N. 284 SENTENZA 4 - 20 dicembre 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Reati e pene - Oltraggio a pubblico ufficiale - Pena edittale della
reclusione fino a tre anni - Denunciata disparita' di trattamento
sanzionatorio rispetto al reato di oltraggio a un Corpo politico,
amministrativo o giudiziario nonche' violazione del principio di
proporzionalita' della pena - Non fondatezza delle questioni.
- Codice penale, art. 341-bis, introdotto dall'art. 1, comma 8, della
legge 15 luglio 2009, n. 94.
- Costituzione, artt. 3 e 27, terzo comma.
(GU n.52 del 27-12-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Aldo CAROSI;
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 341-bis,
del codice penale, introdotto dall'art. 1, comma 8, della legge 15
luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica),
promosso dal Tribunale ordinario di Torino, sezione sesta penale, nel
procedimento penale a carico di D. L., con ordinanza del 29 gennaio
2019, iscritta al n. 98 del registro ordinanze 2019 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie
speciale, dell'anno 2019.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 dicembre 2019 il Giudice
relatore Francesco Vigano'.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 29 gennaio 2019, il Tribunale ordinario di
Torino, sezione sesta penale, ha sollevato, in riferimento agli artt.
3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 341-bis del codice penale (Oltraggio a
pubblico ufficiale), introdotto dall'art. 1, comma 8, della legge 15
luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica),
nella parte in cui punisce con la reclusione fino a tre anni la
condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza
di piu' persone, offende l'onore ed il prestigio di un pubblico
ufficiale mentre compie un atto d'ufficio ed a causa o nell'esercizio
delle sue funzioni.
1.1- Premette il rimettente di essere chiamato a pronunciarsi
sulla colpevolezza di un'imputata del delitto di cui all'art. 341-bis
cod. pen. per aver rivolto frasi ingiuriose («vi dovete vergognare
siete delle bestie») all'indirizzo di agenti di polizia in servizio
di vigilanza dinanzi al Palazzo di giustizia di Torino, alla presenza
di piu' persone (gli altri manifestanti e i passanti).
Su istanza formulata dalla difesa dell'imputata in esito al
dibattimento, il giudice a quo ha sollevato le questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 341-bis cod. pen. nei termini
indicati.
1.2.- In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente
osserva che, in caso di condanna, «l'unica pena che potrebbe essere
irrogata e' quella prevista dall'art. 341-bis c.p. che, anche nel
caso di un fatto di minima gravita', dovrebbe essere equivalente a
quindici giorni di reclusione», cosi' che l'eventuale accoglimento
delle questioni costituzionali prospettate potrebbe certamente
influire sul processo celebrato dinanzi al giudice a quo; e cio'
tanto piu' che l'imputata, pur se allo stato incensurata, avrebbe
dichiarato di essere sottoposta ad altri procedimenti penali, il che
potrebbe impedirle di beneficiare, in futuro, della sospensione
condizionale della pena.
1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il
rimettente non contesta la meritevolezza di tutela penale dei beni
giuridici protetti dall'art. 341-bis cod. pen., la cui ratio dovrebbe
essere identificata «nella esigenza, squisitamente pubblicistica, di
garantire il regolare svolgimento dei compiti del pubblico ufficiale,
senza che le offese dirette alla sua persona possano turbarne
l'operato»; e non nega, conseguentemente, l'«importanza della
permanenza all'interno del codice penale [...] di una norma che vieti
e sanzioni comportamenti oltraggiosi nei confronti del pubblico
ufficiale». Il giudice a quo assume, tuttavia, l'esistenza di una
«iniqua sproporzione» tra il trattamento sanzionatorio previsto per
la fattispecie in esame e quello previsto dall'art. 342 cod. pen. per
l'oltraggio a un Corpo amministrativo, politico o giudiziario, per il
quale e' prevista una mera pena pecuniaria.
Tale disparita' di trattamento sanzionatorio darebbe luogo, ad
avviso del rimettente, a una violazione dell'art. 3 Cost.
