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domenica 13 gennaio 2013

Consiglio di Stato:""la destituzione può sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni"."

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 09-01-2013, n. 80
Fatto - Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1.1. L'attuale appellante, Si(Lpd) (Lpd), espone di aver prestato servizio militare quale Carabiniere in ferma volontaria presso la Stazione Carabinieri di (Lpd) - (Lpd).
Durante tale servizio il Comandante della Stazione medesima venne interessato dal titolare di un'agenzia di viaggi in merito al comportamento del (Lpd), il quale aveva pagato un biglietto aereo mediante un assegno tratto su di un conto corrente bancario che risultava essere stato aperto con documenti falsi.
I successivi accertamenti svolti al riguardo consentirono di accertare che il (Lpd), all'atto dell'accensione del conto anzidetto, fornendo generalità diverse dalle proprie, aveva esibito con dati contraffatti la patente militare di guida, il certificato unico dipendente (CUD) e un'attestazione di servizio sottoscritta dallo stesso Comandante della Stazione di (Lpd) - (Lpd).
Il (Lpd), inoltre, risultava protestato per un importo pari a circa Euro 293.000,00.-
In dipendenza di ciò, il (Lpd) è stato denunciato all'autorità giudiziaria ordinaria, nonché alla Procura militare, per i reati di truffa (art. 640 c.p.), falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in certificazioni (art. 477 c.p.), omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale (art. 361 c.p.)., falso in foglio di via e simili (art. 220 c.p.m.p.) e, con riferimento all'art. 615-ter c.p., di indebito uso delle informazioni e dei dati memorizzati nella banca dati interforze degli organi di Polizia (SDI).
La Procura Militare ha inoltre trasmesso alla Procura della Repubblica di (Lpd) gli atti relativi all'ipotesi di reato di falsificazione di documenti (art. 482 c.p.), segnatamente riferiti a quelli utilizzati per l'accensione del conto corrente, nel mentre per altre ipotesi delittuose ha trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica di Napoli.
Con sentenza n. 07/2715 del 13 dicembre 2007, pronunciata ai sensi dell'art. 444 c.p.p. e divenuta irrevocabile in data 4 gennaio 2008, il giudice per l'udienza preliminare presso il Tribunale di (Lpd) ha comminato al (Lpd) la pena di mesi tre di reclusione, sospesa e sostituita con la multa di Euro 3.420,00.- con riguardo ai reati di falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative (art. 477 c.p.) e di falsità materiale commessa da privato (art. 482 c.p.)
Va comunque sin d'ora rilevato che i reati per i quali è stata applicata l'anzidetta pena traggono origine, come esposto dallo stesso (Lpd), dalla circostanza che il padre di questi, (Lpd)(Lpd) era vessato da gravi minacce da parte di taluni creditori usurai, in ordine alle quali pende a tutt'oggi sub R.(Lpd) N. 43537/06 un fascicolo penale presso la Procura della Repubblica di Napoli: minacce rese - tra l'altro - ben concrete in data 27 dicembre 2007 allorquando la Si(Lpd)ra M.(Lpd), sorella dell'attuale appellante, venne aggredita e ferita da tale (Lpd) (Lpd), facente parte dell'anzidetto gruppo di usurai.
Tale episodio è stato denunciato dalla vittima all'autorità giudiziaria.
Nondimeno lo stesso appellante, "in evidente stato di coercizione psicologica ed al solo fine di aiutare il padre ad accedere ad ulteriori prestiti, impossibili da ottenere per l'assenza di idonee garanzie, vista anche la pendenza di ratei insoluti dei pregressi prestiti, produsse" ad un'agenzia di banca in (Lpd) "documentazione "corretta nella data di nascita"" (cfr. pa(Lpd) 20 dell'atto introduttivo del presente giudizio).
In dipendenza dell'avvenuta pronuncia del giudice penale, il Comandante della Regione Carabinieri Lombardia ha disposto in data 28 aprile 2008 un accertamento disciplinare nei confronti del (Lpd).
