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venerdì 13 settembre 2013

N. 178 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 febbraio 2013 Ordinanza del 21 febbraio 2013 emessa dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio sul ricorso proposto da (Lpd) (Lpd) contro il Ministero della giustizia. Impiego pubblico - Sanzioni disciplinari nei confronti del personale del Corpo di polizia penitenziaria - Procedimento disciplinare per destituzione a seguito di processo penale - Previsione, in caso di proscioglimento dell'imputato per prescrizione, della decorrenza del termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento disciplinare, in assenza di notifica, dalla data di pubblicazione della sentenza, anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne ha avuto notizia - Violazione del principio di uguaglianza per l'identico trattamento, ai fini del computo del termine per l'avvio o la ripresa del procedimento disciplinare, di fattispecie diverse - Incidenza sui principi di imparzialita' e buon andamento della pubblica amministrazione. - Decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449, art. 7, comma 6. - Costituzione, artt. 3 e 97. (GU n.35 del 28-8-2013 )




N. 178 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 febbraio 2013

Ordinanza del 21 febbraio 2013 emessa dal Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio sul ricorso proposto da (Lpd) (Lpd) contro
il Ministero della giustizia.

Impiego pubblico - Sanzioni disciplinari nei confronti del personale
del Corpo di polizia penitenziaria - Procedimento disciplinare per
destituzione a seguito di processo penale - Previsione, in caso di
proscioglimento dell'imputato per prescrizione, della decorrenza
del termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento
disciplinare, in assenza di notifica, dalla data di pubblicazione
della sentenza, anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne ha
avuto notizia - Violazione del principio di uguaglianza per
l'identico trattamento, ai fini del computo del termine per l'avvio
o la ripresa del procedimento disciplinare, di fattispecie diverse
- Incidenza sui principi di imparzialita' e buon andamento della
pubblica amministrazione.
- Decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449, art. 7, comma 6.
- Costituzione, artt. 3 e 97.
(GU n.35 del 28-8-2013 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di
registro generale 3797 del 2008, proposto da: (Lpd) (Lpd),
rappresentato e difeso dall'avv. Davide Capitani, con domicilio
eletto presso Danilo Siliquini in Roma, via Nicola Ricciotti, 9;
Contro Ministero della Giustizia, rappresentato e difeso per
legge dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei
Portoghesi, 12; Ministero Giustizia -Dipartimento Amm.ne
Penitenziaria;
Per l'annullamento del decreto dap n. 0203748 del 2007, con cui
e' stata inflitta al ricorrente la sanzione disciplinare della
destituzione.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della
Giustizia;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 gennaio 2013 il
dott. Marco Bignami e uditi per le parti i difensori come specificato
nel verbale;
1. Con ricorso notificato il 25 marzo 2008 e depositato il
successivo 23 aprile il ricorrente ha impugnato il provvedimento,
notificatogli il 23 gennaio 2008, con cui gli e' stata inflitta la
sanzione disciplinare della destituzione dal corpo di polizia
penitenziaria, cui apparteneva. Tale atto e' stato adottato a seguito
dell'instaurazione di procedimento penale a carico del ricorrente,
per avere egli truffato l'amministrazione, falsificando due
certificati medici al fine di porsi indebitamente in malattia ed
assentarsi dal servizio.
In primo grado, il Tribunale di Roma ha pronunciato condanna,
previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti
all'aggravante, alla pena di sei mesi e quindici giorni di reclusione
e 250,00 euro di multa, per il delitto di cui all'art. 640, comma 2,
n. 1) cod. pen.
Successivamente, il ricorrente e' stato prosciolto con sentenza
della Corte di appello di Roma n. 8588 del 2005, che ha stabilito di
non doversi procedere a causa di estinzione del reato per intervenuta
prescrizione.
Quest'ultima sentenza e' stata deposita in cancelleria il 13
dicembre 2005 ed e' divenuta irrevocabile il 28 gennaio 2006.
