N. 32 SENTENZA 12 - 26 febbraio 2020
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della
legge n. 354 del 1975 introdotte dalla legge c.d. "spazzacorrotti"
- Inserimento di determinati reati contro la pubblica
amministrazione nell'elenco dei reati ostativi alla concessione
delle misure alternative alla detenzione previste dalla legge n.
354 del 1975, della liberazione condizionale e della sospensione
dell'ordine di esecuzione - Applicabilita', secondo il diritto
vivente, anche ai condannati che abbiano commesso il fatto
anteriormente all'entrata in vigore della novella - Violazione del
divieto di retroattivita' della legge penale sfavorevole -
Illegittimita' costituzionale della norma censurata, come
interpretata dal diritto vivente.
Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della
legge n. 354 del 1975 introdotte dalla legge c.d. "spazzacorrotti"
- Inserimento di determinati reati contro la pubblica
amministrazione nell'elenco dei reati ostativi alla concessione del
beneficio del permesso premio - Inapplicabilita' ai condannati che,
prima dell'entrata in vigore della novella, abbiano gia' raggiunto,
in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del
beneficio stesso - Omessa previsione - Irragionevole disparita' di
trattamento e violazione della finalita' rieducativa della pena -
Illegittimita' costituzionale in parte qua.
- Legge 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 6, lettera b),
modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975,
n. 354.
- Costituzione, artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27,
terzo comma, (111) e 117, primo comma; Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,
art. 7.
(GU n.10 del 4-3-2020 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Marta CARTABIA;
Giudici :Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano
PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di
prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e
movimenti politici), modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
promossi dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con ordinanza
dell'8 aprile 2019, dalla Corte d'appello di Lecce con ordinanza del
4 aprile 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
ordinario di Cagliari con ordinanza del 10 giugno 2019, dal Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli con
ordinanza del 2 aprile 2019, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto
con ordinanza del 7 giugno 2019, dal Tribunale ordinario di Brindisi
con due ordinanze del 30 aprile 2019, dal Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale ordinario di Caltanissetta con due
ordinanze del 16 luglio 2019, dal Tribunale di sorveglianza di
Potenza con ordinanza del 31 luglio 2019 e dal Tribunale di
sorveglianza di Salerno con ordinanza del 12 giugno 2019,
rispettivamente iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 157, 160, 161,
193, 194, 210 e 220 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 34, 35, 36, 41, 42, 46, 48
e 50, prima serie speciale, dell'anno 2019.
Visti gli atti di costituzione di A. B., R.B. L. e A. B., nonche'
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'11 febbraio 2020 e nella camera
di consiglio del 12 febbraio 2020 il Giudice relatore Francesco
Vigano';
uditi gli avvocati Tommaso Bortoluzzi e Vittorio Manes per A. B.,
Amilcare Tana e Gian Domenico Caiazza per R.B. L., Ladislao Massari
per A. B. e l'avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il
Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza dell'8 aprile 2019 (r.o. n. 114 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato - in riferimento
agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU) - questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9
gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la
pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del
reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici),
«nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis, comma 1, della legge
26 luglio 1975, n. 354, si applica anche in relazione ai delitti di
cui agli artt. 318, 319, 319-quater e 321 c.p., commessi
anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge».
Il rimettente e' investito di un'istanza di affidamento in prova
al servizio sociale presentata da A. B. - allo stato, libero per
sospensione dell'ordine di esecuzione della pena, avvenuta ai sensi
dell'art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, prima
dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 - condannato dalla
Corte d'appello di Venezia, con sentenza del 12 novembre 2015
(irrevocabile il 12 ottobre 2017), alla pena di tre anni di
reclusione per i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 318, 319,
319-quater e 321 del codice penale, commessi dal 2002 al 2011 (pena
residua da espiare pari a due anni, tre mesi e dodici giorni di
reclusione).
1.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo osserva che, per effetto dell'entrata in vigore della norma
censurata, i reati ascritti ad A. B. sono stati inclusi nel catalogo
di cui all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta'), con la conseguenza che, in
relazione agli stessi, la concessione dei benefici penitenziari e
delle misure alternative alla detenzione e' ora subordinata alla
collaborazione del condannato con la giustizia, ai sensi dell'art.
58-ter ordin. penit. e dell'art. 323-bis cod. pen., oppure alla
impossibilita' o irrilevanza della collaborazione medesima (art.
4-bis, comma 1-bis, ordin. penit.). Requisiti, questi ultimi, che non
possono dirsi realizzati da A. B.
La gia' intervenuta sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena, ai sensi dell'art. 656, comma 5, cod. proc. pen., non varrebbe
a sottrarre la fattispecie all'ambito applicativo di azione della
novella recata dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, atteso che l'istanza di concessione delle misure alternative
alla detenzione avrebbe introdotto una distinta fase del procedimento
esecutivo, in cui il tribunale di sorveglianza sarebbe chiamato ad
applicare anche le modifiche normative sopravvenute rispetto al
momento della sospensione dell'esecuzione (e' citata Corte di
Cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 dicembre 2014, n.
52578).
Non potrebbe evocarsi - al fine di escludere l'applicabilita'
della disciplina introdotta dalla legge n. 3 del 2019 - il principio
di matrice costituzionale che, a fronte di sopravvenute modifiche di
segno restrittivo dei presupposti per la concessione dei benefici
penitenziari, salvaguarda la gia' realizzata progressione
trattamentale del condannato, vietando «l'immotivata regressione»
nella fruizione dei benefici stessi (sono citate le sentenze n. 149
del 2018, n. 257 e n. 255 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del
1995). Nel caso di specie, infatti, A. B. si trova in stato di
liberta' e non sussistono elementi per formulare una positiva
valutazione circa i progressi trattamentali dell'interessato.
In definitiva, la concessione ad A. B. della misura
dell'affidamento in prova al servizio sociale risulterebbe preclusa,
in conseguenza dell'attuale formulazione dell'art. 4-bis, comma 1,
ordin. penit., come modificato dalla legge n. 3 del 2019; e cio'
benche' le risultanze istruttorie offrano elementi che
consentirebbero, nel merito, di addivenire a una pronuncia favorevole
all'interessato, in considerazione della regolare condotta serbata in
regime cautelare, del principio di risarcimento del danno effettuato,
della positiva situazione socio-familiare e lavorativa. Donde, la
rilevanza delle questioni sollevate.
1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
premette che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza
di legittimita', le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene
detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le
modalita' esecutive della stessa, non avrebbero carattere di norme
penali sostanziali e soggiacerebbero pertanto, in assenza di
specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum e
non alle regole dettate dagli artt. 25 Cost. e 2 cod. pen. in tema di
successione di norme penali del tempo, con conseguente immediata
applicabilita' a tutti i rapporti esecutivi non ancora esauriti di
eventuali modifiche normative di segno peggiorativo (sono citate
Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006,
n. 24561; sezione prima penale, sentenza 20 luglio 2006, n. 25113;
sezione prima penale, sentenza 1° settembre 2006, n. 29508; sezione
prima penale, sentenza 4 ottobre 2006, n. 33062; sezione prima
penale, sentenza 3 dicembre 2009, n. 46649; sezione prima penale,
sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima penale, sentenza 18
dicembre 2014, n. 52578; sezione prima penale, sentenza 27 aprile
2018, n. 18496). In ragione di tale consolidata giurisprudenza, non
sarebbe praticabile - diversamente da quanto ritenuto da un'ordinanza
dell'8 marzo 2019 del Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale ordinario di Como - un'interpretazione costituzionalmente
orientata del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3
del 2019, volta a escluderne l'applicabilita' ai fatti di reato
commessi prima della sua entrata in vigore.
1.2.1.- Il giudice a quo osserva poi che la Corte di cassazione,
sezione sesta penale, nella sentenza 20 marzo 2019, n. 12541, avrebbe
ritenuto non manifestamente infondato - ancorche', nella specie,
irrilevante - il dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 in riferimento agli
artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU, cosi' come interpretato nella
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 21 ottobre 2013,
Del Rio Prada contro Spagna, sul rilievo che «l'avere il legislatore
cambiato in itinere le "carte in tavola" senza prevedere alcuna norma
transitoria [...] si traduce, [...], nel passaggio - "a sorpresa" e
dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza assaggio
di pena" ad una sanzione con necessaria incarcerazione». In adesione
alle argomentazioni della citata pronuncia, il rimettente prospetta
anzitutto l'illegittimita' costituzionale della disposizione
censurata, per contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117,
primo comma, Cost. (in relazione all'art. 7 CEDU), sotto il profilo
della violazione del divieto di retroattivita' della legge penale
sfavorevole.
Il rimettente ritiene che, al metro della giurisprudenza della
Corte EDU, le misure alternative alla detenzione non possano essere
considerate mere modalita' di esecuzione della pena, incidendo su
quest'ultima in termini di sostanziale modificazione quantitativa
ovvero qualitativa, sicche' eventuali sopravvenienze normative o
giurisprudenziali che operino in senso restrittivo sulla disciplina
dei presupposti e delle condizioni di accesso alle misure stesse
dovrebbero essere assistite dalla garanzia di irretroattivita' di cui
all'art. 7 CEDU.
La stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe riconosciuto che,
a differenza degli altri benefici penitenziari, le misure alternative
alla detenzione, «nell'estinguere lo status di detenuto,
costituiscono altro status diverso e specifico rispetto a quello di
semplice condannato», e che esse «partecipano della natura della
pena, proprio per il loro coefficiente di afflittivita'» (sentenza n.
188 del 1990). Pertanto, «modifiche che comportano una sostanziale
modificazione nel grado di privazione della liberta' personale non
possono considerarsi fenomeno privo di rilievo sotto il profilo
costituzionale», secondo quanto si evincerebbe dalla sentenza n. 306
del 1993.
Confermerebbe la necessita' costituzionale di una disciplina
transitoria, in caso di modifiche in senso restrittivo delle
condizioni di accesso alle misure alternative, la circostanza che
l'art. 4 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti
urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di
trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203,
abbia circoscritto l'applicazione dell'allora introdotto art.
58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975 - norma limitativa
della concessione di benefici penitenziari per i condannati per
taluni gravi delitti - ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore del
decreto-legge stesso.
In occasione di altri interventi normativi, non accompagnati da
una disciplina transitoria, questa Corte avrebbe poi dichiarato
l'illegittimita' di modifiche di segno restrittivo rispetto
all'accesso ai benefici penitenziari, nella misura in cui le stesse
si applicassero anche ai condannati che avevano gia' raggiunto, sulla
base della normativa previgente, un grado di rieducazione adeguato ai
benefici richiesti (sono citate le sentenze n. 79 del 2007, n. 257
del 2006, n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997).
1.2.2.- Il rimettente ritiene che il censurato art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019 si ponga in contrasto con gli
artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione
all'art. 7 CEDU) anche sotto il profilo della violazione del
principio dell'affidamento, che imporrebbe la cristallizzazione del
trattamento sanzionatorio irrogabile all'autore del reato, sotto il
profilo dell'entita' e qualita' della pena, al momento della
commissione del fatto o, quantomeno, del passaggio in giudicato della
sentenza di condanna.
La garanzia di irretroattivita' della legge penale di cui
all'art. 7 CEDU comporterebbe, da un lato, la necessita' che la legge
si concreti in una «regola di giudizio accessibile e prevedibile» per
i consociati; e, dall'altro lato, l'illegittimita' convenzionale
dell'applicazione retroattiva di misure afflittive qualificabili come
pene in senso sostanziale (sono citate le sentenze della Corte EDU 15
dicembre 2009, Gurguchiani contro Spagna; 17 dicembre 2009, M. contro
Germania; 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna). Dalla
pronuncia Del Rio Prada si trarrebbe in particolare che il requisito
di prevedibilita' della legge penale, imposto dall'art. 7 CEDU,
riguarderebbe non soltanto la sanzione, ma anche la sua esecuzione,
senza che assuma rilievo «il settore ordinamentale nazionale sul cui
versante si colloca l'espiazione, [sia] di diritto sostanziale o di
diritto processuale».
Ad avviso del rimettente, la «trasformazione della tipologia di
pena eseguibile (che da meramente limitativa della liberta' diventa
radicalmente privativa della liberta' personale)» si configurerebbe
come «un mutamento imprevedibile e indipendente dalla sfera di
controllo del soggetto, tale da modificare in senso sostanziale il
quadro giuridico-normativo che il soggetto aveva di fronte a se' nel
momento in cui si e' determinato nella sua scelta delinquenziale».
L'esigenza costituzionale di salvaguardare il principio
dell'affidamento troverebbe riscontro nella piu' recente
giurisprudenza di questa Corte, che avrebbe evidenziato
l'estensibilita' del divieto di irretroattivita' della legge
sfavorevole, di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., anche alle
sanzioni amministrative a carattere punitivo (e' citata la sentenza
n. 223 del 2018).
1.2.3. - Il rimettente ritiene infine che il denunciato art. 1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 contrasti con il
principio di ragionevolezza e con la funzione rieducativa della pena,
di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
La norma censurata introdurrebbe un'irragionevole disparita' di
trattamento tra condannati per i medesimi delitti, la cui istanza di
concessione di una misura alternativa alla detenzione sia stata
esaminata - per mera casualita' o per il difforme carico di lavoro
dei tribunali di sorveglianza - anteriormente o successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, «determinando in
modo irrazionale gli esiti processuali indipendentemente dal
coefficiente di meritevolezza dei singoli condannati». Tale risultato
sarebbe altresi' contrario ai principi di proporzionalita' e
individualizzazione della pena (sono citate le sentenze n. 306 del
1993, n. 299 del 1992, n. 203 del 1991 e n. 50 del 1980), corollario
della funzione rieducativa, riconosciuta come autentico «imperativo
costituzionale» dalla sentenza n. 149 del 2018. L'applicazione
immediata delle nuove preclusioni all'accesso alle misure alternative
alla detenzione inciderebbe infatti in modo irragionevole sul
percorso rieducativo, senza consentire al giudice una valutazione
individualizzata dei presupposti per l'applicazione delle misure a
piu' alta valenza risocializzante.
1.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni di legittimita' costituzionale
siano dichiarate inammissibili o infondate.
1.3.1.- L'inammissibilita' risulterebbe anzitutto dal difetto di
rilevanza delle questioni, atteso che un'applicazione rigorosa del
principio tempus regit actum - che governa le modifiche delle norme
penitenziarie, da qualificarsi come norme processuali, anche secondo
la giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 376 del
1997 e n. 306 del 1993) - condurrebbe a escludere il rilievo delle
previsioni della legge n. 3 del 2019 nel procedimento a quo,
incardinatosi, con la sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena, anteriormente all'entrata in vigore della legge stessa. Tale
soluzione, gia' sperimentata dalla giurisprudenza di merito (e'
citata l'ordinanza del 1° marzo 2019 del Tribunale ordinario di
Napoli), sarebbe conforme all'orientamento della giurisprudenza di
legittimita' circa la non revocabilita' della sospensione dell'ordine
di esecuzione, a fronte di modifiche normative che includano il reato
per cui e' stata pronunciata condanna nel catalogo di cui all'art.
4-bis ordin. penit. (e' citata Corte di cassazione, sezione prima
penale, sentenza 1° luglio 2010, n. 24831). Una simile soluzione
troverebbe altresi' avallo nei principi di progressivita'
trattamentale e di divieto di regressione incolpevole del trattamento
enunciati dalla giurisprudenza costituzionale (e' citata la sentenza
n. 149 del 2018).
1.3.2.- Le questioni sollevate sarebbero altresi' inammissibili,
in quanto tendenti a sollecitare un intervento manipolativo della
Corte, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata. La
data di commissione del reato, infatti, rappresenterebbe solo uno dei
possibili criteri temporali cui ancorare l'applicabilita' o meno
della normativa sopravvenuta di cui alla legge n. 3 del 2019, ben
potendo farsi altresi' riferimento alla data del passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, oppure alla data di sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena.
1.3.3.- Quanto al merito delle censure relative alla lesione
degli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,
quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU, le stesse si fonderebbero
su un acritico richiamo del rimettente alla sentenza della Corte EDU
Del Rio Prada, laddove sarebbe, invece, necessario «valutare come ed
in quale misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea
si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano» (sentenza n.
317 del 2009), tenuto conto del margine di apprezzamento di cui gode
questa Corte nel valutare la giurisprudenza europea (e' citata la
sentenza n. 311 del 2009).
La sentenza Del Rio Prada non avrebbe disconosciuto che le norme
penitenziarie e quelle relative all'esecuzione delle pene non
costituiscono norme penali in senso proprio, ma si sarebbe limitata
ad accertare che, nel caso concreto, un mutamento non prevedibile
nell'interpretazione giurisprudenziale aveva prodotto effetti
deteriori sul trattamento penitenziario della ricorrente.
D'altro canto, l'interpretazione dell'art. 25, secondo comma,
Cost. finora offerta da questa Corte escluderebbe decisamente che le
norme di diritto penitenziario possono essere qualificate come
"penali". Questa Corte avrebbe infatti escluso, nella sentenza n. 273
del 2001 e nell'ordinanza n. 280 del 2001, l'incidenza del divieto di
retroattivita' della legge penale sulla normativa penitenziaria, il
che comporterebbe l'inammissibilita' della questione sollevata dal
rimettente in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost.
La stessa giurisprudenza di legittimita' sarebbe poi costante nel
ritenere che le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene
detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le
modalita' esecutive della stessa, sono soggette al principio tempus
regit actum (sono richiamate Corte di cassazione, sezioni unite
penali, sentenza n. 24561 del 2006, nonche' sezione prima penale,
sentenze n. 46649 del 2009 e n. 11580 del 2013, e sezione sesta
penale, sentenza n. 535 [recte: n. 12541] del 2019).
1.3.4.- La Corte costituzionale avrebbe inoltre gia' escluso, con
l'ordinanza n. 108 del 2004, la lesione dell'art. 3 Cost., in
relazione ad altra modifica normativa dell'art. 4-bis della legge n.
354 del 1975 (intervenuta ad opera dell'art. 4, comma 1, della legge
23 dicembre 2002, n. 279, recante «Modifica degli articoli 4-bis e
41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento
penitenziario»). Assumerebbe infine rilievo, nel caso di specie, la
sentenza n. 188 del 2019 di questa Corte.
1.4.- Si e' costituito in giudizio A. B., insistendo per
l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale
sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, in base alle
stesse argomentazioni offerte dall'ordinanza di rimessione.
1.5.- In prossimita' dell'udienza pubblica, A. B. ha depositato
memoria illustrativa, insistendo sulla necessita' di includere nella
nozione di «materia penale», soggetta al divieto di retroattivita' di
modifiche normative sfavorevoli, le «disposizioni processuali o
esecutive che abbiano una incidenza afflittiva sul trattamento
giuridico-penale del singolo» determinando un «mutamento qualitativo
della sanzione concretamente inflitta, da "alternativa" a
"detentiva"».
La parte privata denuncia poi come la disciplina censurata
determini una lesione dell'affidamento del reo, suscettibile di
trasmodare in un vulnus al diritto di difesa - «declinato nel diritto
di stabilire le scelte difensive secondo i punti di riferimento che
l'ordinamento garantisce senza che il legislatore modifichi, "a
sorpresa", le "carte in tavola"» - all'equita' del processo, di cui
agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU (disposizione, quest'ultima, gia'
ritenuta applicabile all'esecuzione della pena nella sentenza n. 97
del 2015 di questa Corte), e alla stessa certezza del diritto.
La parte privata sollecita infine, in alternativa
all'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale,
l'adozione di una pronuncia interpretativa di rigetto, che indirizzi
il diritto vivente nel senso della inapplicabilita', in specie, del
principio tempus regit actum.
2.- Con ordinanza del 4 aprile 2019 (r.o. n. 115 del 2019), la
Corte di appello di Lecce ha sollevato questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, «nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica
amministrazione, ed in particolare il reato di cui all'art. 314,
comma 1, c.p., tra quelli ostativi alla concessione di alcuni
benefici penitenziari ai sensi dell'art. 4-bis legge 26/7/1975 n. 354
[...] senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile
la norma ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in
vigore», per asserito contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e
117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.
Il rimettente e' investito dell'istanza di R.B. L. di
declaratoria di illegittimita' dell'ordine di esecuzione emesso il 27
febbraio 2019 dalla Procura generale di Lecce, in relazione alla pena
detentiva residua di tre anni, dieci mesi e due giorni di reclusione,
da espiare in conseguenza della condanna (a sette anni e venticinque
giorni di reclusione) per i reati di cui agli artt. 81, 110 e 314
cod. pen., commessi tra il 19 maggio 2000 e il 21 marzo 2002,
pronunciata con sentenza della Corte di appello di Lecce del 28
ottobre 2016, divenuta irrevocabile il 1° febbraio 2019.
2.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo evidenzia come l'ordine di esecuzione della pena sia stato
emesso - pur a fronte di una condanna per fatti di reato commessi
prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 - in
applicazione della norma censurata, che ha modificato, con
operativita' immediata, l'art. 4-bis ordin. penit., includendo il
delitto di peculato nel novero di quelli ostativi alla sospensione
dell'ordine stesso, ai sensi dell'art. 656 cod. proc. pen.
Dall'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale
prospettate deriverebbe la possibilita' per R.B. L. di ottenere
l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione e di presentare da
libero l'istanza di concessione di misure alternative alla
detenzione.
2.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
rammenta che dubbi di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma
6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 sono gia' stati adombrati
dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 535 [recte: n. 12541]
del 2019, ed evidenzia come la norma censurata sia anzitutto foriera
di una ingiustificata disparita' di trattamento, lesiva dell'art. 3
Cost., tra coloro che hanno posto in essere delle condotte delittuose
anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019,
facendo affidamento sulla possibilita' di non scontare in carcere una
pena (anche residua) inferiore ai quattro anni, e coloro che, invece,
hanno commesso i medesimi reati nella vigenza della citata legge.
L'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 si
porrebbe altresi' in contrasto con la garanzia di irretroattivita'
della legge penale, di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., «per i
suoi indubbi riflessi sostanziali in punto di esecuzione della pena
in concreto, frutto di un cambiamento delle regole successivo alla
data del commesso reato».
La modifica peggiorativa del regime di esecuzione della pena, non
accompagnata da alcuna norma transitoria, contrasterebbe infine con
l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU,
traducendosi in un «passaggio a sorpresa e non prevedibile al momento
della commissione del reato alla sanzione con necessaria
incarcerazione».
2.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
inammissibili o infondate.
2.3.1.- Le questioni sarebbero anzitutto inammissibili per
erronea individuazione della norma censurata, avendo il rimettente
trascurato di investire dei propri dubbi di costituzionalita' l'art.
656, comma 9, cod. proc. pen., che individua i casi nei quali non
puo' farsi luogo alla sospensione dell'esecuzione della pena. L'art.
4-bis ordin. penit. verrebbe infatti in considerazione solo
indirettamente, in quanto richiamato ai fini dell'individuazione dei
reati per i quali e' preclusa la sospensione dell'esecuzione.
2.3.2.- Riprendendo le argomentazioni gia' svolte nell'atto di
intervento nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2018,
l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce inoltre, specificamente,
l'inammissibilita' delle questioni sollevate in relazione all'art.
25, secondo comma, Cost., alla luce della giurisprudenza
costituzionale e di quella di legittimita', che avrebbero escluso
l'incidenza del divieto di retroattivita' della legge penale sulla
normativa penitenziaria.