Questi è stato sottoposto al giudizio della Commissione di disciplina, la quale nella seduta del 31 luglio 2008 ha ritenuto l'incolpato "non meritevole di conservare il grado" e, pertanto, con determinazione del Ministero della Difesa dd. 21 agosto 2008 è stata irrogata al medesimo (Lpd) la sanzione disciplinare di stato della perdita del grado per rimozione con contestuale cessazione della ferma volontaria e collocamento in congedo.
1.2. Con ricorso proposto sub R.(Lpd) 10559 del 2008 innanzi al T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, il (Lpd) ha chiesto l'annullamento di tale determinazione del Ministero della Difesa e di ogni altro atto presupposto e conseguente, ivi segnatamente compresi il giudizio della Commissione di disciplina e il provvedimento di accertamento disciplinare adottato dal Comandante della Regione Carabinieri Lombardia.
Il ricorrente ha dedotto al riguardo e sotto più profili l'avvenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 26, 34 e 37 dell'allora vigente L. 18 ottobre 1961, n. 1168, violazione e falsa applicazione dell'art. 33 c.p.m.p., violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241, eccesso di potere, difetto di motivazione, difetto di istruttoria, carenza dei presupposti e sproporzione tra illecito compiuto e sanzione irrogata, nonché l'avvenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 110 e 120 del T.U. approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 per violazione dei relativi termini.
Il (Lpd), nell'assumere come la sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p. non possa essere equiparata ad una sentenza di condanna, ha censurato l'illegittimità degli atti impugnati in quanto fondati unicamente sul presupposto della intervenuta sentenza patteggiata.
A suo avviso, pertanto, non solo difettavano i presupposti previsti per l'applicazione della sanzione della perdita del grado e della cessazione dalla ferma volontaria, ma era ben ravvisabile un difetto di motivazione, in quanto essa risultava espressa con mere formule di stile e, comunque, essendo la stessa priva di idonee argomentazioni in relazione alla memoria difensiva da lui presentata in sede di procedimento disciplinare.
Sempre secondo il (Lpd), l'Amministrazione Militare si sarebbe di fatto limitata a recepire l'affermazione di responsabilità contenuta nella sentenza di patteggiamento, senza compiere alcuna ponderazione delle peculiarità della fattispecie.
Inoltre - come detto innanzi - secondo il ricorrente in primo grado risultavano nella specie violati i termini contemplati dagli artt. 110 e 120 del T.U. approvato con D.P.R. n. 3 del 1957.
1.3. Si è costituito in tale primo grado di giudizio il Ministero della Difesa, concludendo per la reiezione del ricorso.
1.4. Con sentenza n. 217 dd. 13 gennaio 2010 la Sez. I-bis dell'adito T.A.R. ha respinto il ricorso, condannando il (Lpd) al pagamento delle spese di tale primo grado di giudizio, complessivamente liquidate nella misura di Euro 2.000,00.-(duemila/00).
2.1. Il (Lpd) chiede ora la riforma di tale sentenza, sostanzialmente riproponendo le medesime censure già da lui dedotte in primo grado e riferendole - ora - al contenuto della sentenza impugnata.
2.2. Si è parimenti costituito nel presente grado di giudizio il Ministero della Difesa, chiedendo la reiezione dell'appello.
