SENTENZA N. 22
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino
CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO,
Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI,
Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo
CORAGGIO, Giuliano AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art.
19 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 7 agosto 2012, n. 135, promossi dalle Regioni Lazio, Veneto,
Campania, dalla Regione autonoma Sardegna e dalla Regione Puglia con
ricorsi notificati il 12-17, il 12, il 13-17, il 12 e il 15-18 ottobre
2012, depositati in cancelleria il 16, il 17, il 18, il 19 e il 24
ottobre 2012 e rispettivamente iscritti ai nn. 145, 151, 153, 160 e 172
del registro ricorsi 2012.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 dicembre 2013 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi gli avvocati Marcello Cecchetti per la Regione
Puglia, Francesco Saverio Marini per la Regione Lazio, Luigi Manzi,
Daniela Palumbo e Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Beniamino
Caravita di Toritto per la Regione Campania, Massimo Luciani per la
Regione autonoma Sardegna e l’avvocato dello Stato Raffaele Tamiozzo per
il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Le Regioni Lazio, Veneto, Campania e Puglia, e la
Regione autonoma Sardegna, con i ricorsi in epigrafe, hanno proposto
questioni di legittimità costituzionale di varie disposizioni del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario), convertito, con modificazioni, dell’art. 1, comma 1, della
legge 7 agosto 2012, n. 135, e, tra queste, dell’art. 19.
In particolare, le disposizioni censurate sono quelle
di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), e), ed ai commi da 2 a 6,
con la precisazione, però, che le questioni relative ai commi 2, 5 e 6
sono state riservate a separata trattazione nella stessa udienza
pubblica del 3 dicembre 2013.
In estrema sintesi, l’art. 19, per quanto forma in questa sede oggetto di impugnazione, rispettivamente:
– al comma 1, lettera a) – che reca il nuovo testo
del comma 27 dell’art. 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78
(Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122 – ridefinisce le funzioni
fondamentali dei Comuni ai sensi della lettera p) dell’art. 117, secondo
comma, Cost.
– al comma 1, lettera b) − che sostituisce il comma
28 dell’art. 14 anzidetto − dispone, con riferimento ai Comuni con
popolazione fino ai 5.000 abitanti, l’esercizio obbligatorio in forma
associata delle funzioni fondamentali, mediante unione di Comuni o
convenzioni di durata triennale;
– al comma 1, lettera c) – che aggiunge il comma
28-bis al citato art. 14 – prevede che alle unioni di Comuni di cui al
riscritto precedente comma 28 si applichi la disciplina di cui all’art.
32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali) e successive modificazioni; e
che ai Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti si applichi quanto
previsto al comma 17, lettera a), dell’art. 16 del decreto-legge 13
agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione
finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, a norma del quale il
Consiglio comunale è composto dal sindaco e da sei consiglieri;
– al comma 1, lettera d) – che sostituisce il comma
30 dello stesso art. 14 − dispone che le Regioni, nelle materie di cui
all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost., individuano le dimensioni
territoriali ottimali per l’esercizio delle funzioni in forma
obbligatoriamente associata, mediante unioni e convenzioni;
– al comma 1, lettera e) – che sostituisce il comma
31 del medesimo art. 14 − individua il limite demografico minimo delle
unioni di Comuni in 10.000 abitanti, salva diversa determinazione da
parte della Regione;
– al comma 3 − che sostituisce l’art. 32 del citato
d.lgs. n. 267 del 2000 − pone una disciplina articolata delle unioni di
Comuni, con differenti profili, attinenti alle procedure di istituzione
ed alla struttura organizzativa delle unioni, nonché alla disciplina
delle funzioni che queste ultime sono destinate a svolgere;
– al comma 4 prevede, per i Comuni con popolazione
fino a 5.000 abitanti, una facoltà di scelta tra i modelli organizzativi
di cui ai precedenti commi 1 e 2.
2.– La Regione Lazio deduce che la disciplina recata
dall’art. 19 denunciato – e, secondo il tenore della prospettazione, in
particolar modo quella di cui al comma 1, lettere da a) a d) –
violerebbe il combinato disposto degli artt. 117, secondo comma, lettera
p), terzo e quarto comma, Cost., ledendo le attribuzioni costituzionali
regionali, dovendo essere ricondotta nell’alveo di siffatte
attribuzioni «la regolazione delle associazioni degli enti locali», là
dove lo Stato dovrebbe «limitarsi a stabilire la disciplina in tema di
“legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di
Comuni, Province e Città metropolitane”, restando evidentemente esclusi
da tale “voce” tutti gli aspetti riguardanti l’associazionismo di tali
enti».
In questi termini – sottolinea la ricorrente – si
sarebbe orientata la stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n.
456 del 2005, n. 244 del 2005 e n. 229 del 2001), mettendo in luce il
carattere «puntuale» della «tassativa» elencazione «degli enti, e degli
aspetti della loro disciplina, contenuta nell’art. 117, comma secondo,
lettera p)».
E tali conclusioni la medesima ricorrente ha ribadito
con memoria depositata in prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013
(cui è stata rinviata, a seguito di ordinanza n. 227 del 2012, la
trattazione delle questioni), nella quale aggiunge che, sulla scorta
dell’orientamento della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 27
del 2010), l’esercizio associato di funzioni da parte degli enti locali è
da ascriversi alla potestà legislativa residuale delle Regioni, salva
l’eventualità di un intervento di contenimento della spesa pubblica in
base ai principi di coordinamento della finanza pubblica, che però, nel
caso di specie, non sarebbe ravvisabile, posto che la normativa
denunciata risulta dettagliata e non transitoria.
3.– Anche la Regione Veneto assume che il denunciato
art. 19, con le sue plurime disposizioni (e, in particolare, i commi 1,
lettere da b ad e, e 3) – le quali, là dove attengono specificamente ai
Comuni, sono suscettibili di essere impugnate dalla Regione, giacché i
profili di illegittimità che le riguardano «si traducono in altrettante
violazioni dell’autonomia regionale costituzionalmente garantita» –
violerebbe, in primo luogo, l’art. 117, quarto comma, Cost., dal quale,
letto in combinato disposto con il secondo e il terzo comma dello stesso
art. 117, si ricaverebbe che la materia «forme associative tra gli enti
locali» rientra nella potestà legislativa regionale residuale. Il che
sarebbe, del resto, confermato dalla stessa giurisprudenza
costituzionale (sentenze n. 27 del 2010, n. 237 del 2009, n. 456 e n.
244 del 2005), che ha escluso, in riferimento alle comunità montane (e
lo stesso varrebbe per le unioni di Comuni alle quali ha riguardo la
norma denunciata), l’intervento della competenza statale di cui alla
lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., ascrivendo la relativa
disciplina alla competenza residuale delle Regioni.
Invero, nonostante le disposizioni di cui all’art. 19
del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
135 del 2012, siano qualificate come norme di «coordinamento della
finanza pubblica», esse sarebbero ben lungi dal costituire principi
fondamentali di siffatta materia, posto che, per un verso, non si
limitano a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica,
«intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se
non generale, della spesa corrente»; e, per altro verso, prevedono «in
modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti
obiettivi».
Inoltre, sarebbe violato anche l’art. 118, primo
comma, Cost., il quale non fa riferimento alle unioni di Comuni o alle
convenzioni tra Comuni, che, pertanto, «dovrebbero essere, soprattutto
nel rispetto del fondamentale art. 114 Cost., libere forme associative
cui il Comune può (non deve) ricorrere».
Infine, la Regione Veneto sostiene che il «complesso
di censure avanzate nei confronti dell’art. 19» condurrebbe a ritenere
sussistente anche la violazione dell’art. 119 Cost., «peraltro anche con
riguardo all’autonomia finanziaria di entrata e di spesa dei Comuni»,
nonché degli artt. 3 e 97 Cost., «specialmente per il fatto che i Comuni
con popolazione fino a 5.000 abitanti sono obbligati tout court (e
quindi in violazione del principio costituzionale di differenziazione)
all’esercizio mediante unione di Comuni o convenzione delle loro
funzioni fondamentali».
3.1.− In prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013,
la Regione Veneto ha depositato memoria con la quale insiste per
l’illegittimità costituzionale delle denunciate disposizioni dell’art.
19.
4.– La Regione Campania ritiene, a sua volta,
illegittimo il comma 1, lettera a) dell’art. 19, «nella parte in cui,
nel modificare la disciplina delle funzioni fondamentali dei comuni
precedentemente recata dall’art. 14, comma 27, decreto-legge n. 78/2010,
riconosce in materia alle Regioni le sole funzioni di programmazione e
di coordinamento, spettanti nelle materie di cui all’art. 117, commi
terzo e quarto, Cost., nonché quelle esercitate ai sensi dell’art. 118
Cost.».
La ricorrente osserva al riguardo che la norma
denunciata, nel circoscrivere il ruolo delle Regioni a quello
dell’esclusivo svolgimento dei compiti di programmazione e
coordinamento, di fatto sottrarrebbe agli stessi enti «tutte le funzioni
non espressamente richiamate, malgrado le stesse siano pacificamente
spettanti ai sensi del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost.».