2.3.3.- Sarebbe altresi' inammissibile la censura fondata
sull'art. 3 Cost., in quanto, da un lato, la lamentata irragionevole
disparita' di trattamento tra persone che abbiano commesso il reato
di peculato prima o dopo l'entrata in vigore della legge n. 3 del
2019 sarebbe una mera conseguenza dell'inapplicabilita' del principio
di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. alla materia penitenziaria;
e, dall'altro lato, questa Corte avrebbe gia' respinto analoga
doglianza con l'ordinanza n. 108 del 2004.
2.3.4.- Con riferimento alla censura incentrata sulla violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU,
l'Avvocatura generale dello Stato ripropone integralmente le
argomentazioni gia' svolte nell'atto di intervento relativo al
giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2018.
2.4.- Si e' costituito in giudizio R.B. L., insistendo per
l'accoglimento delle questioni sollevate dal giudice rimettente.
2.5.- Con memoria depositata in prossimita' dell'udienza
pubblica, R.B. L. ha contestato l'eccezione dell'Avvocatura generale
dello Stato di inammissibilita' delle questioni per omessa censura
dell'art. 656, comma 9, cod. proc. pen. Richiamando l'ordinanza della
Corte di cassazione, sezione prima penale, 18 luglio 2019, n. 31853,
la parte sottolinea il carattere meramente «servente», rispetto
all'art. 4-bis ordin. penit., dell'art. 656, comma 9, cod. proc.
pen., che si limiterebbe a recepire automaticamente le variazioni del
catalogo dei delitti elencati nella prima disposizione e, quindi, la
non necessita' di censurare la seconda disposizione.
3.- Con ordinanza del 10 giugno 2019 (r.o. n. 118 del 2019), il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di
Cagliari ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui ha inserito i reati contro
la pubblica amministrazione, tra quelli ostativi alla concessione di
alcuni benefici penitenziari ai sensi dell'art. 4-bis legge 26 luglio
1975, n. 354 senza prevedere un regime transitorio», per contrasto
con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e 117, primo comma, Cost.
(quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU).
Il rimettente e' investito di un incidente di esecuzione proposto
da A. D. - detenuto - e volto alla declaratoria di temporanea
inefficacia dell'ordine di esecuzione, emesso dalla Procura della
Repubblica dopo il passaggio in giudicato, il 30 aprile 2019, della
sentenza della Corte d'appello di Cagliari, che ha condannato
l'interessato alla pena di due anni e otto mesi di reclusione, per il
reato di cui all'art. 314 cod. pen., commesso fino al 16 novembre
2011.
3.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo richiama la giurisprudenza di legittimita' sull'applicabilita'
del principio tempus regit actum alle disposizioni concernenti
l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla
detenzione (e' citata Corte di cassazione, sezioni unite penali,
sentenza n. 24561 del 2006) e afferma che, alla data di passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, si incardinerebbe il rapporto
esecutivo e si cristallizzerebbe il contesto normativo che definisce
le modalita' di esecuzione della pena, sicche' le modifiche all'art.
4-bis della legge n. 354 del 1975 apportate dalla legge n. 3 del
2019, in assenza di una disciplina transitoria, sarebbero applicabili
anche ai fatti commessi da A. D. prima dell'entrata in vigore della
legge stessa. Viceversa, in caso di dichiarata incostituzionalita'
dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, A. D.
potrebbe ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione
della pena.
3.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
ritiene che l'applicabilita' immediata della disposizione censurata a
coloro che abbiano commesso il reato anteriormente alla sua entrata
in vigore confligga con la garanzia di irretroattivita' della legge
penale, di cui all'art. 7 CEDU. Riportando ampi stralci della
sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione penale, n. 12541
del 2019, il rimettente dichiara di condividere i dubbi, ivi
espressi, di conformita' con l'art. 7 CEDU, come interpretato nella
sentenza della Corte EDU Del Rio Prada - e, per esso, con l'art. 117,
primo comma, Cost. - dell'omessa previsione di una disciplina
transitoria nella legge n. 3 del 2019.
La disciplina censurata sarebbe altresi' foriera di una
ingiustificata disparita' di trattamento, lesiva dell'art. 3 Cost.,
tra soggetti che abbiano commesso identici fatti di reato
anteriormente o posteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3
del 2019.
Il consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine alla
natura processuale delle norme di ordinamento penitenziario non
consentirebbe una lettura costituzionalmente orientata della
disposizione censurata, che, in definitiva, presenterebbe profili di
contrarieta' con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma,
Cost., in relazione all'art. 7 CEDU.
3.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, instando per la declaratoria di inammissibilita' o
infondatezza delle questioni, sulla base delle medesime
argomentazioni esposte nell'atto di intervento depositato nel
giudizio iscritto al n. 115 del r.o. 2018.
4.- Con ordinanza del 2 aprile 2019 (r.o. n. 119 del 2019), il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli
ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 6,
comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del
2019, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e
117, primo comma, Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU),
«nella parte in cui, ampliando il novero dei reati "ostativi" ai
sensi dell'art. 4-bis l. 354/1975, includendovi i reati contro la
pubblica amministrazione, ha mancato di prevedere un regime
intertemporale».
Il rimettente e' chiamato a delibare l'istanza presentata, ai
sensi dell'art. 666 cod. proc. pen., da V. P., e volta a ottenere
l'invalidazione dell'ordine di esecuzione emesso l'11 febbraio 2019
dalla Procura della Repubblica, in relazione alla condanna alla pena
di un anno di reclusione, inflitta dalla Corte d'appello di Napoli
con sentenza del 20 gennaio 2015 (irrevocabile il 1° giugno 2018),
per i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 112, numero 1), 319,
320, 321 cod. pen., commessi dal novembre 2007 al febbraio 2008.
4.1.- Rammentato il consolidato orientamento di legittimita'
circa la natura processuale delle norme previste dalla legge n. 354
del 1975, il rimettente argomenta che il censurato art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, avendo ampliato il novero dei
reati "ostativi" di cui all'art. 4-bis ordin. penit. senza prevedere
alcuna disciplina transitoria in relazione ai fatti commessi prima
della sua entrata in vigore, si porrebbe in contrasto con l'art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU cosi' come
interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Del Rio Prada, che
avrebbe assoggettato al principio di irretroattivita' della legge
penale «i trattamenti esecutivi sfavorevoli». A sostegno della
propria argomentazione, il giudice a quo trascrive ampi stralci della
sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione penale, n. 12541
del 2019.
4.2.- Conclude il rimettente evidenziando la rilevanza delle
questioni sollevate, atteso che il loro accoglimento determinerebbe
la fondatezza del ricorso di V. P.
4.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o
infondate, sulla base delle medesime argomentazioni svolte nell'atto
di intervento depositato nel giudizio iscritto al n. 115 del r.o.
2019.
5.- Con ordinanza del 7 giugno 2019 (r.o. n. 157 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Taranto ha sollevato, in riferimento
all'art. 3 Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in
cui, modificando l'art. 4 bis, comma 1 della Legge n. 354/1975, ha
inserito i reati contro la p.a. e in particolare quello di cui
all'art. 314 comma 1 tra quelli ostativi alla concessione di alcuni
benefici penitenziari, senza prevedere un regime transitorio che
dichiari applicabile la norma ai soli fatti commessi successivamente
alla sua entrata in vigore».
Il rimettente deve decidere dell'istanza di concessione della
detenzione domiciliare per gravi motivi di salute o, in subordine,
per ragioni di eta', avanzata da R.B. L. (parte anche nel giudizio
iscritto al n. 115 del r.o. 2019), condannato dalla Corte di appello
di Lecce, con sentenza irrevocabile il 1° febbraio 2019, alla pena di
sette anni e venticinque giorni di reclusione, per plurimi delitti di
peculato commessi fino al 25 marzo 2002 e attualmente detenuto, a
seguito dell'emissione di ordine di esecuzione da parte della Procura
generale presso la medesima Corte di appello.
5.1.- In punto di rilevanza, espone il giudice a quo che, da un
lato, non risulta concedibile la detenzione domiciliare per gravi
motivi di salute, ex artt. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. e 147,
primo comma, numero 2), cod. pen., non versando l'interessato in
condizioni di infermita' fisica o psichica tali da rendere
impossibili le cure in ambiente carcerario; e, dall'altro lato,
risulta inammissibile l'istanza di concessione della detenzione per
motivi di eta', ex art. 47-ter, comma 01, ordin. penit., atteso che,
per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 1, comma 6, lettera b),
della legge n. 3 del 2019, il delitto di peculato e' stato inserito
nel catalogo dei reati di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.,
ostativi alla concessione della detenzione domiciliare in favore di
soggetti ultrasettantenni. Tale regime di ostativita' potrebbe venir
meno solo in forza dell'accertamento della collaborazione di R.B. L.
con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit. o dell'art.
323-bis, secondo comma, cod. pen., o dell'inesigibilita' della
collaborazione stessa. Nel caso di specie, tuttavia, tali condizioni
non risultano realizzate, sicche' l'interessato soggiace al regime di
ostativita' previsto dal novellato art. 4-bis ordin. penit., pur
essendo soggetto ultrasettantenne, astrattamente idoneo a fruire
della detenzione domiciliare prevista dall'art. 47-ter, comma 01,
ordin. penit. Donde, la rilevanza della questione di legittimita'
costituzionale sollevata.
5.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
rileva come l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019
abbia ampliato il novero dei reati ostativi contemplati dall'art.
4-bis ordin. penit. senza prevedere alcuna disciplina transitoria,
diversamente da quanto avvenuto in occasione dell'introduzione
dell'art. 4-bis, realizzata dal decreto-legge n. 152 del 1991, e
delle modifiche allo stesso apportate dall'art. 1 della legge n. 279
del 2002, ove il legislatore aveva previsto l'applicabilita' delle
nuove e piu' restrittive disposizioni ai soli fatti di reato commessi
successivamente all'entrata in vigore delle stesse.
Ritiene il giudice a quo che l'assenza di una disciplina
transitoria nella legge n. 3 del 2019 sia foriera di disparita' di
trattamento e pregiudizio al diritto di difesa, che si tradurrebbero
in una lesione dell'art. 3 Cost. Coloro che abbiano commesso reati
inclusi nel novellato catalogo di cui all'art. 4-bis ordin. penit.
prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, infatti, si
troverebbero ad essere o meno soggetti all'ordine di esecuzione e
alla preclusione nella richiesta di accesso alle misure alternative
alla detenzione, a seconda che siano stati ammessi all'esecuzione
penale esterna prima o dopo la novella; dato che, a sua volta,
dipenderebbe da circostanze del tutto contingenti quali «la
collocazione territoriale, la velocita' con la quale e' stato
celebrato il processo, la rapidita' dell'emanazione dell'ordine di
esecuzione da parte del pubblico ministero e quella del Tribunale di
Sorveglianza che, per ragioni istruttorie o per altro motivo, non
abbia assunto una decisione prima dell'entrata in vigore della
legge».
Ad avviso del rimettente, invece, la natura processuale delle
norme penitenziarie non consentirebbe di ritenere applicabile la
garanzia di irretroattivita' della legge penale sfavorevole, di cui
all'art. 7 CEDU. Ne' le norme relative alle modalita' di accesso alle
misure alternative potrebbero formare oggetto di un affidamento del
condannato, alla luce dell'imprescindibilita' della valutazione
discrezionale del tribunale di sorveglianza in ordine alla
concessione di ciascuna misura.
5.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, eccependo l'inammissibilita' della questione sollevata, per
non avere il giudice rimettente tentato un'interpretazione
costituzionalmente orientata della norma censurata, tale da
escluderne l'applicabilita' ai fatti commessi prima della sua entrata
in vigore. Simile interpretazione sarebbe infatti «in linea con
l'esigenza di garantire al cittadino libere e consapevoli scelte di
condotta che costituisce una pietra angolare del modello di sistema
penale disegnato dai principi costituzionali (Corte costituzionale,
sentenza n. 364/1988)».
5.4.- Si e' costituita in giudizio la parte R.B. L., chiedendo a
questa Corte di dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 6,
comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del
2019, per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.
5.5.- Con memoria depositata in prossimita' dell'udienza
pubblica, R.B. L. ha evidenziato l'impossibilita' di adottare
un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione
censurata, alla luce del diritto vivente che attribuisce natura
processuale alle norme dell'ordinamento penitenziario.
6.- Con ordinanza del 30 aprile 2019 (r.o. n. 160 del 2019), il
Tribunale ordinario di Brindisi ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art. 4 bis
comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354 - norma richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. - si applica anche al
delitto di cui all'art. 314 c.p. commesso anteriormente all'entrata
in vigore della medesima legge», denunciandone il contrasto con gli
artt. 24, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo
in relazione all'art. 7 CEDU.
Il rimettente e' investito dell'istanza di A. B., in stato di
detenzione, volta a ottenere la declaratoria di temporanea
inefficacia dell'ordine di esecuzione emesso dal pubblico ministero
il 5 aprile 2019, in relazione alla condanna inflitta all'interessato
dal Tribunale ordinario di Brindisi il 25 marzo 2015 (divenuta
irrevocabile il 13 marzo 2019) alla pena di due anni e otto mesi di
reclusione per i delitti di cui agli artt. 110, 56, 314, primo comma,
61, numero 9), cod. pen. (commesso l'11 agosto 2011), di cui agli
artt. 110, 117, e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 18 luglio
2011) e di cui all'art. 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 24
febbraio 2011).
6.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo espone che, a seguito dell'entrata in vigore del censurato art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, A. B. non puo'
piu' beneficiare della sospensione dell'ordine di esecuzione, essendo
stato il delitto di cui all'art. 314 cod. pen. incluso nell'elenco
dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis ordin. penit., laddove,
prima dell'intervenuta modifica normativa, egli avrebbe potuto
chiedere la concessione di una misura alternativa alla detenzione
senza previo periodo di osservazione in carcere.
6.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
premette che, in assenza di una disciplina transitoria, la
disposizione censurata risulta immediatamente applicabile, in base al
consolidato orientamento che attribuisce carattere processuale alle
norme penitenziarie.
6.2.1.- Ritiene tuttavia il giudice a quo che la non
sospendibilita' dell'ordine di esecuzione, risultante dal richiamo
dell'art. 4-bis ordin. penit. da parte dell'art. 656, comma 9,
lettera a), cod. proc. pen., incida non solo sulle modalita'
esecutive della pena ma anche sulla sua effettiva portata e natura,
imponendo al condannato che aspiri alle misure alternative alla
detenzione «una temporanea anticipazione del regime detentivo [...]
in attesa delle decisioni del magistrato di sorveglianza sul
possibile accesso a una di tali misure»; il tutto, peraltro, con
«possibili frizioni con la finalita' rieducativa della pena prevista
dall'art. 27 Cost.», attesa l'incongruita' - rilevata anche da questa
Corte con la sentenza n. 41 del 2018 - della temporanea carcerazione
di soggetti che possano poi beneficiare di misure risocializzanti
extramurarie. L'art. 4-bis ordin. penit., richiamato dall'art. 656,
comma 9, lettera a), cod. proc. pen., «benche' "nominalmente"
processuale» esibirebbe dunque «nella "sostanza" [...] un contenuto
"afflittivo" per le ricadute sulla liberta' personale del
condannato», impossibilitato appunto a ottenere la sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena.
6.2.2.- Attesa la natura "penale" dell'art. 4-bis ordin. penit.,
l'applicazione immediata delle modifiche normative di segno
peggiorativo apportate a detta disposizione dalla legge n. 3 del 2019
integrerebbe una violazione del divieto di retroattivita' della legge
penale sfavorevole, sancito dall'art. 7 CEDU, cosi' come interpretato
dalla Corte EDU nella sentenza Del Rio Prada.
6.2.3.- Sarebbe violato anche il corrispondente principio di
irretroattivita' contenuto nell'art. 25, secondo comma, Cost., la cui
operativita' questa Corte avrebbe esteso a disposizioni non
formalmente penali, ma «a carattere "intrinsecamente punitivo"» (sono
citate le sentenze n. 223 del 2018 e n. 196 del 2010).
6.2.4.- La modifica in senso sfavorevole della portata dell'art.
4-bis ordin. penit., realizzata dal censurato art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, vanificherebbe altresi' il
legittimo affidamento del condannato a ottenere la sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena detentiva di durata inferiore a
quattro anni (come quella in specie irrogata), con conseguente
ulteriore violazione degli artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU,
gia' evidenziata dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale,
nella sentenza n. 12541 del 2019.
6.2.5.- L'incidente di esecuzione riguardante l'ordine di
esecuzione emesso a carico di A. B. rientrerebbe a pieno titolo
nell'ambito applicativo dell'art. 6 CEDU sul diritto al processo
equo, atteso lo stretto legame tra la nozione di "pena" risultante
dall'art. 7 CEDU e quella di "accusa in materia penale", utilizzata
dall'art. 6.
Ne deriverebbe la possibilita' di estendere le garanzie dell'art.
6 CEDU anche a «istituti rientranti nel "procedimento di esecuzione"
che concorrono a determinare l'effettiva durata della privazione
della liberta' da scontare», quali il procedimento ex art. 671 cod.
proc. pen. per l'applicazione della continuazione in sede esecutiva,
nonche' i procedimenti relativi alla validita' o efficacia del titolo
esecutivo o dell'ordine di esecuzione.
La riconducibilita' del procedimento di esecuzione disciplinato
dall'art. 666 cod. proc. pen. all'ambito applicativo dell'art. 6 CEDU
comporterebbe la qualificabilita' come disposizione di natura
"penale", ai sensi dell'art. 7 CEDU, dell'art. 656, comma 9, lettera
a), cod. proc. pen. sulla sospensione dell'ordine di esecuzione,
«cosi' come integrato» dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge
n. 3 del 2019, che ha modificato l'art. 4-bis ordin. penit. E invero,
gli effetti derivanti dalla disciplina in scrutinio «si traducono in
un'anticipazione della pena detentiva che comporta la privazione
della liberta' personale attraverso la carcerazione, anche se il
condannato risultera' meritevole di una misura alternativa».
6.2.6.- L'applicazione retroattiva della disciplina sfavorevole
introdotta dalla legge n. 3 del 2019 comporterebbe altresi' una
lesione del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost.,
vanificando le strategie processuali dell'imputato, il quale potrebbe
avere chiesto l'applicazione di un rito alternativo confidando in una
diminuzione di pena sufficiente a poter beneficiare della sospensione
dell'ordine di esecuzione; sospensione che, invece, non potrebbe
essere piu' accordata in forza dell'entrata in vigore della legge n.
3 del 2019.
6.2.7.- Il contrasto della norma censurata con i parametri
costituzionali evocati non sarebbe superabile in via interpretativa,
in presenza di un consolidato diritto vivente di segno contrario.
6.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, instando per la declaratoria di inammissibilita' delle
questioni sollevate, in base alle medesime argomentazioni spese nel
giudizio iscritto al n. 157 del r.o. 2019 e incentrate sul mancato
esperimento, da parte del rimettente, di un'interpretazione
costituzionalmente orientata della disciplina censurata.
6.4.- Si e' altresi' costituita in giudizio la parte privata A.
B., insistendo per la declaratoria di illegittimita' costituzionale
del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019.
Ripercorrendo adesivamente le motivazioni dell'ordinanza di
rimessione, la parte privata aggiunge che le misure alternative alla
detenzione, stante la «fisiologica funzionalizzazione a garantire la
diversificazione tipologica del trattamento sanzionatorio, corollario
del principio rieducativo di cui all'art. 27, co. 3, Cost.» non
potrebbero essere considerate delle mere modalita' di esecuzione
della pena, essendo invece istituti che «incidono sulla qualita'
essenziale della pena stessa»; sicche' qualsiasi mutamento delle
condizioni di accesso a dette misure soggiacerebbe alle garanzie di
irretroattivita' di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU.
Disposizione, quest'ultima, che la Corte EDU avrebbe ritenuto
applicabile sia a revirements giurisprudenziali relativi al regime
applicativo di misure assimilabili alla liberazione anticipata (e'
citata la sentenza Del Rio Prada), sia a modifiche della normativa
processuale suscettibili di spiegare diretta incidenza sulla
determinazione della pena inflitta (e' citata la sentenza, 17
settembre 2009, Scoppola contro Italia).
6.5.- In prossimita' dell'udienza pubblica, A. B. ha depositato
memoria illustrativa, insistendo sulla necessita' di applicare alle
misure alternative alla detenzione il divieto di retroattivita' della
legge penale sfavorevole, sulla scorta della giurisprudenza della
Corte EDU e di recenti pronunce della giurisprudenza di merito,
avallate dalla sentenza n. 12541 del 2019 della Corte di cassazione.
La parte evidenzia altresi' come la mancata previsione, ad opera del
censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, di
una disciplina transitoria, determini una lesione dell'affidamento
dell'imputato, in riferimento sia al trattamento sanzionatorio
applicabile (che da extramurario diverrebbe necessariamente
carcerario), sia alle strategie perseguibili in giudizio, atteso che
l'interessato - giudicato anteriormente all'entrata in vigore della
novella - non avrebbe potuto prospettarsi la necessita' di
collaborare con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-ter ordin.
penit., nel corso delle indagini o del processo, al fine di fruire
della possibilita' di accesso a misure alternative alla detenzione,
secondo il restrittivo regime delineato dall'art. 4-bis ordin. penit.
Richiamando la sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, A. B.
lamenta infine l'irragionevolezza dell'inclusione dei reati contro la
pubblica amministrazione nell'ambito applicativo dell'art. 4-bis, sul
rilievo che la conseguente necessita' di collaborazione con la
giustizia, al fine della concessione di misure alternative alla
detenzione, si tradurrebbe in una violazione del diritto al silenzio
e in un aggravamento del trattamento sanzionatorio.
7.- Con ordinanza del 30 aprile 2019 (r.o. n. 161 del 2019), il
Tribunale ordinario di Brindisi ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art. 4 bis
comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354 - norma richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. - si applica anche al
delitto di cui all'art. 314 c.p. commesso anteriormente all'entrata
in vigore della medesima legge», denunciandone il contrasto con gli
artt. 24, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo
in relazione all'art. 7 CEDU.
Il rimettente deve pronunciarsi, ex art. 666 cod. proc. pen.,
sull'incidente di esecuzione promosso da C. M. onde ottenere la
declaratoria di temporanea inefficacia dell'ordine di esecuzione
emesso dal pubblico ministero il 5 aprile 2019, in relazione alla
condanna inflitta all'interessato dal Tribunale di Brindisi il 25
marzo 2015 (divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019) alla pena di due
anni e quattro mesi di reclusione per il delitto di cui agli artt.
110 e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 3 agosto 2011) e per
il delitto di cui agli artt. 110, 81, 56 e 314, primo comma, cod.
pen. (commesso il 22 luglio e il 13 agosto 2011).
7.1.- In punto di rilevanza e non manifesta infondatezza delle
questioni sollevate, il giudice a quo svolge considerazioni di
identico tenore a quelle che compaiono nell'ordinanza di rimessione
iscritta al n. 160 del r.o. 2019.
7.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, per
le medesime ragioni esposte nell'atto di intervento relativo al
giudizio iscritto al n. 160 del r.o. 2019.
8.- Con ordinanza del 16 luglio 2019 (r.o. n. 193 del 2019), il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di
Caltanissetta ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della
legge n. 3 del 2019, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, 24,
25, 27, 111 e 117 Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU),
«nella parte in cui, ampliando il novero dei reati "ostativi" ai
sensi dell'art. 4-bis legge 354/1975, includendovi i reati contro la
pubblica amministrazione, ha mancato di prevedere un regime
intertemporale».