3. Alla pubblica udienza del 12 giugno 2010 la causa è stata trattenuta per la decisione.
4.1. Tutto ciò premesso, l'appello in epigrafe va respinto.
4.2. In via preliminare, a fronte delle affermazioni dell'appellante secondo le quali la sentenza di applicazione della pena su richiesta della parte emessa a' sensi dell'art. 444 c.p.p. non si configurerebbe quale sentenza di condanna, va rilevato che - per contro - la sentenza medesima non prescinde dall'accertamento della responsabilità penale dell'imputato, in quanto il giudice penale, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di c.d. "patteggiamento" se ritiene ricorrano le condizioni per il proscioglimento perché il fatto non sussiste, perché l'imputato non lo ha commesso ovvero perché il fatto non costituisce reato; e, pertanto, se è vero che ai fini del giudizio disciplinare il patteggiamento non è da solo sufficiente per affermare la responsabilità dell'incolpato, è anche vero che si può fare legittimo riferimento alla condanna patteggiata per ritenere accertati, in sede disciplinare, i fatti emersi nel corso del procedimento penale, i quali appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente in base ad un ragionevole apprezzamento delle altre risultanze del procedimento (così, recentemente, Cons. Stato, Sez. III, 17 maggio 2012 n. 2878).
Pertanto i fatti posti a base della "sentenza patteggiata" ex art. 444 c.p.p. ben possono formare il fondamento di un provvedimento sanzionatorio adottato in sede disciplinare, atteso che la sussistenza di una sentenza di patteggiamento non può essere invocata per considerare come inesistenti tutte le circostanze emerse in sede penale, ma restando sempre a carico dell'Amministrazione medesima l'obbligo di valutarle autonomamente (così Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2011 n. 2188) e risultando quindi assodato che in sede di procedimento disciplinare a carico di un pubblico dipendente l'Amministrazione può legittimamente utilizzare il risultato delle indagini penali poste in essere nel giudizio penale definito con sentenza di patteggiamento per quanto riguarda, fra l'altro, i fatti non controversi (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. III, 31 marzo 2012 n. 1917).
Né, comunque, l'appellante considera - richiamando in contrario giurisprudenza alquanto pregressa o comunque inconferente sul punto - che a' sensi del combinato disposto dell'art. 445, comma 1-bis, c.p.p. e dell'art. 653, comma 1-bis, come rispettivamente introdotti dall'art. 1, lett. a) e c) della L. 17 marzo 2001, n. 97 e anche in dipendenza della sostituzione poi operata dall'art. 2 della L. 12 giugno 2003, n. 134, la sentenza emessa a' sensi dell'art. 444 c.p.p., espressamente equiparata a tal fine a quella irrevocabile di condanna assume ora efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso.
Da tutto ciò pertanto discende, a differenza di quanto sostenuto dall'appellante, che la sanzione della perdita del grado poteva essere irrogata a' sensi del quadro normativo all'epoca vigente e complessivamente costituito dagli artt. 26, 34 e 37 della L. n. 1168 del 1961, già applicabili al personale di truppa dell'Arma dei Carabinieri e ora sostituiti dalla disciplina complessivamente posta dall'art. 860 e ss. del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66 e applicabile in via generale a tutto il personale militare.
Per quanto qui segnatamente interessa, l'art. 26 della L. n. 1168 del 1961 disponeva che "il militare di truppa dell'Arma dei Carabinieri può cessare dalla ferma volontaria o dalla rafferma, anche prima del termine stabilito, per una delle seguenti cause: .. c) motivi disciplinari, sempre che i fatti non siano di tale gravità da importare il deferimento alla Commissione di disciplina per l'eventuale perdita del grado; d) condanna penale per la quale il militare deve espiare una pena restrittiva della libertà personale; g) perdita del grado ...".
Il susseguente art. 34, a sua volta, disponeva che "il militare di truppa dell'Arma dei Carabinieri incorre nella perdita del grado per una delle seguenti cause: 1) perdita della cittadinanza;
2) assunzione in servizio, non autorizzata, in Forze armate di Stati esteri; 3) assunzione in servizio con qualsiasi grado in altre Forze Armate o Corpi di Polizia; 4) interdizione giudiziale o inabilitazione; 5) irreperibilità accertata; 6) rimozione per violazione del giuramento o per altri motivi disciplinari ovvero per comportamento comunque contrario alle finalità dell'Arma o alle esigenze di sicurezza dello Stato, previo giudizio della Commissione di disciplina; 7) condanna:
a) nei casi in cui ai sensi della legge penale militare, importa la pena accessoria della rimozione;
b) per delitto non colposo, tranne che si tratti dei delitti di cui agli artt. 396 e 399 del Codice penale comune, quando la condanna importi la interdizione temporanea dei pubblici uffici, oppure una delle altre pene accessorie previste dai numeri 2 e 5 del primo comma dell'art. 19 di detto Codice penale".
