Tribunale Gorizia Sez. lavoro, Sent., 28-11-2023
Fatto - Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI GORIZIA
Il Giudice Monocratico - Sezione del Lavoro
in persona del dott. Gabriele Allieri
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa r.g. n. 171/2022 promossa da:
(...) rappresentati e difesi, in forza di procura depositata
telematicamente, dagli avv.ti (...) e (...) (...) ed elettivamente domiciliata
presso la Camera del lavoro di Gorizia a Gorizia, via (...)
ricorrenti
CONTRO
(...) s.p.a., rappresentata e difesa, in forza di procura
depositata telematicamente, dagli avv.ti (...) ed elettivamente domiciliata
presso lo studio della prima a Gorizia, via (...)
resistente
dando lettura della motivazione e dei dispositivo ai sensi
dell'art. 429 c. 1 c.p.c.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Con ricorso ex art. 414 c.p.c., depositato il 20 maggio
2022, (...) ha agito in giudizio nei confronti di (...) per ottenere il
risarcimento del danno non patrimoniale patito in ragione del mesotelioma
pleurico contratto in conseguenza dell'esposizione all'amianto sperimentata
nello svolgimento della sua attività lavorativa presso (...) Dopo il decesso
del ricorrente, intervenuto il 04.07.2022, (...) - rispettivamente moglie e
figli di (...) - si sono costituiti per la prosecuzione del processo in qualità
di eredi dell'originario ricorrente, coltivandone la pretesa iure hereditatis.
1.1 A sostegno della domanda, è stato dedotto che (...)
avrebbe lavorato dal 1964 al 1966 come picchettino alle dipendenze di alcune
ditte che svolgevano la loro attività nel settore delle costruzioni navali,
operando sempre nel contesto dei cantieri navali di (...) a Monfalcone.
Successivamente, e segnatamente dal 15.03.1968 al 30.06.1997, avrebbe lavorato
alle dirette dipendenze della convenuta - allora (...) s.p.a., poi (...) s.p.a.
e quindi (...) -, come carpentiere e come ponteggiatore.
Nello svolgimento della sua attività, eseguita in assenta
mancanza di dispositivi di protezione individuale, (...) avrebbe operato a
bordo della nave e sarebbe stato oggetto d'una frequente esposizione passiva
all'amianto, impiegato per lo svolgimento contestuale di diverse lavorazioni da
parte di altri addetti, in particolare da parte dei coibentatori, che
utilizzavano il materiale per isolare tubazioni, caldaie, pareti e condutture.
Inoltre, la sua mansione di carpentiere avrebbe implicato
l'esposizione diretta all'amianto, in quanto sarebbe stato utilizzato
direttamente per operazioni quali il taglio con il cannello, l'assistenza al
preriscaldo delle lamiere e come sistema di protezione. Quale ponteggiatore,
avrebbe costantemente montato, smontato e movimentato il tavolame d'impalcato e
i tubi di metallo costituenti i ponteggi, incrostati e coperti di polvere e
residui di amianto, Invero, i ponteggi sarebbero stati utilizzati e sarebbero
serviti - in particolare ai coibentatori - per le operazioni di isolamento
termico ed acustico; ne avrebbero fatto impiego anche i saldatori, i tubisti,
gli elettricisti, i fabbri-nave e i falegnami nelle attività di completamento e
di allestimento delle navi, In sostanza, la concomitanza delle diverse
lavorazioni avrebbe implicato che le tavole e/o i tubi delle impalcature si
riempissero di polveri, di scorie e resti di lavorazione, destinate a
disperdersi nell'ambiente quando rovesciate e movimentate dai ponteggiatori.
1.2 Sulla scorta delle dichiarazioni rese nell'ambito del
procedimento penale entro cui sono stati accertati uso e presenza di amianto
presso i cantieri di (...) a Monfalcone, ove anche (...) è stato addetto, e
sulla base delle valutazioni eseguite nel tempo da Inail e da (...) i
ricorrenti hanno sostenuto che il mesotelioma che ha condotto al decesso di
(...) sia riconducibile alla violazione delle norme in materia di sicurezza da
parte di (...) Per questo, la società dovrebbe essere chiamata a rispondere del
danno come sopra precisato.
2. (...) si è costituita in giudizio chiedendo
l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei precedenti datori di
lavoro di (...) e la reiezione del ricorso. A tal proposito, ha sostenuto
l'inammissibilità della domanda di automatico riconoscimento del danno
biologico differenziale, attesa l'applicabilità alla fattispecie dell'art. 13
del D.Lgs. n. 38 del 2000. Ha poi argomentato in ordine all'impossibilità di
formulare un giudizio di colpevolezza nei suoi confronti rispetto al
determinismo della patologia contratta da (...) in quanto, all'epoca in cui
questi aveva prestato la sua attività lavorativa, non vi era alcun divieto di
utilizzo di materiali contenenti fibre di asbesto, non esisteva sul mercato
alcuno strumento di protezione idoneo anche soltanto alla riduzione della
possibilità di contrazione di patologie asbesto correlate, non vi era alcuna
consapevolezza dell'effettiva pericolosità del materiale e, soprattutto, del
pericolo derivante anche da minime esposizioni allo stesso. Ha comunque dedotto
l'insussistenza del nesso di causalità tra la patologia esitata nell'evento
mortale e la prestazione lavorativa svolta da (...) nell'interesse della
società,
3. La causa è stata istruita con l'escussione di testimoni e
mediante c.t.u. medico-legale. Successivamente, le parti l'hanno discussa e
parte ricorrente ha limitato le proprie conclusioni al solo profilo del danno
biologico temporaneo. Per il resto, entrambe le parti si sono riportate ai
rispettivi atti.