Entrambi i reati sarebbero infatti lesivi dell'onore e del
prestigio di soggetti che rivestono la qualifica di pubblici
ufficiali, e tutelerebbero interessi «sostanzialmente identici»,
dovendo l'offesa essere rivolta, nel caso dell'art. 341-bis cod.
pen., contro un singolo pubblico ufficiale, e contro «due o piu'
pubblici ufficiali che operano in sinergia tra di loro» nel caso
dell'art. 342 cod. pen., valendo poi per entrambe le fattispecie la
condizione che l'offesa venga proferita in presenza dei soggetti
passivi del reato.
D'altra parte, ad avviso del rimettente i lavori parlamentari
relativi all'art. 1 della legge n. 94 del 2009, con cui e' stata
reintrodotta la fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale, dopo
la sua abrogazione avvenuta per opera della legge 25 giugno 1999, n.
205 (Delega del Governo per la depenalizzazione dei reati minori e
modifiche al sistema penale e tributario), non fornirebbero alcun
ausilio alla comprensione dei motivi per cui tale fattispecie sia
punita «in modo cosi' differente (e piu' grave) rispetto alla
fattispecie, sostanzialmente uguale, [...] dell'oltraggio a Corpo
politico amministrativo o giudiziario».
1.4.- Secondo il giudice a quo, la norma censurata sarebbe
inoltre contraria all'art. 27, terzo comma, Cost., «nella parte in
cui prevede una pena detentiva con un massimo edittale di tre anni di
reclusione».
Risulterebbe infatti evidente il contrasto con la finalita'
rieducativa della pena di «una sanzione inadeguata nella specie e
nella quantita', non in armonia con l'attuale contesto storico [...],
nel quale risulta gia' da tempo avviato un processo volto a
depenalizzare gli illeciti meno gravi». Da tale disarmonia
deriverebbe «un senso di generale sfiducia nella Giustizia e nelle
Istituzioni», capace di «incidere negativamente sul percorso
rieducativo del reo».
Il principio di proporzionalita' delle pene sarebbe stato,
d'altra parte, recentemente valorizzato da questa Corte attraverso
una serie di decisioni ispirate ai principi che delineano il «volto
costituzionale del sistema penale», principi rintracciabili non solo
nelle disposizioni costituzionali, ma anche nel principio di
proporzionalita' delle pene sancito dall'art. 49, terzo comma, della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007, nonche' dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo, che avrebbe piu' volte ritenuto «contraria al
principio di proporzionalita' l'applicazione o anche solo la
previsione di pene detentive per reati commessi attraverso la
manifestazione del pensiero» (e' citata la sentenza 24 settembre
2013, Belpietro contro Italia).
1.5.- Richiamando le sentenze n. 179 del 2017 e n. 236 del 2016,
il giudice a quo evidenzia infine come questa Corte abbia ritenuto
possibile porre rimedio ai vizi di legittimita' costituzionale
relativi alle cornici sanzionatorie in materia penale attraverso il
ricorso a grandezze gia' rinvenibili nell'ordinamento, che nella
specie sarebbero fornite dal trattamento sanzionatorio previsto per
il delitto di cui all'art. 342 cod. pen.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo il rigetto delle questioni.
Sarebbe anzitutto errato l'assunto del giudice a quo, secondo cui
gli artt. 341-bis e 342 cod. pen. tutelerebbero lo stesso bene
giuridico, posto che, mentre per questa seconda fattispecie «viene
esclusivamente in rilievo l'esigenza di tutela del prestigio della
funzione esercitata dall'organo pubblico collegiale, la ratio
dell'incriminazione ex art. 341 bis c.p. e' quella di apprestare
tutela non solo al prestigio del ruolo pubblico e del buon andamento
della Pubblica Amministrazione ma anche all'onore ed al decoro della
persona che riveste la qualita' di pubblico ufficiale».
In ogni caso, anche ove si ammettesse l'identita' del bene
giuridico tutelato, l'Avvocatura generale dello Stato ritiene che la
scelta della sanzione applicabile a un illecito penale rientri nella
sfera di esclusiva discrezionalita' del legislatore, costituendo il
«risultato di una serie di elementi, ulteriori rispetto a quello
costituito dal bene giuridico tutelato (grado di offesa al bene
giuridico, struttura del reato sotto il profilo della condotta
offensiva o dell'intensita' dell'elemento oggettivo)».