L'amministrazione penitenziaria ne e' stata portata a conoscenza
dall'ufficio giudiziario solo il 14 luglio 2006, ed ha avviato di
conseguenza il procedimento disciplinare il successivo 28 luglio. Con
un preliminare ed assorbente motivo di ricorso, l'atto impugnato
viene denunciato per violazione del termine indicato dall'art. 7,
comma 6, del d.lgs. 30 ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle
sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia
penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a
norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395),
secondo il quale «quando da un procedimento penale comunque definito
emergono fatti e circostanze che rendano l'appartenente al Corpo di
polizia penitenziaria passibile di sanzioni disciplinari, questi deve
essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120
giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40
giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa
all'Amministrazione».
E' pacifico che si tratti della disposizione normativa
applicabile in causa, in quanto diretta, con carattere di
specialita', a definire il rapporto tra sentenza penale di
proscioglimento e giudizio disciplinare, nei confronti degli
appartenenti al corpo di polizia penitenziaria (privo di rilievo in
causa, e ai fini della questione che viene proposta con la presente
ordinanza, e' invece se tale norma si applichi anche alle sentenze di
condanna per cause diverse da quelle indicate dall'art. 6, comma 3,
del d.lgs. n. 449 del 1992, ovvero se, esclusivamente per tali
ipotesi, trovi invece spazio la disciplina generale recata dalla
legge 27 marzo 2001, n. 97: per l'analogo caso concernente la polizia
di Stato, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. , n. 10 del 2006; Cons. Stato,
sez. VI, n. 2112 del 2009).
Ove il termine per avviare l'azione disciplinare decorresse dal
13 dicembre 2005, data di deposito della sentenza di proscioglimento
(ma la medesima conclusione, aggiunge il ricorrente, andrebbe tratta
facendo riferimento alla data di passaggio in giudicato),
l'amministrazione sarebbe incorsa in violazione di legge, giacche',
come viene enunciato nello stesso atto impugnato, il procedimento
disciplinare ha avuto inizio oltre il termine perentorio di 120
giorni da tale data, ovvero, come si e' visto, solo a partire dal 28
luglio 2006 (non risulta che la sentenza sia stata notificata
antecedentemente all'amministrazione, sicche' non ha rilievo in causa
il termine breve di 40 giorni previsto in tal caso dalla legge).
In fase cautelare, questo Tribunale ha sospeso l'atto impugnato
per tale vizio, con ordinanza, tuttavia, riformata in sede di appello
dal Consiglio di Stato.
La causa e' stata trattenuta in decisione all'esito dell'udienza
pubblica del 24 gennaio 2013.
2. Il Tribunale, ritenuta la propria giurisdizione e competenza
(ex art. 133, comma 1, lett. i, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104,
atteso che gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria,
equiparati alle forze di polizia di Stato, costituiscono personale in
regime di diritto pubblico, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165), stima, anzitutto, infondata l'eccezione di
irricevibilita' della domanda per tardivita', avanzata
dall'Avvocatura dello Stato: il sessantesimo giorno utile per
proporre ricorso cadeva domenica 23 marzo 2008, giorno di Pasqua,
sicche', essendo festivo anche il seguente 24 marzo, la notifica e'
tempestivamente stata eseguita martedi' 25 marzo, primo giorno non
festivo.
In secondo luogo, appaiono prive di fondamento giuridico le
censure svolte in ricorso, per profili diversi dalla violazione del
termine concesso per iniziare il procedimento disciplinare.
Dirimente ai fini della decisione e' percio' la doglianza, sopra
esposta, relativa alla violazione dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. n.
449 del 1992. Con riferimento a quest'ultima disposizione normativa,
il Tribunale dubita della legittimita' costituzionale della norma,
nella parte in cui essa, limitatamente al caso in cui l'imputato sia
stato prosciolto a seguito di estinzione del reato per prescrizione,
fa decorrere il termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento
disciplinare dalla data di pubblicazione della sentenza penale,
anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne abbia avuto notizia.
La questione e' rilevante: ove essa fosse accolta, il
procedimento disciplinare avrebbe avuto inizio nel rispetto del
termine stabilito, poiche', come si e' anticipato, e' pacifico in
causa che l'amministrazione abbia avuto conoscenza della sentenza
della Corte di appello di Roma il 14 luglio 2006, e si sia attivata
il successivo 28 luglio. Ne segue che il ricorso di cui al processo
principale dovrebbe essere rigettato.
Viceversa, esso andrebbe accolto, qualora la Corte ritenesse non
fondata la questione di legittimita' costituzionale.