Il tribunale rimettente e' investito di un'istanza, presentata
dal detenuto U. A., di declaratoria di illegittimita' dell'ordine di
esecuzione emesso dalla locale Procura della Repubblica e notificato
il 7 giugno 2019, per l'espiazione della pena di tre anni, undici
mesi e dieci giorni di reclusione, applicata - in relazione a diversi
reati uniti dal vincolo della continuazione, tra cui il delitto di
cui all'art. 319 cod. pen., commesso tra il 16 maggio e il 31 maggio
2017 - ex art. 444 cod. proc. pen. con sentenza del 12 febbraio 2019,
divenuta irrevocabile il 28 maggio 2019.
8.1.- Premessa l'adesione al consolidato orientamento
giurisprudenziale circa la natura processuale delle disposizioni
concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative
alla detenzione, il rimettente osserva, in punto di rilevanza delle
questioni sollevate, che, attesa l'immediata operativita' della
previsione dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, l'istanza di U. A. dovrebbe essere rigettata. Diversamente,
l'accoglimento delle questioni comporterebbe la sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena, poiche' relativo a fatti
commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.
8.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
argomenta la contrarieta' della disposizione censurata all'art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU, richiamando la
sentenza della Corte EDU Del Rio Prada e le considerazioni svolte
dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 12541 del 2019.
8.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
inammissibili o infondate.
L'inammissibilita' conseguirebbe sia al mancato tentativo di
un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma
censurata, volta ad attribuirle valenza sostanziale e non
processuale; sia al carattere manipolativo della pronuncia richiesta
alla Corte, atteso il carattere non costituzionalmente necessario
della disciplina transitoria auspicata dal rimettente; sia, infine,
alla mancata individuazione di una norma di sospetta illegittimita'
costituzionale, lamentando il rimettente un mancato intervento del
legislatore.
Ulteriori ragioni di inammissibilita' e infondatezza delle
questioni sollevate sono argomentate attraverso l'integrale richiamo
all'atto di intervento depositato dalla stessa Avvocatura generale
dello Stato nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019.
9.- Con ordinanza del 16 luglio 2019 (r.o. n. 194 del 2019), il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di
Caltanissetta ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della
legge n. 3 del 2019, identiche a quelle gia' prospettate
nell'ordinanza iscritta al n. 193 del r.o. 2019 quanto al petitum e
ai parametri costituzionali evocati.
In questo caso, il rimettente e' investito di un'istanza,
presentata dal detenuto F. R., di declaratoria di illegittimita'
dell'ordine di esecuzione emesso dalla locale Procura della
Repubblica e notificato il 7 giugno 2019, per l'espiazione della pena
di tre anni, tre mesi e dieci giorni di reclusione, applicata - in
relazione a diversi reati uniti dal vincolo della continuazione, tra
cui il delitto di cui all'art. 319 cod. pen., commesso tra il 16 e il
31 maggio 2017 - ex art. 444 cod. proc. pen. con sentenza del 12
febbraio 2019, divenuta irrevocabile il 28 maggio 2019.
9.1.- Il rimettente ripropone, a sostegno della rilevanza e non
manifesta infondatezza delle questioni sollevate, le medesime
argomentazioni svolte nell'ordinanza iscritta al n. 193 del r.o.
2019.
9.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, con atto di intervento avente tenore identico a quello
depositato nel giudizio iscritto al n. 193 del r.o. 2019.
10.- Con ordinanza del 31 luglio 2019 (r.o. n. 210 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Potenza ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art. 4 bis,
comma 1 della L. 26.7.1975 n. 354, si applica anche in relazione ai
delitti di cui agli artt. 317 c.p. e 319 c.p. commessi anteriormente
alla entrata in vigore della medesima legge», denunciando il
contrasto della disposizione con gli artt. 3, 25, secondo comma, 27,
secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest'ultimo in
relazione all'art. 7 CEDU).
Il rimettente e' chiamato a statuire sul reclamo avverso il
decreto del 21 febbraio 2019, con cui il magistrato di sorveglianza
ha dichiarato inammissibile l'istanza di concessione di permesso
premio, ex art. 30-ter ordin. penit., avanzata da M.P. D.G., detenuto
in espiazione della pena (residuo di otto anni) di sette anni, otto
mesi e ventiquattro giorni di reclusione, inflitta dalla Corte di
appello di Potenza con sentenza del 30 settembre 2016 (divenuta
irrevocabile l'8 agosto 2017), in relazione ai reati di cui agli
artt. 81, comma 2, 110, 317 e 319 cod. pen.
10.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il
giudice a quo evidenzia che l'istanza di concessione del permesso
premio e' stata presentata prima dell'entrata in vigore della legge
n. 3 del 2019, ma delibata dal magistrato di sorveglianza solo
successivamente, con conseguente applicabilita' delle preclusioni
alla concessione del permesso premio, in difetto di collaborazione
con la giustizia, previste dall'art. 4-bis ordin. penit., come
novellato dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, per i reati ostativi ivi indicati, tra i quali risultano
attualmente inclusi quelli di concussione e corruzione per atto
contrario ai doveri di ufficio. Osserva altresi' il rimettente che,
in difetto della sopravvenuta modifica dell'art. 4-bis ordin. penit.,
M.P. D.G. avrebbe avuto diritto alla concessione del permesso premio,
sussistendo i requisiti previsti dall'art. 30-ter della medesima
legge.
10.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
richiama da un lato il consolidato orientamento giurisprudenziale
circa la natura processuale delle norme penitenziarie, con
conseguente immediata applicabilita' di modifiche normative anche
peggiorative ai fatti pregressi, in difetto di apposita disciplina
transitoria; e, dall'altro lato, la recente pronuncia della Corte di
cassazione, sezione sesta penale, n. 12541 del 2019, che ha ritenuto
non manifestamente infondato - ancorche', in specie, non rilevante -
il dubbio di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt.
117, primo comma, Cost. e 7 CEDU, determinato dalla mancata
previsione di una disposizione transitoria volta a limitare
l'applicabilita' delle modifiche introdotte all'art. 4-bis ordin.
penit. ai soli fatti di reato commessi successivamente all'entrata in
vigore della legge n. 3 del 2019.
10.3.- Ad avviso del giudice a quo, il permesso premio, lungi dal
risolversi in una mera modalita' di esecuzione della pena, «viene a
incidere sulla qualita' essenziale della pena stessa rispetto alla
quale la funzione rieducativa viene assicurata anche tramite il
beneficio ex art. 30 ter O.P.», come riconosciuto da questa Corte
nella sentenza n. 349 del 1993; sicche' eventuali modifiche normative
che restringano i presupposti di accesso a tale beneficio
modificherebbero «la natura stessa della sanzione penale» e
dovrebbero essere soggette alla garanzia di irretroattivita' prevista
dagli artt. 25, secondo comma, Cost., e 7 CEDU. Riprendendo in larga
misura le argomentazioni dell'ordinanza di rimessione iscritta al n.
114 del r.o. 2019, il rimettente evidenzia come questa Corte abbia
gia' censurato modifiche normative che incidessero in senso
peggiorativo sulle condizioni di fruibilita' di benefici
penitenziari, applicandosi indistintamente anche ai condannati che
avessero gia' raggiunto un grado di rieducazione adeguato al
beneficio richiesto (sono richiamate le sentenze n. 79 del 2007, n.
257 del 2006, n. 137 del 1999, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995).
10.4.- Il rimettente argomenta poi la dedotta lesione degli artt.
25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione all'art. 7
CEDU), sotto il profilo della violazione del principio di
affidamento, svolgendo considerazioni analoghe a quelle esposte
nell'ordinanza di rimessione iscritta al n. 114 del r.o. 2019.
10.5.- In relazione al prospettato contrasto della disposizione
censurata con gli artt. 3 e 27, secondo e terzo comma, Cost., il
rimettente parimenti ripropone le argomentazioni dell'ordinanza di
rimessione iscritta al n. 114 del r.o. 2019, soggiungendo che «la
preclusione all'accesso ai benefici penitenziari o, piu'
correttamente, la possibilita' di accesso solo in caso di
collaborazione o di accertata collaborazione impossibile senza alcuna
distinzione di ordine temporale quanto alla sfera di applicazione
della nuova normativa» introdurrebbe un automatismo tale da impedire
al giudice ogni valutazione individuale sul concreto percorso
rieducativo compiuto dal condannato prima dell'entrata in vigore
della legge n. 3 del 2019, con conseguente frustrazione
dell'imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena
(sono richiamate la sentenza n. 149 del 2018 e la giurisprudenza
costituzionale ivi citata).
10.6.- Il Presidente del Consiglio dei Ministri non e'
intervenuto in giudizio.
11.- Con ordinanza del 12 giugno 2019 (r.o. n. 220 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Salerno ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art. 4 bis,
comma 1 O.P., si applica anche in relazione ai delitti di cui
all'art. 319-quater comma 1 c.p. commessi anteriormente alla entrata
in vigore della medesima legge», denunciando il contrasto della
disposizione con gli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 117
Cost. e 7 CEDU.
Il rimettente e' chiamato a delibare l'istanza di concessione
dell'affidamento in prova al servizio sociale, o in subordine, della
detenzione domiciliare o della semiliberta', avanzata da D. M.,
condannato alla pena di sei anni di reclusione dalla Corte di appello
di Milano con sentenza del 14 novembre 2017, per i reati di cui agli
artt. 319-quater, primo comma, e 648 cod. pen., attualmente in regime
di arresti domiciliari e in attesa della valutazione del Tribunale di
sorveglianza circa la concedibilita' di misure alternative alla
detenzione, ai sensi dell'art. 656, comma 10, cod. proc. pen.
11.1.- Premette il giudice a quo che l'immediata applicabilita'
delle modifiche apportate all'art. 4-bis ordin. penit. dall'art. 1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 - e, segnatamente,
l'inclusione del delitto di cui all'art. 319-quater, primo comma,
cod. pen. nel novero di quelli "ostativi" ai sensi della prima
disposizione - comporterebbe la declaratoria di inammissibilita'
delle istanze di M. D., in difetto del requisito della collaborazione
con la giustizia, o della impossibilita' della stessa, previsto per
l'accesso ai benefici penitenziari dal citato art. 4-bis.
Diversamente, l'auspicata declaratoria di illegittimita'
costituzionale della norma censurata, sotto il profilo della mancata
previsione dell'inapplicabilita' ai fatti di reato pregressi,
consentirebbe al rimettente di accogliere le istanze del detenuto,
alla luce dell'assenza di altri precedenti penali, della regolare
condotta serbata durante il periodo trascorso agli arresti
domiciliari e della possibilita' di svolgere un'attivita' lavorativa
idonea a favorire il reinserimento sociale. Donde, la rilevanza delle
questioni sollevate.
11.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, essa e'
argomentata in base a considerazioni analoghe a quelle svolte dal
Tribunale di sorveglianza di Venezia nell'ordinanza iscritta al n.
114 del r.o. 2019.
11.3.- E' intervenuto anche in questo giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano
dichiarate inammissibili o infondate, per le medesime ragioni esposte
negli atti di intervento depositati nei giudizi iscritti ai numeri
114 e 193 del r.o. 2019.
12.- All'udienza dell'11 febbraio 2020, il rappresentante
dell'Avvocatura generale dello Stato, a parziale modifica delle
conclusioni gia' rassegnate negli atti di intervento, ha invitato
questa Corte ad adottare una pronuncia interpretativa di rigetto
delle questioni sollevate, sulla base di una lettura della
disposizione censurata secondo la quale le modifiche da essa
apportate dovrebbero essere applicate soltanto ai fatti commessi
successivamente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Cio'
in quanto tutte le norme ivi previste «che peggiorano la condizione
dei detenuti in termini di status libertatis» dovrebbero essere
«lette necessariamente come norme di carattere sostanziale e quindi
non retroattive, non solo alla luce dell'art. 25 della Costituzione,
ma anche alla luce dell'art. 2 del codice penale».
Considerato in diritto
1.- Le undici ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, che
e' opportuno riunire ai fini della decisione, sollevano tutte
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di
prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e
movimenti politici).
Secondo i rimettenti, tale disposizione sarebbe
costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che le
modifiche da essa apportate all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta') si
applichino soltanto ai condannati per fatti commessi successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.
1.1.- Piu' in particolare, le ordinanze iscritte ai numeri 114,
157, 210 e 220 del r.o. 2019 sono state pronunciate da tribunali di
sorveglianza investiti di istanze di concessione di benefici o misure
alternative alla detenzione (permesso premio, affidamento in prova al
servizio sociale, detenzione domiciliare) da parte di condannati per
reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell'entrata
in vigore della legge n. 3 del 2019.
Tali reati risultano ora inseriti - ad opera del censurato art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 - nell'elenco dei
delitti previsti dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
Conseguentemente, per tali reati sono oggi previste condizioni assai
piu' gravose, per l'accesso ai benefici penitenziari e alle misure
alternative, rispetto a quelle vigenti al momento della commissione
del fatto.
1.2.- Le ordinanze iscritte ai numeri 115, 118, 119, 160, 161,
193 e 194 del r.o. 2019 sono state invece pronunciate da giudici
dell'esecuzione, investiti di istanze volte a ottenere la sospensione
o la declaratoria di illegittimita' di ordini di esecuzione della
pena emessi nei confronti di condannati per reati contro la pubblica
amministrazione, commessi prima dell'entrata in vigore della legge n.
3 del 2019.
Tali ordini di esecuzione non sono stati sospesi, per effetto
dell'inclusione del reato per il quale l'interessato e' stato di
volta in volta condannato nell'elenco dei delitti di cui all'art.
4-bis ordin. penit., in relazione ai quali l'art. 656, comma 9,
lettera a), del codice di procedura penale prevede, per l'appunto, il
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.
1.3.- Secondo i giudici rimettenti, la mancata limitazione degli
effetti dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019
ai soli condannati per fatti commessi successivamente alla sua
entrata in vigore sarebbe di dubbia compatibilita':
- con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione e con l'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali (CEDU), sotto il profilo del principio di legalita' e
non retroattivita' della pena; e cio' in quanto il divieto di
applicazione retroattiva delle modifiche normative che aggravano la
pena prevista per il reato comprenderebbe altresi' le modifiche
normative che, come quella in esame, restringano presupposti e
condizioni di accesso a benefici penitenziari e misure alternative
alla detenzione (ordinanze iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119,
160, 161, 193, 194, 210 e 220 del r.o. 2019);
- con il diritto di difesa di cui all'art. 24, secondo comma,
Cost., dal momento che la modifica normativa operata dalla
disposizione censurata avrebbe vanificato le strategie processuali
degli imputati poi condannati, i quali potrebbero, ad esempio, aver
scelto un rito alternativo confidando in una diminuzione di pena
sufficiente per poter beneficiare della sospensione dell'ordine di
esecuzione della pena (ordinanze iscritte ai numeri 160 e 161 del
r.o. 2019);
- con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. (nonche',
nell'ordinanza iscritta al n. 210 del r.o. 2019, con il secondo comma
di quest'ultima disposizione), in relazione ai principi di
ragionevolezza e funzione rieducativa della pena, attesa l'automatica
incidenza, sul percorso rieducativo dei condannati, delle
sopravvenute preclusioni all'accesso a benefici penitenziari e a
misure alternative alla detenzione, con conseguente impossibilita'
per l'autorita' giudiziaria di operare valutazioni individualizzate
in sede di esame delle istanze di concessione di detti benefici e
misure (ordinanze iscritte ai numeri 114, 210 e 220 del r.o. 2019);
- con l'art. 3 Cost., sotto un duplice profilo: da un lato,
l'irragionevole disparita' di trattamento creatasi tra condannati per
i medesimi delitti, commessi anteriormente all'entrata in vigore
dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, i quali
sarebbero sottoposti a un regime differenziato quanto all'accesso ai
benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, a
seconda del momento - anteriore o successivo alla vigenza di detta
disposizione - in cui la magistratura di sorveglianza esamini la
relativa istanza di concessione (ordinanze iscritte ai numeri 114,
157, 210 e 220 del r.o. 2019); dall'altro, l'irragionevole disparita'
di trattamento fra autori dei medesimi delitti, commessi
rispettivamente prima o dopo l'entrata in vigore della disposizione
censurata, poiche' solo i primi, ma non anche i secondi, potrebbero
espiare la pena in regime extramurario (ordinanze iscritte ai numeri
115 e 118 del r.o. 2019).
2.- In via preliminare, conviene brevemente ricapitolare il
contesto normativo nel quale si inseriscono le censure dei
rimettenti.
Come gia' rammentato, l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge
n. 3 del 2019, in questa sede censurato, inserisce nell'elenco dei
delitti previsti dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti
contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314, primo
comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320,
321, 322 e 322-bis del codice penale.
2.1.- Per effetto di detto inserimento, tali delitti sono oggi
soggetti, anzitutto, al medesimo regime "ostativo" rispetto alla
concessione dei permessi premio, del lavoro all'esterno e delle
misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione
anticipata, che vige per i delitti cosiddetti "di prima fascia"
elencati nell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
Cio' significa che i benefici e le misure alternative in
questione possono ora essere concessi ai condannati per la maggior
parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, di regola,
soltanto nel caso in cui essi collaborino con la giustizia.
Tale collaborazione potra' avvenire, alternativamente, ai sensi
dell'art. 58-ter ordin. penit., ovvero - in forza di un'ulteriore
modifica del testo dell'art. 4-bis ordin. penit., operata dall'art.
1, comma 6, lettera a), della legge n. 3 del 2019 - ai sensi
dell'art. 323-bis, secondo comma, cod. pen.
L'art. 58-ter ordin. penit., a sua volta, descrive la condotta di
collaborazione con la giustizia come quella di «coloro che, anche
dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attivita'
delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato
concretamente l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per
l'individuazione o la cattura degli autori dei reati».
L'art. 323-bis, secondo comma, cod. pen. prevede invece una
circostanza attenuante, applicabile a vari delitti contro la pubblica
amministrazione, in favore di «chi si sia efficacemente adoperato per
evitare che l'attivita' delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione
degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre
utilita' trasferite». Se il riconoscimento della circostanza
attenuante e' evidentemente circoscritto alle condotte collaborative
poste in essere dall'imputato prima della sentenza irrevocabile di
condanna, il richiamo a tale disposizione da parte dell'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit., nel testo modificato dalla legge n. 3 del
2019, sta probabilmente a significare che la collaborazione richiesta
al condannato per i reati contro la pubblica amministrazione puo' in
concreto esplicarsi - anche dopo la condanna - nelle forme indicate
dallo stesso art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., ove - a
differenza di quanto accade nell'art. 58-ter ordin. penit. - e' fatta
esplicita menzione dell'attivita' rivolta ad assicurare il «sequestro
delle somme o altre utilita' trasferite».
In difetto di collaborazione, il condannato per i delitti contro
la pubblica amministrazione menzionati dalla disposizione censurata -
cosi' come qualsiasi altro condannato per i delitti contemplati
dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. - potra' accedere ai benefici
e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione
anticipata soltanto:
- allorche' ricorrano le condizioni di cui all'art. 4-bis, comma
1-bis, ordin. penit., e cioe' «purche' siano stati acquisiti elementi
tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita'
organizzata, terroristica o eversiva, altresi' nei casi in cui la
limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza
di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle
responsabilita', operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque
impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, nonche' nei
casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti
oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o
internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti
previste dall'articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento
del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall' articolo
114 ovvero dall'articolo 116, secondo comma, del codice penale»;
ovvero
- limitatamente alla concessione dei permessi premio, allorche'
siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualita' di
collegamenti con la criminalita' organizzata, sia il pericolo del
ripristino di tali collegamenti, secondo quanto stabilito dalla
sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte.
2.2.- La sottoposizione dei condannati per delitti contro la
pubblica amministrazione al regime dell'art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. comporta poi una serie di effetti stabiliti da altre norme
dell'ordinamento penitenziario che rinviano allo stesso art. 4-bis, e
in particolare:
- una preclusione assoluta - non superabile neppure in presenza
di collaborazione o di condizioni equiparate - rispetto alla
concessione delle misure alternative della detenzione domiciliare
"ordinaria" per ultrasettantenni (art. 47-ter, comma 01, ordin.
penit.) e della detenzione domiciliare cosiddetta "generica" (art.
47-ter, comma 1-bis, ordin. penit.);
- l'allungamento dei tempi di espiazione di pena necessari per
l'accesso al lavoro all'esterno (art. 21, comma 1, ordin. penit.), ai
permessi premio (art. 30-ter ordin. penit.) e alla semiliberta' (art.
50, comma 2, ordin. penit.);
- un regime piu' rigoroso relativo alla revoca dei benefici
penitenziari gia' concessi, ai sensi dell'art. 58-quater, comma 5,
ordin. penit.
2.3.- L'inserimento dei delitti contro la pubblica
amministrazione indicati dalla disposizione censurata nell'elenco di
cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. comporta un identico
regime preclusivo rispetto alla liberazione condizionale, la quale -
in forza dell'art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152
(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata
e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 -
puo' essere concessa ai condannati per i delitti di cui all'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit. alla condizione che ricorrano i
presupposti ivi indicati.
2.4.- Infine, le ordinanze di rimessione sollevate dai giudici
dell'esecuzione concernono l'ulteriore effetto riflesso
dell'inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione
nell'elenco dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., stabilito
dall'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. e consistente nel
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.
Se infatti, in linea generale, in caso di condanna a pena
detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente residuo
di maggior pena, il pubblico ministero e' tenuto a sospendere
l'ordine di esecuzione contestualmente emesso nei confronti del
condannato che si trovi in stato di liberta' o agli arresti
domiciliari, si' da consentirgli di presentare istanza al tribunale
di sorveglianza competente - nei trenta giorni successivi - per la
concessione di una misura alternativa alla detenzione (art. 656,
commi 5 - come modificato dalla sentenza n. 41 del 2018 di questa
Corte - e 10, cod. proc. pen.), il comma 9, lettera a), del medesimo
art. 656 cod. proc. pen. preclude invece al pubblico ministero di
sospendere l'ordine di esecuzione relativo alle condanne per una
serie di delitti, tra i cui quelli di cui all'art. 4-bis ordin.
penit.
Ne consegue il necessario ingresso in carcere, nelle more del
procedimento di sorveglianza, di chi sia condannato a pena detentiva
non sospesa per la maggior parte dei delitti contro la pubblica
amministrazione, nonostante l'entita' della pena da scontare possa
consentire al condannato di essere ammesso a una misura alternativa
alla detenzione sin dall'inizio dell'esecuzione.
2.5.- La disposizione censurata nulla prevede in merito alla sua
efficacia nel tempo.
In forza delle indicazioni provenienti dal diritto vivente, di
cui meglio si dira' piu' innanzi (infra, 4.1.), tutte le ordinanze di
rimessione assumono tuttavia che - nel silenzio del legislatore -
tali modifiche siano immediatamente applicabili anche a coloro che
sono stati condannati per fatti commessi anteriormente all'entrata in
vigore della legge n. 3 del 2019: cio' che costituisce, per
l'appunto, l'oggetto essenziale delle censure che questa Corte e'
chiamata ora a decidere.
3.- In relazione all'ammissibilita' delle questioni prospettate,
deve osservarsi quanto segue.
3.1.- Nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019, l'Avvocatura
generale dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle
questioni sollevate, poiche', anche facendo applicazione del
principio tempus regit actum, il Tribunale di sorveglianza avrebbe
ben potuto esaminare l'istanza del condannato A. B. di affidamento in
prova al servizio sociale in base alla disciplina previgente.
L'eccezione deve ritenersi proposta anche nei giudizi iscritti ai
numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, poiche', nei rispettivi atti di
intervento, l'Avvocatura generale dello Stato ha dichiarato di
richiamare integralmente le eccezioni svolte nel giudizio iscritto al
n. 114 del r.o. 2019.