3. - L'imputata non si e' costituita in giudizio.
Considerato in diritto
1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario
di Torino, sezione sesta penale, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 341-bis del codice penale
(Oltraggio a pubblico ufficiale), introdotto dall'art. 1, comma 8,
della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di
sicurezza pubblica), nella parte in cui punisce con la reclusione
fino a tre anni la condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al
pubblico e in presenza di piu' persone, offende l'onore ed il
prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d'ufficio ed
a causa o nell'esercizio delle sue funzioni.
Il rimettente si duole, in particolare, della disparita' di
trattamento, a suo avviso non giustificabile al metro dell'art. 3
Cost., tra il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale di cui al
censurato art. 341-bis cod. pen., punito con la reclusione fino a tre
anni (e dunque con la pena minima di quindici giorni di reclusione,
giusta il disposto dell'art. 23 cod. pen.), e il delitto di
«oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario» di cui
all'art. 342 cod. pen.: fattispecie, quest'ultima, assunta a tertium
comparationis, e punita con una mera pena pecuniaria (la multa da
1.000 a 5.000 euro).
La pena massima edittale di tre anni di reclusione prevista
dall'art. 341-bis cod. pen. si porrebbe inoltre in contrasto con il
principio di proporzionalita' della pena, sancito ad avviso del
rimettente dall'art. 27, terzo comma, Cost., da leggersi anche
attraverso il prisma dell'art. 49, paragrafo 3, della Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e
della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
A tali vizi di legittimita' costituzionale questa Corte potrebbe
porre rimedio, secondo il rimettente, attraverso la sostituzione
della cornice edittale prevista per il delitto di cui all'art.
341-bis cod. pen. con quella stabilita per il delitto di cui all'art.
342 cod. pen., cornice quest'ultima che costituirebbe una «grandezza
gia' rinvenibil[e] nell'ordinamento» cui attingere per colmare la
lacuna che si creerebbe in seguito alla sollecitata pronuncia di
illegittimita' costituzionale.
2.- Ai fini della valutazione della fondatezza delle questioni
prospettate, appare preliminarmente opportuna una sintetica
ricostruzione del quadro normativo in cui le questioni stesse si
iscrivono.
2.1.- Nel disegno originario del codice Rocco, l'oltraggio a
pubblico ufficiale era previsto dall'art. 341, primo comma, cod. pen.
come il fatto di «chiunque offende l'onore o il prestigio di un
pubblico ufficiale, in presenza di lui e a causa o nell'esercizio
delle sue funzioni». La pena prevista per la fattispecie base era
quella della reclusione da sei mesi a due anni.
Il delitto di «oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o
giudiziario» era invece - ed e' tuttora - previsto dall'art. 342,
primo comma, cod. pen. come il fatto di «chiunque offende l'onore o
il prestigio di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o di
una rappresentanza di esso, o di una pubblica Autorita' costituita in
collegio, al cospetto del Corpo, della rappresentanza o del
collegio»; condotta cui il secondo comma equipara quella commessa
mediante comunicazione telegrafica ovvero scritti o disegni diretti
ai medesimi destinatari. La pena originariamente prevista per le
fattispecie base di cui al primo e al secondo comma era la reclusione
da sei mesi a tre anni: ed era dunque piu' elevata, nel massimo,
rispetto a quella stabilita per il delitto di oltraggio a pubblico
ufficiale, da cio' desumendosi la maggiore gravita' - nella
valutazione dei compilatori - del delitto di cui all'art. 342 cod.
pen.