L'anzidetto art. 37, da ultimo, riconduceva a sanzione di stato sia la rimozione di cui al testé riferito art. 34, n. 6, sia la cessazione dalla ferma volontaria o dalla rafferma per motivi disciplinari di cui all'art. 26, lettera c), della medesima L. n. 1168 del 1961.
L'appellante - peraltro - riproponendo anche nel presente grado di giudizio quanto da lui già dedotto innanzi al T.A.R., insiste innanzitutto nell'affermare che la sanzione della perdita del grado gli sarebbe stata sostanzialmente inflitta a' sensi del n. 7 dello stesso art. 34, il quale, come precisato dianzi, ricollega la perdita del grado alle diverse ipotesi di condanna per i casi in cui la legge penale militare comporta la pena accessoria della rimozione ovvero di condanna "per delitto non colposo, tranne che si tratti dei delitti di cui agli artt. 396 e 399 del Codice penale comune, quando la condanna importi la interdizione temporanea dei pubblici uffici, oppure una delle altre pene accessorie previste dai numeri 2 e 5 del primo comma dell'art. 19 di detto Codice penale"; ovvero gli sarebbe stata inflitta a' sensi dell'art. 33 c.p.m.p., laddove dispone che "la condanna pronunciata contro militari in servizio alle armi o in congedo, per alcuno dei delitti preveduti dalla legge penale comune, oltre le pene accessorie comuni, importa: 1) la degradazione, se trattasi di condanna .. alla pena dell'ergastolo, ovvero di condanna alla reclusione che, a norma della legge penale comune, importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici; 2) la rimozione, se, fuori dei casi indicati nel numero 1, trattasi di delitto non colposo contro la personalità dello Stato, o di alcuno dei delitti preveduti dagli articoli 476 a 493, 530 a 537, 624, 628, 629, 630, 640, 643, 644 e 646 del codice penale, o di bancarotta fraudolenta; ovvero se il condannato, dopo scontata la pena, deve essere sottoposto a una misura di sicurezza detentiva diversa dal ricovero in una casa di cura o di custodia per infermità psichica, o alla libertà vigilata; 3) la rimozione, ovvero la sospensione dall'impiego o dal grado, secondo le norme stabilite, rispettivamente, dagli articoli 29, 30 e 31, in ogni altro caso di condanna alla reclusione, da sostituirsi con la reclusione militare à termini degli articoli 63 e 64".
Risulta ben evidente l'erroneità di tale tesi, posto che l'Amministrazione Militare non ha per certo irrogato nella specie una sanzione accessoria, comunque nella specie preclusa allo stesso giudice a' sensi dell'art. 445 c.p.p.
Viceversa, come puntualmente affermato dal T.A.R., il parametro normativo di riferimento cui ricondurre la sanzione disciplinare nella specie impugnata va individuato nella previsione di cui all'art. 34, n. 6, della L. n. 1168 del 1971, il quale - per l'appunto, e come detto innanzi - disponeva che il militare di truppa dell'Arma dei carabinieri incorresse nella perdita del grado per rimozione in caso di violazione del giuramento o per altri motivi disciplinari ovvero per comportamento comunque contrario alle finalità dell'Arma o alle esigenze di sicurezza dello Stato, previo giudizio della Commissione di disciplina.