Sotto tale profilo, infatti, il Tribunale esclude di poter
addivenire ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della
norma oggetto. Diversamente che nell'ipotesi di sentenza penale
irrevocabile di condanna per taluni reati, regolata dall'art. 6 del
d.lgs. n. 449 del 1992, il dies a quo del termine di 120 giorni per
avviare il procedimento disciplinare, ove quello penale sia stato
definito altrimenti (e, quindi, anche per il caso di estinzione del
reato), viene fatto espressamente decorrere dall'art. 7; comma 6,
impugnato non dalla data in cui l'amministrazione abbia avuto
conoscenza della pronuncia penale, ma dalla data di pubblicazione di
essa.
Il Tribunale da' atto che parte della giurisprudenza del
Consiglio di Stato (sez. VI, n. 6521 del 2008; id n. 4495 del 2006),
formatasi sulla norma, del tutto analoga, espressa per le forze di
polizia dall'art. 9, comma 6, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 ha
concluso nel senso che il termine per iniziare l'azione disciplinare
decorre, anche al di fuori dei casi di sentenza di condanna, dalla
conoscenza che l'amministrazione abbia avuto della pronuncia penale.
Tuttavia, ai fini della motivazione sulla rilevanza della
presente questione di legittimita' costituzionale, e' sufficiente
osservare, anzitutto, che un simile orientamento non costituisce
diritto vivente (in senso contrario, ad esempio, Cons. Stato, sez.
VI, n. 1894 del 2011; id. n. 3426 del 2006).
In secondo luogo, che esso appare sbarrato dal chiaro ed univoco
senso letterale della disposizione impugnata, a fronte del quale cede
il potere del giudice comune di adeguare il tessuto normativo
primario alla Costituzione, e vi subentra l'esercizio della
giurisdizione costituzionale (Corte cost., sentenza n. 219 del 2008;
id. n. 1 del 2013, punto 8.1 del Considerato in diritto).
Del resto, che l'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992 non
possa che venire interpretato nel senso qui denunciato viene
confermato dal fatto che esso si inserisce in una tendenza normativa
piu' ampia. Ed essa, in particolare, e' intesa a distinguere il dies
a quo per la decorrenza del termine utile ai fini dell'esercizio
dell'azione disciplinare, a seguito di pronuncia del giudice penale,
a seconda che quest'ultima sia di condanna, ovvero di
proscioglimento.
Con riguardo alla sentenza di condanna, infatti, l'art. 9, comma
2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 ebbe cura di precisare che
detta decorrenza coincide con la data in cui l'amministrazione ha
avuto notizia della pronuncia, per i casi in cui in sede disciplinare
si infligga la destituzione.
In seguito, l'art. 5, comma 4, della legge 27 marzo 2001, n. 97
formulo' analoga previsione, con riferimento alla data di
comunicazione della sentenza di condanna all'amministrazione.
Diversamente, l'art. 97, comma 3, del d.P.R. n. 3 del 1957 ha
enunciato la regola opposta, e ribadita dalla norma impugnata, in
presenza di una sentenza definitiva di proscioglimento.
Decisivo, in tale prospettiva, e' infine che simile regola non
solo non sia stata adeguata in via interpretativa dalla Corte
costituzionale, ma che essa sia stata invece giudicata conforme agli
artt. 3 e 97 Cost. con la sentenza n. 264 del 1990, ove si e'
ritenuto non irragionevole che il legislatore, per le ipotesi di
proscioglimento penale del pubblico dipendente, subordinasse la
correlata azione disciplinare ad un termine dalla decorrenza certa,
costituito dalla data di irrevocabilita' della sentenza penale, e non
dalla data di conoscenza di essa da parte dell'amministrazione.
La opposta conclusione cui la Corte costituzionale e' giunta con
la sentenza n. 184 del 2004 (di cui meglio si dira' in seguito) non
si estende direttamente, ed in assenza di un nuovo intervento della
Corte, al caso di specie, poiche' concerne l'ipotesi, disciplinata
per una fase transitoria dall'art. 10, comma 3, della legge n. 97 del
2001, in cui il pubblico dipendente sia stato condannato in sede
penale: essa, semmai, vale a ribadire che il legislatore continua a
distinguere, per il profilo che qui rileva, pronunce penali di
condanna da un lato, e di proscioglimento dall'altro.