2.2.- Con sentenza n. 341 del 1994 questa Corte dichiaro'
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 341, primo comma, cod.
pen., nella parte in cui prevedeva la pena minima di sei mesi di
reclusione, in ragione del contrasto di tale previsione con il
principio di proporzionalita' della pena, desunto dagli artt. 3 e 27,
terzo comma, Cost., anche in rapporto all'assai piu' favorevole
minimo edittale previsto per il delitto di ingiuria (art. 594 cod.
pen.). Per effetto di tale pronuncia, il minimo edittale applicabile
al delitto di oltraggio a pubblico ufficiale divenne quello di
quindici giorni di reclusione, stabilito in via generale dall'art. 23
cod. pen. con disposizione destinata ad applicarsi in difetto di
determinazione di una pena minima da parte delle singole disposizioni
incriminatrici.
La di poco successiva sentenza n. 313 del 1995 rigetto', invece,
un'analoga questione di legittimita' costituzionale avente ad oggetto
il minimo di sei mesi di reclusione stabilito per il delitto di cui
all'art. 342 cod. pen., rilevando come l'oltraggio a un corpo
politico, amministrativo o giudiziario non potesse «affatto
ricondursi, sul piano della lesivita', ad una mera ipotesi di
oltraggio "plurimo", giacche' nella fattispecie descritta dall'art.
342 del codice penale e' la specifica qualita' dell'organo e delle
attribuzioni che esso esprime a rappresentare la connotazione
tipizzante e, dunque, un valore da tutelare adeguatamente anche sotto
il profilo dell'onore e del prestigio, per i naturali riverberi
negativi che l'offesa puo' in se' determinare sul corretto e sereno
svolgimento delle funzioni che il corpo o il collegio e' chiamato a
esercitare».
2.3.- La legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega del Governo per la
depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e
tributario) abrogo' poi il delitto di oltraggio di cui all'art. 341
cod. pen., e modifico' la cornice edittale dell'art. 342 cod. pen.,
prevedendo per tale figura criminosa - rimasta inalterata nei suoi
elementi costitutivi - la pena della reclusione «fino a tre anni»,
con conseguente abbassamento del minimo edittale alla soglia generale
di quindici giorni di cui all'art. 23 cod. pen.
2.4.- Il trattamento sanzionatorio del delitto di oltraggio a
corpo politico, amministrativo o giudiziario di cui all'art. 342 cod.
pen. fu poi oggetto di un ulteriore intervento ad opera della legge
24 febbraio 2006, n. 85 (Modifiche al codice penale in materia di
reati di opinione), che sostitui' alla pena detentiva la pena
pecuniaria attualmente in vigore (multa da 1.000 a 5.000 euro).
2.5.- Tre anni piu' tardi, la legge n. 94 del 2009 ripristino' il
delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, collocandolo pero' in un
nuovo art. 341-bis cod. pen. e modificandone in maniera non marginale
gli elementi costitutivi rispetto all'originaria formulazione
dell'abrogato art. 341 cod. pen.
Il nuovo art. 341-bis, primo comma, cod. pen. incrimina infatti
«chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di
piu' persone, offende l'onore ed il prestigio di un pubblico
ufficiale mentre compie un atto d'ufficio ed a causa o nell'esercizio
delle sue funzioni». Rispetto alla formulazione previgente, debbono
dunque ricorrere - accanto a un fatto offensivo dell'onore «e» del
prestigio (in luogo dell'onore «o» del prestigio, come richiesto
dalla vecchia formulazione) occasionato dall'esercizio delle funzioni
da parte del pubblico ufficiale - gli ulteriori requisiti, assenti
nell'abrogato art. 341 cod. pen.: a) della commissione del fatto in
luogo pubblico o aperto al pubblico, b) in presenza di piu' persone,
c) «mentre» il pubblico ufficiale compie un atto del suo ufficio,
escludendosi dunque la rilevanza del fatto a titolo di oltraggio
allorche' l'offesa sia proferita in ragione di un precedente atto
d'ufficio del pubblico ufficiale, in diverso contesto spaziale e
temporale.
La cornice edittale prevista dal legislatore del 2009 per la
fattispecie base del "nuovo" delitto di oltraggio di cui all'art.
341-bis cod. pen., la cui legittimita' costituzionale costituisce
oggetto del presente giudizio, e' quella della reclusione «fino a tre
anni», e dunque con un minimo edittale di quindici giorni ai sensi
del piu' volte menzionato art. 23 cod. pen.