Invero, si evincerebbe dall’art. 118 Cost. che la
Regione è titolare «di un ampio novero di funzioni che potrà delegare ai
comuni o alle province o alle città metropolitane» e che tale
attribuzione in concreto necessita di una legge di conferimento, come
pure ribadito dall’art. 7 della legge 5 giugno 2003, n. 131
(Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). Sicché, il legislatore
(statale e regionale) ha il compito di conferire ai Comuni le funzioni
amministrative precedentemente esercitate, con contestuale trasferimento
delle risorse necessarie, potendo però «provvedere all’allocazione
delle funzioni medesime ad un livello diverso da quello comunale,
laddove ciò permetta il loro migliore esercizio». Ciò, tuttavia, non
escluderebbe che, «nella propria opera di concreta destinazione delle
funzioni amministrative rientranti nelle materie di propria competenza»
(ai sensi dell’art. 117, commi terzo e quarto, Cost.), la Regione possa
anche riservarsi «l’esercizio di compiti diversi ed ulteriori rispetto a
quelli di programmazione e coordinamento».
La norma denunciata limiterebbe, invece, il ruolo
regionale allo svolgimento esclusivo di compiti di programmazione e
controllo, ridimensionando in modo illegittimo il potere della Regione
«di optare per un diverso sistema di riparto delle funzioni
amministrative»; ciò determinando un vulnus agli artt. 117, commi terzo e
quarto, e 118 Cost.
Ove, poi, non si intendesse riconoscere la lesione
dell’art. 117, quarto comma, Cost., sussisterebbe in ogni caso quella
del combinato disposto degli artt. 117 e 118 Cost. sul riparto
costituzionale di competenze legislative di Stato e Regioni in materia
di disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative da parte
degli enti locali, «nella misura in cui la norma statale disciplina
l’esercizio in forma associata, da parte dei comuni interessati, di
tutte le funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici loro
spettanti sulla base della legislazione vigente».
Difatti, non potendo revocarsi in dubbio che la
competenza regionale in materia di disciplina dell’esercizio delle
funzioni amministrative sussista «ogni qualvolta le funzioni stesse
interessino ambiti materiali di diretta pertinenza regionale (esclusiva o
concorrente)», il censurato art. 19, mancando di distinguere le
funzioni amministrative attualmente esercitate dai Comuni interessati,
ha «sicuramente ricompreso anche funzioni ricadenti in ambiti materiali
regionali, violando in tal modo le attribuzioni costituzionalmente
garantite alla regione».
4.1.– Peraltro, l’art. 19 prevede ulteriori
disposizioni in materia di esercizio associato delle funzioni in ambito
comunale, quali quelle di cui alle lettere da b) a d) del comma 1, che
modificano integralmente la disciplina posta in materia dai commi 28 e
seguenti dell’art. 14 del citato d.l. n. 78 del 2010. Tali disposizioni
stabiliscono l’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali,
mediante unione o convenzione, da parte dei Comuni con popolazione fino a
5.000 abitanti (3.000 se in comunità montane), là dove il ruolo della
Regione viene limitato, in relazione alle materie di cui al terzo e
quarto comma dell’art. 117 Cost., «alla mera individuazione, previa
concertazione con gli enti locali interessati nell’ambito del C.A.L.,
della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica
per lo svolgimento associato delle funzioni suddette». Inoltre, il comma
3 dell’art. 19 innova l’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, in ordine
alla disciplina delle unioni di Comuni.
Secondo la ricorrente, anche tali disposizioni
sarebbero, all’evidenza, in contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost., in
ragione delle considerazioni in precedenza svolte circa la competenza
regionale riferita alla disciplina degli strumenti e delle modalità a
disposizione dei Comuni per l’esercizio congiunto delle funzioni loro
spettanti.
4.2.– Con successive memorie depositate in prossimità
sia dell’udienza pubblica del 19 giugno 2013 che di quella del 3
dicembre 2013, la Regione Campania ha reiterato e ulteriormente
argomentato le conclusioni già rassegnate.
In particolare ha evidenziato che, in sede di esame
del progetto di legge in itinere (AC 1542), tramite il quale si
intenderebbe intervenire nuovamente sulla disciplina dell’unione dei
Comuni, la Corte dei conti, nell’audizione del 6 novembre 2013, avrebbe
espresso dubbi sulla reale incidenza delle nuove istituzioni sul
risparmio di spesa nel lungo periodo, adducendo che «la potenziale
dinamica virtuosa che connota, tendenzialmente, l’esercizio associato di
funzioni e servizi è frenata dai fattori di rigidità della spesa
corrente». Con ciò sarebbero smentite le enunciazioni del legislatore in
ordine alla riconducibilità delle disposizioni di cui all’art. 19
denunciato al «coordinamento della finanza pubblica», trattandosi, in
ogni caso, di disposizioni analitiche e di dettaglio, che non terrebbero
conto, nel disegno di complessivo riordino cui mirano, dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, tanto da non essere
neppure in grado di assicurare «le attese riduzioni di spesa».
5.– Anche la Regione autonoma Sardegna ha impugnato
l’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, il quale, «nel novellare l’art. 16
del decreto-legge n. 138 del 2011 e nel dettare ulteriori disposizioni
in tema di unioni di comuni, ha ulteriormente modificato in profondità
l’organizzazione politico-amministrativa dei comuni minori della
Sardegna, attraverso una disciplina di estremo dettaglio e
particolarmente stringente».
Le disposizioni del denunciato art. 19 –
nell’istituire obbligatoriamente unioni di Comuni, nel ridurre
contestualmente i consigli comunali a puri organi di partecipazione e il
sindaco a semplice ufficiale di Governo – provocherebbero, di fatto,
secondo la ricorrente «la soppressione dei comuni che partecipano a
questa forma associativa e la loro sostituzione con un nuovo tipo di
ente territoriale», con conseguente contrasto con le norme che
garantiscono alla Regione Sardegna una sfera di autonomia legislativa
esclusiva in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni» di cui all’art. 3, primo comma, lettera b), della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la
Sardegna), che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto
particolarmente ampia, tanto da consentire l’istituzione di nuove
Province.
Sarebbe, altresì violato l’art. 117, quarto comma,
Cost., posto che la competenza esclusiva dello Stato di cui alla lettera
p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., così come non può riguardare −
per essere tassativamente riferita a Comuni, Province e Città
metropolitane (sentenze n. 456 e n. 244 del 2005) − le comunità montane
(la cui disciplina rientra in quella residuale regionale, siccome
garantita, per il tramite dell’art. 10 della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 «Modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione», anche alla Regione Sardegna) − del pari non potrebbe
attenere alle unioni di Comuni.
Peraltro, non potrebbe far venir meno la lesività
delle censurate disposizioni la clausola di salvaguardia delle
competenze delle Regioni ad autonomia differenziata recata dal comma 29
dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, posta, in primo luogo, la già
evidenziata competenza legislativa esclusiva della Regione Sardegna
nella materia «ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni», nonché, ulteriormente, il fatto che l’art. 19 censurato
«non introduce una normativa di carattere generale o limitata ai
principi di semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli
enti non necessari, bensì un’autoritativa e unilaterale determinazione
delle forme e delle modalità di attuazione della c.d. intercomunalità,
cui segue una regolamentazione di estremo dettaglio, della quale la
Regione, anche attivando le procedure necessarie per il rispetto del
proprio Statuto, e pur applicandosi quanto previsto dall’art. 27 della
legge n. 42 del 2009, non potrebbe che prendere atto e recepire in via
automatica». Sicché, sarebbe anche da escludere che la disciplina
denunciata possa integrare una fondamentale riforma economico-sociale
della Repubblica, ovvero esercizio della potestà legislativa di cui
all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.
5.1.– Con successiva memoria, la ricorrente, nel
ribadire le ragioni dell’impugnativa, osserva, segnatamente, che la
disciplina censurata, dettata in violazione della competenza esclusiva
regionale in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni», di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), dello statuto,
non solo non prevederebbe alcun principio fondamentale in ordine «alle
esigenze di semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli
enti non necessari», ma verrebbe a stabilire «un’autoritativa e
unilaterale determinazione del livello demografico della c.d.
intercomunalità, cui segue una regolamentazione di estremo dettaglio»,
che la Regione non potrebbe che recepire automaticamente, senza
adattamenti in base alle procedure statutarie, come previsto dalla
clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis dello stesso d.l. n. 95
del 2012.
La ricorrente esclude, inoltre, che la disposizione
denunciata possa trovare titolo di legittimazione nello stesso art. 3
dello statuto, ove si prevede che la competenza legislativa regionale
debba esercitarsi in armonia con i principi dell’ordinamento giuridico
della Repubblica e nel rispetto delle norme fondamentali delle riforme
economico-sociali della Repubblica stessa, non potendo i primi desumersi
da una singola norma o da un singolo intervento normativo e le seconde
essere ricondotte al profilo istituzionale degli enti locali anziché ai
rapporti economico-sociali tra cittadini o tra cittadini e istituzioni.
Ed ancora non potrebbe la norma denunciata essere giustificata come
esercizio della potestà legislativa di cui alla lettera p) del secondo
comma dell’art. 117 Cost., giacché questa regola soltanto il riparto di
competenze tra Stato e Regioni ordinarie, là dove è l’art. 3 dello
statuto «a definire gli ambiti di attribuzione dello Stato e della
Regione Sardegna».
La difesa regionale contesta, poi, che l’intervento
normativo oggetto di censura possa ricondursi alla materia del
«coordinamento della finanza pubblica», osservando che, oltre ad essere
di dettaglio, non sortirebbe alcun «effetto virtuoso sui saldi di
finanza pubblica», come sarebbe dimostrato dal fatto che nella
“relazione tecnica” di accompagnamento al d.d.l. di conversione in legge
del d.l. n. 95 del 2012 si afferma che in base alla previsione di cui
all’art. 19 non deriveranno ulteriori spese, ma non già «utilità dal
punto di vista dei risparmi finanziari».
