
conseguentemente sulla misura del risarcimento.
Da tale percorso si discosta la disposizione censurata. Cio'
accade proprio quando viene meno la tutela reale, esclusa, come gia'
detto, per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015, salvo che nei
casi di cui al comma 2 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel
momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela
risarcitoria non puo' essere ancorata all'unico parametro
dell'anzianita' di servizio. Non possono che essere molteplici i
criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del
giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalita' si
esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per
garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro
una soglia minima e una massima.
All'interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i
valori dell'impresa, la discrezionalita' del giudice risponde,
infatti, all'esigenza di personalizzazione del danno subito dal
lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza.
La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente
dalle peculiarita' e dalla diversita' delle vicende dei licenziamenti
intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita omologazione
di situazioni che possono essere - e sono, nell'esperienza concreta -
diverse.
12.- L'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in
cui determina l'indennita' in un «importo pari a due mensilita'
dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta
altresi' con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo
dell'inidoneita' dell'indennita' medesima a costituire un adeguato
ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del
licenziamento illegittimo e un'adeguata dissuasione del datore di
lavoro dal licenziare illegittimamente (quarto dei profili di
violazione dell'art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).
12.1.- Quanto al primo aspetto, si e' detto che la previsione
denunciata, nel prestabilire interamente la misura dell'indennita',
la connota, oltre che come «certa», anche come rigida, perche' non
graduabile in relazione a parametri diversi dall'anzianita' di
servizio. Inoltre, l'impossibilita' di incrementare l'indennita',
fornendo la relativa prova, la configura come una liquidazione legale
forfetizzata, in relazione, appunto, all'unico parametro prefissato
dell'anzianita' di servizio.
In occasione dell'esame di disposizioni introduttive di
forfetizzazioni legali limitative del risarcimento del danno, questa
Corte ha piu' volte affermato che «"la regola generale di
integralita' della riparazione e di equivalenza della stessa al
pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale"
(sentenza n. 148 del 1999), purche' sia garantita l'adeguatezza del
risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)» (sentenza
n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). Il
risarcimento, dunque, ancorche' non necessariamente riparatorio
dell'intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere
necessariamente equilibrato.
Dalle stesse pronunce emerge altresi' che l'adeguatezza del
risarcimento forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un
adeguato contemperamento degli interessi in conflitto (sentenze n.
235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000, n. 132 del 1985).
Non contrasta con tale nozione di adeguatezza il limite di
ventiquattro (ora trentasei) mensilita', fissato dal legislatore
quale soglia massima del risarcimento.
Si deve infine osservare che la rigida dipendenza dell'aumento
dell'indennita' dalla sola crescita dell'anzianita' di servizio
mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianita' di
servizio non elevata, come nel giudizio a quo. In tali casi, appare
ancor piu' inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal
licenziamento illegittimo, senza che a cio' possa sempre ovviare la
previsione della misura minima dell'indennita' di quattro (e, ora, di
sei) mensilita'.
12.2.- Quanto al secondo aspetto, l'inadeguatezza dell'indennita'
forfetizzata stabilita dalla previsione denunciata rispetto alla sua
primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal
lavoratore ingiustamente licenziato e' suscettibile di minare, in
tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei
confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall'intento di
licenziare senza valida giustificazione e di compromettere
l'equilibrio degli obblighi assunti nel contratto.
12.3.- Sulla base di quanto argomentato, si deve dunque
concludere che il denunciato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015, nella parte in cui determina l'indennita' in un «importo pari a
due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo
del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», non
realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la
liberta' di organizzazione dell'impresa da un lato e la tutela del
lavoratore ingiustamente licenziato dall'altro. Con il prevedere una
tutela economica che puo' non costituire un adeguato ristoro del
danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, ne' un'adeguata
dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la
disposizione censurata comprime l'interesse del lavoratore in misura
eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di
ragionevolezza.
Il legislatore finisce cosi' per tradire la finalita' primaria
della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una
compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore
ingiustamente licenziato.
13.- Dalla ritenuta irragionevolezza del censurato art. 3, comma
1, nella parte in cui determina l'indennita' in un «importo pari a
due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo
del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», discende
anche il vulnus recato da tale previsione agli artt. 4, primo comma,
e 35, primo comma, Cost. (lesione che il rimettente prospetta, in
effetti, come dipendente dal vizio, denunciato come principale, di
violazione dell'art. 3 Cost.).
Alla luce di quanto si e' sopra argomentato circa il fatto che
l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena
citata, prevede una tutela economica che non costituisce ne' un
adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal
licenziamento, ne' un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal
licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela
dell'interesse del lavoratore alla stabilita' dell'occupazione non
puo' ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo
comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono.
L'irragionevolezza del rimedio previsto dall'art. 3, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015 assume, in realta', un rilievo ancor maggiore
alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al
lavoro (artt. 1, primo comma, 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno
sviluppo della personalita' umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6.
del Considerato in diritto).
Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.) e la «tutela»
del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo
comma, Cost.) comportano la garanzia dell'esercizio nei luoghi di
lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il
nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si
intenda procedere a licenziamenti, emerge nella gia' richiamata
sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali
di liberta' sindacale, politica e religiosa» (punto 4. del
Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, la'
dove si afferma che «il timore del recesso, cioe' del licenziamento,
spinge o puo' spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una
parte dei propri diritti» (punto 3. del Considerato in diritto).
14.- L'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in
cui determina l'indennita' in un «importo pari a due mensilita'
dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», viola anche
gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 24
della Carta sociale europea.