2.6.- La cornice edittale dell'art. 341-bis cod. pen. e' stata,
peraltro, nel frattempo nuovamente modificata, per effetto del
decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (Disposizioni urgenti in materia
di ordine e sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella
legge 8 agosto 2019, n. 77, che ha reintrodotto per la fattispecie
base l'originario minimo di sei mesi di reclusione, mantenendo il
massimo di tre anni.
Tale modifica normativa, sopravvenuta all'ordinanza di
rimessione, non e' tuttavia idonea a spiegare alcuna incidenza nel
giudizio a quo, stante il suo carattere deteriore per l'imputato
rispetto alla disciplina vigente al momento del fatto, e la sua
conseguente inapplicabilita' al caso concreto, giusta il disposto
dell'art. 2, quarto comma, cod. pen.
3.- Tutto cio' premesso, la censura formulata dal rimettente in
relazione all'art. 3 Cost. non e' fondata.
3.1- Il giudice a quo assume, anzitutto, la sussistenza di una
irragionevole disparita' di trattamento tra la cornice edittale
(reclusione da quindici giorni a tre anni) prevista per il delitto di
cui all'art. 341-bis, primo comma, cod. pen., riferita al momento
della commissione del fatto oggetto del giudizio principale, e quella
(multa da 1.000 a 5.000 euro) stabilita per il delitto di cui
all'art. 342 cod. pen., assunto quale tertium comparationis.
L'argomento si basa sull'asserita similitudine di disvalore tra
le due fattispecie assunte a raffronto, che sarebbe attestata dalla
sostanziale identita' dei beni giuridici tutelati; similitudine che
renderebbe irragionevole la disparita' nel trattamento sanzionatorio
previsto per ciascuna di esse.
3.2.- In effetti, nel disegno originario del codice Rocco la
fattispecie di oltraggio a corpo politico, amministrativo o
giudiziario era connotata da maggior gravita' rispetto all'oltraggio
al singolo pubblico ufficiale, come era reso evidente dalla
previsione - a parita' di minimo - di un piu' elevato massimo
edittale (tre anni di reclusione per il delitto di cui all'art. 342
cod. pen. contro i due stabiliti dall'art. 341 cod. pen.).
La valutazione del piu' elevato disvalore dell'oltraggio al corpo
politico, amministrativo o giudiziario costitui', del resto, la ratio
decidendi della menzionata sentenza n. 313 del 1995 (supra, punto
2.2.), con la quale questa Corte rifiuto' di estendere all'art. 342
cod. pen. la declaratoria di illegittimita' costituzionale del minimo
edittale di sei mesi di reclusione che l'anno precedente aveva
colpito l'art. 341 cod. pen.
Tale rapporto di gravita' scalare tra i due delitti qui in
considerazione fu poi confermato dalle novelle legislative del 1999 e
del 2006 poc'anzi rammentate, con le quali si procedette dapprima
all'abrogazione dell'art. 341 cod. pen. - mantenendosi pero'
l'incriminazione di cui all'art. 342 cod. pen., in ragione
evidentemente della sua ritenuta maggiore gravita' -; e poi alla
sostituzione della pena detentiva originariamente prevista da
quest'ultima norma con una pena meramente pecuniaria, la quale
assicurava pero' il contestuale inquadramento come delitto della
fattispecie ivi prevista, a fronte dell'avvenuta depenalizzazione
dell'oltraggio "individuale".
3.3.- Il rapporto tra i rispettivi quadri edittali previsti per i
due delitti si inverte soltanto in seguito alla scelta del
legislatore del 2009 di criminalizzare nuovamente l'oltraggio
"individuale", attraverso l'introduzione dell'art. 341-bis cod. pen.
oggetto delle odierne censure di illegittimita' costituzionale. Ferma
la punibilita' con la mera sanzione della multa dell'oltraggio a
corpo politico, amministrativo o giudiziario in seguito alla riforma
del 2006, l'oltraggio a pubblico ufficiale viene a questo punto
sanzionato con la reclusione fino a tre anni (e dunque, con la pena
minima di quindici giorni di reclusione); il che determina per
l'appunto la disparita' di trattamento sanzionatorio di cui si duole
il rimettente.