6.– La Regione Puglia analogamente sostiene che il
comma 1, lettera a), dell’art. 19 denunciato violerebbe gli artt. 117,
secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., «nella
parte in cui include tra le funzioni fondamentali dei Comuni anche
funzioni amministrative ricadenti in materie di competenza legislativa
concorrente o residuale regionale».
A tal riguardo, la difesa regionale osserva che la
potestà legislativa statale di cui alla lettera p) del secondo comma
dell’art. 117 Cost., è «per sua natura, limitata», non potendo lo Stato
giungere a «qualificare liberamente» qualsiasi funzione amministrativa
come «funzione fondamentale» dei Comuni o delle Province, così da
poterne disporre l’integrale disciplina. Ciò in quanto, diversamente
opinando, si priverebbe di qualunque «contenuto precettivo gli artt.
117, terzo e quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., i quali
prescrivono che sia la legge regionale ad allocare e disciplinare le
funzioni amministrative nelle materie diverse da quelle di competenza
legislativa statale».
Ad avviso della ricorrente, il carattere «limitato»
della richiamata potestà legislativa statale in materia di «funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» sarebbe stato
riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale, sebbene in essa
non si rinvenga una chiara individuazione di siffatti limiti. Invero,
secondo la Regione Puglia, dette «funzioni fondamentali» dovrebbero in
non altro consistere che nella potestà statutaria, nella potestà
regolamentare e nella potestà amministrativa «a carattere
“ordinamentale” concernente le funzioni essenziali che attengono alla
vita stessa e al governo degli enti locali territoriali ivi
espressamente contemplati». Con esclusione, quindi, delle funzioni
«amministrativo-gestionali» in senso proprio, e, a maggior ragione, di
«alcune di quelle individuate dalla norma legislativa qui censurata».
In tal senso deporrebbe una serie di convergenti
argomenti. In primo luogo, quello «topografico» e cioè l’aver l’art.
117, secondo comma, lettera p), Cost. inserito le «funzioni
fondamentali» nell’ambito dello stesso testo normativo che contempla gli
«organi di governo» e la «legislazione elettorale». In secondo luogo,
il rilievo che assumono i principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza di cui all’art. 118, primo comma, Cost. nell’allocazione
(sia da parte della legge statale, che della legge regionale) delle
funzioni amministrative, sicché, essendo «la ratio della attribuzione
allo Stato di una competenza legislativa […] da rintracciare in una
esigenza unitaria di livello nazionale, risulterebbe del tutto
incomprensibile individuare una tale esigenza unitaria nell’ipotesi in
cui tra le funzioni fondamentali menzionate alla lettera p) dell’art.
117, secondo comma, Cost., fossero annoverabili anche funzioni
amministrative consistenti nella concreta cura di interessi». Peraltro,
ciò non pregiudicherebbe la necessità di garantire standard di
uniformità di certe funzioni rilevanti per le collettività locali, che,
in quanto tali, si volessero includere tra le funzioni fondamentali,
potendo lo Stato attivare la propria competenza in materia di «livelli
essenziali delle prestazioni» o, comunque, lo strumento del potere
sostitutivo straordinario di cui all’art. 120, secondo comma, Cost.
Diversamente, la qualificazione in termini di
«fondamentali» delle funzioni amministrative rientranti in materie di
potestà legislativa regionale equivarrebbe ad espropriare le Regioni
«della possibilità di disciplinare e allocare importanti funzioni
amministrative ricadenti negli ambiti materiali che la Costituzione
assegna alla loro competenza legislativa». In tale lesiva direzione si
sarebbe mossa la norma denunciata, comprendendo tra le funzioni
fondamentali «settori di primissima importanza». Tra questi, la
«organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito
comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale», che
inerisce alla materia dei «servizi pubblici locali», da collocarsi
nell’ambito dell’art. 117, quarto comma, Cost. Ed ancora, la
«pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la
partecipazione alla pianificazione territoriale di livello
sovracomunale», riferibile al «governo del territorio»; la
«progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed
erogazione della relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto
previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione»,
ascrivibile alla competenza residuale regionale, in materia di «servizi
sociali» (come si evincerebbe dalle sentenze n. 61 e n. 40 del 2011, n.
10 del 2010 e n. 50 del 2008, di questa Corte). Inoltre, le funzioni in
tema di «edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza
delle province», nonché in tema di «organizzazione e gestione dei
servizi scolastici», posto che lo Stato, in materia di istruzione,
dispone unicamente della competenza sulle «norme generali
sull’istruzione» di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., ed i
«principi fondamentali» in materia di «istruzione» di cui all’art. 117,
terzo comma, Cost. Così come le «attività, in ambito comunale, di
pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi
soccorsi», rientranti nella competenza regionale in materia di
«protezione civile», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.; e,
infine, le funzioni in materia di «polizia municipale e polizia
amministrativa locale», espressamente escluse, dall’art. 117, secondo
comma, Cost., dalla competenza esclusiva statale e da ricondursi,
invece, alla potestà legislativa regionale residuale.
La difesa regionale sostiene, poi, che dalla stessa
giurisprudenza costituzionale si trarrebbe la convinzione che
«importanti servizi pubblici locali non possano senz’altro essere
“avocati” alla competenza legislativa dello Stato mediante la
utilizzazione, da parte di quest’ultimo, della qualificazione dei
medesimi come “funzioni fondamentali”». Ciò si evincerebbe, anzitutto,
dalla sentenza n. 274 del 2004, che ha «escluso che le norme in tema di
servizi pubblici locali possano rientrare» nella anzidetta competenza
statale, in quanto la «gestione dei predetti servizi non può certo
considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile
dell’ente locale». Inoltre, con la sentenza n. 325 del 2010 si è
affermato chiaramente che il servizio idrico integrato «non costituisce
funzione fondamentale dell’ente locale».
Donde, la considerazione che dette funzioni
fondamentali non possano identificarsi con quelle aventi la «cura
concreta di interessi», la cui allocazione ad un livello di governo
diverso da quello ritenuto inadeguato deve avvenire per legge in forza
del principio di sussidiarietà e, posto che la legge potrebbe
attribuirle ad un livello «ultracomunale» (si veda, ad es., l’art. 3-bis
del d.l. n. 138 del 2011), «appare chiaro che nessuna funzione di cura
concreta di interessi è ontologicamente propria e indefettibile per i
comuni», essendo quest’ultime solo quelle «ordinamentali».
In ogni caso, le sentenze sopra citate avrebbero
escluso che lo Stato possa ascrivere ad libitum la qualifica di
«fondamentale» a qualsiasi funzione delle Province, Comuni e Città
metropolitane ed hanno ritenuto che detta qualificazione non possa
riguardare i servizi pubblici locali e, segnatamente, il servizio
pubblico integrato.
Né potrebbe valere a contrario – soggiunge la difesa
regionale – quanto deciso dalla più recente sentenza n. 148 del 2012,
che ha dichiarato non fondata «analoga censura» mossa proprio dalla
Regione Puglia avverso l’art. 14, comma 27, del d.l. n. 78 del 2010,
posto che in quell’occasione la Corte ha ritenuto che la qualificazione
di «funzioni fondamentali» fosse caratterizzata dalla «transitorietà» ed
orientata a «limitati fini», mentre la norma attualmente denunciata
detta una disciplina generale e «a regime».
6.1.– È censurata poi, dalla medesima ricorrente, la
lettera d) del comma 1 dell’art. 19, che affida alla Regione
l’individuazione della dimensione territoriale ottimale e omogenea per
area geografica per lo svolgimento, in forma obbligatoriamente associata
da parte dei Comuni delle funzioni fondamentali; la norma impugnata
contrasterebbe, anzitutto, con gli artt. 117, quarto comma, e 118,
secondo comma, Cost., «nella parte in cui si rivolge anche a funzioni
amministrative ricadenti in ambiti materiali affidati, ex art. 117,
quarto comma, Cost., alla potestà legislativa regionale residuale».
Sul presupposto che le funzioni fondamentali possano
essere solo quelle «ordinamentali» e, dunque, quelle essenziali
attinenti «alla vita stessa e al governo degli enti locali», la Regione
Puglia sostiene che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. non
potrebbe legittimare lo Stato a dettare disposizioni che disciplinino
l’allocazione e l’esercizio di funzioni amministrative soltanto in
ragione del fatto che queste ultime siano qualificate «fondamentali»
dalla stessa legge statale. Invero, lo Stato è legittimato a dettare
principi di allocazione delle funzioni amministrative, che dovranno,
poi, essere svolti dalla legislazione regionale ed in tal senso si
declina la disciplina oggetto di censura, la quale «pone alcuni principi
fondamentali sulla allocazione di funzioni amministrative». Tuttavia,
detta legittimazione dovrà essere circoscritta alle materie di
competenza esclusiva ovvero a quelle di competenza concorrente ex art.
117, terzo comma. Cost., ma non già investire le materie di competenza
residuale delle Regioni, di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost.
L’art. 19, comma 1, lettera d), del d.l. n. 95 del
2012 si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 123, primo e ultimo
comma, Cost., «nella parte in cui impone alla Regione di attivare una
“concertazione con i comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle
autonomie locali”».
