N. 282 ORDINANZA 6 novembre - 20 dicembre 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Reati e pene - Delitto di ingiuria - Abrogazione e trasformazione in
illecito civile soggetto a sanzione pecuniaria - Denunciata lesione
di diritti inviolabili inerenti al principio fondamentale della
dignita' umana, lesione di obblighi internazionali e irragionevole
disparita' di trattamento rispetto al reato di diffamazione -
Manifesta inammissibilita' delle questioni.
- Legge 28 aprile 2014, n. 67, art. 2, comma 3; decreto legislativo
15 gennaio 2016, n. 7, art. 1, comma 1, lettera c).
- Costituzione, artt. 2, 3, 10 e 117, primo comma; Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea, art. 1; Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,
artt. 8 e 10.
(GU n.52 del 27-12-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Aldo CAROSI;
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3,
della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di
pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio.
Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa
alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell'art. 1, comma
1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7
(Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di
illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2,
comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Giudice di
pace di Venezia nel procedimento penale a carico di M. B., con
ordinanza del 16 ottobre 2018, iscritta al n. 11 del registro
ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2019.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2019 il Giudice
relatore Francesco Vigano'.
Ritenuto che il Giudice di pace di Venezia, con ordinanza del 16
ottobre 2018, ha sollevato - in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e
117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione
all'art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
(CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, e agli artt. 8 e 10 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 - questioni di
legittimita' costituzionale degli artt. 2, comma 3, della legge 28
aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive
non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni
in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei
confronti degli irreperibili) e 1, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di
abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni
pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2, comma 3, della legge 28
aprile 2014, n. 67), nella parte in cui dispongono l'abrogazione del
reato di ingiuria di cui all'art. 594 del codice penale, trasformando
la relativa fattispecie in un illecito civile sottoposto a sanzioni
pecuniarie civili;
che il giudice rimettente premette di essere chiamato a procedere
penalmente nei confronti di un soggetto imputato dei reati di
ingiuria e diffamazione, ai sensi degli artt. 594 e 595 cod. pen.,
per aver proferito in piu' occasioni una serie di espressioni
offensive nei confronti di altro soggetto, e per aver offeso la
reputazione dello stesso mediante missiva inviata a mezzo fax;
che il giudice a quo ha ritenuto, d'ufficio, rilevanti e non
manifestamente infondate le questioni di costituzionalita' degli
artt. 2, comma 3, della legge n. 67 del 2014, e 1, comma 1, lettera
c), del d.lgs. n. 7 del 2016, come sopra formulate;
che la rilevanza delle questioni risiederebbe, secondo il
rimettente, nel fatto che, avendo il giudizio principale ad oggetto -
tra l'altro - un'imputazione per il delitto di ingiuria di cui
all'art. 594 cod. pen., per effetto dell'abrogazione operata dalle
norme censurate egli sarebbe «tenuto a dichiarare di non doversi
procedere ex art. 129 codice procedura penale» in quanto il fatto non
e' piu' previsto dalla legge come reato, cosi' che dall'eventuale
dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle disposizioni
denunciate si realizzerebbe invece «la riespansione della rilevanza
penale del comportamento oggetto del reato di ingiurie», con
conseguente possibilita' di proseguire il processo, al fine di
verificare in dibattimento la sussistenza del reato contestato
all'imputato;
che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il
rimettente premette che «[l']onore costituisce uno dei beni
fondamentali della persona umana riconosciuto tra i diritti
inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione», come
riconosciuto da questa Corte (sono citate le sentenze n. 86 del 1974
e n. 38 del 1973);
che, sempre ad avviso del rimettente, le disposizioni censurate
determinerebbero «la fuoriuscita del bene dell'onore e del decoro dal
sistema di tutela pubblicistica dei diritti fondamentali»; cio' nel
contesto di un ordinamento in cui non vi sarebbero «diritti
inviolabili di cui all'art. 2 della Costituzione che non siano
protetti anche dalle norme penali, proprio in virtu' della massima
tutela che ad essi viene garantita»;
che, per il giudice a quo, i concetti di onore, decoro e
reputazione sarebbero ricompresi in quello della dignita' di ogni
essere umano, la quale «e' tutelata come diritto fondamentale nella
Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea», fonte normativa
recepita - ad avviso del rimettente - «nella nostra Costituzione in
forza degli artt. 10 e 117»;
che la stessa dignita', per il rimettente, troverebbe «implicita
affermazione» nel riconoscimento operato dall'art. 2 Cost. dei
diritti inviolabili dell'uomo, diritti i quali potrebbero essere
tutelati soltanto attraverso norme penali, per essere queste «poste,
ontologicamente, a difesa dei diritti inviolabili dell'essere umano»;
e cio' «sia per l'efficacia deterrente della sanzione penale, che per
l'inadeguatezza delle sanzioni amministrative o civili che appaiono
inconciliabili a prevenire, ricomporre o reprimere le condotte lesive
dei diritti fondamentali»;
che per il giudice a quo la depenalizzazione operata dalle
disposizioni censurate, degradando «il reato che tutela un bene di
rilevanza costituzionale ad un illecito civile sottoposto unicamente
al nuovo istituto della sanzione pecuniaria civile (art. 4 del D.