3.4.- Ritiene tuttavia questa Corte che tale disparita' di
trattamento sia sorretta da sufficienti ragioni giustificative, e non
violi pertanto l'art. 3 Cost., in ragione delle modifiche strutturali
subite dalla "rinata" fattispecie di oltraggio di cui all'art.
341-bis cod. pen. rispetto al paradigma disegnato dall'abrogato art.
341 cod. pen.
Tra tali modifiche, poc'anzi ricapitolate (supra, punto 2.5.),
merita di essere qui segnalata l'introduzione di un requisito di
stretta contestualita' tra la condotta del reo e il compimento di uno
specifico atto dell'ufficio da parte del pubblico ufficiale, espresso
dalla locuzione «mentre compie un atto d'ufficio» - il medesimo che
compare anche nella fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale di
cui all'art. 337 cod. pen. Il requisito in parola da un lato
restringe l'ambito applicativo della nuova fattispecie rispetto a
quella previgente; e dall'altro ne arricchisce la dimensione
offensiva, affiancando alla duplice lesione dell'onore individuale
del pubblico ufficiale che subisce l'offesa, nonche' del prestigio
dell'amministrazione d'appartenenza - beni, l'uno e l'altro, gia'
tutelati dalla norma incriminatrice abrogata -, una nuova dimensione
di pericolo per la concreta attuazione dello specifico atto d'ufficio
che la condotta del reo mira evidentemente ad ostacolare, e dunque
per il regolare esercizio della pubblica funzione svolta in concreto
dal pubblico ufficiale. Esercizio che, vale la pena rammentarlo, deve
essere legittimo e non arbitrario, configurandosi altrimenti in
favore del privato la scriminante di cui all'art. 393-bis cod. pen.
Conforta questa ricostruzione anche la mancata riproposizione, da
parte del legislatore del 2009, della circostanza aggravante
dell'essere stato il fatto commesso con violenza o minaccia, prevista
dal quarto comma dell'abrogato art. 341 cod. pen.: previsione che si
giustificava proprio in relazione alla possibilita' che la
commissione del fatto non fosse in concreto connessa allo svolgimento
attuale di uno specifico atto d'ufficio da parte del pubblico
ufficiale. Avendo ora il legislatore richiesto, invece, un rapporto
di stretta contestualita' tra la condotta e il compimento dell'atto
d'ufficio da parte del pubblico ufficiale, l'uso di violenza o
minaccia da parte dell'agente sara' normalmente funzionale ad
ostacolare il compimento dell'atto d'ufficio, con conseguente
configurabilita' della piu' grave ipotesi delittuosa di cui all'art.
337 cod. pen.
Nella nuova fisionomia risultante dalla riforma del 2009,
l'oltraggio si configura dunque come delitto offensivo anche del buon
andamento della pubblica amministrazione, sub specie di concreto
svolgimento della (legittima) attivita' del pubblico ufficiale, non
diversamente da quanto accade - per l'appunto - per il delitto di cui
all'art. 337 cod. pen.: delitto, quest'ultimo, che viene cosi' a
collocarsi in rapporto di possibile progressione criminosa rispetto
all'oltraggio, in relazione al non remoto pericolo che la reazione
verbale contro il pubblico ufficiale possa trasmodare in
un'aggressione minacciosa o addirittura violenta nei suoi confronti,
ad opera dello stesso autore del reato o dei terzi che, secondo la
nuova formulazione, debbono necessariamente essere presenti al
momento del fatto. Pericolo particolarmente acuto nelle ipotesi in
cui il fatto sia commesso in occasione di manifestazioni pubbliche,
come e' accaduto proprio nel caso oggetto del processo a quo.