Siffatta previsione invaderebbe, infatti, la riserva
di potestà statutaria regionale in materia di organizzazione e di
funzionamento della Regione, stabilita dal primo comma dell’art. 123
Cost., nonché sulla disciplina del Consiglio delle autonomie locali e
delle sue funzioni «quale organo di consultazione fra la Regione e gli
enti locali», riconosciuta dal quarto comma dello stesso art. 123. Né,
peraltro, sussisterebbe qualche titolo di legittimazione statale ad
intervenire sul Consiglio delle autonomie locali, «che la Costituzione
espressamente qualifica quale organo regionale necessario e
indefettibile». Del resto, la normativa statale con la quale si è
individuato l’organo regionale titolare di determinate funzioni è stata
già oggetto di pronunce di incostituzionalità, per lesione
dell’autonomia regionale quanto alla sua organizzazione interna, con le
sentenze n. 22 del 2012, n. 201 del 2008 e n. 387 del 2007.
6.2.– L’esaminata impugnativa coinvolge anche la
disposizione di cui alla lettera e) del comma 1 dello stesso art. 19,
che individua il limite demografico minimo delle unioni di Comuni in
10.000 abitanti, salva diversa determinazione da parte della Regione
«entro i tre mesi antecedenti il primo termine di esercizio associato
obbligatorio delle funzioni fondamentali, ai sensi del comma 31-ter».
Detta norma, secondo la ricorrente, violerebbe l’art.
117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., «in quanto il
legislatore statale ordinario non dispone di un titolo di legittimazione
a regolare l’istituzione e l’organizzazione delle unioni di comuni,
poiché, in materia di ordinamento degli enti locali, come ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza costituzionale, gode soltanto della
competenza a stabilire norme in tema di legislazione elettorale,
funzioni fondamentali e organi di governo di Province, Comuni e Città
metropolitane».
Infatti dopo la riforma costituzionale del 2001, lo
Stato non avrebbe più un titolo di legittimazione generale per
disciplinare «l’ordinamento degli enti locali», che ora spetta, in linea
generale-residuale, alle Regioni, mentre lo Stato medesimo «può
intervenire soltanto per disciplinare le funzioni fondamentali, la
legislazione elettorale, e gli organi di governo dei soli enti locali
costituzionalmente necessari, ovverosia Comuni, Province e Città
metropolitane», mantenendo, poi, per talune materie (ad es. il
coordinamento della finanza pubblica), una competenza trasversale.
Sarebbe questa, ad avviso della Regione Puglia, una
impostazione seguita anche dalla giurisprudenza costituzionale, come
dimostrerebbe la ritenuta non pertinenza della lettera p) del secondo
comma dell’art. 117 Cost. al caso delle «comunità montane», quali
anch’esse «unione di Comuni» (sentenza n. 244 del 2005), al pari di
quelle contemplate dalla norma denunciata. Sulla stessa scia si
porrebbero le sentenze n. 173 del 2012, n. 327 del 2009, n. 326 del
2008, n. 397 del 2006 e n. 456 del 2005, concernente il «“sub settore”
della “organizzazione degli uffici regionali e degli enti locali” e,
all’interno di quest’ultima, dell’“organizzazione delle società
dipendenti, esercenti l’industria o i servizi”».
6.3.– Quanto al comma 3 dell’art. 19 – che pone una
disciplina articolata delle unioni di Comuni con differenti profili – ed
al connesso successivo comma 4, sostiene la ricorrente che anche tali
disposizioni sarebbero in contrasto con l’art. 117, secondo comma,
lettera p), e quarto comma, Cost.
Lo Stato – come già evidenziato in precedenza – non
potrebbe, infatti, esibire una competenza legislativa diversa da quella
inerente alla legislazione elettorale, alle funzioni fondamentali e agli
organi di governo di Province, Comuni e Città metropolitane, per cui
non avrebbe titolo alcuno «per disciplinare l’istituzione e
l’organizzazione di enti locali differenti da quelli appena menzionati,
quali le unioni di comuni, tanto più e a maggior ragione se la suddetta
disciplina pretende di assumere – come nel caso di specie – natura
vincolante e conformativa delle potestà normative e amministrative della
Regione e dei comuni interessati», così da incidere su un ambito
affidato alla potestà regionale residuale di cui al quarto comma
dell’art. 117 Cost.
6.3.1.– La Regione Puglia, come detto, censura infine
il comma 7 dell’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, come sostituito dal
comma 3, dello stesso art. 19, il quale stabilisce in via generale che
«Alle unioni competono gli introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe
e dai contributi sui servizi ad esse affidati».
La disposizione richiamata, a suo avviso,
contrasterebbe, infatti, con i commi primo, secondo e sesto dell’art.
119 Cost., «i quali, nel riconoscere esclusivamente agli enti autonomi
costitutivi della Repubblica l’autonomia finanziaria di entrata e di
spesa, il potere di stabilire ed applicare “tributi ed entrate propri”
(in armonia con la Costituzione e secondo “i principi di coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario”), nonché la
disponibilità di un proprio patrimonio, impediscono che la legge statale
possa sottrarre autonomia impositiva e di entrata nonché risorse
patrimoniali ai suddetti enti, attribuendole in titolarità a nuovi e
diversi enti territoriali» e cioè alle unioni di Comuni.
Peraltro, in tal modo la norma censurata violerebbe
anche i limiti che l’art. 117, terzo comma, Cost. impone alla potestà
legislativa dello Stato in materia di «coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario», «fuoriuscendo dall’ambito dei
“principi fondamentali” e invadendo perciò gli spazi costituzionalmente
affidati alla potestà legislativa regionale sia dal terzo che dal quarto
comma dell’art. 117 Cost.».
6.4.– In prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013
la Regione Puglia ha depositato memoria, con la quale ulteriormente
argomenta l’illegittimità costituzionale delle denunciate disposizioni,
osservando quanto segue.
In relazione alla censura che investe la lettera a)
del comma 1 dell’art. 19 (denunciato giacché «concerne funzioni
amministrative diverse da quelle propriamente ordinamentali,
comprendendo anche funzioni amministrativo-gestionali e, in ogni caso,
perché qualifica come “fondamentali” funzioni che non possono in alcun
caso essere ritenute tra quelle “indefettibili” dei Comuni»), la
ricorrente esclude che lo Stato possa, esso stesso, «definire ed
individuare il “carattere fondamentale” delle funzioni» di cui alla
lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., essendo queste solo
quelle «proprie e indefettibili degli enti locali» e cioè quelle che
l’ente «deve svolgere necessariamente e immancabilmente, in modo tale
che sarebbe impensabile l’esistenza di un ente locale che non le
svolgesse». Tali sarebbero le funzioni «coessenziali alla vita
dell’ente» e cioè le funzioni “ordinamentali” (tra cui, quella
statutaria, regolamentare, di autorganizzazione, di bilancio) e non già
quelle di «gestione e cura di concreti interessi», le quali devono,
invece, essere distribuite in base all’art. 118 Cost. dai legislatori di
volta in volta competenti. In tal senso, del resto, parrebbe orientarsi
anche la difesa erariale, allorché distingue tra funzioni attinenti
alla vita dell’ente e quelle amministrative in senso stretto.
Quanto alla censura che investe la lettera d) del
comma 1 dell’art. 19 (denunciato in quanto, «trattandosi di una
disciplina di principio circa l’allocazione delle funzioni
amministrative, il legislatore statale avrebbe potuto legittimamente
intervenire solo ed esclusivamente nell’ambito delle materie per le
quali sia titolare della potestà esclusiva o – al più − concorrente»),
la Regione esclude che possa valere, a sostegno dell’infondatezza della
questione, l’argomento della ascrivibilità della disciplina impugnata
alla materia del «coordinamento della finanza pubblica», posto che il
suo oggetto principale è «il riordino delle funzioni e la loro
redistribuzione alla luce della individuazione degli ambiti ottimali»,
mentre il fine della riduzione della spesa non sarebbe neppure
“accessorio”.
Né, secondo la ricorrente, potrebbe al riguardo
invocarsi il titolo legittimante della competenza esclusiva statale di
cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., che, in ogni
caso, seppure autorizzasse lo Stato stesso alla “individuazione delle
funzioni fondamentali”, non potrebbe comunque consentirgli di dettare
una disciplina «di dettaglio del contenuto di quelle stesse funzioni»,
ove pertinenti a materie di competenza regionale.
7.– In tutti i riferiti giudizi si è costituito il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, formulando – e ribadendo in
successive memorie – conclusioni di inammissibilità o comunque di non
fondatezza delle questioni sollevate dalle Regioni.
La difesa erariale osserva che la definizione delle
funzioni fondamentali rientra nella competenza esclusiva statale e
l’elenco dettato dalla norma denunciata non esorbita da siffatta
competenza, ma vi include «funzioni di organizzazione generale
dell’amministrazione, gestione finanziaria, contabile e di controllo,
che attengono alla vita ed al governo dell’ente» e che vanno distinte
dalle funzioni amministrative in senso stretto. Sostiene, infatti, che
le funzioni fondamentali dei Comuni di cui alla lettera p) del secondo
comma dell’art. 117 Cost. «coincidono con le funzioni proprie di cui
all’art. 118, secondo comma, Cost., sì che l’unica distinzione munita di
un significato è quella tra funzioni proprie e funzioni conferite», ed
il citato art. 117, secondo comma, lettera p), «integra, dunque, una
competenza trasversale, in grado di consentire allo Stato
l’individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane anche nelle materie riconducibili alla competenza
legislativa regionale, residuale e concorrente».