Lgs. n. 7/2016)», risulterebbe incompatibile sia con gli artt. 2 e 3
Cost., sia con «i principi costituzionali espressi nell'art. 10 e
nell'art. 117 della Carta costituzionale poiche' la potesta'
legislativa e' stata esercitata dallo Stato con legge ordinaria senza
rispettare i vincoli e i principi derivanti dagli obblighi
internazionali e dalle norme di diritto internazionale generalmente
riconosciute, tanto da violare apertamente il principio fondamentale
della dignita' umana espresso nell'art. 1 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell'Unione Europea e gli artt. 8 e 10 della Convenzione
Europea dei diritti dell'Uomo»;
che, secondo il rimettente, le norme censurate sarebbero
contrarie anche all'art. 3 Cost., in quanto la depenalizzazione del
reato di ingiuria avrebbe determinato una irragionevole disparita' di
trattamento rispetto al reato di diffamazione di cui all'art. 595
cod. pen., delitto riconducibile «alla stessa medesima ratio e allo
stesso diritto fondamentale», distinguendosi solamente per la
presenza o meno dell'offeso al momento della condotta, il che
risulterebbe con evidenza in riferimento all'abrogazione dell'ipotesi
aggravata di cui all'art. 594, quarto comma, cod. pen., che disponeva
un aumento di pena qualora l'offesa fosse commessa «in presenza di
piu' persone», risultando del tutto irragionevole «[l]a scelta di
perseguire un fatto "comunicando con piu' persone" in assenza
dell'offeso (diffamazione) e di non punire il medesimo fatto
"commesso in presenza di piu' persone" quindi in presenza dell'offeso
(ingiuria)»;
che nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, concludendo per l'inammissibilita' o, comunque, per
l'infondatezza delle questioni sollevate;
che, ad avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, le questioni
sarebbero inammissibili, posto che rientrerebbero in una materia che
«attiene all'esercizio della discrezionalita' legislativa, sottratta
al sindacato della Corte costituzionale», senza che i precedenti di
questa Corte su norme penali di favore o, comunque, abrogative di
fattispecie penali (sono citate le sentenze n. 215 del 2017, n. 81 e
n. 5 del 2014, n. 394 del 2006, nonche' l'ordinanza n. 175 del 2001)
possano ritenersi pertinenti rispetto alle censure sollevate nel
giudizio a quo;
che, sempre secondo l'Avvocatura generale dello Stato,
l'intervenuta depenalizzazione non sarebbe ne' arbitraria, ne'
manifestamente irragionevole, «perseguendo anzi chiari fini di
deflazione del sistema penale, in funzione della sua efficienza e
della ragionevole durata del processo, costituenti altrettanti beni
tutelati dalla Costituzione, secondo un ragionevole equilibrio di
interessi», non potendosi condividere l'assunto del rimettente
secondo cui «l'offesa a beni giuridici "costituzionalmente rilevanti"
debba necessariamente avere tutela penale»;
che, infine, le censure sollevate in riferimento agli artt. 2, 10
e 117 Cost. sarebbero, ad avviso dell'Avvocatura generale dello
Stato, del tutto immotivate, posto che «la circostanza che la
dignita' dell'uomo assurga a bene costituzionale non comporta
necessariamente che l'ingiuria debba essere punita penalmente
piuttosto che con sanzione pecuniaria», neppure per il diritto
europeo, e che la «contrarieta' delle norme impugnate agli obblighi
internazionali e' meramente postulata», senza alcuna illustrazione
dei motivi, con conseguente inammissibilita' delle censure per
«assoluta genericita' ed indeterminatezza».
Considerato che l'ordinanza del giudice rimettente solleva
plurime censure miranti a ripristinare il delitto di ingiuria di cui
all'art. 594 del codice penale, abrogato per effetto dell'art. 1,
comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7
(Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di
illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2,
comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), fondate sull'assunto che
dalla natura inviolabile dei diritti presidiati dalla norma penale
abrogata deriverebbero obblighi di incriminazione, oltre che
sull'asserita irragionevole disparita' di trattamento tra la
fattispecie dell'ingiuria e quella della diffamazione, di cui
all'art. 595 cod. pen.;
che le censure proposte in riferimento agli artt. 2 e 3 della
Costituzione e quelle proposte in riferimento agli artt. 10 e 117,
primo comma, Cost. in relazione all'art. 1 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sono
sostanzialmente identiche a quelle sollevate dallo stesso rimettente
con precedenti plurime ordinanze e incorrono nelle medesime ragioni
di inammissibilita' - basate sulla richiesta di un intervento in
malam partem in materia penale, al di fuori dalle eccezioni
desumibili dal sistema - e, rispettivamente, di manifesta
inammissibilita' - per radicale assenza di motivazione sulla loro non
manifesta infondatezza - rilevate rispetto ad esse dalla sentenza n.
37 del 2019;
che l'ulteriore profilo di censura formulato dal rimettente
nell'odierna ordinanza, in riferimento all'art. 117, primo comma,
Cost. in relazione agli artt. 8 e 10 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
(CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e' sfornito di qualsiasi
sviluppo argomentativo, cio' che rende manifestamente inammissibile
anche tale censura.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilita' delle questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, della legge 28
aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive
non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni
in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei
confronti degli irreperibili) e dell'art. 1, comma 1, lettera c), del
decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di
abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni
pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2, comma 3, della legge 28
aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e
117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione
all'art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
(CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, e agli artt. 8 e 10 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Giudice di pace
di Venezia con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2019.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
Francesco VIGANO', Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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