3. La questione e' non manifestamente infondata, in riferimento
agli articoli 3 e 97 della Costituzione.
Come e' appena emerso, il giudice delle leggi e' gia' intervenuto
su previsione normativa analoga alla norma impugnata, affermando che,
in caso di pronuncia di proscioglimento e nel bilanciamento tra
l'interesse dell'amministrazione ad esercitare l'azione disciplinare
e quello del pubblico dipendente a «vedere definita la sua posizione,
non puo' ritenersi irragionevole che il legislatore abbia
privilegiato il secondo» (sentenza n. 264 del 1990).
Tale decisione si inserisce in una linea propria della
giurisprudenza costituzionale, volta a valorizzare, anche a garanzia
del principio di buon andamento della pubblica amministrazione,
l'interesse del pubblico dipendente a non essere sottoposto senza
certi.e definiti limiti temporali all'azione disciplinare (sentenza
n. 1128 del 1988), fino a postulare un corrispondente «diritto alla
decisione» (sentenza n. 104 del 1991; in seguito, sentenza n. 375 del
2000).
Il Tribunale non ritiene di proporre argomenti in senso
contrario, ma si limita a rilevare che, fino ad oggi, la Corte non ha
avuto modo di pronunciarsi sull'esito del bilanciamento operato dal
legislatore nel peculiare caso di specie, indotto da una sentenza
penale che accerta l'estinzione del reato, a causa della
prescrizione.
In altri termini: la sentenza n. 264 del 1990, che e' l'obbligato
punto di riferimento per apprezzare la non manifesta infondatezza
dell'odierna questione, non pote' che valutare la legittimita'
costituzionale dell'art. 97, comma 3, del D.P.R. n. 3 del 1957 con
riguardo all'ampio genus delle sentenze di proscioglimento, poiche'
in tali termini la questione era stata proposta dal giudice
rimettente (benche' anche in quel caso il dubbio fosse stato
originato da una pronuncia di non doversi procedere per estinzione
del reato dovuta a prescrizione, la norma venne infatti impugnata
nella sua interezza). La risposta della Corte, dunque,
inevitabilmente fu calibrata in accordo con la generale questione
proposta, senza che si potesse introdurre alcun distinguo, a seconda
della natura particolare che il proscioglimento puo' assumere nel
nostro ordinamento.
Come e' noto, infatti, nell'ambito di tale categoria coesistono
(artt. 529; 530; 531 cod. proc. pen. ) pronunce di natura assai
diversa, tra le quali una posizione del tutto peculiare rivestono
quelle conseguenti a prescrizione.
I profili su cui il Tribunale ritiene di doversi soffermare, a
tale proposito, sono due.
Anzitutto, e' ben possibile che l'estinzione del reato sia
dichiarata a seguito della concessione all'imputato di un attenuante,
per effetto della quale il termine prescrizionale viene a ridursi.
Con riguardo a tale evenienza, la giurisprudenza di legittimita' ha
affermato che «nell'ipotesi (...) che alla declaratoria di estinzione
del reato per prescrizione si giunga attraverso la concessione di
circostanze attenuanti (e il relativo giudizio di prevalenza sulle
eventuali circostanze aggravanti), la sentenza di proscioglimento
dovra' contenere, in motivazione, l'accertamento incidentale della
responsabilita' penale, quale passaggio logico pregiudiziale al
riconoscimento delle attenuanti medesime» (Cass. pen. , sez. VI, n.
12048 del 5 ottobre 2000).
Vi e', percio', un'ipotesi in cui al formale proscioglimento e'
sotteso un pieno accertamento della penale responsabilita', con
riguardo a fatti che sono poi suscettibili di assumere rilievo
nell'ambito del procedimento disciplinare.
In secondo luogo, e' altresi' possibile che l'azione civile di
danno sia stata esperita nel giudizio penale, e che, dopo la condanna
di primo grado, sopraggiunga la prescrizione: anche in tale caso,
l'art. 578 cod. proc. pen. esige che il giudice penale, nel
dichiarare la prescrizione, ugualmente decida sul capo civile della
sentenza di primo grado. Anche per tale ipotesi, la pronuncia del
giudice penale richiede un accertamento sulla responsabilita', che
non puo' prescindere perlomeno dalla sussistenza del fatto e dalla
attribuzione di esso all'imputato, sia pure secondo criteri di natura
civilistica (Cass. pen. , sez. V, n. 42135 del 2011).