3.1.1.- In riferimento alle ordinanze iscritte ai numeri 114 e
220 del r.o. 2019, va rilevato che, nei procedimenti a quibus,
l'ordine di esecuzione della pena e' stato emesso - e contestualmente
sospeso, ai sensi rispettivamente dei commi 5 e 10 dell'art. 656 cod.
proc. pen. - anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del
2019; cosi' come prima della vigenza di quest'ultima sono state
proposte da ciascun condannato le istanze di concessione di misure
alternative alla detenzione. In entrambi i giudizi a quibus, pero',
l'udienza per la decisione sull'istanza del condannato si e' svolta
successivamente all'entrata in vigore della predetta legge.
In proposito, occorre osservare che il piu' recente orientamento
della giurisprudenza di legittimita', formatosi proprio sulla base
delle questioni di diritto intertemporale suscitate dalla legge n. 3
del 2019, e' effettivamente nel senso dell'applicabilita' della
disciplina previgente ogniqualvolta l'istanza di concessione di
misure alternative alla detenzione sia stata presentata anteriormente
alla data di entrata in vigore della legge medesima (Corte di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019, n. 25212;
sentenza 28 novembre 2019, n. 48499; sentenza 17 gennaio 2020, n.
1799).
Tuttavia, tenendo conto anche della circostanza che la
giurisprudenza appena citata e' in gran parte successiva alle
ordinanze di rimessione, deve ritenersi non implausibile la
motivazione dei rimettenti circa la rilevanza delle questioni, che
muoveva dal diverso presupposto interpretativo che il discrimen
temporale per l'applicazione della disciplina sopravvenuta fosse
rappresentato dalla data di delibazione dell'istanza da parte del
tribunale di sorveglianza.
Tanto basta per disattendere l'eccezione sollevata
dall'Avvocatura generale dello Stato, «non potendosi procedere, in
questa sede, ad un sindacato (diverso dal controllo esterno) sul
giudizio di rilevanza, espresso dall'ordinanza di rimessione in modo
non implausibile (v. per tutte, sentenza n. 286 del 1997) e con
motivazione tutt'altro che carente (v. ordinanza n. 62 del 1997)»
(sentenza n. 179 del 1999; nello stesso senso, ordinanze n. 104 del
2019 e n. 47 del 2016).
3.1.2.- L'eccezione deve poi ritenersi all'evidenza infondata con
riferimento ai giudizi iscritti ai numeri 193 e 194 del r.o. 2019,
introdotti da giudici dell'esecuzione in seguito all'opposizione
contro altrettanti ordini di esecuzione della pena, emessi
successivamente all'entrata in vigore della disposizione censurata.
3.2.- Sempre nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019,
l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l'inammissibilita'
delle questioni, in quanto miranti a conseguire un intervento
manipolativo della Corte, in assenza di una soluzione
costituzionalmente obbligata. L'eccezione deve intendersi proposta
anche nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019,
stante il rinvio operato negli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri alle eccezioni gia' svolte nel giudizio
iscritto al n. 114 del r.o. 2019.
L'eccezione non e' fondata, per l'assorbente ragione che i
rimettenti sollecitano un intervento additivo della Corte, volto a
ricondurre le modificazioni recate all'art. 4-bis ordin. penit. dalla
disposizione censurata nell'alveo della garanzia di irretroattivita'
di cui, in particolare, all'art. 25, secondo comma, Cost.; soluzione
alla quale conseguirebbe - univocamente, dato il tenore letterale del
precetto costituzionale - l'inapplicabilita' di tali modificazioni ai
condannati per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della
legge che le ha introdotte.
3.3.- Nei giudizi iscritti ai numeri 115, 118 e 119 del r.o. 2019
- originati da incidenti di esecuzione volti a conseguire la
declaratoria di illegittimita' di ordini di esecuzione emessi e non
sospesi - l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per erronea individuazione della
norma censurata. I rimettenti avrebbero infatti denunciato l'art. 1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 (che inserisce i
delitti contro la pubblica amministrazione nel catalogo di cui
all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.) e non, invece, l'art. 656,
comma 9, lettera a), cod. proc. pen. (che stabilisce il divieto di
sospensione dell'ordine di esecuzione in relazione alle condanne per
i reati di cui all'art. 4-bis stesso).
L'eccezione non e' fondata. Dal tenore complessivo delle
ordinanze di rimessione risulta infatti evidente che l'intenzione dei
giudici dell'esecuzione rimettenti e' quella di censurare, per
l'appunto, l'effetto prodottosi sul meccanismo preclusivo di cui
all'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. in conseguenza
dall'ampliamento del catalogo di cui all'art. 4-bis ordin. penit.
D'altra parte, questa Corte ha gia' avuto modo di osservare che
«il comma 9 [dell'art. 656 cod. proc. pen], alla lettera a), prevede
che la sospensione dell'esecuzione non possa essere disposta "nei
confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis della
legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni", sicche',
per effetto del rinvio in essa contenuto, la norma processuale
recepisce automaticamente le variazioni del catalogo dei delitti
indicati nello stesso art. 4-bis (Corte di cassazione, Sezioni unite
penali, sentenza n. 24561 del 2006)», e che «l'art. 656, comma 9,
cod. proc. pen. disciplina unicamente l'attivita' del pubblico
ministero, vincolandone il contenuto in funzione della presunzione di
pericolosita' che concerne i condannati per i delitti compresi nel
catalogo appena citato» (ordinanza n. 166 del 2010).
Puo' allora ritenersi che, cosi' come la sospensione dell'ordine
di esecuzione, di cui all'art. 656, comma 5, cod. proc. pen., e'
istituto di natura «servente» rispetto alla richiesta di misure
alternative alla detenzione (sentenza n. 41 del 2018), allo stesso
modo il divieto di sospensione, di cui al comma 9, lettera a), della
medesima disposizione e' condizionato dalla presunzione di
pericolosita' correlata all'inserimento di un determinato reato nel
catalogo di cui all'art. 4-bis ordin. penit. I giudici rimettenti
sono pertanto chiamati a fare direttamente applicazione anche di
quest'ultima disposizione, cosi' come integrata dall'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, contro cui correttamente essi
rivolgono le proprie censure.
3.4.- Nei giudizi iscritti ai numeri 157, 160, 161, 193, 194 e
220 del r.o. 2019, l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per mancato esperimento di
un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione
censurata.
Nemmeno questa eccezione e' fondata.
I giudici a quibus hanno argomentato che, secondo il diritto
vivente, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene
detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le
modalita' esecutive della stessa, non avrebbero carattere di norme
penali sostanziali e sarebbero pertanto soggette al principio tempus
regit actum: con conseguente loro applicazione anche a fatti di reato
antecedenti alla loro entrata in vigore.
Come meglio si vedra' piu' innanzi, in effetti, la giurisprudenza
di legittimita' e' allo stato univocamente orientata in questo senso
(infra, 4.1.2.).
Alla luce dunque del diritto vivente, la possibilita' di
un'interpretazione costituzionalmente orientata, che attragga
nell'alveo dell'art. 25, secondo comma, Cost. le modificazioni
all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., introdotte dalla disposizione
censurata, e' stata esplorata e consapevolmente scartata dai
rimettenti: il che basta ai fini dell'ammissibilita' della questione
(sentenza n. 189 del 2019).
3.5.- Nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o.
2019, l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per mancata individuazione di una
norma oggetto della questione di legittimita' costituzionale,
asserendo che i rimettenti avrebbero censurato «un mancato intervento
del legislatore».
Nemmeno tale eccezione puo' essere accolta.
I giudici a quibus, infatti, individuano puntualmente la
disposizione censurata, che ha inserito i reati contro la pubblica
amministrazione nel catalogo di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit., invocando su di essa un intervento additivo di questa Corte,
mirante a delimitarne l'ambito temporale di applicazione ai fatti di
reato successivi alla sua entrata in vigore.
3.6.- Nei giudizi iscritti ai numeri 114, 115, 118, 119, 193, 194
e 210 del r.o. 2019, l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni relative alla dedotta lesione del
divieto di retroattivita' della legge penale sfavorevole (art. 25,
secondo comma, Cost.) e del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.),
sul rilievo che analoghe censure sarebbero gia' state respinte da
questa Corte nella sentenza 273 del 2001 e nelle ordinanze n. 108 del
2004 e n. 280 del 2001.
L'eccezione non puo' evidentemente essere accolta, atteso che -
anche ad ammettere che vi sia perfetta coincidenza tra le questioni
ora sollevate e altre gia' decise in passato - nulla vieta a questa
Corte di riconsiderare i propri stessi orientamenti interpretativi.
3.7.- Sia pure in assenza di alcuna specifica eccezione da parte
dell'Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio
iscritto al n. 210 del r.o. 2019 - ove il rimettente denuncia
l'illegittimita' costituzionale dell'immediata applicazione delle
modificazioni recate all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dalla
disposizione censurata, sotto il profilo della sopravvenuta
impossibilita' di concedere il beneficio del permesso premio agli
autori dei delitti di cui agli artt. 317 e 319 cod. pen. che non
collaborino la giustizia - va osservato che non elide la rilevanza
delle questioni ivi prospettate l'intervenuta declaratoria di
illegittimita' costituzionale, operata dalla citata sentenza n. 253
del 2019, dell'art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede
che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi
permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a
norma dell'art. 58-ter ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti
elementi tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo
del ripristino di tali collegamenti.
Nel caso di specie, il rimettente rappresenta infatti di dover
fare applicazione dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in
conseguenza dell'inclusione, con effetto immediato, dei reati
ascritti al condannato M.P. D.G. nel catalogo contemplato da detta
disposizione; laddove, a fronte dell'eventuale accoglimento delle
questioni sollevate, egli dovrebbe valutare la concessione del
permesso premio sulla base dei soli requisiti previsti dall'art.
30-ter ordin. penit. E' pertanto evidente che sarebbe radicalmente
diverso il percorso argomentativo che il giudice a quo dovrebbe
seguire nel vagliare l'istanza del condannato in caso di applicazione
della disciplina risultante dal censurato art. 1, comma 6, lettera
b), della legge n. 3 del 2019, o, viceversa, di quella previgente.
Di qui la persistente rilevanza delle questioni prospettate.
4.- Nel merito, le questioni prospettate dalle ordinanze di
rimessione iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194
e 220 del r.o. 2019 sono fondate con riferimento alla dedotta
violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost.
Il diritto vivente ritiene, invero, che le norme disciplinanti
l'esecuzione della pena siano in radice sottratte al divieto di
applicazione retroattiva che discende dal principio di legalita'
della pena di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.1.).
Plurime e convergenti ragioni inducono, tuttavia, a dubitare
della persistente compatibilita' di tale diritto vivente con i
principi costituzionali (infra, 4.2.).
In esito a una complessiva rimeditazione della tematica, occorre
in effetti concludere nel senso che, di regola, le pene detentive
devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della
loro esecuzione, salvo pero' che tale legge comporti, rispetto al
quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione
della natura della pena e della sua incidenza sulla liberta'
personale. In questa ipotesi, l'applicazione retroattiva di una tale
legge e' incompatibile con l'art. 25, secondo comma, Cost. (infra,
4.3.).
La disposizione in questa sede censurata comporta, per una serie
di reati contro la pubblica amministrazione, una trasformazione della
natura delle pene previste al momento del reato e della loro
incidenza sulla liberta' personale del condannato, quanto agli
effetti spiegati dalla stessa disposizione in relazione alle misure
alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.
Conseguentemente, l'applicazione della disposizione censurata ai
condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in
vigore, quanto agli effetti appena menzionati, viola il divieto di
cui all'art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.4.).
Stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale
delle modifiche in esame, il rimedio appropriato, in risposta alle
questioni sollevate dai rimettenti, e' la dichiarazione di
illegittimita' costituzionale della norma censurata cosi' come
risultante dal diritto vivente (infra, 4.5.).
4.1.- Tutte le ordinanze di rimessione muovono dal comune
presupposto che, secondo il diritto vivente, le modifiche in peius
della disciplina dell'esecuzione della pena in radice non sarebbero
soggette al principio di irretroattivita' della legge penale, di cui
all'art. 25, secondo comma, Cost.
4.1.1.- Un attento esame della giurisprudenza costituzionale in
materia - peraltro tutta piuttosto risalente - restituisce, in
verita', un quadro ricco di sfumature.
Questa Corte e' stata chiamata quasi trent'anni or sono a
misurarsi con la legittimita' costituzionale della retroattivita' di
simili modifiche in peius, in relazione agli effetti retroattivi
prodotti, all'indomani della strage di Capaci, dall'art. 15 del
decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo
codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7
agosto 1992, n. 356. Tale decreto-legge aveva, con riferimento ai
condannati per delitti di criminalita' organizzata e terrorismo, per
la prima volta subordinato la concessione dei benefici penitenziari e
della generalita' delle misure alternative alla detenzione al
presupposto della collaborazione con la giustizia, contestualmente
prevedendo la revoca di tali benefici e misure, pur gia' concessi,
nei confronti dei condannati che non avessero collaborato ai sensi
dell'art. 58-ter ordin. penit.
Per tutti gli anni Novanta, questa Corte non ha risolto il
quesito ora all'esame, giungendo comunque a dichiarazioni di parziale
illegittimita' costituzionale delle disposizioni di volta in volta
censurate sulla base di parametri diversi dall'art. 25, secondo
comma, Cost.
Nell'antesignana sentenza n. 306 del 1993, questa Corte -
investita di plurime questioni aventi a oggetto la legittimita'
costituzionale della revoca di misure alternative gia' concesse -
ritenne non sufficientemente motivata la rilevanza delle questioni
relative alla compatibilita' dell'effetto retroattivo previsto
dall'art. 15, comma 2, del d.l. n. 306 del 1992 con il principio di
legalita' della pena di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., pur
riconoscendo che tale profilo avrebbe potuto «meritare una seria
riflessione». Questa Corte giudico' invece incompatibile con l'art.
27, primo e terzo comma, Cost. la previsione della revoca delle
misure gia' concesse, anche quando non fosse stata accertata la
sussistenza di collegamenti attuali del condannato con la
criminalita' organizzata; e cio' in ragione dell'aspettativa,
legittimamente nutrita dai condannati che avevano gia' ottenuto la
semiliberta', a «veder riconosciuto l'esito positivo del percorso di
risocializzazione gia' compiuto», aspettativa ormai trasformatasi
«nel diritto ad espiare la pena con modalita' idonee a favorire il
completamento di tale processo».
Nella successiva sentenza n. 504 del 1995 questa Corte dichiaro'
illegittimo l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nel testo
risultante dalle modifiche introdotte dal citato art. 15 del d.l. n.
306 del 1992, nella parte in cui precludeva la concessione di
ulteriori permessi premio ai condannati per delitti "ostativi" che
non avessero collaborato con la giustizia, anche quando essi ne
avessero gia' fruito in precedenza e non fosse stata accertata la
sussistenza di collegamenti attuali con la criminalita' organizzata.
La ragione dell'illegittimita' fu, anche in questa occasione,
ravvisata nel contrasto della disciplina censurata con gli artt. 3 e
27 Cost., in considerazione dell'irragionevolezza e incompatibilita'
con la funzione rieducativa della pena di una disciplina che
comportava una sorta di "regressione incolpevole del trattamento"
connesso al beneficio penitenziario in questione.
Analoga ratio e' stata posta a fondamento delle sentenze n. 445
del 1997 e n. 137 del 1999, con le quali l'art. 4-bis ordin. penit.
fu dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva che -
rispettivamente - la semiliberta' e i permessi premio potessero
essere concessi nei confronti dei condannati che, prima della data di
entrata in vigore dell'art. 15, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992,
avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio
richiesto, e per i quali non fosse stata accertata la sussistenza di
collegamenti attuali con la criminalita' organizzata. Principio,
quest'ultimo, che sara' in seguito applicato da questa Corte anche
con riferimento alle modifiche in peius introdotte, per i condannati
recidivi reiterati, dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al
codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione)
(sentenze n. 79 del 2007 e n. 257 del 2006).
In altre occasioni, questa Corte e' pervenuta invece a
dichiarazioni di non fondatezza delle questioni poste dall'entrata in
vigore del medesimo art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, prospettate
sotto lo specifico profilo dell'art. 25, secondo comma, Cost., senza
affermare, in maniera generale, l'estraneita' di tutte le modifiche
in peius della disciplina in materia di esecuzione della pena al
raggio di garanzia offerto dal principio di legalita' della pena.
Nel caso deciso con la sentenza n. 273 del 2001, in particolare,
questa Corte era stata nuovamente sollecitata a chiarire se «il
principio di irretroattivita' della legge penale sia circoscritto
alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi
costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonche' la specie e la
durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito - come
rit[eneva] il giudice a quo - anche alle norme che disciplinano le
modalita' di espiazione della pena detentiva». Il giudice rimettente
aveva sollevato questione di legittimita' costituzionale relativa
alla disciplina che precludeva l'accesso alla liberazione
condizionale ai condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis, comma
1, ordin. penit., commessi prima dell'entrata in vigore del d.l. n.
306 del 1992, i quali non avessero collaborato con la giustizia. Come
anticipato, questa Corte non ha dato una risposta generale al
quesito, osservando che le disposizioni censurate, nell'esigere la
collaborazione con la giustizia quale condizione di accesso alla
liberazione condizionale, non avevano modificato gli elementi
costitutivi di tale istituto, e segnatamente il requisito dell'avere
tenuto il condannato un comportamento tale da farne ritenere sicuro
il ravvedimento. La disciplina censurata si sarebbe piuttosto
limitata a introdurre un criterio legale di valutazione del
requisito, rappresentato appunto dalla collaborazione processuale;
senza, dunque, modificare in senso deteriore per il condannato la
disciplina sostanziale della liberazione condizionale.
La medesima argomentazione compare poi nelle due ordinanze n. 108
del 2004 e n. 280 del 2001, con le quali sono state parimenti
rigettate due questioni relative agli effetti intertemporali di
modifiche apportate all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
4.1.2.- Il quadro della giurisprudenza della Corte di cassazione
e' invece assai netto nel senso della non riconducibilita' all'alveo
dell'art. 25, secondo comma, Cost. delle norme sull'esecuzione della
pena, e conseguentemente nel senso della pacifica applicabilita' di
modifiche normative di segno peggiorativo anche ai condannati che
abbiano commesso il reato prima dell'entrata in vigore delle
modifiche stesse.
Il tradizionale principio secondo cui le disposizioni in parola
non hanno carattere di norme sostanziali e soggiacciono pertanto, in
assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus
regit actum e' stato affermato, in particolare, nel 2006 (Corte di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561),
ed e' poi stato sempre confermato dalla giurisprudenza successiva (ex
multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 18
settembre 2006, n. 30792; sezione prima penale, sentenza 15 luglio
2008, n. 29155; sezione prima penale, sentenza 9 dicembre 2009, n.
46924; sezione seconda penale, sentenza 22 febbraio 2012, n. 6910;
sezione prima penale, sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima
penale, sentenza 18 dicembre 2014, n. 52578; sezione prima penale,
sentenza 9 settembre 2016, n. 37578).
4.1.3.- All'indomani dell'entrata in vigore della legge n. 3 del
2019, il diritto vivente e' stato invero rimesso in discussione da
alcune pronunce di merito, che hanno ritenuto inapplicabile la
disposizione censurata ai fatti di reato pregressi, dal momento che
ad essa si sarebbe dovuta riconoscere natura "sostanzialmente
penale", secondo i noti criteri Engel elaborati dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo, con conseguente sua soggezione al divieto di
retroattivita' sfavorevole di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost.
e 7 CEDU (Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario
di Como, ordinanza 8 marzo 2019; Corte di appello di Reggio Calabria,
sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019; Corte di appello di
Napoli, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019).
La Corte di cassazione ha, tuttavia, sinora unanimemente ribadito
- salvo che in un solo caso di cui si dira' tra breve (infra, 4.2.2.)
- il precedente orientamento espresso dalle Sezioni unite,
concludendo nel senso che le modificazioni apportate all'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit. sono applicabili anche ai fatti di reato
pregressi in virtu' del principio tempus regit actum (Corte di
cassazione, sezione prima penale, sentenze 6 giugno 2019, n. 25212;
26 settembre 2019, n. 39609; 28 novembre 2019, n. 48499; 17 gennaio
2020, n. 1799; nonche' ordinanza 18 luglio 2019, n. 31853, che
proprio sulla base di questo presupposto interpretativo ha sollevato
le questioni di legittimita' costituzionale di cui all'ordinanza
iscritta al n. 141 del r.o. 2019, che questa Corte esaminera' in un
distinto giudizio).
4.2.- Come anticipato, plurime e convergenti ragioni inducono a
dubitare della persistente compatibilita' di tale diritto vivente con
i principi costituzionali.
4.2.1.- In primo luogo, non e' senza significato che, in alcune
occasioni almeno, lo stesso legislatore abbia ritenuto di limitare
espressamente l'applicabilita' di norme incidenti sul regime di
esecuzione della pena soltanto alle condanne pronunciate per fatti
posteriori all'entrata in vigore delle norme medesime.
Cio' e' avvenuto, anzitutto, proprio con il d.l. n. 152 del 1991,
cui si deve l'introduzione dell'art. 4-bis ordin. penit., nella sua
originaria versione. L'art. 4, comma 1, di tale decreto-legge
prevedeva, infatti, che le disposizioni che innalzavano, per i
condannati per i reati di cui alla nuova disposizione, i periodi
minimi di espiazione di pena per l'accesso ai benefici penitenziari
fossero applicabili solo in relazione ai fatti commessi dopo
l'entrata in vigore del decreto-legge stesso.
Analogo accorgimento non fu poi adottato con il d.l. n. 306 del
1992, al quale si deve l'introduzione nell'art. 4-bis, comma 1,
ordin. penit. del meccanismo preclusivo imperniato sulla mancanza di
collaborazione: meccanismo la cui immediata operativita' anche
rispetto ai condannati per fatti pregressi fu, in effetti,
all'origine delle varie questioni di legittimita' costituzionale
poc'anzi ricordate (supra, 4.1.1.), decise da questa Corte sulla base
del principio di non regressione incolpevole del trattamento
penitenziario, dedotto in particolare dall'art. 27, terzo comma,
Cost.
Ma, ancora nel 2002, il legislatore - nell'aggiungere all'elenco
di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti posti in
essere per finalita' di terrorismo, anche internazionale, o di
eversione dell'ordine democratico, nonche' i delitti di cui agli
artt. 600, 601 e 602 cod. pen. - ebbe cura di escludere
l'applicabilita' della modifica normativa ai condannati per tali
titoli delittuosi che avessero commesso il fatto anteriormente alla
sua entrata in vigore (art. 4 della legge 23 dicembre 2002, n. 279,
recante «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio
1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario»).
4.2.2.- Come e' accaduto in talune piu' recenti occasioni, la
legge n. 3 del 2019 non prevede invece alcuna disposizione
transitoria che ne escluda l'applicabilita' ai condannati per fatti
pregressi.
Proprio tale silenzio del legislatore del 2019 ha provocato un
diffuso disagio nella giurisprudenza di merito riguardo alla
sostenibilita' costituzionale e convenzionale della conclusione,
imposta dal diritto vivente, nel senso della sua applicazione anche
ai condannati per fatti pregressi. Cio' si e' manifestato sia nelle
pronunce di merito, di cui si e' poc'anzi dato conto (supra, 4.1.3.),
che hanno direttamente adottato una soluzione difforme; sia nel
grande numero di ordinanze che hanno sollevato, nell'arco di un
brevissimo lasso temporale, le questioni di legittimita'
costituzionale ora in discussione, con le quali si sollecita in
sostanza questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo
quel diritto vivente.
Nella stessa giurisprudenza di legittimita' non mancano,
d'altronde, segnali indicativi del medesimo disagio.