4. Così ricostruito l'iter processuale, va in primo luogo
osservato che l'eccezione e la domanda d'integrazione del contraddittorio
formulate da (...) non possono essere accolte. Questa, infatti, non ha proposto
alcuna domanda nei confronti dei precedenti datori di lavoro di (...) né per
esserne manlevata, né identificando negli stessi ì responsabili esclusivi del
fatto (c.d. laudano auctoris). Va del resto escluso che ricorra un'ipotesi di
litisconsorzio necessario, perché la pronuncia nei confronti di (...) fondata
sul rapporto di lavoro intercorso con (...) può essere senz'altro emessa senza
la presenza in giudizio di altri datori di lavoro, terzi del tutto estranei al
rapporto dedotto in giudizio.
Peraltro, anche l'eventuale corresponsabilità dei precedenti
datori di lavoro in ordine alla causazione della patologia darebbe comunque
luogo ad un'ipotesi di litisconsorzio facoltativo, in quanto, come chiarito
dalla Corte di cassazione, è questa l'ipotesi che si verifica quando l'attore
proponga una domanda con la quale invochi contro distinti soggetti la
responsabilità solidale per un titolo comune e i convenuti non chiedano
reciprocamente l'accertamento della responsabilità esclusiva l'uno dell'altro Cass.
n. 9625/2018; Cass., n. 17864/2016; Cass., n. 19584/2013.
Infine, l'istanza della convenuta, anche qualora fosse da
intendere quale sollecitazione di un ordine del giudice ex art. 107 c.p.c.
(norma cui l'istanza fa espresso riferimento) non potrebbe comunque trovare
accoglimento perché non si ravvisa alcuna ipotesi di "comunanza di
causa", attesa l'assoluta genericità delle allegazioni in ordine alla
tipologia dell'attività esercitata dai precedenti datori di lavoro, alle
mansioni espletate dal lavoratore, nonché rispetto alle fonti dell'asserita esposizione
ad amianto.
5. Nel merito, va rilevato che il percorso professionale di
(...) è pacifico e documentale cfr. doc. 3 ricorrenti. Non è inoltre contestato
che egli sia stato impiegato nello svolgimento delle mansioni indicate nel
ricorso.
5.1. Una descrizione del contesto entro cui queste si sono
svolte si può già evincere da un primo parere tecnico del (...) del 16 dicembre
1996, nel quale si sottolinea come, fino a tutto il 1977, "tutte le
mansioni che richiedevano la presenza degli operatori a bordo di nave abbiano
comportato delle significative esposizioni a fibre di amianto, sia perché
direttamente manipolato o lavorato dagli operatori durante le operazioni di
allestimento e sia perché essi, operando in ambienti confinati, erano soggetti
al cosiddetto inquinamento ambientale indotto da operazioni inquinanti svolte
in zone limitrofe" cfr. doc. 41 ricorrenti. Una successiva integrazione
del parere, elaborata il 10.04.1997, ha poi posto in luce che "furono
esposti a concentrazioni di fibre di amianto in misura superiore a 0,1 fibre/cc
anche "coloro che operavano prevalentemente a bordo nave, fino al
1979..." cfr. doc. 42 ricorrenti.
5.2. L'istruttoria testimoniale ha poi confermato
l'esposizione all'amianto di (...)
(...), che ha operato come carpentiere presso (...) nel
periodo dal 1968 al 1993, dopo aver ridimensionato l'esposizione all'amianto di
quanti svolgevano le sue stesse mansioni, ha riferito, quale osservatore, in
ordine all'attività dei ponteggiatori, ricordando che "il ponteggiatore
montava i "tubi innocenti" e vi innestava le tavole, a salire. Non ho
mai fatto caso se agissero su componenti sporche, fi ponteggiatore, nello
svolgimento della sua attività, non aveva direttamente a che fare con
l'amianto. Poteva avervi a che fare però passivamente, perché l'ambiente era
molto polveroso. C'erano gli aspiratori, ma la polvere permaneva ed era tanta.
..La polvere veniva eliminata con la scopa. Si tratta d'un'attività che veniva
eseguita anche quando vi erano altre lavorazioni in corso...Avevamo mascherine
in cotone, successivamente avevamo mascherine migliori. Ho tenuto la mascherina
in cotone fino agli anni '80. In teoria la mascherina era obbligatoria per
tutti, ma non tutti la usavano. Era l'operaio di fatto che decideva se
indossarla o meno, a seconda dell'attività che stava svolgendo".
(...) - collega di (...) e dipendente di (...) dal 1969 al
2000 - riferendosi all'amianto ha ricordato di aver "conosciuto questa
sostanza a bordo, dove l'amianto era impiegato per la coibentazione, anche dei
tubi in sala macchine. A bordo v'era molta polvere. Quando veniva fatta la
coibentazione - con lo spruzzo di amianto sulla parete e l'apposizione di
pannelli in amianto sulla stessa - gli altri operai si spostavano altrove.
Oppure, i coibentatoti venivano quando il lavoro di carpenteria era già terminato.
Non erano solo i carpentieri ad allontanarsi durante la coibentazione, ma tutte
le categorie di operai. Le pulizie a bordo erano svolte da una ditta specifica,
sia in presenza che in assenza degli operai (...) Impiegavano una scopa
tradizionale. Ho visto i ponteggiatori lavorare a bordo. L'esposizione dei
ponteggiatori non era legata ad un'esposizione diretta con l'amianto, ma
avevano un'esposizione passiva legata all'ambiente in cui operavano.