Si aggiunga che tutte le sentenze penali che rilevano la
prescrizione hanno dovuto escludere l'evidenza di una causa di
assoluzione dell'imputato (art. 129, comma 2, cod. proc. pen. ), e
che esse, come nel caso di specie, ben possono sopraggiungere
all'esito di una pronuncia di condanna di primo grado, recante un
compiuto accertamento della penale responsabilita' del pubblico
dipendente.
Anche senza arrivare a quanto affermato dall'Ad. Plen. Cons.
Stato, n. 10 del 2006, in ordine alla «agevole assimilazione» tra
sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato dovuta a
prescrizione e sentenza cd. di patteggiamento (in termini, punto 2
del diritto analogamente, Cons. Stato, sez. IV, a 5672 del 2012),
ugualmente ve ne e' per dubitare che il legislatore, ai fini
dell'avvio del procedimento disciplinare sui medesimi fatti, possa
accomunare sotto la stessa regola la pronuncia conseguente a
prescrizione con la pronuncia di assoluzione, essendo invece la legge
tenuta ad assimilare cio' che e' uguale e a separare cio' che e'
diseguale.
Non si discute che entrambe tali pronunce appartengano,
nell'ambito dell'ordinamento penale, al genus delle sentenze di
proscioglimento; ma, ai fini della risoluzione dell'attuale dubbio di
legittimita' costituzionale, cio' che assume rilievo prioritario non
e' quest'ultimo punto di vista, ma, piuttosto, il rapporto che puo'
legare il contenuto di accertamento della sentenza penale al
conseguente procedimento disciplinare.
Benche', ai sensi dell'art. 653 cod. proc. pen. , l'efficacia di
giudicato nel giudizio disciplinare competa alle sole sentenze
irrevocabili di assoluzione e di condanna, ugualmente non e'
dubitabile che i fatti comunque accertati dal giudice penale con una
sentenza di proscioglimento possano e debbano venire rivalutati
dall'amministrazione anche tenendo conto dell'esito di detto
accertamento, nell'ambito del procedimento disciplinare.
Del resto, in contrasto con una linea di tendenza altrove
manifestatasi (art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001; art. 7, comma
2, lett. b della legge delega 4 marzo 2009, n. 15), il legislatore,
«con riguardo al pubblico dipendente in regime di diritto pubblico in
linea generale (art. 117 del d.P.R. n. 3 del 1957), e nello specifico
con riferimento agli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria
(art. 9 del d.lgs. n. 449 del 1992), continua a subordinare l'avvio
dell'azione disciplinare alla definizione del procedimento penale
iniziatosi sui medesimi fatti. In tal modo, in altri termini, viene
esplicitato il nesso che avviluppa, anche per l'ipotesi di sentenza
penale di proscioglimento per prescrizione, l'accertamento compiuto
dal giudice penale con la valutazione demandata all'autorita'
amministrativa.
Ne segue che, sul piano costituzionale, entra in fibrillazione
con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di ragionevolezza
(art. 3 Cost.) e con il principio di buon andamento della pubblica
amministrazione (art. 97 Cost.) il punto di bilanciamento raggiunto
dal legislatore con l'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992,
nei soli casi in cui, per effetto di esso, l'interesse pubblico a
sanzionare il dipendente in via disciplinare venga sacrificato,
nonostante la pronuncia penale possa recare in se' un accertamento,
implicante responsabilita', in ordine al fatto.
Pare da ritenere, infatti, che, in questa peculiare ipotesi, si
rafforzi l'interesse della amministrazione a tener fermi gli esiti
dell'accertamento, ed a valutare se da essi possa scaturire la
responsabilita' disciplinare del dipendente, anzitutto rispetto ai
casi in cui l'assoluzione, accertando che il fatto non sussiste o che
il dipendente non lo ha commesso, di per se' segna l'esito
dell'eventuale procedimento disciplinare avente ad oggetto il
medesimo episodio della vita.