Una sentenza della sezione sesta penale della Corte di
cassazione, in particolare, ha prospettato dubbi di legittimita'
costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria
da parte della disposizione in questa sede censurata, pur ritenendo
di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza
nel caso di specie. La Corte di cassazione ha osservato, in
proposito, che l'orientamento consolidato della giurisprudenza di
legittimita' circa il carattere processuale delle norme
dell'ordinamento penitenziario andrebbe oggi rimeditato, anche alla
luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte
EDU, si' da garantire l'effettiva prevedibilita' delle conseguenze
sanzionatorie: «l'avere il legislatore cambiato in itinere le "carte
in tavola" senza prevedere alcuna norma transitoria» presenterebbe
«tratti di dubbia conformita' con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art.
117 Cost., la' dove si traduce [...] nel passaggio - "a sorpresa" e
dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza assaggio
di pena" ad una sanzione con necessaria incarcerazione» (Corte di
cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14 marzo 2019, n. 12541).
4.2.3.- Tutte le ordinanze di rimessione valorizzano, in effetti,
i recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte EDU
sull'estensione della garanzia dell'art. 7 CEDU, con riferimento
almeno a talune modifiche in peius del regime dell'esecuzione delle
pene; recenti sviluppi che l'ordinamento italiano non puo' del resto
ignorare.
Al riguardo, va premesso che, sino a poco piu' di un decennio fa,
la Corte di Strasburgo aveva sostenuto una tesi sovrapponibile a
quella della giurisprudenza italiana, negando in particolare che le
modifiche alla disciplina dell'esecuzione della pena chiamassero in
causa la garanzia dell'art. 7 CEDU (Corte EDU, sentenza 29 novembre
2005, Uttley contro Regno Unito; nello stesso senso, Commissione dei
diritti dell'uomo, decisione 3 marzo 1986, Hogben contro Regno
Unito).
Una prima, significativa correzione di rotta risale al 2008, in
relazione a un caso in cui il ricorrente aveva commesso il reato in
un'epoca in cui la pena dell'ergastolo, in forza dell'allora vigente
normativa penitenziaria nazionale, consentiva l'accesso del
condannato alla liberazione condizionale, in caso di buona condotta,
dopo vent'anni di detenzione. In seguito alla modifica di tale
normativa, la prospettiva di una liberazione condizionale era
sostanzialmente venuta meno, con conseguente trasformazione
dell'ergastolo in una detenzione, effettivamente, a vita. La Corte
EDU ha giudicato qui insussistente l'allegata violazione del divieto
di retroattivita' delle pene, sottolineando che il novum normativo
non aveva modificato la pena - l'ergastolo - inflitta sulla base
della legge vigente al momento del fatto; nondimeno ha ritenuto
violato l'art. 7 CEDU, censurando l'insufficiente chiarezza della
legge penale al momento del fatto, e dunque l'imprevedibilita' delle
conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione del precetto
(Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008, Kafkaris contro
Cipro).
Ma la pronuncia piu' significativa della Corte EDU - invocata non
a caso da tutte le ordinanze di rimessione - e', in questo contesto,
la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro Spagna, decisa
nel 2013. La Grande Camera - sia pure con riferimento a un caso non
sovrapponibile a quelli dai quali le odierne questioni sono originate
- ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme
sull'esecuzione della pena non sono soggette al divieto di
applicazione retroattiva di cui all'art. 7 CEDU, eccezion fatta -
pero' - per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione
della portata applicativa della "pena" imposta dal giudice».
Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero liberi -
ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti
esistenti - di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la
portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l'interessato.
Ove il divieto di retroattivita' non operasse in tali ipotesi -
conclude la Corte - l'art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto
utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene
inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla
commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre
2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).
4.2.4.- Le conclusioni cui e' recentemente pervenuta la Corte EDU
trovano significative conferme nella giurisprudenza di altre corti e
nella legislazione di altri Paesi.
Secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti, il generale divieto
di "ex post facto laws" sancito dalla Costituzione americana si
applica anche alle modifiche delle norme in materia di esecuzione
della pena che producano l'effetto pratico di prolungare la
detenzione del condannato, modificando il quantum della pena e
operando cosi' come una legge retroattiva sfavorevole, in quanto tale
non applicabile al condannato (Weaver v. Graham, 450 U.S. 24, 33
(1981); Lynce v. Mathis, 519 U.S. 433 (1997). Nel senso, peraltro,
che la garanzia dell'irretroattivita' opera solo allorche' il
ricorrente sia in grado di dimostrare che la modifica legislativa
sopravvenuta crei un "sufficiente rischio" di incrementare la durata
della sua detenzione rispetto alla disciplina vigente al momento
della commissione del fatto, California Department of Corrections v.
Morales, 514 U.S. 499 (1995); Garner v. Jones, 529 U.S. 244 (2000)).
Principi analoghi sono riconosciuti nell'ordinamento francese,
quanto meno a livello di legislazione ordinaria, dall'art. 112-2 del
codice penale. Tale norma dispone in via generale l'immediata
applicabilita', in vista della repressione anche dei reati commessi
anteriormente alla loro entrata in vigore, delle leggi modificatrici
del diritto processuale penale e della prescrizione del reato o della
pena, nonche' delle leggi relative al «regime di esecuzione e
dell'applicazione delle pene»: eccezion fatta pero', in riferimento a
queste ultime, per «quelle che abbiano l'effetto di rendere piu'
severe le pene inflitte con la sentenza di condanna», le quali sono
espressamente dichiarate «applicabili soltanto alle condanne
pronunciate per fatti commessi posteriormente alla loro entrata in
vigore».
4.2.5.- Alcune ordinanze di rimessione (in particolare, quelle
iscritte ai numeri 160 e 161 del r.o. 2019) e, soprattutto, le difese
delle parti private hanno infine posto l'accento - come gia' la
citata sentenza della Corte di cassazione n. 12541 del 2019 - sugli
effetti distorsivi prodotti sulle scelte difensive degli imputati dal
mutamento, nel corso delle indagini e poi del processo, del quadro
normativo sull'esecuzione della pena; con il conseguente profilarsi,
altresi', di possibili lesioni dell'art. 24 Cost.
Un tale rilievo e', in verita', di intuitiva evidenza.
L'imputato, ad esempio, puo' determinarsi a rinunciare al proprio
"diritto di difendersi provando" e concordare invece con il pubblico
ministero una pena contenuta entro una misura che lo candidi sin da
subito a ottenere una misura alternativa alla detenzione, confidando
comunque nella garanzia di non dover "passare per il carcere" grazie
al meccanismo sospensivo di cui all'art. 656, comma 5, cod. proc.
pen.; ovvero decidere, all'opposto, di affrontare il dibattimento,
confidando nella prospettiva che la pena che gli verra' inflitta,
anche in caso di condanna, non comportera' verosimilmente il suo
ingresso in carcere, per effetto di una misura alternativa che egli
abbia una ragionevole aspettativa di ottenere in base alla normativa
in vigore al momento del fatto.
Una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in
corso, della normativa in materia penitenziaria, e' suscettibile di
frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali
scelte difensive, esponendo l'imputato a conseguenze sanzionatorie
affatto impreviste e imprevedibili al momento dell'esercizio di una
scelta processuale, i cui effetti sono pero' irrevocabili (per
analoghi rilievi, si vedano anche la gia' citate sentenze della Corte
Suprema degli Stati Uniti, Weaver v. Graham, 32, e Lynce v. Mathis,
445, nonche' Corte Suprema del Canada, R. v. K.R.J., [2016] 1 SCR
906, 926, paragrafo 25, in un caso che concerneva l'applicazione
retroattiva di misure interdittive aggiuntive alla pena detentiva a
carico di chi fosse stato condannato per abusi sessuali).
4.3.- Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, questa
Corte ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione
della portata del divieto di retroattivita' sancito dall'art. 25,
secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell'esecuzione
della pena.
4.3.1.- Come e' noto, dall'art. 25, secondo comma, Cost. discende
pacificamente tanto il divieto di applicazione retroattiva di una
legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante,
quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda
una pena piu' severa per un fatto gia' in precedenza incriminato (da
ultimo, sentenza n. 223 del 2018); divieto, quest'ultimo, che trova
esplicita menzione nell'art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU,
nell'art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale
sui diritti civili e politici, nonche' nell'art. 49, paragrafo 1,
seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE).
La ratio di tale divieto e' almeno duplice.
Per un verso, il divieto in parola mira a garantire al
destinatario della norma una ragionevole prevedibilita' delle
conseguenze cui si esporra' trasgredendo il precetto penale. E cio'
sia per garantirgli - in linea generale - la «certezza di libere
scelte d'azione» (sentenza n. 364 del 1988); sia per consentirgli poi
- nell'ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo
carico - di compiere scelte difensive, con l'assistenza del proprio
avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari
sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna
(supra, 4.2.5.).
Ma una seconda ratio, altrettanto cruciale, non puo' essere
trascurata. Come gia' acutamente colse una celebre decisione della
Corte Suprema statunitense a qualche anno appena di distanza dalla
proclamazione del divieto di "ex post facto laws" nella Costituzione
federale, il divieto in parola erige un bastione a garanzia
dell'individuo contro possibili abusi da parte del potere
legislativo, da sempre tentato di stabilire o aggravare ex post pene
per fatti gia' compiuti. Quel divieto - scriveva nel 1798 la Corte
Suprema - deriva con ogni probabilita' dalla consapevolezza dei padri
costituenti che il Parlamento della Gran Bretagna aveva spesso
rivendicato, e in concreto utilizzato, il potere di stabilire, a
carico di chi avesse gia' compiuto determinate condotte ritenute di
particolare gravita' per la salus rei publicae, pene che non erano
previste al momento del fatto, o che erano piu' gravi di quelle sino
ad allora stabilite. Ma quelle leggi, osservava la Corte, in realta'
«erano sentenze in forma di legge»: null'altro, cioe', che
«l'esercizio di potere giudiziario» da parte di un Parlamento
animato, in realta', da intenti vendicativi contro i propri avversari
(Corte Suprema degli Stati Uniti, Calder v. Bull, 3 U.S. 386, 389
(1798)).
Il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al
momento del fatto, o anche solo piu' gravi di quelle allora previste,
opera in definitiva come uno dei limiti al legittimo esercizio del
potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di "stato di
diritto". Un concetto, quest'ultimo, che evoca immediatamente la
soggezione dello stesso potere a una "legge" pensata per regolare
casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente
avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potra'
comportare.
4.3.2.- Occorre allora verificare se e in che misura tali
fondamentali rationes debbano essere estese anche alle norme che,
lasciando inalterati tipologia e quantum delle pene previste per il
reato, ne modifichino tuttavia le modalita' esecutive.
Al riguardo, non v'e' dubbio che vi siano ragioni assai solide a
fondamento della soluzione, sinora consacrata dal diritto vivente,
secondo la quale le pene devono essere eseguite - di regola - in base
alla legge in vigore al momento dell'esecuzione, e non in base a
quella in vigore al tempo della commissione del reato.
In primo luogo, dal momento che l'esecuzione delle pene detentive
e' un fenomeno che si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole
distanza dal fatto di reato, non puo' non riconoscersi che nel tempo
inevitabilmente muta il contesto, fattuale e normativo, nel quale
l'amministrazione penitenziaria si trova a operare. Da cio' deriva la
necessita' di fisiologici assestamenti della disciplina normativa,
chiamata a reagire continuamente a tali mutamenti. Ove il regime di
esecuzione delle pene detentive dovesse restare cristallizzato alla
disciplina vigente al momento del fatto, ad esempio, non potrebbero
essere applicate a chi avesse commesso un omicidio negli anni Ottanta
o Novanta le restrizioni all'uso dei telefoni cellulari o di internet
oggi previste dall'ordinamento penitenziario.
In secondo luogo, le (fisiologicamente mutevoli) regole
trattamentali sono basate esse stesse su complessi bilanciamenti tra
i delicati interessi in gioco - ex multis: la tutela dei diritti
fondamentali dei condannati, ma anche il controllo della residua
pericolosita' criminale del detenuto all'interno e all'esterno del
carcere, in un quadro di limitatezza complessiva delle risorse a
disposizione -; bilanciamenti i cui esiti mal si prestano a essere
ricondotti alla logica binaria della soluzione "piu' favorevole" o
"piu' sfavorevole" per il singolo condannato, con la quale e' pero'
costretto ad operare il divieto di applicazione retroattiva della
legge penale. Si pensi a una eventuale riduzione delle "ore d'aria",
a fronte pero' di maggiori opportunita' di lavoro extramurario.
Ma soprattutto, un rigido e generale divieto di applicazione
retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa
all'esecuzione della pena o delle misure alternative alla detenzione
che dovesse essere ritenuta in concreto deteriore per il condannato
finirebbe per creare, all'interno del medesimo istituto
penitenziario, una pluralita' di regimi esecutivi paralleli, ciascuno
legato alla data del commesso reato. Cio' che creerebbe non solo
gravi difficolta' di gestione per l'amministrazione, ma anche
differenze di trattamento tra i detenuti; con tutte le intuibili
conseguenze sul piano del mantenimento dell'ordine all'interno degli
istituti, che e' esso pure condizione essenziale per un efficace
dispiegarsi della funzione rieducativa della pena.
4.3.3.- La regola appena enunciata deve, pero', soffrire
un'eccezione allorche' la normativa sopravvenuta non comporti mere
modifiche delle modalita' esecutive della pena prevista dalla legge
al momento del reato, bensi' una trasformazione della natura della
pena, e della sua concreta incidenza sulla liberta' personale del
condannato.
In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni
effetto pratico, l'applicazione di una pena che e' sostanzialmente un
aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con
conseguente piena operativita' delle rationes, poc'anzi rammentate,
che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle
leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il
reato.
Cio' si verifica, paradigmaticamente, allorche' al momento del
fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita "fuori"
dal carcere, la quale - per effetto di una modifica normativa
sopravvenuta al fatto - divenga una pena che, pur non mutando
formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma "dentro" il
carcere. Tra il "fuori" e il "dentro" la differenza e' radicale:
qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare
diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto;
con conseguente inammissibilita' di un'applicazione retroattiva di
una tale modifica normativa, al metro dell'art. 25, secondo comma,
Cost.
E cio' vale anche laddove la differenza tra il "fuori" e il
"dentro" si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative,
rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al
momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione
allora vigente, e quella che e' invece ragionevole attendersi sulla
base del mutato quadro normativo. Proprio la giurisprudenza
statunitense cui si e' fatto poc'anzi riferimento (supra, 4.2.4.)
mostra non a caso come - ai fini della verifica del carattere
deteriore della modifica normativa sulla concreta vicenda esecutiva -
non possa prescindersi da una valutazione prognostica circa la
creazione, da parte della legge sopravvenuta, di un serio rischio che
il condannato possa essere assoggettato a un trattamento piu' severo
di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento del fatto,
in termini di minore probabilita' di accesso a modalita' extramurarie
di esecuzione della sanzione (come il parole negli Stati Uniti, o le
misure alternative alla detenzione nell'ordinamento italiano).
4.4.- Occorre a questo punto verificare in che misura gli esiti
della complessiva rimeditazione sin qui compiuta incidano sulle
questioni di legittimita' costituzionale ora all'esame.
La disposizione censurata inserisce la maggior parte dei reati
contro la pubblica amministrazione nell'elenco previsto dall'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit., determinando con cio' le conseguenze
deteriori sulla complessiva vicenda esecutiva a carico dei condannati
per tali reati, che si sono a tempo debito illustrate (supra, 2.).
V'e' dunque da stabilire se e in che misura tali conseguenze
deteriori possano essere legittimamente applicate - al metro dei
principi appena enunciati - a chi sia stato condannato per fatti
commessi prima dell'entrata in vigore della disposizione medesima.
4.4.1.- Questa Corte ritiene che l'art. 25, secondo comma, Cost.
non si opponga a un'applicazione retroattiva delle modifiche
derivanti dalla disposizione censurata alla disciplina dei meri
benefici penitenziari, e in particolare dei permessi premio e del
lavoro all'esterno.
Per quanto, infatti, non possa disconoscersi il significativo
impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittivita' della
pena per il singolo condannato, non pare a questa Corte che modifiche
normative che si limitino a rendere piu' gravose le condizioni di
accesso ai benefici medesimi determinino una trasformazione della
natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento
del fatto e inflitta, si' da chiamare in causa la garanzia
costituzionale in parola.
Il condannato che fruisca di un permesso premio, o che sia
ammesso al lavoro all'esterno del carcere, continua in effetti a
scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione
"intramuraria". Egli resta in linea di principio "dentro" il carcere,
continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza
l'istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoche' ogni aspetto
della vita del detenuto.
D'altra parte, proprio perche' i condannati ammessi
periodicamente a godere di permessi premio e/o a svolgere lavoro
all'esterno ai sensi dell'art. 21 ordin. penit. restano detenuti che
scontano la pena detentiva loro inflitta dal giudice della
cognizione, non puo' non valere nei loro confronti l'esigenza, gia'
segnalata (supra, 4.3.2.), di evitare disparita' di trattamento,
all'interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto
dal tempo del commesso reato: disparita' che sarebbero di assai
problematica gestione da parte dell'amministrazione penitenziaria, e
che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalita'
dei detenuti.
4.4.2. - La conclusione opposta si impone, invece, in relazione
agli effetti prodotti dalla disposizione censurata sul regime di
accesso alle misure alternative alla detenzione disciplinate dal
Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, e in particolare
all'affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione
domiciliare nelle sue varie forme e alla semiliberta'.
Si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla
qualita' e quantita' della pena [...] e che per cio' stesso
modificano il grado di privazione della liberta' personale imposto al
detenuto» (sentenza n. 349 del 1993), finendo anzi per costituire
delle vere e proprie "pene" alternative alla detenzione (ordinanza n.
327 del 1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e
caratterizzate non solo da una portata limitativa della liberta'
personale del condannato assai piu' contenuta, ma anche da
un'accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del
tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva.
Cio' e' stato anche di recente ribadito da questa Corte con
riferimento sia all'affidamento in prova al servizio sociale per i
condannati adulti, definito quale «strumento di espiazione della
pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo,
meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso
sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l'esito positivo
dell'affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro
effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)» (sentenza n. 68
del 2019); sia alla detenzione domiciliare, che costituisce anch'essa
«"non una misura alternativa alla pena", ma una pena "alternativa
alla detenzione"», caratterizzata da prescrizioni meramente
«limitative della liberta', sotto la vigilanza del magistrato di
sorveglianza e con l'intervento del servizio sociale» (sentenza n. 99
del 2019, con richiamo alla gia' citata ordinanza n. 327 del 1989).
Tali considerazioni valgono anche rispetto alla semiliberta', ove
l'obbligo di trascorrere una parte della giornata - e quanto meno le
ore notturne - all'interno dell'istituto penitenziario (ma, di
regola, in sezioni autonome: art. 48, comma 2, ordin. penit.) si
accompagna al godimento di spazi di liberta' assai significativi, al
di fuori della fitta rete di prescrizioni che normalmente corredano
la concessione di meri benefici extramurari.
4.4.3.- La medesima conclusione si impone - in forza del rinvio
"mobile" (sentenza n. 39 del 1994) di cui all'art. 2 del d.l. n. 152
del 1991 - per cio' che concerne la liberazione condizionale:
istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 cod. pen., ma
funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione,
essendo anch'esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento
del condannato nella societa', attraverso la concessione di uno
sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario,
«tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo
ravvedimento».
La subordinazione anche della liberazione condizionale alla
collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta per
il condannato per delitti contro la pubblica amministrazione
l'evidente rischio di un significativo prolungamento del periodo da
trascorrere in carcere, rispetto alle prospettive che gli si
presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto; con
conseguente incompatibilita' con l'art. 25, secondo comma, Cost.
dell'applicazione retroattiva della preclusione di cui all'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit. anche rispetto alla liberazione
condizionale.
4.4.4.- Identica conclusione va tratta, infine, quanto
all'effetto riflesso spiegato dalla disposizione censurata in
relazione al divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena di cui all'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.
A tale conclusione non e' di ostacolo la collocazione di tale
ultima disposizione nel codice di procedura penale, da cui la
giurisprudenza sinora unanime (per tutte, Corte di cassazione,
sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) ha dedotto la sua
sottoposizione al generale principio tempus regit actum.
Infatti, la collocazione topografica di una disposizione non puo'
mai essere considerata decisiva ai fini dell'individuazione dello
statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile. In plurime
occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha, d'altronde, gia'
esteso le garanzie discendenti dall'art. 25, secondo comma, Cost. a
norme non qualificate formalmente come penali dal legislatore
(sentenze n. 63 del 2019, n. 223 del 2018, n. 68 del 2017 e n. 196
del 2010; ordinanza n. 117 del 2019).
Tale principio non puo' non valere anche rispetto alle norme
collocate nel codice di procedura penale, allorche' incidano
direttamente sulla qualita' e quantita' della pena in concreto
applicabile al condannato.
Non v'e' dubbio che l'art. 656, comma 9, cod. proc. pen. - nel
vietare la sospensione dell'ordine di esecuzione della pena in una
serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione,
relativa alla condanna per un reato di cui all'art. 4-bis, ordin.
penit. - produce l'effetto di determinare l'inizio dell'esecuzione
della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da
parte del tribunale di sorveglianza sull'eventuale istanza di
ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte
almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziche'
con le modalita' extramurarie che erano consentite - per l'intera
durata della pena inflitta - sulla base della legge vigente al
momento della commissione del fatto.
Tanto basta per riconoscere alla disposizione in questione un
effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta
incidenza sulla liberta' personale, rispetto al quadro normativo
vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilita',
ai sensi dell'art. 25, secondo comma, Cost. alle condanne per reati
commessi anteriormente all'entrata in vigore della novella
legislativa, che ne ha indirettamente modificato l'ambito
applicativo, tramite l'inserimento di numerosi reati contro la
pubblica amministrazione nell'elenco di cui all'art. 4-bis ordin.
penit.
4.4.5.- Per le ragioni gia' anticipate (supra, 4.3.4.), non
varrebbe a inficiare le conclusioni appena raggiunte l'obiezione
secondo cui la prospettiva - per il condannato - di vedersi applicare
una misura alternativa, sulla base della legge in vigore al momento
del fatto, sarebbe stata meramente ipotetica ed eventuale.
La valutazione circa il carattere deteriore della disciplina
sopravvenuta non puo', infatti, che essere condotta secondo criteri
di rilevante probabilita': e cio' con riferimento tanto ai benefici
accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente,
quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall'entrata in vigore
della nuova disciplina.
Sotto il primo profilo, e' evidente che - in linea generale, e
salve le peculiarita' di ogni singolo caso - nei confronti dei
condannati per reati contro la pubblica amministrazione sussisteva
una rilevante probabilita', sulla base della disciplina previgente,
di accedere a misure alternative alla pena detentiva, laddove i
relativi limiti di pena ancora da scontare o i rispettivi requisiti
anagrafici (per cio' che concerne la detenzione domiciliare di cui
all'art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) lo permettessero. Un tale
assunto e', se non altro, dimostrato dallo stesso elevato numero
delle ordinanze di rimessione, che argomentano la rilevanza delle
questioni proprio muovendo da un giudizio di meritevolezza rispetto
al beneficio del singolo condannato sulla base della previgente
disciplina.