Tale articolo prevede che, per assicurare l'effettivo esercizio
del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le Parti
contraenti si impegnano a riconoscere «il diritto dei lavoratori
licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra
adeguata riparazione» (primo comma, lettera b).
Nella decisione resa a seguito del reclamo collettivo n.
106/2014, proposto dalla Finnish Society of Social Rights contro la
Finlandia, il Comitato europeo dei diritti sociali ha chiarito che
l'indennizzo e' congruo se e' tale da assicurare un adeguato ristoro
per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un
valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare
ingiustificatamente.
Il filo argomentativo che guida il Comitato si snoda dunque
attraverso l'apprezzamento del sistema risarcitorio in quanto
dissuasivo e, al tempo stesso, congruo rispetto al danno subito
(punto 45).
Questa Corte ha gia' affermato l'idoneita' della Carta sociale
europea a integrare il parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. e
ha anche riconosciuto l'autorevolezza delle decisioni del Comitato,
ancorche' non vincolanti per i giudici nazionali (sentenza n. 120 del
2018).
A ben vedere, l'art. 24, che si ispira alla gia' citata
Convenzione OIL n. 158 del 1982, specifica sul piano internazionale,
in armonia con l'art. 35, terzo comma, Cost. e e con riguardo al
licenziamento ingiustificato, l'obbligo di garantire l'adeguatezza
del risarcimento, in linea con quanto affermato da questa Corte sulla
base del parametro costituzionale interno dell'art. 3 Cost. Si
realizza, in tal modo, un'integrazione tra fonti e - cio' che piu'
rileva - tra le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009,
punto 7. del Considerato in diritto, secondo cui «[i]l risultato
complessivo dell'integrazione delle garanzie dell'ordinamento deve
essere di segno positivo»).
Per il tramite dell'art. 24 della Carta Sociale Europea,
risultano pertanto violati sia l'art. 76 - nel riferimento operato
dalla legge di delegazione al rispetto delle convenzioni
internazionali - sia l'art. 117, primo comma, Cost..
15.- In conclusione, in parziale accoglimento delle questioni
sollevate in riferimento agli artt. 3 (in relazione sia al principio
di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di
situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4, primo
comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi
due articoli in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea),
il denunciato art. 3, comma 1, deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «di importo
pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,».
Le «mensilita'», cui fa ora riferimento l'art. 3, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015 sono da intendersi relative all'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, cosi' come si
evince dal d.lgs. n. 23 del 2015 nel suo complesso, con riguardo alla
commisurazione dei risarcimenti.
Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui
va quantificata l'indennita' spettante al lavoratore illegittimamente
licenziato, il giudice terra' conto innanzi tutto dell'anzianita' di
servizio - criterio che e' prescritto dall'art. 1, comma 7, lett. c)
della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del
d.lgs. n.23 del 2015 - nonche' degli altri criteri gia' prima
richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della
disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti
occupati, dimensioni dell'attivita' economica, comportamento e
condizioni delle parti).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1,
del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia
di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183) - sia nel testo
originario sia nel testo modificato dall'art. 3, comma 1, del
decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la
dignita' dei lavoratori e delle imprese), convertito, con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96 - limitatamente alle
parole «di importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni
anno di servizio,»;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10
dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli
ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche
attive, nonche' in materia di riordino della disciplina dei rapporti
di lavoro e dell'attivita' ispettiva e di tutela e conciliazione
delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3,
commi 2 e 3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate, in riferimento
agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma,
della Costituzione - questi ultimi due articoli in relazione all'art.
30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982
(Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa
del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale
dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno
1982, e all'art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con
annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa
esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 -, dal Tribunale
ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in
epigrafe;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015,
sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in
relazione all'art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul
licenziamento, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro,
con l'ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015,
sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in
relazione all'art. 30 CDFUE, dal Tribunale ordinario di Roma, terza
sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 novembre 2018.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Allegato:
Ordinanza letta all'udienza del 25 settembre 2018
ORDINANZA
Visti gli atti del giudizio di legittimita' costituzionale
dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n.
183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori
sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonche'
in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e
dell'attivita' ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze
di cura, di vita e di lavoro), e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto
di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione
della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale
ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con ordinanza del 26 luglio
2017 (reg. ord. n. 195 del 2017).
Rilevato che in tale giudizio ha depositato atto di intervento la
Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL).
Considerato che tale soggetto non e' parte del giudizio a quo;
che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, nei
giudizi incidentali di legittimita' costituzionale, l'intervento di
soggetti estranei al giudizio principale e' ammissibile, ai sensi
dell'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, soltanto per i terzi titolari di un
interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al
rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura (ex plurimis, sentenza n. 120 del 2018 e la relativa
ordinanza letta all'udienza del 10 aprile 2018, sentenze n. 77 del
2018 e n. 275 del 2017);
che tale orientamento e' stato piu' volte espresso da questa
Corte anche con riguardo alla richiesta di intervento da parte di
soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria (ex
plurimis, sentenza n. 120 del 2018 e la relativa ordinanza letta
all'udienza del 10 aprile 2018, sentenza n. 77 del 2018);
che la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), oltre
a non essere parte del giudizio principale, non e' titolare di un
interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio, che ne legittimi l'intervento,
atteso che essa non vanta una posizione giuridica suscettibile di
essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall'esito del
giudizio incidentale bensi' un mero indiretto, e piu' generale,
interesse connesso agli scopi statutari di tutela degli interessi
economici e professionali dei propri iscritti;
che il suo intervento nel presente giudizio deve, percio', essere
dichiarato inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile l'intervento della Confederazione generale
italiana del lavoro (CGIL).
F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente
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