La disposizione impugnata, viceversa, somministra una identica
regola, quanto al termine di avvio o di ripresa dell'azione
disciplinare nel frattempo sospesa, per fattispecie che si
differenziano obiettivamente sotto un profilo determinante ai fini
del bilanciamento degli interessi contrapposti: per tale via si
alimenta anzitutto il dubbio di violazione degli artt. 3 e 97 Cost.
Inoltre, il Tribunale dubita della legittimita' costituzionale
della scelta legislativa di equiparare, ai fini dell'avvio
dell'azione disciplinare, la sentenza penale di non doversi procedere
per estinzione del reato dovuta a prescrizione alla sentenza penale
di assoluzione di cui all'art. 530 cod. proc. pen. , anche quando con
quest'ultima si accerta che il fatto non costituisce reato, o non e'
previsto dalla legge come reato, o e' stato commesso da persona non
imputabile o non punibile.
In queste ultime ipotesi, infatti, l'estraneita' del fatto
rispetto all'area della rilevanza penale attenua di regola l'esigenza
di assumerlo in considerazione a fini disciplinari, atteso il
carattere di particolare gravita' che l'illecito penale riveste
nell'ordinamento.
E' vero che, in concreto, puo' darsi l'ipotesi in cui un fatto
penalmente rilevante appaia a fini disciplinari meno grave di un
fatto privo di tale requisito.
Tuttavia, la disposizione impugnata finisce per assumere a
proprio fondamento tale conclusione in termini generali ed astratti,
poiche' si giustifica solo se si prende per buona in siffatta misura
l'idea che l'interesse dell'amministrazione ad attivarsi in sede
disciplinare sia del tutto indifferente alla natura penale della
condotta.
Ma, in via di principio, la gravita' usualmente connessa a fatti
attratti nell'orbita del diritto penale inficia la natura
incondizionata di un assunto di tal genere, irragionevolmente posto a
base della opzione legislativa gravata dal dubbio di
costituzionalita'.
Quest'ultimo profilo acquisisce ulteriore forza, nel raffronto
con lo sviluppo impresso dal legislatore alla normativa che lega
azione penale e azione disciplinare, come interpretata dalla Corte
costituzionale.
Il caso della pronuncia legata a prescrizione, infatti, nulla
dicendo sul carattere penale del fatto nella minore delle ipotesi, ed
anzi potendo affermare la responsabilita' penale in via incidentale
nella maggiore, sotto tale angolo prospettico pare valutabile alla
luce del principio enunciato dalla sentenza n. 186 del 2004 della
Corte costituzionale. Quest'ultima, come si e' anticipato, ha
ritenuto lesiva degli articoli 3 e 97 Cost. l'opzione legislativa
che, con riguardo a pronunce di condanna, faceva decorrere il termine
per iniziare il giudizio disciplinare dalla conclusione del
procedimento penale, anziche' dalla comunicazione della sentenza.
La Corte ha, in tale occasione, fatto valere l'esigenza di
assicurare «non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed
esito del procedimento amministrativo, ma soprattutto una linea di
maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell'azione
amministrativa».
Diversamente che nell'ipotesi di sentenza di assoluzione,
quest'ultima necessita' costituzionale puo' essere sottesa alla
pronuncia penale conseguente a prescrizione, per le ragioni sopra
esposte. In questa evenienza, in particolare, si profila anche, ove
l'esercizio dell'azione disciplinare sia gravato da insuperabile
ostacolo, quel pregiudizio connesso «alla perdita di acquisizioni
processuali», che il legislatore ha inteso in linea di principio
fugare «sul versante dei rapporti tra giurisdizioni», secondo quanto
posto in rilievo dalla stessa Corte costituzionale con riferimento al
rapporto tra azione penale ed azione disciplinare (sentenza n. 336
del 2009). Pertanto, anche per il caso di prescrizione in sede
penale, rilevante nel giudizio principale, e' prospettabile che il
legislatore abbia «adottato una soluzione sbilanciata a vantaggio del
dipendente pubblico, nel senso che gioca a favore di quest'ultimo lo
scorrere del tempo necessario per venire in possesso di una notizia
(...) che invece dovrebbe - venire comunicata ab initio
all'amministrazione» (sentenza n. 186 del 2004), in violazione degli
artt. 3 e 97 Cost.