Era possibile ottenere le mascherine, ma era difficile
tenerle indosso perché il lavoro era molto faticoso. Quasi nessuno le usava.
Non erano obbligatorie, ma semplicemente a disposizione di chi le
volesse".
5.3. A fronte di una lettura globale dei dati che precedono,
può ritenersi che (...). allorché è stato impiegato a Monfalcone, abbia operato
in un ambiente connotato da una significativa presenza d'amianto, tale da
dimostrare la "nocività" dell'attività lavorativa svolta.
6. Dimostrata la circostanza che precede, ed ai fini
dell'affermazione della responsabilità della convenuta, va ricordato che la
responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura
un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione
di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo
sanzionata dalla norma l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele
atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto
conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di
indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento
storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla
nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del
datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica
disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela
della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di
insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto
di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche
norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute
nel D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal D.Lgs. 9 aprile
2008, n. 81" Cass., n. 18626/2013,
D'altra parte, "in materia di tutela della salute del
lavoratore, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., a
garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, sicché, con
riferimento alle patologie correlate all'amianto, l'obbligo, risultante dal
richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del D.P.R. n. 1124 del 1965 all'art.
21 del D.P.R. n. 303 del 1956, norma che mira a prevenire le malattie
derivabili dall'inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od
ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l'esistenza, comporta che non sia
sufficiente, ai fini dell'esonero da responsabilità, l'affermazione
dell'ignoranza della nocività dell'amianto a basse dosi secondo le conoscenze
del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle
cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite
di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv, "threshold limit value")
poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia
per l'adozione delle misure di prevenzione prescritte" Cass., n.
18503/2016,
In un'altra occasione, la Suprema Corte, affrontando un caso
attinente allo svolgimento d'attività lavorativa a contatto con l'amianto tra
il 1946 e il 1979, ha affermato che "all'epoca di svolgimento dei rapporto
di lavoro. ..era ben nota l'intrinseca pericolosità delle fibre
dell'amianto...Da tali premesse... derivava l'obbligo del datore di lavoro,
evidenziato dalla richiamata giurisprudenza, di adottare misure idonee a
ridurre il rischio connaturale all'impiego di materiale contenente amianto, in
relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c. e più specificamente
al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce, recependo le
indicazioni prevenzionistiche già affermatesi, che nei lavori che danno
normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di
lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per
quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro,
soggiungendosi che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della
natura delle polveri e della loro concentrazione, cioè devono avere
caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri. Soccorrono quindi le
norme dello stesso D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 ove si disciplina il dovere del
datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così
l'art. 9, che prevede il ricambio d'aria, l'art. 15, che impone di ridurre ai
minimo il sollevamento di polvere nell'ambiente mediante aspiratori, l'art. 18,
che proibisce l'accumulo delle sostanze nocive, l'art. 19, che impone di
adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l'art. 20, che difende
l'aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l'uso di
aspiratori, l'art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla
pericolosità dell'atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di
protezione" Cass. n. 6352/2015.
È ad ogni modo da ribadire il principio di chiusura per cui,
in tema di responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., qualora sia
accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa
per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere
adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure
generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio
espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia,
escludendo l'esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la
modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio
carico il rischio di eventuali tecnopatie" Cass., 14 maggio 2014, n,
10425,
6.1. Peraltro, quanto alla tesi di parte convenuta per cui
non potrebbe ravvisarsi la colpa in capo al datore di lavoro, poiché all'epoca
presumibile della contrazione della malattia la pericolosità dell'amianto non
sarebbe stata ancora nota e sarebbe mancata una normativa specifica in materia
di protezione dall'inalazione di amianto, deve rilevarsi che "già il R.D.
34 giugno 1909, n. 442 che approvava il regolamento per il T.U. della legge per
il lavoro delle donne e dei fanciulli, all'art. 29, tabella B, n. 12, includeva
la filatura e tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei
quali l'applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o
sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non
era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo. Analoghe disposizioni
dettava il regolamento per l'esecuzione della legge sul lavoro delle donne e
dei fanciulli, emanato con D.Lgs. 6 agosto 1916, n. 1136, art. 36, tabella B,
n. 13 e il R.D. 7 agosto 1936, n. 1720 che approvava le tabelle indicano i
lavori per i quali era vietata l'occupazione dei fanciulli e delle donne
minorenni, prevedeva alla
tabella B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri in cui
era consentita l'occupazione delle donne minorenni e dei fanciulli,
subordinatamente all'osservanza di speciali cautele e condizioni e, tra questi,
al n. 5, la lavorazione dell' amianto, limitatamente alle operazioni di
mescola, filatura e tessitura. Lo stesso R.D. 14 aprile 1927, n. 530, tra gli
altri agli artt. IO, 16, e 17, conteneva diffuse disposizioni relative alla
aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche.
D'altro canto l'asbestosi, malattia provocata da inalazione
da amianto, era conosciuta fin dai primi dei '900 e fu inserita tra le malattie
professionali con la L. 12 aprile 1943, n. 455 . In epoca più recente, oltre
alla Legge Delega 12 febbraio 1955, n. 52, che, all'art. 1, lett. F, prevedeva
di ampliare il campo della tutela, al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 e alle
visite previste dai D.P.R. 20 marzo 1956, n. 648, si deve ricordare il
regolamento 21 luglio 1960, n. 1169 ove all'art. 1 si prevede, specificamente,
che la presenza dell'amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo,
avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di
silice libera o di amianto tale da determinare il rischio si può infine
ricordare che il premio supplementare stabilito dal T U. n. 1124 del 1965, art.