Risulta inoltre indubbio che altrettanto correttamente l'Amministrazione Militare ha nella specie disposto la cessazione del (Lpd) dalla ferma volontaria ai sensi dell'art. 26, lettera g) della L. n. 1168 del 1961, laddove - per l'appunto - si dispone che il militare di truppa dell'Arma dei Carabinieri può cessare dalla ferma volontaria o dalla rafferma, anche prima del termine stabilito, per perdita del grado.
Né può sostenersi la tesi che l'Amministrazione Militare abbia nella specie irrogato la sanzione sulla mera base della sentenza emessa dal giudice penale, posto che l'Amministrazione medesima ha comunque proceduto ad un'autonoma valutazione dei fatti resi oggetto del giudizio penale, riferendoli alla responsabilità dell'incolpato e all'affermazione della loro rilevanza disciplinare, segnatamente sotto i profili - espressamente imposti dal predetto art. 34, n. 6 - della violazione del giuramento prestato, della non conformità del comportamento tenuto dall'incolpato rispetto ai fini istituzionalmente perseguiti dall'Arma e del conseguente giudizio circa la meritevolezza - o meno - a conservare il grado.
Nel processo verbale della Commissione di disciplina e nella motivazione del provvedimento recante l'irrogazione della sanzione sono contenute idonee e del tutto esaustive espressioni di giudizio circa il disvalore dell'operato dell'attuale appellante, il quale ha in tal senso posto in essere una condotta comunque "contraria ai principi di moralità e rettitudine che devono improntare l'agire di un militare, ai doveri attinenti al giuramento prestato ed ai doveri di correttezza ed esemplarità propri di un appartenente all'Arma dei Carabinieri, nonché lesiva del prestigio dell'Istituzione, facendo in tal modo venir meno il rapporto fiduciario che deve intercorrere tra il dipendente e la Pubblica Amministrazione", con la conseguenza che "i fatti disciplinarmente rilevati sono di gravità tale da richiedere l'irrogazione della massima sanzione disciplinare di stato", anche nell'espressa considerazione che nella specie è stata violata la c.d. "fede pubblica", ossia la fiducia e la sicurezza che la legge attribuisce a determinati documenti che lo stesso (Lpd), in qualità di pubblico ufficiale avrebbe dovuto - semmai - proteggere dagli abusi che, viceversa, sono stati proprio da lui compiuti.
Tali affermazioni non sono, pertanto - come afferma viceversa il (Lpd) - del tutto stereotipe, ma dimostrano come i provvedimenti impugnati siano stati adottati in esito ad un autonomo accertamento ed apprezzamento del rilievo disciplinare della sua condotta, dando con ciò adeguato supporto motivazionale all'irrogazione della sanzione della perdita del grado per rimozione, stante l'indubbia gravità dei fatti accertati in relazione alla qualifica rivestita.
In tale contesto, quindi, non solo non possono trovare accoglimento le censure di difetto di motivazione e di istruttoria dedotte dal (Lpd), ma anche quelle di manifesta sproporzione
tra la condotta accertata e la sanzione irrogata.
Va sotto quest'ultimo profilo considerato che, come è ben noto, la valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e la proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati costituiscono manifestazione del discrezionale apprezzamento dell'Amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità innanzi al giudice amministrativo soltanto per macroscopici vizi logici (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 16 ottobre 2008 n. 5016): vizi, nella specie, insussistenti, posto che la condotta contestata al (Lpd) risulta in assoluto contrasto con i doveri discendenti dal giuramento da lui prestato.
Né possono essere condivisi gli argomenti da lui addotti a giustificazione della condotta medesima.
Il giudice di primo grado, sotto questo particolare profilo, ha invero breviloquentemente fatto riferimento "a profili psicologici ed ambientali che non intaccano il dato oggettivo della commissione dei fatti, peraltro non controversi e dallo stesso ammessi nella memoria difensiva presentata nel corso del procedimento disciplinare" (cfr. pa(Lpd) 9 della sentenza impugnata).