Sotto il secondo profilo, non puo' negarsi, per converso, che la
normativa sopravvenuta - oltre a precludere in via assoluta l'accesso
a taluni benefici, come la detenzione domiciliare per i condannati
ultrasettantenni (cio' che basterebbe, invero, a dimostrarne per
tabulas il carattere necessariamente deteriore) - rende
significativamente meno probabile la concessione degli stessi, anche
in considerazione delle incertezze, ancora non affrontate dalla
giurisprudenza, sulla precisa estensione dell'obbligo collaborativo
in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione e,
segnatamente, se esso debba intendersi come limitato al singolo fatto
di reato per il quale e' stata pronunciata condanna, ovvero se si
estenda a tutti i reati ad esso in qualche modo connessi, e dei quali
l'autorita' giudiziaria ritenga che il condannato sia comunque a
conoscenza.
4.5.- Come gia' evidenziato, il censurato art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, cosi' come scritto dal
legislatore, nulla prevede in relazione alla sua applicazione nel
tempo, ne' dispone la sua applicazione alle condanne per reati
commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge. In
contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost. - sotto i profili
denunciati dalle ordinanze di rimessione in questa sede esaminate -
e' la norma risultante dal diritto vivente, a tenore della quale le
modifiche introdotte con la disposizione censurata sarebbero
applicabili anche retroattivamente.
Al fine di porre rimedio a tale violazione, non puo' pero'
accogliersi la richiesta, formulata in udienza dall'Avvocatura
generale dello Stato, di una sentenza interpretativa di rigetto, che
dichiari non fondate le questioni "nei sensi di cui in motivazione".
L'indubbia esistenza di un diritto vivente in senso contrario (supra,
4.1.) - diritto vivente dal quale muovono, del resto, le stesse
ordinanze di rimessione - esclude la praticabilita' di una simile
opzione, e impone a questa Corte di pronunciare una sentenza di
accoglimento delle questioni prospettate (ex plurimis, sentenza n.
299 del 2005).
Conseguentemente, va dichiarata l'illegittimita' costituzionale,
per contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost., dell'art. 1, comma
6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel
senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1, della
legge n. 354 del 1975, si applichino anche ai condannati che abbiano
commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della legge n.
3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative
alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354
del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e
177 cod. pen. e della sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena prevista dall'art. 656, comma 9, lettera a), del codice di
procedura penale.
Restano assorbiti i profili di ammissibilita' e di merito di
tutte le ulteriori censure prospettate in riferimento ad altri
parametri costituzionali.
5.- Come gia' chiarito (supra, 4.4.1.), questa Corte non ritiene,
invece, che l'art. 25, secondo comma, Cost. vieti l'applicazione
retroattiva di modifiche normative che incidano in senso deteriore
per il condannato quanto alla disciplina di meri benefici
penitenziari, come - segnatamente - i permessi premio e il lavoro
all'esterno.
Cio' non significa, peraltro, che al legislatore sia consentito
disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal
condannato che abbia gia' raggiunto, in concreto, un grado di
rieducazione adeguato alla concessione del beneficio. Cio' si
porrebbe in contrasto - se non con l'art. 25, secondo comma, Cost. -
con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena
(artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), secondo i principi sviluppati
dalla giurisprudenza di questa Corte sin dagli anni Novanta del
secolo scorso (supra, 4.1.1.).
Un simile vulnus si e' in effetti verificato nel caso oggetto del
procedimento a quo cui si riferisce l'ordinanza del Tribunale di
sorveglianza di Potenza, iscritta al n. 210 del r.o. 2019 (Ritenuto
in fatto, 10.), relativa alla vicenda di un condannato che sta
espiando la propria pena detentiva, e che - secondo quanto esposto
dal rimettente - alla data di entrata in vigore della legge n. 3 del
2019 aveva gia' maturato, in base alla disciplina previgente, i
requisiti per la concessione del permesso premio.
Negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la
concessione del beneficio equivarrebbe a disconoscere la funzione
pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019),
quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento
nella societa', in vista dell'eventuale concessione di misure
alternative alla detenzione, in assenza di gravi comportamenti che
dimostrino la non meritevolezza del beneficio nel caso concreto
(sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 137 del
1999 e n. 445 del 1997).
L'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 deve,
pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per
contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in
cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere
concesso ai condannati per uno dei reati ivi elencati che, prima
dell'entrata in vigore della legge medesima, abbiano raggiunto un
grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso, restando
assorbiti i profili di ammissibilita' e di merito di tutte le
ulteriori censure proposte dal rimettente.
6.- L'accoglimento delle questioni prospettate dalle ordinanze
iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194 e 220 del
r.o. 2019 in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost. rende
infine priva di oggetto - e per tale ragione inammissibile - la
questione di legittimita' costituzionale iscritta al n. 157 del r.o.
2019, avente identico petitum, sollevata dal Tribunale di
sorveglianza di Taranto in riferimento al solo art. 3 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di
prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e
movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le
modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta') si
applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto
anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in
riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione
previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della
liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice
penale e del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione
previsto dall'art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura
penale;
2) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede
che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai
condannati che, prima dell'entrata in vigore della medesima legge,
abbiano gia' raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione
adeguato alla concessione del beneficio stesso;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal
Tribunale di sorveglianza di Taranto con l'ordinanza indicata in
epigrafe (r.o. n. 157 del 2019).
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Francesco VIGANO', Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della
legge n. 354 del 1975 introdotte dalla legge c.d. "spazzacorrotti"
- Inserimento di determinati reati contro la pubblica
amministrazione nell'elenco dei reati ostativi alla concessione
delle misure alternative alla detenzione previste dalla legge n.
354 del 1975, della liberazione condizionale e della sospensione
dell'ordine di esecuzione - Applicabilita', secondo il diritto
vivente, anche ai condannati che abbiano commesso il fatto
anteriormente all'entrata in vigore della novella - Violazione del
divieto di retroattivita' della legge penale sfavorevole -
Illegittimita' costituzionale della norma censurata, come
interpretata dal diritto vivente.
Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della
legge n. 354 del 1975 introdotte dalla legge c.d. "spazzacorrotti"
- Inserimento di determinati reati contro la pubblica
amministrazione nell'elenco dei reati ostativi alla concessione del
beneficio del permesso premio - Inapplicabilita' ai condannati che,
prima dell'entrata in vigore della novella, abbiano gia' raggiunto,
in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del
beneficio stesso - Omessa previsione - Irragionevole disparita' di
trattamento e violazione della finalita' rieducativa della pena -
Illegittimita' costituzionale in parte qua.
- Legge 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 6, lettera b),
modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975,
n. 354.
- Costituzione, artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27,
terzo comma, (111) e 117, primo comma; Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,
art. 7.
(GU n.10 del 4-3-2020 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Marta CARTABIA;
Giudici :Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano
PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di
prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e
movimenti politici), modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
promossi dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con ordinanza
dell'8 aprile 2019, dalla Corte d'appello di Lecce con ordinanza del
4 aprile 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
ordinario di Cagliari con ordinanza del 10 giugno 2019, dal Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli con
ordinanza del 2 aprile 2019, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto
con ordinanza del 7 giugno 2019, dal Tribunale ordinario di Brindisi
con due ordinanze del 30 aprile 2019, dal Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale ordinario di Caltanissetta con due
ordinanze del 16 luglio 2019, dal Tribunale di sorveglianza di
Potenza con ordinanza del 31 luglio 2019 e dal Tribunale di
sorveglianza di Salerno con ordinanza del 12 giugno 2019,
rispettivamente iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 157, 160, 161,
193, 194, 210 e 220 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 34, 35, 36, 41, 42, 46, 48
e 50, prima serie speciale, dell'anno 2019.
Visti gli atti di costituzione di A. B., R.B. L. e A. B., nonche'
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'11 febbraio 2020 e nella camera
di consiglio del 12 febbraio 2020 il Giudice relatore Francesco
Vigano';
uditi gli avvocati Tommaso Bortoluzzi e Vittorio Manes per A. B.,
Amilcare Tana e Gian Domenico Caiazza per R.B. L., Ladislao Massari
per A. B. e l'avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il
Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza dell'8 aprile 2019 (r.o. n. 114 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato - in riferimento
agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU) - questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9
gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la
pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del
reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici),
«nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis, comma 1, della legge
26 luglio 1975, n. 354, si applica anche in relazione ai delitti di
cui agli artt. 318, 319, 319-quater e 321 c.p., commessi
anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge».
Il rimettente e' investito di un'istanza di affidamento in prova
al servizio sociale presentata da A. B. - allo stato, libero per
sospensione dell'ordine di esecuzione della pena, avvenuta ai sensi
dell'art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, prima
dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 - condannato dalla
Corte d'appello di Venezia, con sentenza del 12 novembre 2015
(irrevocabile il 12 ottobre 2017), alla pena di tre anni di
reclusione per i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 318, 319,
319-quater e 321 del codice penale, commessi dal 2002 al 2011 (pena
residua da espiare pari a due anni, tre mesi e dodici giorni di
reclusione).
1.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo osserva che, per effetto dell'entrata in vigore della norma
censurata, i reati ascritti ad A. B. sono stati inclusi nel catalogo
di cui all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta'), con la conseguenza che, in
relazione agli stessi, la concessione dei benefici penitenziari e
delle misure alternative alla detenzione e' ora subordinata alla
collaborazione del condannato con la giustizia, ai sensi dell'art.
58-ter ordin. penit. e dell'art. 323-bis cod. pen., oppure alla
impossibilita' o irrilevanza della collaborazione medesima (art.
4-bis, comma 1-bis, ordin. penit.). Requisiti, questi ultimi, che non
possono dirsi realizzati da A. B.
La gia' intervenuta sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena, ai sensi dell'art. 656, comma 5, cod. proc. pen., non varrebbe
a sottrarre la fattispecie all'ambito applicativo di azione della
novella recata dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, atteso che l'istanza di concessione delle misure alternative
alla detenzione avrebbe introdotto una distinta fase del procedimento
esecutivo, in cui il tribunale di sorveglianza sarebbe chiamato ad
applicare anche le modifiche normative sopravvenute rispetto al
momento della sospensione dell'esecuzione (e' citata Corte di
Cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 dicembre 2014, n.
52578).
Non potrebbe evocarsi - al fine di escludere l'applicabilita'
della disciplina introdotta dalla legge n. 3 del 2019 - il principio
di matrice costituzionale che, a fronte di sopravvenute modifiche di
segno restrittivo dei presupposti per la concessione dei benefici
penitenziari, salvaguarda la gia' realizzata progressione
trattamentale del condannato, vietando «l'immotivata regressione»
nella fruizione dei benefici stessi (sono citate le sentenze n. 149
del 2018, n. 257 e n. 255 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del
1995). Nel caso di specie, infatti, A. B. si trova in stato di
liberta' e non sussistono elementi per formulare una positiva
valutazione circa i progressi trattamentali dell'interessato.
In definitiva, la concessione ad A. B. della misura
dell'affidamento in prova al servizio sociale risulterebbe preclusa,
in conseguenza dell'attuale formulazione dell'art. 4-bis, comma 1,
ordin. penit., come modificato dalla legge n. 3 del 2019; e cio'
benche' le risultanze istruttorie offrano elementi che
consentirebbero, nel merito, di addivenire a una pronuncia favorevole
all'interessato, in considerazione della regolare condotta serbata in
regime cautelare, del principio di risarcimento del danno effettuato,
della positiva situazione socio-familiare e lavorativa. Donde, la
rilevanza delle questioni sollevate.
1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
premette che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza
di legittimita', le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene
detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le
modalita' esecutive della stessa, non avrebbero carattere di norme
penali sostanziali e soggiacerebbero pertanto, in assenza di
specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum e
non alle regole dettate dagli artt. 25 Cost. e 2 cod. pen. in tema di
successione di norme penali del tempo, con conseguente immediata
applicabilita' a tutti i rapporti esecutivi non ancora esauriti di
eventuali modifiche normative di segno peggiorativo (sono citate
Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006,
n. 24561; sezione prima penale, sentenza 20 luglio 2006, n. 25113;
sezione prima penale, sentenza 1° settembre 2006, n. 29508; sezione
prima penale, sentenza 4 ottobre 2006, n. 33062; sezione prima
penale, sentenza 3 dicembre 2009, n. 46649; sezione prima penale,
sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima penale, sentenza 18
dicembre 2014, n. 52578; sezione prima penale, sentenza 27 aprile
2018, n. 18496). In ragione di tale consolidata giurisprudenza, non
sarebbe praticabile - diversamente da quanto ritenuto da un'ordinanza
dell'8 marzo 2019 del Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale ordinario di Como - un'interpretazione costituzionalmente
orientata del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3
del 2019, volta a escluderne l'applicabilita' ai fatti di reato
commessi prima della sua entrata in vigore.
1.2.1.- Il giudice a quo osserva poi che la Corte di cassazione,
sezione sesta penale, nella sentenza 20 marzo 2019, n. 12541, avrebbe
ritenuto non manifestamente infondato - ancorche', nella specie,
irrilevante - il dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 in riferimento agli
artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU, cosi' come interpretato nella
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 21 ottobre 2013,
Del Rio Prada contro Spagna, sul rilievo che «l'avere il legislatore
cambiato in itinere le "carte in tavola" senza prevedere alcuna norma
transitoria [...] si traduce, [...], nel passaggio - "a sorpresa" e
dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza assaggio
di pena" ad una sanzione con necessaria incarcerazione». In adesione
alle argomentazioni della citata pronuncia, il rimettente prospetta
anzitutto l'illegittimita' costituzionale della disposizione
censurata, per contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117,
primo comma, Cost. (in relazione all'art. 7 CEDU), sotto il profilo
della violazione del divieto di retroattivita' della legge penale
sfavorevole.
Il rimettente ritiene che, al metro della giurisprudenza della
Corte EDU, le misure alternative alla detenzione non possano essere
considerate mere modalita' di esecuzione della pena, incidendo su
quest'ultima in termini di sostanziale modificazione quantitativa
ovvero qualitativa, sicche' eventuali sopravvenienze normative o
giurisprudenziali che operino in senso restrittivo sulla disciplina
dei presupposti e delle condizioni di accesso alle misure stesse
dovrebbero essere assistite dalla garanzia di irretroattivita' di cui
all'art. 7 CEDU.
La stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe riconosciuto che,
a differenza degli altri benefici penitenziari, le misure alternative
alla detenzione, «nell'estinguere lo status di detenuto,
costituiscono altro status diverso e specifico rispetto a quello di
semplice condannato», e che esse «partecipano della natura della
pena, proprio per il loro coefficiente di afflittivita'» (sentenza n.
188 del 1990). Pertanto, «modifiche che comportano una sostanziale
modificazione nel grado di privazione della liberta' personale non
possono considerarsi fenomeno privo di rilievo sotto il profilo
costituzionale», secondo quanto si evincerebbe dalla sentenza n. 306
del 1993.
Confermerebbe la necessita' costituzionale di una disciplina
transitoria, in caso di modifiche in senso restrittivo delle
condizioni di accesso alle misure alternative, la circostanza che
l'art. 4 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti
urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di
trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203,
abbia circoscritto l'applicazione dell'allora introdotto art.
58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975 - norma limitativa
della concessione di benefici penitenziari per i condannati per
taluni gravi delitti - ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore del
decreto-legge stesso.
In occasione di altri interventi normativi, non accompagnati da
una disciplina transitoria, questa Corte avrebbe poi dichiarato
l'illegittimita' di modifiche di segno restrittivo rispetto
all'accesso ai benefici penitenziari, nella misura in cui le stesse
si applicassero anche ai condannati che avevano gia' raggiunto, sulla
base della normativa previgente, un grado di rieducazione adeguato ai
benefici richiesti (sono citate le sentenze n. 79 del 2007, n. 257
del 2006, n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997).
1.2.2.- Il rimettente ritiene che il censurato art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019 si ponga in contrasto con gli
artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione
all'art. 7 CEDU) anche sotto il profilo della violazione del
principio dell'affidamento, che imporrebbe la cristallizzazione del
trattamento sanzionatorio irrogabile all'autore del reato, sotto il
profilo dell'entita' e qualita' della pena, al momento della
commissione del fatto o, quantomeno, del passaggio in giudicato della
sentenza di condanna.
La garanzia di irretroattivita' della legge penale di cui
all'art. 7 CEDU comporterebbe, da un lato, la necessita' che la legge
si concreti in una «regola di giudizio accessibile e prevedibile» per
i consociati; e, dall'altro lato, l'illegittimita' convenzionale
dell'applicazione retroattiva di misure afflittive qualificabili come
pene in senso sostanziale (sono citate le sentenze della Corte EDU 15
dicembre 2009, Gurguchiani contro Spagna; 17 dicembre 2009, M. contro
Germania; 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna). Dalla
pronuncia Del Rio Prada si trarrebbe in particolare che il requisito
di prevedibilita' della legge penale, imposto dall'art. 7 CEDU,
riguarderebbe non soltanto la sanzione, ma anche la sua esecuzione,
senza che assuma rilievo «il settore ordinamentale nazionale sul cui
versante si colloca l'espiazione, [sia] di diritto sostanziale o di
diritto processuale».
Ad avviso del rimettente, la «trasformazione della tipologia di
pena eseguibile (che da meramente limitativa della liberta' diventa
radicalmente privativa della liberta' personale)» si configurerebbe
come «un mutamento imprevedibile e indipendente dalla sfera di
controllo del soggetto, tale da modificare in senso sostanziale il
quadro giuridico-normativo che il soggetto aveva di fronte a se' nel
momento in cui si e' determinato nella sua scelta delinquenziale».
L'esigenza costituzionale di salvaguardare il principio
dell'affidamento troverebbe riscontro nella piu' recente
giurisprudenza di questa Corte, che avrebbe evidenziato
l'estensibilita' del divieto di irretroattivita' della legge
sfavorevole, di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., anche alle
sanzioni amministrative a carattere punitivo (e' citata la sentenza
n. 223 del 2018).
1.2.3. - Il rimettente ritiene infine che il denunciato art. 1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 contrasti con il
principio di ragionevolezza e con la funzione rieducativa della pena,
di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
La norma censurata introdurrebbe un'irragionevole disparita' di
trattamento tra condannati per i medesimi delitti, la cui istanza di
concessione di una misura alternativa alla detenzione sia stata
esaminata - per mera casualita' o per il difforme carico di lavoro
dei tribunali di sorveglianza - anteriormente o successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, «determinando in
modo irrazionale gli esiti processuali indipendentemente dal
coefficiente di meritevolezza dei singoli condannati». Tale risultato
sarebbe altresi' contrario ai principi di proporzionalita' e
individualizzazione della pena (sono citate le sentenze n. 306 del
1993, n. 299 del 1992, n. 203 del 1991 e n. 50 del 1980), corollario
della funzione rieducativa, riconosciuta come autentico «imperativo
costituzionale» dalla sentenza n. 149 del 2018. L'applicazione
immediata delle nuove preclusioni all'accesso alle misure alternative
alla detenzione inciderebbe infatti in modo irragionevole sul
percorso rieducativo, senza consentire al giudice una valutazione
individualizzata dei presupposti per l'applicazione delle misure a
piu' alta valenza risocializzante.
1.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni di legittimita' costituzionale
siano dichiarate inammissibili o infondate.
1.3.1.- L'inammissibilita' risulterebbe anzitutto dal difetto di
rilevanza delle questioni, atteso che un'applicazione rigorosa del
principio tempus regit actum - che governa le modifiche delle norme
penitenziarie, da qualificarsi come norme processuali, anche secondo
la giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 376 del
1997 e n. 306 del 1993) - condurrebbe a escludere il rilievo delle
previsioni della legge n. 3 del 2019 nel procedimento a quo,
incardinatosi, con la sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena, anteriormente all'entrata in vigore della legge stessa. Tale
soluzione, gia' sperimentata dalla giurisprudenza di merito (e'
citata l'ordinanza del 1° marzo 2019 del Tribunale ordinario di
Napoli), sarebbe conforme all'orientamento della giurisprudenza di
legittimita' circa la non revocabilita' della sospensione dell'ordine
di esecuzione, a fronte di modifiche normative che includano il reato
per cui e' stata pronunciata condanna nel catalogo di cui all'art.
4-bis ordin. penit. (e' citata Corte di cassazione, sezione prima
penale, sentenza 1° luglio 2010, n. 24831). Una simile soluzione
troverebbe altresi' avallo nei principi di progressivita'
trattamentale e di divieto di regressione incolpevole del trattamento
enunciati dalla giurisprudenza costituzionale (e' citata la sentenza
n. 149 del 2018).
1.3.2.- Le questioni sollevate sarebbero altresi' inammissibili,
in quanto tendenti a sollecitare un intervento manipolativo della
Corte, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata. La
data di commissione del reato, infatti, rappresenterebbe solo uno dei
possibili criteri temporali cui ancorare l'applicabilita' o meno
della normativa sopravvenuta di cui alla legge n. 3 del 2019, ben
potendo farsi altresi' riferimento alla data del passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, oppure alla data di sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena.
1.3.3.- Quanto al merito delle censure relative alla lesione
degli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,
quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU, le stesse si fonderebbero
su un acritico richiamo del rimettente alla sentenza della Corte EDU
Del Rio Prada, laddove sarebbe, invece, necessario «valutare come ed
in quale misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea
si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano» (sentenza n.
317 del 2009), tenuto conto del margine di apprezzamento di cui gode
questa Corte nel valutare la giurisprudenza europea (e' citata la
sentenza n. 311 del 2009).
La sentenza Del Rio Prada non avrebbe disconosciuto che le norme
penitenziarie e quelle relative all'esecuzione delle pene non
costituiscono norme penali in senso proprio, ma si sarebbe limitata
ad accertare che, nel caso concreto, un mutamento non prevedibile
nell'interpretazione giurisprudenziale aveva prodotto effetti
deteriori sul trattamento penitenziario della ricorrente.
D'altro canto, l'interpretazione dell'art. 25, secondo comma,
Cost. finora offerta da questa Corte escluderebbe decisamente che le
norme di diritto penitenziario possono essere qualificate come
"penali". Questa Corte avrebbe infatti escluso, nella sentenza n. 273
del 2001 e nell'ordinanza n. 280 del 2001, l'incidenza del divieto di
retroattivita' della legge penale sulla normativa penitenziaria, il
che comporterebbe l'inammissibilita' della questione sollevata dal
rimettente in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost.
La stessa giurisprudenza di legittimita' sarebbe poi costante nel
ritenere che le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene
detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le
modalita' esecutive della stessa, sono soggette al principio tempus
regit actum (sono richiamate Corte di cassazione, sezioni unite
penali, sentenza n. 24561 del 2006, nonche' sezione prima penale,
sentenze n. 46649 del 2009 e n. 11580 del 2013, e sezione sesta
penale, sentenza n. 535 [recte: n. 12541] del 2019).
1.3.4.- La Corte costituzionale avrebbe inoltre gia' escluso, con
l'ordinanza n. 108 del 2004, la lesione dell'art. 3 Cost., in
relazione ad altra modifica normativa dell'art. 4-bis della legge n.
354 del 1975 (intervenuta ad opera dell'art. 4, comma 1, della legge
23 dicembre 2002, n. 279, recante «Modifica degli articoli 4-bis e
41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento
penitenziario»). Assumerebbe infine rilievo, nel caso di specie, la
sentenza n. 188 del 2019 di questa Corte.
1.4.- Si e' costituito in giudizio A. B., insistendo per
l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale
sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, in base alle
stesse argomentazioni offerte dall'ordinanza di rimessione.
1.5.- In prossimita' dell'udienza pubblica, A. B. ha depositato
memoria illustrativa, insistendo sulla necessita' di includere nella
nozione di «materia penale», soggetta al divieto di retroattivita' di
modifiche normative sfavorevoli, le «disposizioni processuali o
esecutive che abbiano una incidenza afflittiva sul trattamento
giuridico-penale del singolo» determinando un «mutamento qualitativo
della sanzione concretamente inflitta, da "alternativa" a
"detentiva"».