153 per le lavorazioni di cui all'allegato n. 6, presupponeva un grado di
concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi.
D'altro canto l'imperizia, nella quale rientra l'ignoranza
delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno dei parametri
integrativi al quale commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in
esimente da responsabilità per il datore di lavoro.
Da quanto esposto discende che all'epoca di svolgimento del
rapporto di lavoro del dante causa degli odierni ricorrenti n.d.r.: 1956 - 1987
era ben nota l'intrinseca pericolosità delle fibre dell'amianto, tanto che
l'uso di materiali che ne contengono era sottoposto a particolari cautele,
indipendentemente dalla concentrazione di fibre (per fattispecie con periodi
temporali di attività lavorativa analoghi v. Cass. n. 8204 del 2003; Cass. n.
16645 del 2003; Cass. n. 14010 del 2010; Cass. n. 2491 del 2008; Cass. n. 15156
del 2011; Cass. n. 26590 del 2014; da ultimo Cass. n. 22710 del 2015 che ha
ribadito non solo l'irrilevanza della circostanza che il rapporto di lavoro si
fosse svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il
trattamento dei materiali d'amianto, ma anche che a detta epoca non si sapesse
che anche singole fibre d'amianto inalate potessero essere letali).
Si imponeva dunque, anche per il periodo per cui è causa,
l'adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di
materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui
all'art. 2087 c.c. e più specificamente al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art.
21 ove si stabilisce, recependo le indicazioni prevenzionistiche già
affermatesi, che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di
polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti
atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la
diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendosi che le misure da adottare a
tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro
concentrazione, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità
delle polveri. Devono altresì essere tenute presenti altre norme dello stesso
D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 ove si disciplina il dovere del datore di lavoro
di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l'art. 9, che
prevede il ricambio d'aria, l'art. 15, che impone di ridurre al minimo il
sollevamento di polvere nell'ambiente mediante aspiratori, l'art. 18, che
proibisce l'accumulo delle sostanze nocive, l'art. 19, che impone di adibire
locali separati per le lavorazioni insalubri, l'art. 20, che difende l'aria
dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l'uso di
aspiratori, l'art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla
pericolosità dell'atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di
protezione.
L'art. 2087 c.c. in generale e il D.P.R. n. 303 del 1956 in
particolare imponevano quindi di adottare provvedimenti idonei ad impedire o a
ridurre lo sviluppo e la dispersione delle polveri nell'ambiente di lavoro, a
prescindere peraltro dall'accertamento di una specifica nocività rispetto a
determinate patologie, essendo comunque accertata la nocività della polvere (di
qualsiasi sostanza) per l'apparato respiratorio (cfr. Cass. n. 6352 del 2015).
Gravava pertanto sulla società datrice di lavoro l'onere
della prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno attraverso
l'adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle suddette
norme..." Cass., n. 17252/2016.
6.2. Nella specie parte convenuta non ha dimostrato di aver
posto in essere tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del
danno.
In particolare, al di là delle ulteriori fonti normative
sopra richiamate, va ricordato che ai sensi dell'art. 21, D.P.R. n. 303 del
1956, vigente nel periodo per cui è causa,:
"Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione
di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i
provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne per quanto è possibile, lo sviluppo
e la diffusione nell'ambito di lavoro, nell'ambiente di lavoro.
Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della
natura delle polveri e della loro concentrazione nella atmosfera.
Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro
polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi
ovvero muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad
impedirne la dispersione, L'aspirazione deve essere effettuata, per quanto è
possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri.
Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione
indicate nel comma precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta,
si deve provvedere all'inumidimento del materiale stesso.
Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e la
eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse
possano rientrare nell'ambiente di lavoro...".
Ai sensi dell'art. 19 del medesimo D.P.R. n. 303 del 1956,
"il datore di lavoro è tenuto ad effettuare ogni qualvolta è possibile in
luoghi separati le lavorazioni pericolose o insalubri allo scopo di non esporvi
senza necessità i lavoratori addetti ad altre lavorazioni".
Ai sensi del successivo art. 25, quando possa esservi dubbio
sulla pericolosità dell'atmosfera, i lavoratori devono essere forniti di
apparecchi di protezione,
Nella specie, non soltanto la convenuta non ha dato prova di
aver adottato tali prescrizioni, ma - al contrario - dall'istruttoria svolta è
risultata positivamente dimostrata la relativa violazione.
Ebbene, il datore di lavoro ha omesso di predisporre tutte
le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore
sul luogo di lavoro. Infatti, le operazioni che implicavano l'esposizione ad
inalazione di amianto sono state effettuate sostanzialmente senza le dovute
precauzioni, volte ad evitare o ad abbattere l'inalazione di polveri contenti
amianto, In questo quadro, rileva che all'interno dello stabilimento non
risulta sia stata esercitata vigilanza sull'effettivo uso dei mezzi individuali
di protezione contro le polveri nocive: come è noto, ai sensi dell'art. 2087
c.c. e dell'art. 4, lett. c), D.P.R. n. 547 del 1955, all'epoca vigente, il
datore di lavoro è tenuto non soltanto a predisporre le misure necessarie a
garantire l'incolumità del lavoratore, ma anche ad esigere che i lavoratori
osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro
disposizione, con conseguente responsabilità del datore di lavoro del danno
conseguente all'omessa vigilanza sull'utilizzo dei d.p.i..
È poi mancata l'adozione di opportune misure organizzative
utili a confinare le lavorazioni comportanti la produzione di polveri nocive
rispetto alle altre. Inoltre, il datore di lavoro non ha provveduto alla
sostituzione dei materiali contenenti amianto con altri materiali che ne
fossero privi, nonostante che la pericolosità dell'inalazione di polveri
contenenti questo materiale dovesse essere conosciuta.