Questo giudice, a sua volta, non sottace il particolare stato di costrizione psicologica in cui si è trovato il (Lpd), al momento in cui ha posto in essere le condotte delittuose, stante l'indubbia gravità delle minacce subite dalla propria famiglia.
Peraltro, il giudice penale ha - all'evidenza - reputato nella specie di non dover riconoscere l'esimente dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p. in quanto espressamente non applicabile "a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo" (cfr. ivi, secondo comma): e, se così è, davvero non si vede il motivo per cui una sorta di tale esimente, ovvero una sorta di attenuante su di essa modellata, dovrebbe poi applicarsi nella pur autonoma valutazione della responsabilità disciplinare di colui che è assoggettato a tale dovere giuridico.
In dipendenza di ciò, quindi, il (Lpd) non poteva comunque sottrarsi dall'obbligo di rendere nota all'Autorità giudiziaria, per il tramite dell'Arma, la situazione venutasi a creare al fine di ottenere la necessaria protezione per il proprio nucleo familiare e la punizione dei responsabili, dovendosi quindi rigorosamente astenere da comportamenti oggettivamente antitetici al proprio status.
4.3. Da ultimo, va respinto il motivo d'appello con il quale è stata dedotta la violazione dei termini procedimentali che - più correttamente rispetto al precedente grado di giudizio - il (Lpd) ha configurato nell'atto di appello come riferiti all'art. 9, comma 2, parte prima, della L. 7 febbraio 1990, n. 19, laddove dispone che nei confronti del pubblico dipendente "la destituzione può sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni".
Secondo la tesi dell'appellante, tali termini non sarebbero stati rispettati, posto che la contestazione degli addebiti è avvenuta in data 8 maggio 2008, nel mentre l'adozione del provvedimento recante la sanzione è a sua volta avvenuta in data 21 agosto 2008, ossia oltre il secondo termine perentorio di 90 giorni contemplato dalla disposizione normativa in esame.
Orbene, va innanzitutto rilevato che per la fattispecie in esame va senz'altro esclusa l'applicazione dell'indirizzo giurisprudenziale formatosi in epoca antecedente all'anzidetta equiparazione della sentenza resa ex art. 444 e ss. c.p.p. alla sentenza definitiva di condanna disposta agli effetti dei giudizi disciplinari introdotta dall'art.1 della L. 97 del 2001: indirizzo che - per l'appunto - reputava non applicabile l'anzidetto termine di 90 giorni nelle ipotesi di sentenza c.d. "patteggiata" (cfr. al riguardo, per tutte, Cons. Stato, A.P., 26 giugno 2000 n. 15).
L'art. 19, comma 2, della L. n. 19 del 1990 si applica pertanto pienamente al caso di specie: ma - contrariamente a quanto affermato dal (Lpd) - la corretta sua esegesi induce a ritenere che il termine di 90 giorni "dalla notizia della sentenza irrevocabile" inizia a decorrere non già dalla data dell'effettivo avvio del procedimento stesso, ma dalla scadenza dei 180 giorni, sempre previsti dall'art. 9 comma 2 cit., che costituiscono il periodo temporale massimo entro il quale - avuta conoscenza della sentenza penale di condanna - deve avere inizio (o proseguire) il procedimento: dimodoché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di 270 giorni e - quindi - i termini di 180 e 90 giorni sono cumulabili indipendentemente dal momento in cui l'Amministrazione abbia avviato l'azione disciplinare (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 2009 n. 140).
Posto dunque che nella specie risulta l'avvenuta conoscenza in data 25 gennaio 2008 da parte dell'Amministrazione della sentenza irrevocabile di condanna, che la contestazione degli addebiti è stata formulata in data 8 maggio 2008 e che il provvedimento conclusivo del procedimento è stato adottato in data 21 agosto 2008, ne discende che il termine complessivo imposto dal legislatore è stato pienamente rispettato.
5. Le spese e gli onorari del presente grado di giudizio possono essere peraltro integralmente compensati tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

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