Tale specifica dimensione offensiva non e' invece presente - se
non in termini del tutto sfumati ed eventuali - nel delitto di
oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario, che si
limita a richiedere che l'espressione offensiva sia profferita «al
cospetto» del corpo, della sua rappresentanza o del collegio, ovvero
addirittura mediante comunicazione offensiva "a distanza" diretta ai
destinatari, senza esigere alcun nesso con il compimento di uno
specifico atto dell'ufficio da parte dell'istituzione offesa.
A fronte di tale arricchita dimensione offensiva - e a fronte
della riduzione, rispetto al passato, dell'ambito applicativo della
fattispecie - non puo' ritenersi irragionevole la scelta del
legislatore di stabilire per l'oltraggio "individuale" un quadro
edittale piu' severo di quello previsto per il delitto di oltraggio a
corpo politico, amministrativo o giudiziario.
4.- Nemmeno puo' ritenersi fondata la censura formulata con
riferimento al principio di proporzionalita' della pena: principio la
cui base giuridica e' individuata dal rimettente nel solo art. 27,
terzo comma, Cost., ma che la giurisprudenza di questa Corte ritiene
fondato sul combinato disposto di tale norma e dell'art. 3 Cost. (ex
multis, tra le piu' recenti, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del
2018, n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, nonche' la stessa sentenza n.
341 del 1994, piu' volte citata), in un orizzonte normativo che tiene
conto anche delle corrispondenti garanzie riconosciute dalla CDFUE
(art. 49, paragrafo 3) e dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo (sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi
Bassi, par. 99; sentenza 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno
Unito, par. 102) relativa all'art. 3 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
(CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
4.1.- Non erra, in verita', il giudice a quo nel sottolineare che
la giurisprudenza costituzionale piu' recente ha gradatamente
affrancato il sindacato di conformita' al principio di proporzione
della pena edittale dalle strettoie segnate dalla necessita' di
individuare un preciso tertium comparationis da cui mutuare la
cornice sanzionatoria destinata a sostituirsi a quella dichiarata
incostituzionale; e ha spesso privilegiato (almeno a partire dalla
sentenza n. 343 del 1993) un modello di sindacato sulla
proporzionalita' "intrinseca" della pena, che - ferma restando
l'ampia discrezionalita' di cui il legislatore gode nella
determinazione delle cornici edittali (ex multis, sentenze n. 233 e
n. 222 del 2018, n. 179 del 2017, n. 148 del 2016) - valuta
direttamente se la pena comminata debba considerarsi manifestamente
eccessiva rispetto al fatto sanzionato, ricercando poi nel sistema
punti di riferimento gia' esistenti per ricostruire in via interinale
un nuovo quadro sanzionatorio in luogo di quello colpito dalla
declaratoria di incostituzionalita', nelle more di un sempre
possibile intervento legislativo volto a rideterminare la misura
della pena, nel rispetto dei principi costituzionali (per una recente
giustapposizione tra i due modelli di sindacato, sentenza n. 112 del
2019, Considerato in diritto, rispettivamente punti 8.1.2. e 8.1.3.).
Il rimettente incentra pero' apparentemente la propria censura
sull'asserita sproporzione del massimo edittale di tre anni di
reclusione previsto per il delitto di oltraggio.
Ora, tutte le questioni sinora accolte da questa Corte con le
quali si sollecitava un sindacato sulla proporzionalita' "intrinseca"
della pena hanno avuto a oggetto il minimo edittale (cosi' le citate
sentenze n. 40 del 2019 e n. 236 del 2016), ovvero il divieto di
prevalenza o equivalenza di circostanze attenuanti rispetto alle
circostanze aggravanti (sentenze n. 207 del 2017, n. 106 e n. 105 del
2014, n. 251 del 2012), o ancora pene fisse nel loro ammontare, e
pertanto foriere di risultati sanzionatori manifestamente eccessivi
in relazione a taluni almeno dei fatti abbracciati dalla norma
incriminatrice (sentenza n. 222 del 2018, nonche' - mutatis mutandis
- sentenza n. 112 del 2019, in materia di sanzioni amministrative).