Tale impostazione sarebbe confermata dall’art. 2,
comma 4, lettera b), della legge n. 131 del 2003, il quale fa coincidere
la nozione di funzioni fondamentali con quella di funzioni proprie, che
spetta allo Stato individuare ed allocare ad un livello di governo
piuttosto che ad un altro, nel rispetto del primo comma dell’art. 118
Cost., senza però incontrare il limite del riparto delle competenze
legislative, «cosicché tale operazione ben può essere svolta su ogni
sorta di funzione amministrativa, quale che sia l’ente cui spetta la
competenza legislativa sulla materia». Il limite dell’art. 117 Cost.
opererebbe, invece, per la disciplina delle funzioni fondamentali, posto
che l’art. 117, sesto comma, Cost., «attribuisce a comuni, province e
città metropolitane la potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite».
Peraltro, ove le funzioni fondamentali siano riconducibili a materie di
competenza regionale (concorrente o residuale), «spetta allo Stato
individuare esclusivamente il livello di governo al quale imputare la
funzione fondamentale, residuando in capo alla Regione il compito di
dettare la disciplina della relativa funzione»; e tale principio risulta
rispettato dalla norma denunciata.
Sarebbe altresì destituita di fondamento la censura
della lettera d) del comma 1 dell’art. 19 per asserito contrasto con
l’art. 123 Cost., giacché la norma denunciata non detta la disciplina
sul funzionamento del Consiglio delle autonomie locali, ma prevede
soltanto che la Regione individui la dimensione territoriale ottimale,
previa concertazione con i Comuni interessati, da svolgersi nell’ambito
di detto Consiglio.
La difesa erariale sostiene altresì l’infondatezza
delle ulteriori doglianze riguardanti l’art. 19, e qui scrutinate,
giacché le disposizioni denunciate perseguono l’obiettivo di
contenimento della spesa corrente per il funzionamento degli enti locali
tramite un disciplina uniforme, che viene a coordinare la disciplina di
settore; si tratterebbe, dunque, di normativa di principio
riconducibile alla materia del coordinamento della finanza pubblica.
Considerato in diritto
1.– Sono state proposte dalle Regioni Lazio, Veneto,
Campania e Puglia, e dalla Regione autonoma Sardegna varie questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 6 luglio 2012,
n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con
invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135.
Segnatamente, le disposizioni denunciate – seppure in
misura diversa da parte di ciascuna Regione – sono quelle di cui al
comma 1, lettere a), b), c), d), e), ed ai commi da 2 a 6.
2.– In questa sede si avrà riguardo alle questioni che
attengono ai commi 1, 3 e 4, essendo state riservate a separata
trattazione, nella stessa udienza del 3 dicembre 2013, quelle relative
ai commi 2, 5 e 6.
2.1.– L’art. 19, comma 1, lettera a), è specificamente
censurato dalla Regione Campania «nella parte in cui, nel modificare la
disciplina delle funzioni fondamentali dei comuni precedentemente
recata» dall’art. 14, comma 27, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78
(Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, «riconosce in materia alle
Regioni le sole funzioni di programmazione e di coordinamento, spettanti
nelle materie di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost., nonché
quelle esercitate ai sensi dell’art. 118 Cost.».
Detta norma, ad avviso della ricorrente, violerebbe gli
artt. 117, commi terzo e quarto, e 118 Cost., giacché, nel circoscrivere
il ruolo delle Regioni a quello dell’esclusivo svolgimento dei compiti
di programmazione e coordinamento, di fatto sottrarrebbe agli stessi
enti «tutte le funzioni non espressamente richiamate, malgrado le stesse
siano pacificamente [loro] spettanti ai sensi del chiaro disposto degli
artt. 117 e 118 Cost.», così da ridimensionare in modo illegittimo il
potere della Regione «di optare per un diverso sistema di riparto delle
funzioni amministrative».
La stessa disposizione è denunciata dalla Regione Puglia
nella parte in cui include tra le «funzioni fondamentali» dei Comuni
anche funzioni amministrative ricadenti in materie di competenza
legislativa concorrente o residuale regionale. Donde, la prospettata
lesione degli art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma,
e 118, secondo comma, Cost., essendo la potestà legislativa statale di
cui alla citata lettera p) «per sua natura, limitata», non potendo lo
Stato giungere a «qualificare liberamente» qualsiasi funzione
amministrativa come «funzione fondamentale» dei Comuni o delle Province,
così da poterne disporre l’integrale disciplina, tanto da privare di
«contenuto precettivo gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118,
secondo comma, Cost., i quali prescrivono che sia la legge regionale ad
allocare e disciplinare le funzioni amministrative nelle materie diverse
da quelle di competenza legislativa statale»; con l’ulteriore
conseguenza che dette funzioni fondamentali non possano identificarsi
con quelle aventi la «cura concreta di interessi».
2.2.– Le disposizioni di cui alle lettere da b) a d) del
comma 1 dell’art. 19, là dove stabiliscono l’esercizio obbligatorio
delle funzioni fondamentali, mediante unione o convenzione, da parte dei
Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (3.000 se in comunità
montane), sono accomunate in un’unica censura dalla Regione Campania, la
quale si duole di un vulnus agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118
Cost., giacché il ruolo della Regione verrebbe limitato «alla mera
individuazione, previa concertazione con gli enti locali interessati
nell’ambito del C.A.L. [Consiglio delle autonomie locali], della
dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica per lo
svolgimento associato delle funzioni suddette».
2.3.– La disposizione di cui alla lettera d) del citato
comma 1 dell’art. 19 è impugnata anche dalla Regione Puglia, sia nella
parte in cui si rivolge a funzioni amministrative ricadenti in ambiti
materiali affidati, ex art. 117, quarto comma, Cost., alla potestà
legislativa regionale residuale, sia nella parte in cui impone alla
Regione di attivare una «concertazione con i comuni interessati
nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali».
Ad avviso della ricorrente sussisterebbe, quanto al
primo profilo di censura, una lesione degli artt. 117, quarto comma, e
118, secondo comma, Cost., giacché, potendo le funzioni fondamentali
essere solo quelle «ordinamentali» e, dunque, quelle essenziali
attinenti «alla vita stessa e al governo degli enti locali», lo Stato
non potrebbe che disciplinare funzioni amministrative «fondamentali» in
materie di competenza esclusiva ovvero di competenza concorrente ex art.
117, terzo comma. Cost., ma non già investire le materie di competenza
residuale delle Regioni.
In riferimento al secondo aspetto della doglianza,
verrebbe poi in rilievo il contrasto con l’art. 123, primo e ultimo
comma, Cost., che pone una riserva di potestà statutaria regionale in
materia di organizzazione e di funzionamento della Regione, nonché sulla
disciplina del Consiglio delle autonomie locali e delle sue funzioni
«quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali».
La Regione Puglia denuncia, altresì, la lettera e) dello
stesso comma 1 dell’art. 19, asserendo che violerebbe l’art. 117,
secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., «in quanto il
legislatore statale ordinario non dispone di un titolo di legittimazione
a regolare l’istituzione e l’organizzazione delle unioni di comuni,
poiché, in materia di ordinamento degli enti locali, come ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza costituzionale, gode soltanto della
competenza a stabilire norme in tema di legislazione elettorale,
funzioni fondamentali e organi di governo di Province, Comuni e Città
metropolitane».
2.4.– Le disposizioni di cui alle lettere da a) a d) del
comma 1 dell’art. 19 sono unitariamente censurate dalla Regione Lazio,
che adduce, a sua volta, un vulnus all’art. 117, secondo comma, lettera
p), terzo e quarto comma, Cost., in combinato disposto tra loro, per
lesione delle attribuzioni costituzionali regionali, nell’ambito delle
quali andrebbe ricondotta «la regolazione delle associazioni degli enti
locali», dovendo lo Stato «limitarsi a stabilire la disciplina in tema
di “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali
di Comuni, Province e Città metropolitane”, restando evidentemente
esclusi da tale “voce” tutti gli aspetti riguardanti l’associazionismo
di tali enti».
2.5.– Le disposizioni di cui alle lettere da b) ad e)
dello stesso comma 1 dell’art. 19 sono denunciate anche dalla Regione
Veneto
Pure ad avviso di detta ricorrente, il citato art. 19
violerebbe, in parte qua, l’art. 117, quarto comma, Cost., essendo
riservata alla potestà legislativa regionale la materia «forme
associative tra gli enti locali»; nonché l’art. 117, terzo comma, Cost.,
in quanto le censurate disposizioni, ancorché qualificate come norme di
«coordinamento della finanza pubblica», sarebbero ben lungi dal
costituire principi fondamentali di siffatta materia, posto che, per un
verso, non si limitano a porre obiettivi di riequilibrio della finanza
pubblica, «intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo,
anche se non generale, della spesa corrente», e, per altro verso,
prevedono «in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento
dei suddetti obiettivi».
Sussisterebbe, altresì, una lesione dell’art. 118, primo
comma, Cost., il quale non fa riferimento alle unioni di Comuni o alle
convenzioni tra Comuni, che, pertanto, «dovrebbero essere, soprattutto
nel rispetto del fondamentale art. 114 Cost., libere forme associative
cui il Comune può (non deve) ricorrere»; così come sarebbero vulnerati
gli artt. 3 e 97 Cost., essendo i Comuni con popolazione fino a 5.000
abitanti «obbligati tout court (e quindi in violazione del principio
costituzionale di differenziazione) all’esercizio mediante unione di
Comuni o convenzione delle loro funzioni fondamentali».