La parte privata denuncia poi come la disciplina censurata
determini una lesione dell'affidamento del reo, suscettibile di
trasmodare in un vulnus al diritto di difesa - «declinato nel diritto
di stabilire le scelte difensive secondo i punti di riferimento che
l'ordinamento garantisce senza che il legislatore modifichi, "a
sorpresa", le "carte in tavola"» - all'equita' del processo, di cui
agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU (disposizione, quest'ultima, gia'
ritenuta applicabile all'esecuzione della pena nella sentenza n. 97
del 2015 di questa Corte), e alla stessa certezza del diritto.
La parte privata sollecita infine, in alternativa
all'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale,
l'adozione di una pronuncia interpretativa di rigetto, che indirizzi
il diritto vivente nel senso della inapplicabilita', in specie, del
principio tempus regit actum.
2.- Con ordinanza del 4 aprile 2019 (r.o. n. 115 del 2019), la
Corte di appello di Lecce ha sollevato questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, «nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica
amministrazione, ed in particolare il reato di cui all'art. 314,
comma 1, c.p., tra quelli ostativi alla concessione di alcuni
benefici penitenziari ai sensi dell'art. 4-bis legge 26/7/1975 n. 354
[...] senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile
la norma ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in
vigore», per asserito contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e
117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.
Il rimettente e' investito dell'istanza di R.B. L. di
declaratoria di illegittimita' dell'ordine di esecuzione emesso il 27
febbraio 2019 dalla Procura generale di Lecce, in relazione alla pena
detentiva residua di tre anni, dieci mesi e due giorni di reclusione,
da espiare in conseguenza della condanna (a sette anni e venticinque
giorni di reclusione) per i reati di cui agli artt. 81, 110 e 314
cod. pen., commessi tra il 19 maggio 2000 e il 21 marzo 2002,
pronunciata con sentenza della Corte di appello di Lecce del 28
ottobre 2016, divenuta irrevocabile il 1° febbraio 2019.
2.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo evidenzia come l'ordine di esecuzione della pena sia stato
emesso - pur a fronte di una condanna per fatti di reato commessi
prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 - in
applicazione della norma censurata, che ha modificato, con
operativita' immediata, l'art. 4-bis ordin. penit., includendo il
delitto di peculato nel novero di quelli ostativi alla sospensione
dell'ordine stesso, ai sensi dell'art. 656 cod. proc. pen.
Dall'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale
prospettate deriverebbe la possibilita' per R.B. L. di ottenere
l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione e di presentare da
libero l'istanza di concessione di misure alternative alla
detenzione.
2.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
rammenta che dubbi di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma
6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 sono gia' stati adombrati
dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 535 [recte: n. 12541]
del 2019, ed evidenzia come la norma censurata sia anzitutto foriera
di una ingiustificata disparita' di trattamento, lesiva dell'art. 3
Cost., tra coloro che hanno posto in essere delle condotte delittuose
anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019,
facendo affidamento sulla possibilita' di non scontare in carcere una
pena (anche residua) inferiore ai quattro anni, e coloro che, invece,
hanno commesso i medesimi reati nella vigenza della citata legge.
L'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 si
porrebbe altresi' in contrasto con la garanzia di irretroattivita'
della legge penale, di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., «per i
suoi indubbi riflessi sostanziali in punto di esecuzione della pena
in concreto, frutto di un cambiamento delle regole successivo alla
data del commesso reato».
La modifica peggiorativa del regime di esecuzione della pena, non
accompagnata da alcuna norma transitoria, contrasterebbe infine con
l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU,
traducendosi in un «passaggio a sorpresa e non prevedibile al momento
della commissione del reato alla sanzione con necessaria
incarcerazione».
2.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
inammissibili o infondate.
2.3.1.- Le questioni sarebbero anzitutto inammissibili per
erronea individuazione della norma censurata, avendo il rimettente
trascurato di investire dei propri dubbi di costituzionalita' l'art.
656, comma 9, cod. proc. pen., che individua i casi nei quali non
puo' farsi luogo alla sospensione dell'esecuzione della pena. L'art.
4-bis ordin. penit. verrebbe infatti in considerazione solo
indirettamente, in quanto richiamato ai fini dell'individuazione dei
reati per i quali e' preclusa la sospensione dell'esecuzione.
2.3.2.- Riprendendo le argomentazioni gia' svolte nell'atto di
intervento nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2018,
l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce inoltre, specificamente,
l'inammissibilita' delle questioni sollevate in relazione all'art.
25, secondo comma, Cost., alla luce della giurisprudenza
costituzionale e di quella di legittimita', che avrebbero escluso
l'incidenza del divieto di retroattivita' della legge penale sulla
normativa penitenziaria.
2.3.3.- Sarebbe altresi' inammissibile la censura fondata
sull'art. 3 Cost., in quanto, da un lato, la lamentata irragionevole
disparita' di trattamento tra persone che abbiano commesso il reato
di peculato prima o dopo l'entrata in vigore della legge n. 3 del
2019 sarebbe una mera conseguenza dell'inapplicabilita' del principio
di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. alla materia penitenziaria;
e, dall'altro lato, questa Corte avrebbe gia' respinto analoga
doglianza con l'ordinanza n. 108 del 2004.
2.3.4.- Con riferimento alla censura incentrata sulla violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU,
l'Avvocatura generale dello Stato ripropone integralmente le
argomentazioni gia' svolte nell'atto di intervento relativo al
giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2018.
2.4.- Si e' costituito in giudizio R.B. L., insistendo per
l'accoglimento delle questioni sollevate dal giudice rimettente.
2.5.- Con memoria depositata in prossimita' dell'udienza
pubblica, R.B. L. ha contestato l'eccezione dell'Avvocatura generale
dello Stato di inammissibilita' delle questioni per omessa censura
dell'art. 656, comma 9, cod. proc. pen. Richiamando l'ordinanza della
Corte di cassazione, sezione prima penale, 18 luglio 2019, n. 31853,
la parte sottolinea il carattere meramente «servente», rispetto
all'art. 4-bis ordin. penit., dell'art. 656, comma 9, cod. proc.
pen., che si limiterebbe a recepire automaticamente le variazioni del
catalogo dei delitti elencati nella prima disposizione e, quindi, la
non necessita' di censurare la seconda disposizione.
3.- Con ordinanza del 10 giugno 2019 (r.o. n. 118 del 2019), il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di
Cagliari ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui ha inserito i reati contro
la pubblica amministrazione, tra quelli ostativi alla concessione di
alcuni benefici penitenziari ai sensi dell'art. 4-bis legge 26 luglio
1975, n. 354 senza prevedere un regime transitorio», per contrasto
con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e 117, primo comma, Cost.
(quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU).
Il rimettente e' investito di un incidente di esecuzione proposto
da A. D. - detenuto - e volto alla declaratoria di temporanea
inefficacia dell'ordine di esecuzione, emesso dalla Procura della
Repubblica dopo il passaggio in giudicato, il 30 aprile 2019, della
sentenza della Corte d'appello di Cagliari, che ha condannato
l'interessato alla pena di due anni e otto mesi di reclusione, per il
reato di cui all'art. 314 cod. pen., commesso fino al 16 novembre
2011.
3.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo richiama la giurisprudenza di legittimita' sull'applicabilita'
del principio tempus regit actum alle disposizioni concernenti
l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla
detenzione (e' citata Corte di cassazione, sezioni unite penali,
sentenza n. 24561 del 2006) e afferma che, alla data di passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, si incardinerebbe il rapporto
esecutivo e si cristallizzerebbe il contesto normativo che definisce
le modalita' di esecuzione della pena, sicche' le modifiche all'art.
4-bis della legge n. 354 del 1975 apportate dalla legge n. 3 del
2019, in assenza di una disciplina transitoria, sarebbero applicabili
anche ai fatti commessi da A. D. prima dell'entrata in vigore della
legge stessa. Viceversa, in caso di dichiarata incostituzionalita'
dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, A. D.
potrebbe ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione
della pena.
3.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
ritiene che l'applicabilita' immediata della disposizione censurata a
coloro che abbiano commesso il reato anteriormente alla sua entrata
in vigore confligga con la garanzia di irretroattivita' della legge
penale, di cui all'art. 7 CEDU. Riportando ampi stralci della
sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione penale, n. 12541
del 2019, il rimettente dichiara di condividere i dubbi, ivi
espressi, di conformita' con l'art. 7 CEDU, come interpretato nella
sentenza della Corte EDU Del Rio Prada - e, per esso, con l'art. 117,
primo comma, Cost. - dell'omessa previsione di una disciplina
transitoria nella legge n. 3 del 2019.
La disciplina censurata sarebbe altresi' foriera di una
ingiustificata disparita' di trattamento, lesiva dell'art. 3 Cost.,
tra soggetti che abbiano commesso identici fatti di reato
anteriormente o posteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3
del 2019.
Il consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine alla
natura processuale delle norme di ordinamento penitenziario non
consentirebbe una lettura costituzionalmente orientata della
disposizione censurata, che, in definitiva, presenterebbe profili di
contrarieta' con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma,
Cost., in relazione all'art. 7 CEDU.
3.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, instando per la declaratoria di inammissibilita' o
infondatezza delle questioni, sulla base delle medesime
argomentazioni esposte nell'atto di intervento depositato nel
giudizio iscritto al n. 115 del r.o. 2018.
4.- Con ordinanza del 2 aprile 2019 (r.o. n. 119 del 2019), il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli
ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 6,
comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del
2019, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e
117, primo comma, Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU),
«nella parte in cui, ampliando il novero dei reati "ostativi" ai
sensi dell'art. 4-bis l. 354/1975, includendovi i reati contro la
pubblica amministrazione, ha mancato di prevedere un regime
intertemporale».
Il rimettente e' chiamato a delibare l'istanza presentata, ai
sensi dell'art. 666 cod. proc. pen., da V. P., e volta a ottenere
l'invalidazione dell'ordine di esecuzione emesso l'11 febbraio 2019
dalla Procura della Repubblica, in relazione alla condanna alla pena
di un anno di reclusione, inflitta dalla Corte d'appello di Napoli
con sentenza del 20 gennaio 2015 (irrevocabile il 1° giugno 2018),
per i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 112, numero 1), 319,
320, 321 cod. pen., commessi dal novembre 2007 al febbraio 2008.
4.1.- Rammentato il consolidato orientamento di legittimita'
circa la natura processuale delle norme previste dalla legge n. 354
del 1975, il rimettente argomenta che il censurato art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, avendo ampliato il novero dei
reati "ostativi" di cui all'art. 4-bis ordin. penit. senza prevedere
alcuna disciplina transitoria in relazione ai fatti commessi prima
della sua entrata in vigore, si porrebbe in contrasto con l'art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU cosi' come
interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Del Rio Prada, che
avrebbe assoggettato al principio di irretroattivita' della legge
penale «i trattamenti esecutivi sfavorevoli». A sostegno della
propria argomentazione, il giudice a quo trascrive ampi stralci della
sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione penale, n. 12541
del 2019.
4.2.- Conclude il rimettente evidenziando la rilevanza delle
questioni sollevate, atteso che il loro accoglimento determinerebbe
la fondatezza del ricorso di V. P.
4.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o
infondate, sulla base delle medesime argomentazioni svolte nell'atto
di intervento depositato nel giudizio iscritto al n. 115 del r.o.
2019.
5.- Con ordinanza del 7 giugno 2019 (r.o. n. 157 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Taranto ha sollevato, in riferimento
all'art. 3 Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in
cui, modificando l'art. 4 bis, comma 1 della Legge n. 354/1975, ha
inserito i reati contro la p.a. e in particolare quello di cui
all'art. 314 comma 1 tra quelli ostativi alla concessione di alcuni
benefici penitenziari, senza prevedere un regime transitorio che
dichiari applicabile la norma ai soli fatti commessi successivamente
alla sua entrata in vigore».
Il rimettente deve decidere dell'istanza di concessione della
detenzione domiciliare per gravi motivi di salute o, in subordine,
per ragioni di eta', avanzata da R.B. L. (parte anche nel giudizio
iscritto al n. 115 del r.o. 2019), condannato dalla Corte di appello
di Lecce, con sentenza irrevocabile il 1° febbraio 2019, alla pena di
sette anni e venticinque giorni di reclusione, per plurimi delitti di
peculato commessi fino al 25 marzo 2002 e attualmente detenuto, a
seguito dell'emissione di ordine di esecuzione da parte della Procura
generale presso la medesima Corte di appello.
5.1.- In punto di rilevanza, espone il giudice a quo che, da un
lato, non risulta concedibile la detenzione domiciliare per gravi
motivi di salute, ex artt. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. e 147,
primo comma, numero 2), cod. pen., non versando l'interessato in
condizioni di infermita' fisica o psichica tali da rendere
impossibili le cure in ambiente carcerario; e, dall'altro lato,
risulta inammissibile l'istanza di concessione della detenzione per
motivi di eta', ex art. 47-ter, comma 01, ordin. penit., atteso che,
per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 1, comma 6, lettera b),
della legge n. 3 del 2019, il delitto di peculato e' stato inserito
nel catalogo dei reati di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.,
ostativi alla concessione della detenzione domiciliare in favore di
soggetti ultrasettantenni. Tale regime di ostativita' potrebbe venir
meno solo in forza dell'accertamento della collaborazione di R.B. L.
con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit. o dell'art.
323-bis, secondo comma, cod. pen., o dell'inesigibilita' della
collaborazione stessa. Nel caso di specie, tuttavia, tali condizioni
non risultano realizzate, sicche' l'interessato soggiace al regime di
ostativita' previsto dal novellato art. 4-bis ordin. penit., pur
essendo soggetto ultrasettantenne, astrattamente idoneo a fruire
della detenzione domiciliare prevista dall'art. 47-ter, comma 01,
ordin. penit. Donde, la rilevanza della questione di legittimita'
costituzionale sollevata.
5.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
rileva come l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019
abbia ampliato il novero dei reati ostativi contemplati dall'art.
4-bis ordin. penit. senza prevedere alcuna disciplina transitoria,
diversamente da quanto avvenuto in occasione dell'introduzione
dell'art. 4-bis, realizzata dal decreto-legge n. 152 del 1991, e
delle modifiche allo stesso apportate dall'art. 1 della legge n. 279
del 2002, ove il legislatore aveva previsto l'applicabilita' delle
nuove e piu' restrittive disposizioni ai soli fatti di reato commessi
successivamente all'entrata in vigore delle stesse.
Ritiene il giudice a quo che l'assenza di una disciplina
transitoria nella legge n. 3 del 2019 sia foriera di disparita' di
trattamento e pregiudizio al diritto di difesa, che si tradurrebbero
in una lesione dell'art. 3 Cost. Coloro che abbiano commesso reati
inclusi nel novellato catalogo di cui all'art. 4-bis ordin. penit.
prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, infatti, si
troverebbero ad essere o meno soggetti all'ordine di esecuzione e
alla preclusione nella richiesta di accesso alle misure alternative
alla detenzione, a seconda che siano stati ammessi all'esecuzione
penale esterna prima o dopo la novella; dato che, a sua volta,
dipenderebbe da circostanze del tutto contingenti quali «la
collocazione territoriale, la velocita' con la quale e' stato
celebrato il processo, la rapidita' dell'emanazione dell'ordine di
esecuzione da parte del pubblico ministero e quella del Tribunale di
Sorveglianza che, per ragioni istruttorie o per altro motivo, non
abbia assunto una decisione prima dell'entrata in vigore della
legge».
Ad avviso del rimettente, invece, la natura processuale delle
norme penitenziarie non consentirebbe di ritenere applicabile la
garanzia di irretroattivita' della legge penale sfavorevole, di cui
all'art. 7 CEDU. Ne' le norme relative alle modalita' di accesso alle
misure alternative potrebbero formare oggetto di un affidamento del
condannato, alla luce dell'imprescindibilita' della valutazione
discrezionale del tribunale di sorveglianza in ordine alla
concessione di ciascuna misura.
5.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, eccependo l'inammissibilita' della questione sollevata, per
non avere il giudice rimettente tentato un'interpretazione
costituzionalmente orientata della norma censurata, tale da
escluderne l'applicabilita' ai fatti commessi prima della sua entrata
in vigore. Simile interpretazione sarebbe infatti «in linea con
l'esigenza di garantire al cittadino libere e consapevoli scelte di
condotta che costituisce una pietra angolare del modello di sistema
penale disegnato dai principi costituzionali (Corte costituzionale,
sentenza n. 364/1988)».
5.4.- Si e' costituita in giudizio la parte R.B. L., chiedendo a
questa Corte di dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 6,
comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del
2019, per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.
5.5.- Con memoria depositata in prossimita' dell'udienza
pubblica, R.B. L. ha evidenziato l'impossibilita' di adottare
un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione
censurata, alla luce del diritto vivente che attribuisce natura
processuale alle norme dell'ordinamento penitenziario.
6.- Con ordinanza del 30 aprile 2019 (r.o. n. 160 del 2019), il
Tribunale ordinario di Brindisi ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art. 4 bis
comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354 - norma richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. - si applica anche al
delitto di cui all'art. 314 c.p. commesso anteriormente all'entrata
in vigore della medesima legge», denunciandone il contrasto con gli
artt. 24, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo
in relazione all'art. 7 CEDU.
Il rimettente e' investito dell'istanza di A. B., in stato di
detenzione, volta a ottenere la declaratoria di temporanea
inefficacia dell'ordine di esecuzione emesso dal pubblico ministero
il 5 aprile 2019, in relazione alla condanna inflitta all'interessato
dal Tribunale ordinario di Brindisi il 25 marzo 2015 (divenuta
irrevocabile il 13 marzo 2019) alla pena di due anni e otto mesi di
reclusione per i delitti di cui agli artt. 110, 56, 314, primo comma,
61, numero 9), cod. pen. (commesso l'11 agosto 2011), di cui agli
artt. 110, 117, e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 18 luglio
2011) e di cui all'art. 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 24
febbraio 2011).
6.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo espone che, a seguito dell'entrata in vigore del censurato art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, A. B. non puo'
piu' beneficiare della sospensione dell'ordine di esecuzione, essendo
stato il delitto di cui all'art. 314 cod. pen. incluso nell'elenco
dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis ordin. penit., laddove,
prima dell'intervenuta modifica normativa, egli avrebbe potuto
chiedere la concessione di una misura alternativa alla detenzione
senza previo periodo di osservazione in carcere.
6.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
premette che, in assenza di una disciplina transitoria, la
disposizione censurata risulta immediatamente applicabile, in base al
consolidato orientamento che attribuisce carattere processuale alle
norme penitenziarie.
6.2.1.- Ritiene tuttavia il giudice a quo che la non
sospendibilita' dell'ordine di esecuzione, risultante dal richiamo
dell'art. 4-bis ordin. penit. da parte dell'art. 656, comma 9,
lettera a), cod. proc. pen., incida non solo sulle modalita'
esecutive della pena ma anche sulla sua effettiva portata e natura,
imponendo al condannato che aspiri alle misure alternative alla
detenzione «una temporanea anticipazione del regime detentivo [...]
in attesa delle decisioni del magistrato di sorveglianza sul
possibile accesso a una di tali misure»; il tutto, peraltro, con
«possibili frizioni con la finalita' rieducativa della pena prevista
dall'art. 27 Cost.», attesa l'incongruita' - rilevata anche da questa
Corte con la sentenza n. 41 del 2018 - della temporanea carcerazione
di soggetti che possano poi beneficiare di misure risocializzanti
extramurarie. L'art. 4-bis ordin. penit., richiamato dall'art. 656,
comma 9, lettera a), cod. proc. pen., «benche' "nominalmente"
processuale» esibirebbe dunque «nella "sostanza" [...] un contenuto
"afflittivo" per le ricadute sulla liberta' personale del
condannato», impossibilitato appunto a ottenere la sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena.
6.2.2.- Attesa la natura "penale" dell'art. 4-bis ordin. penit.,
l'applicazione immediata delle modifiche normative di segno
peggiorativo apportate a detta disposizione dalla legge n. 3 del 2019
integrerebbe una violazione del divieto di retroattivita' della legge
penale sfavorevole, sancito dall'art. 7 CEDU, cosi' come interpretato
dalla Corte EDU nella sentenza Del Rio Prada.
6.2.3.- Sarebbe violato anche il corrispondente principio di
irretroattivita' contenuto nell'art. 25, secondo comma, Cost., la cui
operativita' questa Corte avrebbe esteso a disposizioni non
formalmente penali, ma «a carattere "intrinsecamente punitivo"» (sono
citate le sentenze n. 223 del 2018 e n. 196 del 2010).
6.2.4.- La modifica in senso sfavorevole della portata dell'art.
4-bis ordin. penit., realizzata dal censurato art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, vanificherebbe altresi' il
legittimo affidamento del condannato a ottenere la sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena detentiva di durata inferiore a
quattro anni (come quella in specie irrogata), con conseguente
ulteriore violazione degli artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU,
gia' evidenziata dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale,
nella sentenza n. 12541 del 2019.
6.2.5.- L'incidente di esecuzione riguardante l'ordine di
esecuzione emesso a carico di A. B. rientrerebbe a pieno titolo
nell'ambito applicativo dell'art. 6 CEDU sul diritto al processo
equo, atteso lo stretto legame tra la nozione di "pena" risultante
dall'art. 7 CEDU e quella di "accusa in materia penale", utilizzata
dall'art. 6.
Ne deriverebbe la possibilita' di estendere le garanzie dell'art.
6 CEDU anche a «istituti rientranti nel "procedimento di esecuzione"
che concorrono a determinare l'effettiva durata della privazione
della liberta' da scontare», quali il procedimento ex art. 671 cod.
proc. pen. per l'applicazione della continuazione in sede esecutiva,
nonche' i procedimenti relativi alla validita' o efficacia del titolo
esecutivo o dell'ordine di esecuzione.
La riconducibilita' del procedimento di esecuzione disciplinato
dall'art. 666 cod. proc. pen. all'ambito applicativo dell'art. 6 CEDU
comporterebbe la qualificabilita' come disposizione di natura
"penale", ai sensi dell'art. 7 CEDU, dell'art. 656, comma 9, lettera
a), cod. proc. pen. sulla sospensione dell'ordine di esecuzione,
«cosi' come integrato» dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge
n. 3 del 2019, che ha modificato l'art. 4-bis ordin. penit. E invero,
gli effetti derivanti dalla disciplina in scrutinio «si traducono in
un'anticipazione della pena detentiva che comporta la privazione
della liberta' personale attraverso la carcerazione, anche se il
condannato risultera' meritevole di una misura alternativa».
6.2.6.- L'applicazione retroattiva della disciplina sfavorevole
introdotta dalla legge n. 3 del 2019 comporterebbe altresi' una
lesione del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost.,
vanificando le strategie processuali dell'imputato, il quale potrebbe
avere chiesto l'applicazione di un rito alternativo confidando in una
diminuzione di pena sufficiente a poter beneficiare della sospensione
dell'ordine di esecuzione; sospensione che, invece, non potrebbe
essere piu' accordata in forza dell'entrata in vigore della legge n.
3 del 2019.
6.2.7.- Il contrasto della norma censurata con i parametri
costituzionali evocati non sarebbe superabile in via interpretativa,
in presenza di un consolidato diritto vivente di segno contrario.
6.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, instando per la declaratoria di inammissibilita' delle
questioni sollevate, in base alle medesime argomentazioni spese nel
giudizio iscritto al n. 157 del r.o. 2019 e incentrate sul mancato
esperimento, da parte del rimettente, di un'interpretazione
costituzionalmente orientata della disciplina censurata.