7. Passando all'esame del nesso eziologico tra l'ambiente
entro cui (...) ha operato a Monfalcone e le successive patologie esitate nel
suo decesso, va considerata la ricostruzione operata dal c.t.u. nella propria
relazione peritale.
L'esperto - ricostruita la storia clinica di (...) e
precisata la diagnosi di mesotelioma pleurico, diagnosticata il 14.12.2021 - ha
affermato che è stata questa patologia a causarne il decesso e che essa, con
elevata probabilità, è da porsi in nesso causale con l'esposizione all'amianto
sperimentata presso (...) cfr. p. 24 relazione c.t.u..
Chiarito questo aspetto, e venendo alle conseguenze dannose
patite da (...) il c.t.u. ha poi concluso indicando la sussistenza di un danno
biologico temporaneo al 75% di 2 mesi, e un danno biologico temporaneo al 100%
di 6 mesi.
8. Trattasi di valutazioni pienamente condivisibili.
Ad ulteriore conferma, si aggiungono le seguenti
considerazioni.
In primo luogo, va ricordato che "in tema di
responsabilità civile nella verifica del nesso causale vige, a differenza del
processo penale ove vale il principio del meccanismo processuale del cd.
"oltre ragionevole dubbio", la regola della preponderanza
dell'evidenza o del "più probabile che non", da verificarsi in virtù
della cd. "probabilità logica", nell'ambito degli elementi di
conferma e, nel contempo, nell'esclusione di quelli alternativi, disponibili in
relazione al caso concreto (Cass. 3.1.2017 n. 47; Cass. 27.9.2018 n.
23197)" Cass., n. 15761/2019.
In particolare, a fronte di una malattia a eziologia
multifattoriale, devono richiamarsi i consolidati principi di diritto affermati
dalla Corte di cassazione, secondo cui "nell'ipotesi di malattia ad
eziologia multifattoriale - quale il rumore - il nesso di causalità relativo
all'origine professionale di essa non può essere oggetto di semplici
presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di
una concreta e specifica dimostrazione, che può essere, peraltro, data anche in
via di probabilità, ma soltanto ove si tratti di "probabilità
qualificata", da verificare attraverso ulteriori elementi idonei a
tradurre in certezza giuridica le conclusioni in termini probabilistici del
consulente tecnico (v. Cass. 5 agosto 2010 n. 18270, Cass. 20 maggio 2004, n.
24 novembre 2015, n. 23951; Cass. 9634).
Nello stesso quadro ... in tema di malattia professionale,
derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova
della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di
ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera
possibilità dell'origine professionale, questa può essere ravvisata in un
rilevante grado di probabilità. "A tal fine il giudice, oltre a consentire
all'assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti,
è tenuto a valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in
tema di nesso causale...potendosi desumere, con elevato grado di probabilità,
la natura professionale della malattia dalla tipologia della lavorazione, dalle
caratteristiche dei macchinari presenti nell'ambiente di lavoro, dalla durata
della prestazione stessa, nonché dall'assenza di altri fattori causali
extralavorativi alternativi o concorrenti" Cass., n. 5704/2017.
Nella specie, si è già dato conto della nocività propria
delle lavorazioni e dell'ambiente di lavoro entro cui (...) è stato coinvolto.
Ne deriva che le considerazioni del c.t.u. circa l'esposizione qualificata del
ricorrente ad amianto nel periodo in cui ha lavorato presso (...) trovano
conferma negli esiti dell'istruttoria, scrutinati, con successiva conferma,
dalla stessa c.t.u..
8.1. Poiché la società ha però opinato che le altre
esperienze lavorative di (...) diverse da quella - breve - che l'ha coinvolto
presso (...) si sarebbero sviluppate in contesti ugualmente connotati dal
massiccio impiego dell'amianto, è appena il caso di osservare che "in
materia di malattia professionale, per l'accertamento dell'eziologia
professionale della patologia contratta trova applicazione il criterio secondo
il quale deve ritenersi acquisita la prova del nesso causale nel caso sussista
un'adeguata probabilità, sul piano scientifico, della risposta positiva, non
occorrendo una assoluta certezza, e ciò non a causa dell'incompletezza delle
prove fornite riguardo ad elementi strettamente fattuali, ma per ragioni
intrinseche alla variabilità e non completa prevedibilità delle reazioni dei
soggetti umani ai fattori potenzialmente incidenti sul loro stato di salute e
alla limitata possibilità di identificare anche "ex post" quali siano
stati i fattori causali che concretamente abbiano operato, tanto più che, in
applicazione dell'art. 41 cod. pen., va riconosciuta efficienza causale ad ogni
antecedente che abbia contribuito alla produzione dell'evento, salvo il limite
derivante dall'intervento di un fattore esterno all'attività lavorativa che sia
di per sé sufficiente a produrre l'infermità e a far degradare altre evenienze
a mere occasioni" Cass., n. 1135/2011.