2.6.– Il comma 3, ed il connesso comma 4, dell’art. 19
sono impugnati da tutte le ricorrenti Regioni a statuto ordinario, che
convergono nel prospettare la violazione degli artt. 117 e 118 Cost.,
posto che dette censurate disposizioni inciderebbero sulla competenza
regionale riferita alla disciplina degli strumenti e delle modalità a
disposizione dei Comuni per l’esercizio congiunto delle funzioni loro
spettanti.
In particolare la Regione Puglia argomenta la dedotta
illegittimità del comma 3 dell’art. 19 con distinto riferimento alle
parti in cui esso sostituisce sia i commi 1, 2, 3 e 4, sia per altro
verso il comma 7 dell’art. 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.
267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
Sotto il primo profilo di censura, la norma violerebbe
l’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., giacché lo
Stato non potrebbe far valere una competenza legislativa diversa da
quella inerente alla legislazione elettorale, alle funzioni fondamentali
e agli organi di governo di Province, Comuni e Città metropolitane, per
cui non avrebbe titolo alcuno «per disciplinare l’istituzione e
l’organizzazione di enti locali differenti da quelli appena menzionati,
quali le unioni di comuni, tanto più e a maggior ragione se la suddetta
disciplina pretende di assumere − come nel caso di specie − natura
vincolante e conformativa delle potestà normative e amministrative della
Regione e dei comuni interessati», così da incidere su un ambito
affidato alla potestà regionale residuale.
In relazione all’altro profilo della doglianza,
sussisterebbe un contrasto sia con l’art. 119, primo, secondo e sesto
comma, Cost., che impedisce che la legge statale possa sottrarre
autonomia impositiva e di entrata, nonché risorse patrimoniali ai
suddetti enti autonomi costitutivi della Repubblica, attribuendole in
titolarità a nuovi e diversi enti territoriali e cioè alle unioni di
Comuni; sia con l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., esorbitando dai
principi fondamentali in materia di «coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario» e invadendo perciò gli spazi
costituzionalmente affidati alla potestà legislativa regionale
concorrente e residuale.
2.7.– La Regione autonoma Sardegna – nell’impugnare, in
forza di censure sostanzialmente indistinte, l’intero art. 19 – ha, con
più specifica attinenza al suo comma 3, prospettato, anzitutto, la
violazione dell’art. 3, primo comma, lettera b), della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la
Sardegna), sul rilievo che la normativa denunciata, nell’istituire
obbligatoriamente unioni di Comuni, e nel ridurre contestualmente i
consigli comunali a puri organi di partecipazione e il sindaco a
semplice ufficiale di Governo, provocherebbe, di fatto, «la soppressione
dei comuni che partecipano a questa forma associativa e la loro
sostituzione con un nuovo tipo di ente territoriale», con conseguente
contrasto con le norme che garantiscono alla Regione Sardegna una sfera
di autonomia legislativa esclusiva in materia di «ordinamento degli enti
locali e delle relative circoscrizioni».
Sarebbe leso, altresì, secondo la ricorrente, anche
l’art. 117, quarto comma, Cost., posto che la competenza esclusiva dello
Stato di cui alla lettera p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., così
come non può riguardare le comunità montane (la cui disciplina rientra
in quella residuale regionale, siccome garantita, per il tramite
dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 «Modifiche
al titolo V della parte seconda della Costituzione», anche alla Regione
autonoma Sardegna), così del pari non potrebbe attenere alle unioni di
Comuni.
3.– Possono essere scrutinate preliminarmente le
questioni proposte dalla Regione autonoma Sardegna, giacché queste,
rispetto alle altre impugnazioni, presentano un profilo peculiare,
derivante dalla connotazione di ente ad autonomia speciale della
ricorrente.
Va, infatti, evidenziato che il d.l. n. 95 del 2012,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, ha previsto
all’art. 24-bis, la seguente “Clausola di salvaguardia”: «Fermo restando
il contributo delle regioni a statuto speciale e delle province
autonome di Trento e di Bolzano all’azione di risanamento così come
determinata dagli articoli 15 e 16, comma 3, le disposizioni del
presente decreto si applicano alle predette regioni e province autonome
secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle
relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali
delle autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di
finanza locale, agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti
territoriali e agli altri enti o organismi ad ordinamento regionale o
provinciale».
Su tale clausola di salvaguardia questa Corte si è già
pronunciata (sentenze n. 236, n. 225 e n. 215 del 2013), ponendo in
rilievo che essa «ha la precisa funzione di rendere applicabili le
disposizioni del decreto agli enti ad autonomia differenziata solo a
condizione che, in ultima analisi, ciò avvenga nel “rispetto” degli
statuti speciali» (segnatamente, sent. n. 236 del 2013), derivandone la
non fondatezza della questione sollevata sulla norma del d.l. n. 95 del
2012 anche là dove questa sia in contrasto con la normativa statutaria.
Sicché, interferendo le disposizioni censurate con la
potestà esclusiva in materia di «ordinamento degli enti locali e delle
relative circoscrizioni», di cui all’art. 3 dello statuto per la
Sardegna, viene, nella specie, appunto, ad operare la clausola di
salvaguardia di cui all’art. 24-bis del d.l. n. 95 del 2012, con
conseguente declaratoria di non fondatezza della questione sollevata
dalla Regione Sardegna.
4.– Vengono ora in esame le impugnative delle altre
Regioni ricorrenti, con distinto riferimento alle varie disposizioni
oggetto di censura.
4.1.– Le questioni che investono la lettera a) del comma 1 dell’art. 19 non sono fondate.
4.1.1.– Per meglio cogliere la portata delle censure,
giova premettere una sintetica ricognizione del quadro normativo entro
il quale si colloca il thema decidendum, rammentando anzitutto che
l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. riserva allo Stato la
potestà legislativa in materia di «legislazione elettorale, organi di
governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane».
Quanto alle «funzioni fondamentali di Comuni» – che
interessano in questa sede – l’art. 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131
(Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), modificato dall’art. 1
della legge 28 maggio 2004, n. 140 (Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80, recante
disposizioni urgenti in materia di enti locali. Proroga di termini di
deleghe legislative) e, successivamente, dall’art. 5 della legge 27
dicembre 2004, n. 306 (Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 9 novembre 2004, n. 266, recante proroga o differimento di
termini previsti da disposizioni legislative. Disposizioni di proroga
di termini per l’esercizio di deleghe legislative), assegnava al Governo
la delega, da esercitare entro il 31 dicembre 2005, per la
«individuazione delle funzioni fondamentali, ai sensi dell’articolo 117,
secondo comma, lettera p), della Costituzione, essenziali per il
funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane nonché per il
soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento».
Tra i principi e criteri direttivi della delega, oltre
al rispetto delle competenze legislative e costituzionali ai sensi degli
artt. 114, 117 e 118 Cost., era annoverata (comma 4, lettera b)
l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e
delle Città metropolitane «in modo da prevedere, anche al fine della
tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica, per ciascun
livello di governo locale, la titolarità di funzioni connaturate alle
caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e
imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento
di bisogni primari delle comunità di riferimento, tenuto conto, in via
prioritaria, per Comuni e Province, delle funzioni storicamente svolte».
Peraltro, si prevedeva, anche una valorizzazione dei
«principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione nella
allocazione delle funzioni fondamentali in modo da assicurarne
l’esercizio da parte del livello di ente locale che, per le
caratteristiche dimensionali e strutturali, ne garantisca l’ottimale
gestione anche mediante l’indicazione dei criteri per la gestione
associata tra i Comuni» (comma 4, lettera c); la previsione di
«strumenti che garantiscano il rispetto del principio di leale
collaborazione tra i diversi livelli di governo locale nello svolgimento
delle funzioni fondamentali che richiedono per il loro esercizio la
partecipazione di più enti, allo scopo individuando specifiche forme di
consultazione e di raccordo tra enti locali, Regioni e Stato» (comma 4,
lettera d); nonché la valorizzazione delle «forme associative anche per
la gestione dei servizi di competenza statale affidati ai comuni» (comma
4, lettera n).
La delega anzidetta non è stata esercitata, sicché la
prima, provvisoria, individuazione delle funzioni fondamentali si è
avuta, nell’ambito del processo di attuazione del cosiddetto
“federalismo fiscale”, con l’art. 21 della legge 5 maggio 2009, n. 42
(Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione), orientata, in particolare,
secondo il comma 2, alla «determinazione dell’entità e del riparto dei
fondi perequativi degli enti locali in base al fabbisogno standard o
alla capacità fiscale» di Comuni e Province.
In attesa dell’emanazione della legislazione delegata,
il comma 3 dello stesso art. 21 ha «provvisoriamente» individuato per i
Comuni le seguenti funzioni: «a) funzioni generali di amministrazione,
di gestione e di controllo, nella misura complessiva del 70 per cento
delle spese come certificate dall’ultimo conto del bilancio disponibile
alla data di entrata in vigore della presente legge; b) funzioni di
polizia locale; c) funzioni di istruzione pubblica, ivi compresi i
servizi per gli asili nido e quelli di assistenza scolastica e
refezione, nonché l’edilizia scolastica; d) funzioni nel campo della
viabilità e dei trasporti; e) funzioni riguardanti la gestione del
territorio e dell’ambiente, fatta eccezione per il servizio di edilizia
residenziale pubblica e locale e piani di edilizia nonché per il
servizio idrico integrato; f) funzioni del settore sociale».