Del resto, gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale
successiva alla sentenza n. 264 del 1990, pur collocandosi in modo
armonico rispetto a tale pronuncia, hanno ugualmente posto in rilievo
che non sempre l'interesse del pubblico dipendente alla piu'
sollecita definizione del giudizio disciplinare puo' prevalere su
quelli intestati all'amministrazione, nei casi in cui le
«difficolta'» ad essa frapposte si rivelino, in concreto,
manifestamente irragionevoli (sentenza n. 374 del 1995).
Un nuovo giudizio sul bilanciamento raggiunto dal legislatore con
l'art. 97, comma 3, del D.P.R. n. 3 del 1957 e con l'analoga
disposizione impugnata e' dunque sempre possibile, ove si pongano in
luce i tratti che connotano la fattispecie particolare rispetto alla
regola generale.
Peraltro, una volta inficiata l'equipollenza, per quanto qui
interessa, tra sentenza penale di assoluzione e sentenza penale di
proscioglimento conseguente a prescrizione (e dunque attenuatesi le
ragioni proprie della regola - di favore approntata dal legislatore a
vantaggio del pubblico dipendente assolto) viene corroborato invece
l'argomento per cui, in linea di principio, un termine di decadenza
non puo' operare, fino a quando chi vi abbia interesse non sia stato
posto nelle condizioni di esercitare la relativa potesta'.
Nel caso di specie, e' in atti la prova che l'amministrazione
penitenziaria ha reiteratamente sollecitato i competenti uffici
giudiziari a comunicarle in modo tempestivo l'esito del processo
penale, e che cio' non e' accaduto se non con un ritardo
determinante: si profila dunque manifestamente irragionevole la
scelta del legislatore, per il caso di sentenza penale conseguente a
prescrizione, di configurare una potesta' amministrativa disciplinare
(sospendendone l'esercizio a seguito dell'azione penale), di
assegnarla all'amministrazione cui appartiene l'imputato, e nel
contempo di assoggettarla ad un termine perentorio di decadenza, che
inizia a decorrere nonostante tale amministrazione nulla sappia,
incolpevolmente, dell'esito del giudizio penale, recante accertamenti
potenzialmente utili nell'ambito disciplinare.
Un piu' equilibrato bilanciamento degli interessi contrapposti
dovrebbe, invece, considerare che il pubblico dipendente ben puo'
sottrarsi all'incertezza, provvedendo a notificare
all'amministrazione la sentenza di proscioglimento, affinche' con
cio' decorra il termine breve di 40 giorni per avviare il
procedimento disciplinare. E' vero che analogo argomento e' stato
svalutato dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 264
del 1990. Ma, anche in tal caso, pare al Tribunale differente la
posizione di chi, assolto, ben puo' fidare su un giudizio che abbia
gia' escluso il rilievo penale del fatto da quella di chi, prosciolto
per prescrizione, non sia forte di una simile pronuncia e non possa
dunque aver maturato alcun affidamento derivante dalla pronuncia del
giudice penale.
4. Per tali ragioni, il Tribunale dichiara rilevante e non
manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della
Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art.
7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992, nella parte in cui tale
disposizione, limitatamente al caso in cui l'imputato sia stato
prosciolto a seguito di estinzione del reato per prescrizione, fa
decorrere, in assenza di notifica della pronuncia del giudice penale,
il termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento disciplinare
dalla data di pubblicazione della sentenza, anziche' dalla data in
cui l'amministrazione ne abbia avuto notizia.

P. Q. M.

Non definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in
epigrafe,
Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 dichiara
rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli
articoli 3 e 97 della Costituzione, la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. 30 ottobre 1992, n.
449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del
Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi
procedimenti, a norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre
1990, n. 395), nella parte in cui tale disposizione, limitatamente al
caso in cui l'imputato sia stato prosciolto a seguito di estinzione
del reato per prescrizione, fa decorrere, in assenza di notifica, il
termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento disciplinare dalla
data di pubblicazione della sentenza, anziche' dalla data in cui
l'amministrazione ne abbia avuto notizia;
dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Cotte
costituzionale;
ordina alla segreteria di notificare la presente ordinanza alle
parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri;
ordina alla segreteria di comunicare la presente ordinanza al
Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera
dei deputati;
sospende il giudizio.
Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24
gennaio 2013.

Il presidente: Orciuolo


L'Estensore: Bignami

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