Più precisamente, in questo ambito "trova applicazione
la regola dell'art. 41 c.p., con la conseguenza che il rapporto causale tra
l'evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni,
secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che
abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione
dell'evento, potendosi escludere l'esistenza nel nesso eziologico richiesto
dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l'intervento di un fattore
estraneo all'attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l'infermità
e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni". (Nella
specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito - Fondata sull'accertamento
che la riduzione dell'intensità di esposizione del lavoratore alle polveri di
amianto avrebbe evitato o ritardato l'insorgere della patologia mortale -
poiché tale circostanza implicava la sussistenza del nesso causale tra
l'esposizione in concreto verificatasi e l'insorgenza o la latenza della
malattia)" Cass., n. 27952/2018,
Ne deriva che, anche a voler riconoscere rilievo ad altri
contesti d'esposizione, questi non reciderebbero senz'altro il nesso di
causalità accertato dal c.t.u., posto che non risulta dimostrato l'intervento
di quel fattore estraneo che, alla luce dell'accertamento probabilistico
rispetto all'efficienza causale dell'esposizione presso la resistente, varrebbe
ad interrompere il nesso eziologico come sopra ricostruito, Invero, ogni
antecedente causale, ancorché indiretto o remoto, assume rilevanza, salvo che non
sussista la certezza dell'intervento di un fattore estraneo a quello esaminato,
tale da far degradare quest'ultimo al rango di semplice occasione. Nella
specie, non vi sono elementi concreti per ritenere - né con certezza, né, vista
l'astrattezza dell'ipotesi, sulla base del criterio del "più probabile che
non" - che altre attività lavorativa abbiano determinato, autonomamente,
l'infermità che ha concorso alla morte di (...).Quindi, anche a non volere
escludere, in via del tutto astratta, che le sue ulteriori attività abbiano
assunto il ruolo di concause, non viene smentito il fatto che, tra le stesse
concause, vada annoverata, con la rilevanza di cui s'è dato conto,
l'esposizione addebitabile all'inadempimento di (...)
8.2. Conclusivamente, data la molteplicità delle norme di
prevenzione violate e l'impossibilità d'escludere un'incidenza causale di
ciascuna di esse nella riduzione del rischio, sulla base del principio
"del più probabile che non" deve ritenersi dimostrata la sussistenza
di un nesso causale tra la condotta omissiva della convenuta e la patologia da
cui è risultato affetto il ricorrenti.
In ogni caso, ai sensi dell'art. 2087 c.c., "il dovere
del datore di lavoro era di escludere comunque l'esposizione alla sostanza
pericolosa, anche se ciò avesse imposto l'adozione di interventi drastici fino
alla stessa modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario
a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie" Cass., n. 10425/2014;
Cass., n. 291/2017, D'altra parte, la responsabilità dell'imprenditore ex art.
2087 cod. civ., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a
sanzionare l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte
quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute
del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di
lavorazione e del connesso rischio; il principio è stato applicato
specificamente con riferimento al rischio da esposizione all'amianto.
..Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività
dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di
lavoro provare di avere adottato, pur in difètto di una specifica disposizione
preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute
dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della
malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia
svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il
trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel D.Lgs.
15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n.
81...il rischio da esposizione all'amianto era noto all'epoca dei fatti, come
dimostrato. ..dalla presenza di pubblicazioni scientifiche già all'inizio del
secolo scorso che consideravano pericolose le lavorazioni collegate
all'amianto. ..a fronte di tale situazione, il dovere del datore di lavoro era
di escludere comunque l'esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò
avesse imposto l'adozione di interventi drastici fino alla stessa modifica
dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il
rischio di eventuali tecnopatie-" Cass., n. 15561/2019.
9. L'accertamento che precede conduce ad affermare la
responsabilità di (...) per la morte di (...) e dunque per il danno subito
personalmente da quest'ultimo.
In merito ad esso ed in ordine all'eccezione di
(...)rispetto all'art. 13, D.Lgs. n. 38 del 2000, va ricordato che, "in
tema di responsabilità del datore di lavoro per il danno da inadempimento,
l'indennizzo erogato dall'INAIL ai sensi dell'art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000
non copre il danno biologico da inabilità temporanea, atteso che sulla base di
tale norma, in combinato disposto con l'art. 66, comma 1, n. 2, del D.P.R. n.
1124 del 1965, il danno biologico risarcibile è solo quello relativo all'inabilità
permanente" Cass., n. 4972/2018. E poi consolidato il principio per cui
"in tema di liquidazione del danno biologico cd. differenziale, di cui il
datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura
assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-
conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall'ammontare
complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale
dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il valore capitale della
quota di essa destinata a ristorare, in forza dell'art. 13 del D.Lgs. n. 38 del
2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata
alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato, volta all'indennizzo
del danno patrimoniale" Cass. n. 9166/2017; Cass., n. 20807/2016; Cass.,
n. 9112/2019, Il Giudice "valuterà, cioè, il complessivo valore monetario
del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili
personalizzazioni, e da esso detrarrà quanto indennizzabile dall'INAIL, in base
ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno,
distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale (come
già sancito da Cass. n. 20807/2016 cit.)" Cass., n. 9166/2017. Inoltre,
"in tema di danno cd. differenziale, la diversità strutturale e funzionale
tra l'erogazione Inail ex art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000 ed il risarcimento
del danno secondo i criteri civilistici non consente di ritenere che le somme
versale dall'istituto assicuratore possano considerarsi integralmente
satisfatrive del pregiudizio subito dal soggetto infortunato o ammalato, con la
conseguenza che il giudice di merito, dopo aver liquidato il danno civilistico,
deve procedere alla comparazione di tale danno con l'indennizzo erogato
dall'Inali secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto
indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri
pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale;
pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno
patrimoniale, comparando quest'ultimo alla quota Inail rapportata alla
retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato;
successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall'importo
liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla
copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi
detrarre dall'importo così ricavato il valore capitale della sola quota della
rendita Inail destinata a ristorare il danno biologico permanente" Cass.,
n. 17967/2021.