Nell’esercizio della anzidetta delega è poi intervenuto
l’art. 3 del decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216 (Disposizioni
in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di
Comuni, Città metropolitane e Province), che, per i fini specifici dello
stesso decreto legislativo, ha ribadito l’individuazione «in via
provvisoria» delle funzioni fondamentali di cui all’art. 21 delle legge
n. 42 del 2009, precisando anch’esso che ciò avveniva «fino alla data di
entrata in vigore della legge statale di individuazione delle funzioni
fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province».
Un richiamo espresso all’art. 21 della legge n. 42 del
2009 si rinveniva nell’art. 14, comma 27 del d.l. n. 78 del 2010;
disposizione che è stata poi sostituita da quella denunciata e
sottoposta all’attuale esame. Anche in questo caso, il rinvio era per i
fini «dei commi da 25 a 31» (cioè per l’esercizio associato delle
funzioni fondamentali tramite convenzioni o unioni di Comuni) e,
segnatamente, «fino alla data di entrata in vigore della legge con cui
sono individuate le funzioni fondamentali di cui all’articolo 117,
secondo comma, lettera p), della Costituzione».
È, dunque, con la censurata disposizione della lettera
a) del comma 1 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, che, nel riscrivere il comma
27 dell’art. 14 citato, vengono individuate, non più in via
dichiaratamente provvisoria, né con espressa limitazione od orientamento
verso specifici fini, le funzioni fondamentali dei Comuni, tramite una
elencazione più ampia di quella che recavano i citati artt. 21 della
legge n. 42 del 2009 e 3 del d.lgs. n. 216 del 2010.
La nuova disposizione appare ispirata da quanto previsto
dall’art. 2 del d.d.l. n. 2259 (attualmente all’esame del Senato), noto
come “Carta delle autonomie”, sebbene quest’ultimo rechi un numero
ancor più ampio di funzioni fondamentali dei Comuni.
4.1.2.– Questa Corte ha ritenuto, in linea più generale,
che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. «indica le componenti
essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per
loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e
rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo,
secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo
attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli
regionali» (sentenza n. 220 del 2013).
Peraltro, al di là di quale possa essere la
configurazione del rapporto tra le «funzioni fondamentali» degli enti
locali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera p), e le
«funzioni proprie» di cui all’art. 118, secondo comma, Cost., in ogni
caso «sarà sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto
delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle
funzioni, in conformità alla generale attribuzione costituzionale ai
Comuni o in deroga ad essa per esigenze di “esercizio unitario”, a
livello sovracomunale, delle funzioni medesime» (sentenza n. 43 del
2004). Sicché, in tale prospettiva, si è escluso (sentenze n. 325 del
2010 e n. 272 del 2004) che la disciplina concernente le modalità
dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica possa ascriversi all’àmbito delle «funzioni fondamentali dei
Comuni, delle Province e Città metropolitane», perché «la gestione dei
predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione
propria ed indefettibile dell’ente locale».
Tale assunto è stato fatto proprio anche dalla sentenza
n. 307 del 2009, la quale però ha ritenuto, con specifico riferimento al
servizio idrico integrato, che la non separabilità tra la gestione
della rete e la gestione di detto servizio costituisca principio
riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato in materia di
funzioni fondamentali dei Comuni, posto che «le competenze comunali in
ordine al servizio idrico sia per ragioni storico-normative sia per
l’evidente essenzialità di questo alla vita associata delle comunità
stabilite nei territori comunali devono essere considerate quali
funzioni fondamentali degli enti locali», restando la competenza
regionale nella materia di servizi pubblici locali «in un certo senso
limitata dalla competenza statale suddetta», potendo «continuare ad
essere esercitata negli altri settori, nonché in quello dei servizi
fondamentali, purché non sia in contrasto con quanto stabilito dalle
leggi statali». Diversamente si è invece opinato quanto, per l’appunto,
alle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza
economica, per cui non può essere evocata la lettera p) del secondo
comma dell’art. 117 Cost., giacché «la regolamentazione di tali modalità
non riguarda un dato strutturale del servizio né profili funzionali
degli enti locali ad esso interessati (come, invece, la precedente
questione relativa alla separabilità tra gestione della rete ed
erogazione del servizio idrico), bensì concerne l’assetto competitivo da
dare al mercato di riferimento».
Sin d’ora giova inoltre rammentare che la competenza
legislativa esclusiva statale di cui alla citata lettera p) non è
invocabile in riferimento alle “comunità montane”, atteso che il
richiamo limitato a Comuni, Province e Città metropolitane, ivi
presente, «deve ritenersi tassativo» (sentenze n. 237 del 2009, n. 397
del 2006, n. 456 del 2005 e n. 244 del 2005).
Specifico e peculiare rilievo assume, inoltre, la
sentenza n. 148 del 2012 di questa Corte, che ha dichiarato non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 27, del
d.l. n. 78 del 2010, su cui è intervenuta la norma denunciata.
Si trattava, invero, di censure mosse dalla Regione
Puglia in forza di argomentazioni che, in parte, sono riproposte in
questa sede. La Regione allora sosteneva, infatti, che il richiamo
all’art. 21, comma 3, della legge n. 42 del 2009 avrebbe consentito di
estendere la qualifica di “funzioni fondamentali dei Comuni” – con
conseguente attribuzione allo Stato della relativa competenza
legislativa esclusiva – «anche a funzioni “amministrativo-gestionali”, o
comunque, più in generale, a funzioni volte alla cura concreta di
interessi». Sicché, la norma impugnata sarebbe stata in contrasto con «i
limiti che caratterizzano la potestà legislativa attribuita allo Stato
dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ledendo gravemente
l’autonomia legislativa della Regione, riconosciuta dai commi terzo e
quarto dell’art. 117 Cost. e richiamata dal comma secondo dell’art. 118
Cost., in riferimento alla disciplina ed alla allocazione delle funzioni
amministrative dei Comuni».
La Corte ha ritenuto, invece, che le questioni
muovessero «da un erroneo presupposto interpretativo, in quanto il
richiamo operato dalla norma impugnata alla generica elencazione di cui
all’art. 21, comma 3, della legge n. 42 del 2009 non è, di per sé,
lesivo di competenze legislative e amministrative delle Regioni»,
rispondendo esso «all’esigenza di sopperire, sia pure transitoriamente
ed ai limitati fini indicati nella stessa norma impugnata, alla mancata
attuazione della delega contenuta nell’art. 2 della legge 5 giugno 2003,
n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della
Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3)».
4.1.3.– Superata, con la norma denunciata, la
provvisorietà e la settorialità degli interventi normativi precedenti in
materia, ne deve, quindi, conseguire che allo Stato spetta
l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che
vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale, cui,
però, anche storicamente, non sono estranee le funzioni che attengono ai
servizi pubblici locali; sicché l’elencazione di cui alla norma
denunciata non si discosta da siffatto criterio elettivo.
La disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà
di chi – Stato o Regione – è intestatario della materia cui la funzione
stessa si riferisce.
In definitiva, la legge statale è soltanto attributiva
di funzioni fondamentali, dalla stessa individuate, mentre
l’organizzazione della funzione rimane attratta alla rispettiva
competenza materiale dell’ente che ne può disporre in via regolativa.
La competenza regionale, nelle materie – di carattere
concorrente o residuale – ad essa riservate, non viene, dunque, incisa
dalla disposizione in esame, per cui perdono di consistenza tutte le
censure proposte.
4.2.– Le questioni relative all’art. 19, comma 1, lettere b), c), d) ed e), non sono fondate.
4.2.1.– Le doglianze attengono, in via generale, alla disciplina sulla gestione associata delle funzioni fondamentali.
Il comma 1, lettera b), dell’art. 19, sostituendo il
previgente comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, ha previsto
che tutti i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a
3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane,
esercitino obbligatoriamente in forma associata, mediante unioni di
Comuni (art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000) o convenzione (art. 30 dello
stesso d.lgs. n. 267 del 2000), la quasi totalità delle funzioni
fondamentali, con esclusione della tenuta dei registri di stato civile e
di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in
materia di servizi elettorali e statistici, nell’esercizio delle
funzioni di competenza statale.
Rispetto alle previgente disciplina, non sussiste più la divisione tra Comuni sopra e sotto i 1000 abitanti.
La disposizione in esame ricomprende, infatti, anche i
Comuni sotto i 1.000 abitanti, ai quali, tuttavia, il comma 2 dello
stesso art. 19 riserva la facoltà di accedere ad un modello di unione
derogatorio, regolato dall’art. 16 del decreto-legge 13 agosto 2011, n.
138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per
lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 14 settembre 2011, n. 148, come sostituito dal citato comma 2
dell’art. 19, e non già quella dell’art. 32 del d.lgs n. 267 del 2000,
inciso dal comma 3 del medesimo art. 19, che invece, a mente della
denunciata lettera c) del comma 1, si applica alle unioni di cui al
comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, come modificato dalla
lettera b) citata.
Le lettere d) ed e) del comma 1 introducono modifiche ai
commi 30 e 31 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, concernenti sia il
termine entro il quale la Regione può determinare un limite demografico
minimo dell’unione dei Comuni diverso da quello pari a 10.000, sia i
termini (già prorogati dal decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216
«Proroga di termini previsti da disposizioni legislative», convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 febbraio 2012,
n. 14) entro i quali i Comuni attuano le novellate disposizioni in tema
di obbligo di esercizio associato di funzioni.