In tutti questi casi sono venuti dunque in esame altrettanti limiti
normativi alla discrezionalita' del giudice nella commisurazione
della pena, che lo vincolavano a infliggere pene ritenute
manifestamente eccessive rispetto a classi di ipotesi situate ai
gradini piu' bassi della scala di disvalore idealmente tracciabile
all'interno del perimetro disegnato dalla fattispecie astratta.
Una doglianza di manifesta sproporzione della pena appare,
invece, gia' in astratto poco plausibile in rapporto al massimo
edittale, essendo normalmente possibile per il giudice utilizzare i
propri poteri discrezionali ex art. 133 cod. pen. per commisurare -
all'interno della cornice edittale - una pena inferiore,
proporzionata al disvalore del fatto concreto.
Laddove, dunque, il giudice a quo avesse effettivamente inteso
dolersi del massimo edittale di tre anni di reclusione previsto dalla
disposizione in esame, la sua censura sarebbe risultata inammissibile
per irrilevanza, in difetto di ogni motivazione sul perche' egli
abbia ritenuto di non poter infliggere all'imputata una pena piu'
contenuta e in concreto proporzionata al disvalore del fatto, purche'
non inferiore al minimo legale di quindici giorni di reclusione, e
tale comunque da poter essere - come di solito accade in questi casi
- condizionalmente sospesa, ovvero convertita in pena pecuniaria ai
sensi dell'art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al
sistema penale).
E' plausibile tuttavia ritenere che il rimettente abbia invece
inteso denunciare - mediante il riferimento testuale alla previsione
di una «pena detentiva con massimo edittale di tre anni» - il difetto
di proporzionalita' "intrinseca" del complessivo quadro edittale
previsto dalla disposizione in esame, e dunque anche del minimo
legale di quindici giorni di reclusione.
Una tale censura non puo' comunque trovare accoglimento, dal
momento che la sostituzione automatica dell'originaria pena minima di
sei mesi di reclusione con quella - risultante dall'art. 23 cod. pen.
- di quindici giorni di reclusione per il delitto di oltraggio e'
gia' stata implicitamente ritenuta compatibile con gli artt. 3 e 27,
terzo comma, Cost. dalla sentenza n. 341 del 1994, in relazione a una
fattispecie astratta caratterizzata, come si e' poc'anzi
sottolineato, da minor pregnanza offensiva rispetto a quella che ora
caratterizza il delitto di cui all'art. 341-bis cod. pen.
4.2.- Tale conclusione non muta nemmeno al cospetto dei parametri
sovranazionali, richiamati dal rimettente come criteri interpretativi
delle norme costituzionali interne, ma rispetto ai quali non vengono
fornite indicazioni giurisprudenziali da cui desumere il carattere
sproporzionato del ricorso a sanzioni detentive nei confronti
dell'autore di un oltraggio.
Al di la' del generico richiamo al principio di proporzionalita'
della pena di cui all'art. 49, paragrafo 3, CDFUE, affatto
inconferenti appaiono, in particolare, i richiami del giudice a quo
alla sentenza della Corte EDU, 24 settembre 2013, Belpietro contro
Italia, che concerne la tematica dei limiti di liceita' del ricorso
alla sanzione penale, soprattutto se di natura detentiva, per
sanzionare fatti lesivi dell'onore individuale commessi
nell'esercizio dell'attivita' giornalistica - attivita' cui la Corte
europea riconosce il cruciale ruolo di "cane da guardia" della
democrazia (ex multis, Corte EDU, sentenze 17 dicembre 2004, Cumpănă
e Mazăre contro Romania, paragrafo 93, e 27 marzo 1993, Goodwin
contro Regno Unito, paragrafo 39) - in relazione alle esigenze di
tutela della liberta' di espressione di cui all'art. 10 CEDU:
tematica che, all'evidenza, nulla ha a che vedere con la questione se
sia legittimo comminare sanzioni detentive a chi pubblicamente
insulti un pubblico ufficiale mentre compie uno specifico e legittimo
atto del proprio ufficio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 341-bis del codice penale, introdotto dall'art. 1, comma 8,
della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di
sicurezza pubblica), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27,
terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torino,
sezione sesta penale, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2019.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
Francesco VIGANO', Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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