Nella specie, (...) ha subito un danno biologico temporaneo,
ossia una voce avulsa dalla copertura Inail. La fenomenologia e la
risarcibilità di questo danno va affermata sulla base di un consolidato
orientamento della Corte di cassazione, secondo cui "nel caso in cui
intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni e la morte causata
dalle stesse, è configurarle un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in
relazione alla menomazione dell'integrità psicofisica patita dal danneggiato per
quel periodo di tempo, ed il diritto del danneggiato a conseguire il
risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi iure hereditatis" Cass.,
n. 18163/2007, Cass., n. 13672/2010; Cass., n. 21060/2016,
9.1 Quanto poi alla quantificazione del danno correiabile
alla malattia che ha condotto al decesso di(...) . deve rilevarsi che, laddove
la malattia non si risolva in esiti permanenti, ma determini la morte
dell'individuo, il danno risarcibile va individuato nella componente biologica
derivante dall'inabilità assoluta, opportunamente adeguata, in caso di
consapevole attesa della morte, dalla sofferenza psichica, da liquidare tenendo
conto della speciale intensità del danno Cass., n. 20922/2016, Invero, poiché
l'inabilità temporanea non si tramuta mai in inabilità permanente, cioè in una
condizione stabilizzata, il danno può essere commisurato soltanto all'inabilità
temporanea. Tuttavia nella relativa liquidazione - da compiere adeguando
l'ammontare del danno alle circostanze del caso concreto - si deve tener conto
del fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed
intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere
suscettibile di recupero e da esitare nella morte.
Assume dunque rilievo, per un verso, l'intervallo di tempo
tra lesioni e decesso della vittima, e, per altro verso, e soprattutto,
l'intensità della sofferenza provata.
Inoltre, dal momento che il pregiudizio costituito dalla
perdita della vita non è risarcibile cfr. Cass., sez. un., n. 15350/2015, la
somma da liquidare non va rapportata all'aspettativa di vita della vittima,
bensì al periodo di vita e di sofferenza effettivamente vissuto dal momento
della lesione fino a quella del decesso.
Da ultimo, poiché in via di principio nella liquidazione del
danno non patrimoniale non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla
legge, il ricorso ad una liquidazione equitativa pura, non fondata su criteri
obiettivi (i soli idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto e
a consentire la verifica ex post del ragionamento seguito dal giudice in ordine
all'apprezzamento della gravità del danno, delle condizioni soggettive della
persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato
d'animo), per garantire l'adeguata valutazione del caso concreto e l'uniformità
di giudizio a fronte di casi analoghi, sembra equo - in assenza di altri
parametri - adottare il criterio di liquidazione predisposto dalle tabelle proposte
dall'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano per la liquidazione del c.d.
"danno terminale".
Le tabelle milanesi sopra menzionate sono state predisposte
tenendo conto dei seguenti principi:
- l'unitarietà ed omnicomprensività del concetto di
"danno terminale", che, alla luce dell'insegnamento delle Sezioni
Unite nelle sentenze gemelle dell'11 novembre 2008, nn. 26972-3-4-5,
ricomprende al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla
percezione della morte imminente (e dunque i pregiudizi altrimenti definiti
come " danno biologico terminale", da "lucida agonia" o
"morale catastrofale", nonché il danno biologico temporaneo "ordinario",
da intendersi in esso assorbito);
- la durata limitata del danno, derivante dalla stessa
definizione del danno come terminale (durata temporanea convenzionalmente
stabilita in un periodo massimo di 100 giorni, oltre il quale il danno
terminale non può prolungarsi, risultando risarcibile il solo danno biologico
temporaneo ordinario);
- la coscienza del danneggiato, non essendo il danno in re
ipsa ed occorrendo quindi la percezione della fine imminente;
- l'intensità decrescente, basata sull'esperienza medico
legale, secondo la quale il danno tende a decrescere col passare del tempo, dal
momento che la massima sofferenza è percepita nel periodo immediatamente
successivo all'evento lesivo per poi scemare nella fase successiva (tale
criterio verosimilmente non è perfettamente in linea con la gravità
ingravescente della patologia che ha condotto a morte il de cuius, ma resta
comunque applicabile anche nella presente fattispecie, sia pure con un calcolo
a ritroso, ipotizzando la massima sofferenza nei giorni immediatamente
precedenti il decesso);
- il metodo tabellare, che - pur nella ribadita difficoltà
di individuare una "regola" che valga per tutte le variegate
fenomenologie di danno terminale - assegna a ciascun giorno di sofferenza, nei
limiti del tetto di 100 giorni complessivi, un valore progressivamente - e
convenzionalmente - decrescente, sino ad agganciarsi, al 100 giorno, alla
valutazione del danno biologico temporaneo ordinario,
- la tabella prevede in particolare la liquidazione di un
danno terminale massimo, non ulteriormente personalizzabile, fino al tetto di
30.000,00
euro per tre giorni e poi una cifra giornaliera inferiore,
decrescente nel tempo (nella presente fattispecie da calcolarsi a ritroso dal
giorno del decesso), a partire dal quarto giorno e personalizzabile, in
relazione alle circostanze del caso concreto e al particolare sconvolgimento
che risulti di volta in volta provato (con una personalizzazione che viene
proposta nel limite massimo del 50%). Il valore del quarto giorno è stato
individuato m 1.000 euro, mentre la progressiva diminuzione giornaliera è stata
calcolata, con i necessari arrotondamenti, in modo tale da giungere, alla fine
del periodo, ad un valore (98 euro) pressoché pan a quanto pro die stabilito
dalla tabella per il danno biologico temporaneo standard (salva
personalizzazione).