In particolare:
– il limite demografico minimo delle unioni è confermato
in 10.000 abitanti, salvo diverso limite determinato dalla Regione
entro il 1° ottobre 2012 con riguardo ad almeno tre delle funzioni
fondamentali ed entro il 1° ottobre 2013 per le altre. Le Regioni,
infatti, nelle materie di competenza concorrente e residuale, potranno
individuare, previa concertazione con i Comuni da svolgersi nell’ambito
del Consiglio delle autonomie locali (CAL), limiti diversi;
– la durata minima delle convenzioni per l’esercizio
obbligatorio delle funzioni in forma associata è fissata in tre anni. Al
termine di tale periodo, qualora non si dimostri l’efficacia e
l’efficienza nella gestione, i Comuni sono obbligati ad esercitare le
funzioni mediante unione;
– sono stati ridefiniti i termini per dare attuazione
alla gestione associata tra piccoli Comuni secondo un procedimento
articolato in due fasi:
a) entro il 1° gennaio 2013 i Comuni interessati devono svolgere in forma associata almeno tre delle funzioni fondamentali;
b) entro il 1° gennaio 2014 l’obbligo di esercizio associato coinvolge anche le altre sette funzioni.
Rispetto ai termini di attuazione stabiliti, la nuova
disciplina prevede che, qualora i Comuni non ottemperino, il prefetto
assegna loro un termine perentorio, decorso il quale si attiva il potere
sostitutivo del Governo ai sensi dell’art. 8 della legge n. 131 del
2003.
4.2.2.– La giurisprudenza di questa Corte in tema di
forme associative di enti locali ha riguardato, segnatamente, le
comunità montane, che rappresentano «un caso speciale di unioni di
Comuni, create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo
scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la
frammentazione dei comuni montani, “funzioni proprie”, “funzioni
conferite” e funzioni comunali» (così la citata sentenza n. 244 del
2005).
Si è già detto, peraltro, come la competenza statale di
cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. sia, in tale ambito,
inconferente, giacché l’ordinamento delle comunità montane è riservato
alla competenza legislativa residuale delle Regioni, di cui al quarto
comma dell’art. 117 Cost., pur in presenza della qualificazione di dette
comunità come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, in
quanto le stesse non sono contemplate dall’art. 114 Cost. (oltre che,
come detto, dalla citata lettera p).
La Corte, ha, quindi, ritenuto (sentenze n. 237 del 2009
e n. 456 del 2005) che non possono venire in rilievo neppure i principi
fondamentali desumibili dal Testo unico sugli enti locali (d.lgs. n.
267 del 2000) e, dunque, non può trovare applicazione la disposizione di
cui all’art. 117, terzo comma, ultima parte, Cost., «la quale
presuppone, invece, che si verta nelle materie di legislazione
concorrente».
Tuttavia, si è pure affermato (sentenze n. 151 del 2012,
n. 91 del 2011, n. 326 del 2010, n. 27 del 2010 e n. 237 del 2009) che
un titolo di legittimazione statale per intervenire nell’ambito
anzidetto comunque si rinviene nei principi fondamentali di
«coordinamento della finanza pubblica», ai sensi dell’art. 117, terzo
comma, Cost., ove la disciplina dettata, nell’esercizio di siffatta
potestà legislativa concorrente, sia indirizzata ad obiettivi di
contenimento della spesa pubblica.
A questi fini, come messo in rilievo in molteplici
occasioni da questa Corte (tra le tante, sentenze n. 236 del 2013, n.
193 del 2012, n. 151 del 2012, n. 182 del 2011, n. 207 del 2010, n. 297
del 2009), il legislatore statale può, con una disciplina di principio,
legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di
coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati
anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio,
anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette
all’autonomia di spesa degli enti territoriali. Vincoli che possono
considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali
quando stabiliscano un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi
ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e
obiettivi di spesa»; e siano rispettosi del canone generale della
ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto
all’obiettivo prefissato.
4.2.3.– Nel caso in esame, le norme denunciate
risultano, appunto, decisamente orientate ad un contenimento della spesa
pubblica, creando un sistema tendenzialmente virtuoso di gestione
associata di funzioni (e, soprattutto, quelle fondamentali) tra Comuni,
che mira ad un risparmio di spesa sia sul piano dell’organizzazione
“amministrativa”, sia su quello dell’organizzazione “politica”,
lasciando comunque alle Regioni l’esercizio contiguo della competenza
materiale ad esse costituzionalmente garantita, senza, peraltro,
incidere in alcun modo sulla riserva del comma quarto dell’art. 123
Cost. In definitiva, si tratta di un legittimo esercizio della potestà
statale concorrente in materia di «coordinamento della finanza
pubblica», ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost.
4.3.– Le questioni che investono i commi 3 e 4 dell’art. 19 non sono fondate.
4.3.1.– Le doglianze riguardano l’istituzione e
disciplina delle «Unioni di comuni», di cui all’art. 32 del d.lgs. n.
267 del 2000, come modificato dal comma 3, e si estendono, di riflesso e
senza specifica motivazione, al comma 4, del predetto art. 19. La
disciplina impugnata prevede, anzitutto, un’unione di Comuni costituita
in prevalenza da Comuni montani, che è detta «unione di comuni montani» e
può esercitare anche le specifiche competenze di tutela e di promozione
della montagna (ex art. 44, secondo comma, Cost.) e delle leggi in
favore dei territori montani.
Stabilisce poi che ogni Comune può partecipare ad una
sola unione ed è previsto che le unioni di Comuni possono stipulare
apposite convenzioni tra loro o con singoli Comuni.
Individua, inoltre, nel dettaglio gli organi dell’unione
e le modalità della loro costituzione. Stabilisce che lo statuto
individui le funzioni svolte dall’unione e le corrispondenti risorse e
non più la disciplina degli organi dell’unione; riconosce in via
generale la potestà regolamentare e statutaria.
All’unione sono conferite dai Comuni le risorse umane e
strumentali necessarie all’esercizio delle funzioni ad essa attribuite e
vengono, quindi, introdotti nuovi vincoli in materia di spesa di
personale: infatti, fermi restando i vincoli previsti dalla normativa
vigente, la spesa sostenuta per il personale dell’unione non può
comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma
delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli Comuni
partecipanti; inoltre, si dispone che, attraverso specifiche misure di
razionalizzazione organizzativa e una rigorosa programmazione dei
fabbisogni, devono essere assicurati progressivi risparmi di spesa in
materia di personale.
È, inoltre, confermato che all’unione competono gli
introiti derivanti da tasse, tariffe e dai contributi sui servizi ad
essa affidati.
4.3.2.– Le argomentazioni che sono state già sviluppate
in precedenza (segnatamente, punti 4.2.2. e 4.2.3.) sono riferibili
anche al denunciato comma 3, e si riflettono sul connesso comma 4,
considerato che tale disposizione è orientata finalisticamente al
contenimento della spesa pubblica, siccome posta da un provvedimento di
riesame delle condizioni di spesa e con contenuti armonici rispetto
all’impianto complessivo della rimodulazione delle «unioni di comuni».
Dunque, opera anche in questo caso il titolo
legittimante della competenza in materia di «coordinamento della finanza
pubblica», di cui al comma terzo dell’art. 117 Cost., esercitata dallo
Stato attraverso previsioni che si configurano come principi
fondamentali e non si esauriscono in una disciplina di mero dettaglio.
Né può ravvisarsi la dedotta violazione dell’art. 119
Cost., giacché non solo è legittimo incidere con una manovra finanziaria
sulle risorse degli enti territoriali, purché non siano tali da
determinare uno squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di
spesa e pregiudizievole per l’esercizio delle funzioni ad essi riservate
(sentenze n. 298 del 2009, n. 381 del 2004 e n. 437 del 2001), ma
rileva anche il fatto che l’attribuzione alle unioni di Comuni di
«introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi»
riguarda i «servizi ad esse affidati», sicché non verrebbero sottratte
risorse per l’esercizio di funzioni da parte di enti che non fanno parte
dell’unione stessa.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione sulle
ulteriori questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto
altre disposizioni del decreto-legge oggetto di impugnazione;
riuniti i giudizi;
1) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 6
luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7
agosto 2012, n. 135, promossa, in riferimento agli artt. 117, commi
terzo e quarto, e 118 della Costituzione, dalla Regione Campania con il
ricorso in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettera a), promossa in
riferimento agli art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto
comma, e 118, secondo comma, Cost., dalla Regione Puglia con il ricorso
in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettere da a) a d), del d.l. n. 95
del 2012, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera
p), terzo e quarto comma, Cost., dalla Regione Lazio con il ricorso in
epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettere da b) a d), del d.l. n. 95
del 2012, promosse, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto
comma, e 118 Cost., dalla Regione Campania con il ricorso in epigrafe;
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettere d) ed e), del d.l. n. 95
del 2012, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo comma,
lettera p), e quarto comma, 118 e 123, primo e quarto comma, Cost.,
dalla Regione Puglia con il ricorso in epigrafe;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 19, commi 1, lettere da b) ad e), e 3, del d.l.
n. 95 del 2012, promosse, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo e
quarto comma, e 118, primo comma, Cost., dalla Regione Veneto con il
ricorso in epigrafe;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 19, commi 3 e 4, del d.l. n. 95 del 2012,
promosse, in riferimento agli artt. 117, e 118 Cost., dalle Regioni
Lazio, Veneto e Campania con i ricorsi in epigrafe;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 3, del d.l. n. 95 del 2012, promossa,
in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e
quarto comma, e 119, primo, secondo e sesto comma Cost., dalla Regione
Puglia con il ricorso in epigrafe;
9) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in
riferimento all’art. 3, primo comma, lettera b), della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna)
ed all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione autonoma Sardegna
con il ricorso in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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