Per un'opportuna ricostruzione, è opportuno riportare le
tabelle di riferimento
Omissis
9.2. Applicando i criteri previsti delle tabelle che
precedono, il danno terminale nella presente fattispecie deve essere
quantificato tenendo conto che il c.t.u., all'esito della propria consulenza,
ha concluso che, in conseguenza della malattia, sono derivati:
- un periodo di danno biologico temporaneo al 100% di 6
mesi, pari a 180 giorni)
- un periodo di danno biologico temporaneo al 75% di 2 mesi,
pari a 60 giorni.
Rispetto al primo periodo, deve farsi riferimento ai valori
previsti dalla tabella del danno biologico terminale del Tribunale di Milano.
Il danno degli ultimi 100 giorni di vita del de cuius deve dunque essere
quantificato in Euro 121.772,50, sulla base del seguente calcolo: Euro
30.000,00 (non ulteriormente personalizzabili) + Euro 79.852,50 (come da
tabella, con la personalizzazione massima del 50%). Ad esso va aggiunto, per
gli ulteriori 80 giorni coinvolti, l'importo di Euro 11.920,00 (149x80x100 :
100).
La massima personalizzazione è giustificata dalla
particolare gravità della patologia, dalla conseguente inevitabile
consapevolezza dell'approssimarsi della fine e dalla gravosità del percorso
terapeutico affrontato, testimoniato dalla storia clinica ricostruita dalla
relazione peritale,
Rispetto al restante periodo, le considerazioni che
precedono militano per l'applicazione della massima personalizzazione. Il
relativo danno può essere calcolato in Euro 6.705,00 per i 60 giorni di
invalidità temporanea al 75 % (149 x 60x75 : 100).
Pertanto, il danno jure hereditario deve essere quantificato
in complessivi Euro 128.477,50 (121.772,50 + 6.705,00).
9.3. Quanto precede si ritiene esaurisca integralmente i
pregiudizi non patrimoniali patiti dal de cuius, È in tal senso da precisare
che la pronuncia della Corte di cassazione richiamata in sede di discussione
dalle ricorrenti cfr. Cass., n. 36841/2022 esprime il principio per cui, sotto
un profilo descrittivo e dei criteri di liquidazione, restano distinti il danno
biologico temporaneo (da considerarsi di massima entità in ragione dell'esito
letale) e il danno catastrofale, relativo alla consapevolezza dell'approssimarsi
del decesso. Ciò però non significa che si debba procedere ad una duplice
valutazione - prima nella liquidazione del danno biologico, poi nella
liquidazione del danno catastrofale - della consapevolezza del decesso, quanto
meno ogniqualvolta essa, e le conseguenze psichiche che ne derivano, siano
presumibili in relazione alla vicenda concreta ma non si manifestino in
altrettante risultanze istruttorie utili ad evidenziare una sofferenza
peculiare e straordinaria. Da qui la considerazione che la massima
personalizzazione riconosciuta nella vicenda concreta assorbe, perché già
valorizza, ogni profilo sussumibile nella figura del "danno
catastrofale" e definisce un risarcimento integralmente satisfattivo
rispetto al pregiudizio subito, benché la liquidazione - per essere equilibrata
- sia stata compiuta sulla base della medesima tabella e in termini,
esteticamente, unitari, Detto altrimenti, una liquidazione separata non avrebbe
condotto alla liquidazione di un maggior risarcimento (visto che il danno è,
nella sua entità, il medesimo) ma solo alla proliferazione di addendi di
ammontare ridotto.
10. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la
soccombenza.
10.1. Quanto ai compensi professionali relativi ai
difensori, questi vanno liquidati in base al D.M. n. 55 del 2014 in relazione
ai parametri previsti per le cause di lavoro, avuto riguardo al valore della
controversia e tenendo conto dei valori medi per quanto attiene alla fase di
studio e alla fase introduttiva, dei valori minimi per la fase istruttoria e la
fase decisoria, stante il numero ridotto dei testi escussi, la sussistenza di
consolidate conoscenze scientifiche utili rispetto al l'indagine medico -
legale e la presenza d'un consolidato orientamento giurisprudenziale che ha
reso piuttosto snella la fase decisoria. Il compenso va distratto a favore dei
difensori, antistatari.
10.2, Va altresì rimborsato il compenso della consulenza di
parte, trattandosi di importo finalizzato alla formulazione di allegazioni
difensive di natura tecnica, che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi
rimborsare salvo che non siano ritenute superflue ed eccessive cfr., Cass., n.
84/2013; nella specie, sono state indicate spese per Euro 1.500,00, eccessive
nella misura eccedente la quantificazione operata dal c.t.u. nella propria nota
- pari ad Euro 1.000,00 -, sicché va rifuso l'importo entro quest'ultima cifra.
10.3. Le spese di c.t.u., liquidate come da separato
decreto, vanno poste a carico di (...)
P.Q.M.
Il Giudice, definitivamente pronunciando,
condanna (...) s.p.a, a corrispondere ai ricorrenti, nella
misura di 1/3 ciascuno, la somma di Euro 128.477,50, oltre interessi di legge
dalla data della presente sentenza al saldo;
condanna (...) s.p.a. a rifondere ai ricorrenti le spese del
giudizio, liquidate in Euro 1,000,00, oltre accessori di legge, rispetto alla
consulenza tecnica di parte, e in complessivi Euro 9.930,00, oltre rimborso
spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, rispetto ai
compensi dei difensori, con distrazione in favore degli avv.ti (...) e (...)
pone definitivamente a carico della convenuta le spese di
c.t.u., liquidate come da separato decreto.
Così deciso in Gorizia, il 28 novembre 2023.
Depositata in Cancelleria il 28 novembre 2023.
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