6.4.- Si e' altresi' costituita in giudizio la parte privata A.
B., insistendo per la declaratoria di illegittimita' costituzionale
del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019.
Ripercorrendo adesivamente le motivazioni dell'ordinanza di
rimessione, la parte privata aggiunge che le misure alternative alla
detenzione, stante la «fisiologica funzionalizzazione a garantire la
diversificazione tipologica del trattamento sanzionatorio, corollario
del principio rieducativo di cui all'art. 27, co. 3, Cost.» non
potrebbero essere considerate delle mere modalita' di esecuzione
della pena, essendo invece istituti che «incidono sulla qualita'
essenziale della pena stessa»; sicche' qualsiasi mutamento delle
condizioni di accesso a dette misure soggiacerebbe alle garanzie di
irretroattivita' di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU.
Disposizione, quest'ultima, che la Corte EDU avrebbe ritenuto
applicabile sia a revirements giurisprudenziali relativi al regime
applicativo di misure assimilabili alla liberazione anticipata (e'
citata la sentenza Del Rio Prada), sia a modifiche della normativa
processuale suscettibili di spiegare diretta incidenza sulla
determinazione della pena inflitta (e' citata la sentenza, 17
settembre 2009, Scoppola contro Italia).
6.5.- In prossimita' dell'udienza pubblica, A. B. ha depositato
memoria illustrativa, insistendo sulla necessita' di applicare alle
misure alternative alla detenzione il divieto di retroattivita' della
legge penale sfavorevole, sulla scorta della giurisprudenza della
Corte EDU e di recenti pronunce della giurisprudenza di merito,
avallate dalla sentenza n. 12541 del 2019 della Corte di cassazione.
La parte evidenzia altresi' come la mancata previsione, ad opera del
censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, di
una disciplina transitoria, determini una lesione dell'affidamento
dell'imputato, in riferimento sia al trattamento sanzionatorio
applicabile (che da extramurario diverrebbe necessariamente
carcerario), sia alle strategie perseguibili in giudizio, atteso che
l'interessato - giudicato anteriormente all'entrata in vigore della
novella - non avrebbe potuto prospettarsi la necessita' di
collaborare con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-ter ordin.
penit., nel corso delle indagini o del processo, al fine di fruire
della possibilita' di accesso a misure alternative alla detenzione,
secondo il restrittivo regime delineato dall'art. 4-bis ordin. penit.
Richiamando la sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, A. B.
lamenta infine l'irragionevolezza dell'inclusione dei reati contro la
pubblica amministrazione nell'ambito applicativo dell'art. 4-bis, sul
rilievo che la conseguente necessita' di collaborazione con la
giustizia, al fine della concessione di misure alternative alla
detenzione, si tradurrebbe in una violazione del diritto al silenzio
e in un aggravamento del trattamento sanzionatorio.
7.- Con ordinanza del 30 aprile 2019 (r.o. n. 161 del 2019), il
Tribunale ordinario di Brindisi ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art. 4 bis
comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354 - norma richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. - si applica anche al
delitto di cui all'art. 314 c.p. commesso anteriormente all'entrata
in vigore della medesima legge», denunciandone il contrasto con gli
artt. 24, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo
in relazione all'art. 7 CEDU.
Il rimettente deve pronunciarsi, ex art. 666 cod. proc. pen.,
sull'incidente di esecuzione promosso da C. M. onde ottenere la
declaratoria di temporanea inefficacia dell'ordine di esecuzione
emesso dal pubblico ministero il 5 aprile 2019, in relazione alla
condanna inflitta all'interessato dal Tribunale di Brindisi il 25
marzo 2015 (divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019) alla pena di due
anni e quattro mesi di reclusione per il delitto di cui agli artt.
110 e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 3 agosto 2011) e per
il delitto di cui agli artt. 110, 81, 56 e 314, primo comma, cod.
pen. (commesso il 22 luglio e il 13 agosto 2011).
7.1.- In punto di rilevanza e non manifesta infondatezza delle
questioni sollevate, il giudice a quo svolge considerazioni di
identico tenore a quelle che compaiono nell'ordinanza di rimessione
iscritta al n. 160 del r.o. 2019.
7.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, per
le medesime ragioni esposte nell'atto di intervento relativo al
giudizio iscritto al n. 160 del r.o. 2019.
8.- Con ordinanza del 16 luglio 2019 (r.o. n. 193 del 2019), il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di
Caltanissetta ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della
legge n. 3 del 2019, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, 24,
25, 27, 111 e 117 Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU),
«nella parte in cui, ampliando il novero dei reati "ostativi" ai
sensi dell'art. 4-bis legge 354/1975, includendovi i reati contro la
pubblica amministrazione, ha mancato di prevedere un regime
intertemporale».
Il tribunale rimettente e' investito di un'istanza, presentata
dal detenuto U. A., di declaratoria di illegittimita' dell'ordine di
esecuzione emesso dalla locale Procura della Repubblica e notificato
il 7 giugno 2019, per l'espiazione della pena di tre anni, undici
mesi e dieci giorni di reclusione, applicata - in relazione a diversi
reati uniti dal vincolo della continuazione, tra cui il delitto di
cui all'art. 319 cod. pen., commesso tra il 16 maggio e il 31 maggio
2017 - ex art. 444 cod. proc. pen. con sentenza del 12 febbraio 2019,
divenuta irrevocabile il 28 maggio 2019.
8.1.- Premessa l'adesione al consolidato orientamento
giurisprudenziale circa la natura processuale delle disposizioni
concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative
alla detenzione, il rimettente osserva, in punto di rilevanza delle
questioni sollevate, che, attesa l'immediata operativita' della
previsione dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, l'istanza di U. A. dovrebbe essere rigettata. Diversamente,
l'accoglimento delle questioni comporterebbe la sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena, poiche' relativo a fatti
commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.
8.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
argomenta la contrarieta' della disposizione censurata all'art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU, richiamando la
sentenza della Corte EDU Del Rio Prada e le considerazioni svolte
dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 12541 del 2019.
8.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
inammissibili o infondate.
L'inammissibilita' conseguirebbe sia al mancato tentativo di
un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma
censurata, volta ad attribuirle valenza sostanziale e non
processuale; sia al carattere manipolativo della pronuncia richiesta
alla Corte, atteso il carattere non costituzionalmente necessario
della disciplina transitoria auspicata dal rimettente; sia, infine,
alla mancata individuazione di una norma di sospetta illegittimita'
costituzionale, lamentando il rimettente un mancato intervento del
legislatore.
Ulteriori ragioni di inammissibilita' e infondatezza delle
questioni sollevate sono argomentate attraverso l'integrale richiamo
all'atto di intervento depositato dalla stessa Avvocatura generale
dello Stato nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019.
9.- Con ordinanza del 16 luglio 2019 (r.o. n. 194 del 2019), il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di
Caltanissetta ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della
legge n. 3 del 2019, identiche a quelle gia' prospettate
nell'ordinanza iscritta al n. 193 del r.o. 2019 quanto al petitum e
ai parametri costituzionali evocati.
In questo caso, il rimettente e' investito di un'istanza,
presentata dal detenuto F. R., di declaratoria di illegittimita'
dell'ordine di esecuzione emesso dalla locale Procura della
Repubblica e notificato il 7 giugno 2019, per l'espiazione della pena
di tre anni, tre mesi e dieci giorni di reclusione, applicata - in
relazione a diversi reati uniti dal vincolo della continuazione, tra
cui il delitto di cui all'art. 319 cod. pen., commesso tra il 16 e il
31 maggio 2017 - ex art. 444 cod. proc. pen. con sentenza del 12
febbraio 2019, divenuta irrevocabile il 28 maggio 2019.
9.1.- Il rimettente ripropone, a sostegno della rilevanza e non
manifesta infondatezza delle questioni sollevate, le medesime
argomentazioni svolte nell'ordinanza iscritta al n. 193 del r.o.
2019.
9.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, con atto di intervento avente tenore identico a quello
depositato nel giudizio iscritto al n. 193 del r.o. 2019.
10.- Con ordinanza del 31 luglio 2019 (r.o. n. 210 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Potenza ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art. 4 bis,
comma 1 della L. 26.7.1975 n. 354, si applica anche in relazione ai
delitti di cui agli artt. 317 c.p. e 319 c.p. commessi anteriormente
alla entrata in vigore della medesima legge», denunciando il
contrasto della disposizione con gli artt. 3, 25, secondo comma, 27,
secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest'ultimo in
relazione all'art. 7 CEDU).
Il rimettente e' chiamato a statuire sul reclamo avverso il
decreto del 21 febbraio 2019, con cui il magistrato di sorveglianza
ha dichiarato inammissibile l'istanza di concessione di permesso
premio, ex art. 30-ter ordin. penit., avanzata da M.P. D.G., detenuto
in espiazione della pena (residuo di otto anni) di sette anni, otto
mesi e ventiquattro giorni di reclusione, inflitta dalla Corte di
appello di Potenza con sentenza del 30 settembre 2016 (divenuta
irrevocabile l'8 agosto 2017), in relazione ai reati di cui agli
artt. 81, comma 2, 110, 317 e 319 cod. pen.
10.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il
giudice a quo evidenzia che l'istanza di concessione del permesso
premio e' stata presentata prima dell'entrata in vigore della legge
n. 3 del 2019, ma delibata dal magistrato di sorveglianza solo
successivamente, con conseguente applicabilita' delle preclusioni
alla concessione del permesso premio, in difetto di collaborazione
con la giustizia, previste dall'art. 4-bis ordin. penit., come
novellato dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, per i reati ostativi ivi indicati, tra i quali risultano
attualmente inclusi quelli di concussione e corruzione per atto
contrario ai doveri di ufficio. Osserva altresi' il rimettente che,
in difetto della sopravvenuta modifica dell'art. 4-bis ordin. penit.,
M.P. D.G. avrebbe avuto diritto alla concessione del permesso premio,
sussistendo i requisiti previsti dall'art. 30-ter della medesima
legge.
10.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
richiama da un lato il consolidato orientamento giurisprudenziale
circa la natura processuale delle norme penitenziarie, con
conseguente immediata applicabilita' di modifiche normative anche
peggiorative ai fatti pregressi, in difetto di apposita disciplina
transitoria; e, dall'altro lato, la recente pronuncia della Corte di
cassazione, sezione sesta penale, n. 12541 del 2019, che ha ritenuto
non manifestamente infondato - ancorche', in specie, non rilevante -
il dubbio di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt.
117, primo comma, Cost. e 7 CEDU, determinato dalla mancata
previsione di una disposizione transitoria volta a limitare
l'applicabilita' delle modifiche introdotte all'art. 4-bis ordin.
penit. ai soli fatti di reato commessi successivamente all'entrata in
vigore della legge n. 3 del 2019.
10.3.- Ad avviso del giudice a quo, il permesso premio, lungi dal
risolversi in una mera modalita' di esecuzione della pena, «viene a
incidere sulla qualita' essenziale della pena stessa rispetto alla
quale la funzione rieducativa viene assicurata anche tramite il
beneficio ex art. 30 ter O.P.», come riconosciuto da questa Corte
nella sentenza n. 349 del 1993; sicche' eventuali modifiche normative
che restringano i presupposti di accesso a tale beneficio
modificherebbero «la natura stessa della sanzione penale» e
dovrebbero essere soggette alla garanzia di irretroattivita' prevista
dagli artt. 25, secondo comma, Cost., e 7 CEDU. Riprendendo in larga
misura le argomentazioni dell'ordinanza di rimessione iscritta al n.
114 del r.o. 2019, il rimettente evidenzia come questa Corte abbia
gia' censurato modifiche normative che incidessero in senso
peggiorativo sulle condizioni di fruibilita' di benefici
penitenziari, applicandosi indistintamente anche ai condannati che
avessero gia' raggiunto un grado di rieducazione adeguato al
beneficio richiesto (sono richiamate le sentenze n. 79 del 2007, n.
257 del 2006, n. 137 del 1999, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995).
10.4.- Il rimettente argomenta poi la dedotta lesione degli artt.
25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione all'art. 7
CEDU), sotto il profilo della violazione del principio di
affidamento, svolgendo considerazioni analoghe a quelle esposte
nell'ordinanza di rimessione iscritta al n. 114 del r.o. 2019.
10.5.- In relazione al prospettato contrasto della disposizione
censurata con gli artt. 3 e 27, secondo e terzo comma, Cost., il
rimettente parimenti ripropone le argomentazioni dell'ordinanza di
rimessione iscritta al n. 114 del r.o. 2019, soggiungendo che «la
preclusione all'accesso ai benefici penitenziari o, piu'
correttamente, la possibilita' di accesso solo in caso di
collaborazione o di accertata collaborazione impossibile senza alcuna
distinzione di ordine temporale quanto alla sfera di applicazione
della nuova normativa» introdurrebbe un automatismo tale da impedire
al giudice ogni valutazione individuale sul concreto percorso
rieducativo compiuto dal condannato prima dell'entrata in vigore
della legge n. 3 del 2019, con conseguente frustrazione
dell'imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena
(sono richiamate la sentenza n. 149 del 2018 e la giurisprudenza
costituzionale ivi citata).
10.6.- Il Presidente del Consiglio dei Ministri non e'
intervenuto in giudizio.
11.- Con ordinanza del 12 giugno 2019 (r.o. n. 220 del 2019), il
Tribunale di sorveglianza di Salerno ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art. 4 bis,
comma 1 O.P., si applica anche in relazione ai delitti di cui
all'art. 319-quater comma 1 c.p. commessi anteriormente alla entrata
in vigore della medesima legge», denunciando il contrasto della
disposizione con gli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 117
Cost. e 7 CEDU.
Il rimettente e' chiamato a delibare l'istanza di concessione
dell'affidamento in prova al servizio sociale, o in subordine, della
detenzione domiciliare o della semiliberta', avanzata da D. M.,
condannato alla pena di sei anni di reclusione dalla Corte di appello
di Milano con sentenza del 14 novembre 2017, per i reati di cui agli
artt. 319-quater, primo comma, e 648 cod. pen., attualmente in regime
di arresti domiciliari e in attesa della valutazione del Tribunale di
sorveglianza circa la concedibilita' di misure alternative alla
detenzione, ai sensi dell'art. 656, comma 10, cod. proc. pen.
11.1.- Premette il giudice a quo che l'immediata applicabilita'
delle modifiche apportate all'art. 4-bis ordin. penit. dall'art. 1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 - e, segnatamente,
l'inclusione del delitto di cui all'art. 319-quater, primo comma,
cod. pen. nel novero di quelli "ostativi" ai sensi della prima
disposizione - comporterebbe la declaratoria di inammissibilita'
delle istanze di M. D., in difetto del requisito della collaborazione
con la giustizia, o della impossibilita' della stessa, previsto per
l'accesso ai benefici penitenziari dal citato art. 4-bis.
Diversamente, l'auspicata declaratoria di illegittimita'
costituzionale della norma censurata, sotto il profilo della mancata
previsione dell'inapplicabilita' ai fatti di reato pregressi,
consentirebbe al rimettente di accogliere le istanze del detenuto,
alla luce dell'assenza di altri precedenti penali, della regolare
condotta serbata durante il periodo trascorso agli arresti
domiciliari e della possibilita' di svolgere un'attivita' lavorativa
idonea a favorire il reinserimento sociale. Donde, la rilevanza delle
questioni sollevate.
11.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, essa e'
argomentata in base a considerazioni analoghe a quelle svolte dal
Tribunale di sorveglianza di Venezia nell'ordinanza iscritta al n.
114 del r.o. 2019.
11.3.- E' intervenuto anche in questo giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano
dichiarate inammissibili o infondate, per le medesime ragioni esposte
negli atti di intervento depositati nei giudizi iscritti ai numeri
114 e 193 del r.o. 2019.
12.- All'udienza dell'11 febbraio 2020, il rappresentante
dell'Avvocatura generale dello Stato, a parziale modifica delle
conclusioni gia' rassegnate negli atti di intervento, ha invitato
questa Corte ad adottare una pronuncia interpretativa di rigetto
delle questioni sollevate, sulla base di una lettura della
disposizione censurata secondo la quale le modifiche da essa
apportate dovrebbero essere applicate soltanto ai fatti commessi
successivamente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Cio'
in quanto tutte le norme ivi previste «che peggiorano la condizione
dei detenuti in termini di status libertatis» dovrebbero essere
«lette necessariamente come norme di carattere sostanziale e quindi
non retroattive, non solo alla luce dell'art. 25 della Costituzione,
ma anche alla luce dell'art. 2 del codice penale».
Considerato in diritto
1.- Le undici ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, che
e' opportuno riunire ai fini della decisione, sollevano tutte
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di
prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e
movimenti politici).
Secondo i rimettenti, tale disposizione sarebbe
costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che le
modifiche da essa apportate all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta') si
applichino soltanto ai condannati per fatti commessi successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.
1.1.- Piu' in particolare, le ordinanze iscritte ai numeri 114,
157, 210 e 220 del r.o. 2019 sono state pronunciate da tribunali di
sorveglianza investiti di istanze di concessione di benefici o misure
alternative alla detenzione (permesso premio, affidamento in prova al
servizio sociale, detenzione domiciliare) da parte di condannati per
reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell'entrata
in vigore della legge n. 3 del 2019.
Tali reati risultano ora inseriti - ad opera del censurato art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 - nell'elenco dei
delitti previsti dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
Conseguentemente, per tali reati sono oggi previste condizioni assai
piu' gravose, per l'accesso ai benefici penitenziari e alle misure
alternative, rispetto a quelle vigenti al momento della commissione
del fatto.
1.2.- Le ordinanze iscritte ai numeri 115, 118, 119, 160, 161,
193 e 194 del r.o. 2019 sono state invece pronunciate da giudici
dell'esecuzione, investiti di istanze volte a ottenere la sospensione
o la declaratoria di illegittimita' di ordini di esecuzione della
pena emessi nei confronti di condannati per reati contro la pubblica
amministrazione, commessi prima dell'entrata in vigore della legge n.
3 del 2019.
Tali ordini di esecuzione non sono stati sospesi, per effetto
dell'inclusione del reato per il quale l'interessato e' stato di
volta in volta condannato nell'elenco dei delitti di cui all'art.
4-bis ordin. penit., in relazione ai quali l'art. 656, comma 9,
lettera a), del codice di procedura penale prevede, per l'appunto, il
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.
1.3.- Secondo i giudici rimettenti, la mancata limitazione degli
effetti dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019
ai soli condannati per fatti commessi successivamente alla sua
entrata in vigore sarebbe di dubbia compatibilita':
- con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione e con l'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali (CEDU), sotto il profilo del principio di legalita' e
non retroattivita' della pena; e cio' in quanto il divieto di
applicazione retroattiva delle modifiche normative che aggravano la
pena prevista per il reato comprenderebbe altresi' le modifiche
normative che, come quella in esame, restringano presupposti e
condizioni di accesso a benefici penitenziari e misure alternative
alla detenzione (ordinanze iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119,
160, 161, 193, 194, 210 e 220 del r.o. 2019);
- con il diritto di difesa di cui all'art. 24, secondo comma,
Cost., dal momento che la modifica normativa operata dalla
disposizione censurata avrebbe vanificato le strategie processuali
degli imputati poi condannati, i quali potrebbero, ad esempio, aver
scelto un rito alternativo confidando in una diminuzione di pena
sufficiente per poter beneficiare della sospensione dell'ordine di
esecuzione della pena (ordinanze iscritte ai numeri 160 e 161 del
r.o. 2019);
- con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. (nonche',
nell'ordinanza iscritta al n. 210 del r.o. 2019, con il secondo comma
di quest'ultima disposizione), in relazione ai principi di
ragionevolezza e funzione rieducativa della pena, attesa l'automatica
incidenza, sul percorso rieducativo dei condannati, delle
sopravvenute preclusioni all'accesso a benefici penitenziari e a
misure alternative alla detenzione, con conseguente impossibilita'
per l'autorita' giudiziaria di operare valutazioni individualizzate
in sede di esame delle istanze di concessione di detti benefici e
misure (ordinanze iscritte ai numeri 114, 210 e 220 del r.o. 2019);
- con l'art. 3 Cost., sotto un duplice profilo: da un lato,
l'irragionevole disparita' di trattamento creatasi tra condannati per
i medesimi delitti, commessi anteriormente all'entrata in vigore
dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, i quali
sarebbero sottoposti a un regime differenziato quanto all'accesso ai
benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, a
seconda del momento - anteriore o successivo alla vigenza di detta
disposizione - in cui la magistratura di sorveglianza esamini la
relativa istanza di concessione (ordinanze iscritte ai numeri 114,
157, 210 e 220 del r.o. 2019); dall'altro, l'irragionevole disparita'
di trattamento fra autori dei medesimi delitti, commessi
rispettivamente prima o dopo l'entrata in vigore della disposizione
censurata, poiche' solo i primi, ma non anche i secondi, potrebbero
espiare la pena in regime extramurario (ordinanze iscritte ai numeri
115 e 118 del r.o. 2019).
2.- In via preliminare, conviene brevemente ricapitolare il
contesto normativo nel quale si inseriscono le censure dei
rimettenti.
Come gia' rammentato, l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge
n. 3 del 2019, in questa sede censurato, inserisce nell'elenco dei
delitti previsti dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti
contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314, primo
comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320,
321, 322 e 322-bis del codice penale.
2.1.- Per effetto di detto inserimento, tali delitti sono oggi
soggetti, anzitutto, al medesimo regime "ostativo" rispetto alla
concessione dei permessi premio, del lavoro all'esterno e delle
misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione
anticipata, che vige per i delitti cosiddetti "di prima fascia"
elencati nell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
Cio' significa che i benefici e le misure alternative in
questione possono ora essere concessi ai condannati per la maggior
parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, di regola,
soltanto nel caso in cui essi collaborino con la giustizia.
Tale collaborazione potra' avvenire, alternativamente, ai sensi
dell'art. 58-ter ordin. penit., ovvero - in forza di un'ulteriore
modifica del testo dell'art. 4-bis ordin. penit., operata dall'art.
1, comma 6, lettera a), della legge n. 3 del 2019 - ai sensi
dell'art. 323-bis, secondo comma, cod. pen.
L'art. 58-ter ordin. penit., a sua volta, descrive la condotta di
collaborazione con la giustizia come quella di «coloro che, anche
dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attivita'
delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato
concretamente l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per
l'individuazione o la cattura degli autori dei reati».
L'art. 323-bis, secondo comma, cod. pen. prevede invece una
circostanza attenuante, applicabile a vari delitti contro la pubblica
amministrazione, in favore di «chi si sia efficacemente adoperato per
evitare che l'attivita' delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione
degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre
utilita' trasferite». Se il riconoscimento della circostanza
attenuante e' evidentemente circoscritto alle condotte collaborative
poste in essere dall'imputato prima della sentenza irrevocabile di
condanna, il richiamo a tale disposizione da parte dell'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit., nel testo modificato dalla legge n. 3 del
2019, sta probabilmente a significare che la collaborazione richiesta
al condannato per i reati contro la pubblica amministrazione puo' in
concreto esplicarsi - anche dopo la condanna - nelle forme indicate
dallo stesso art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., ove - a
differenza di quanto accade nell'art. 58-ter ordin. penit. - e' fatta
esplicita menzione dell'attivita' rivolta ad assicurare il «sequestro
delle somme o altre utilita' trasferite».
In difetto di collaborazione, il condannato per i delitti contro
la pubblica amministrazione menzionati dalla disposizione censurata -
cosi' come qualsiasi altro condannato per i delitti contemplati
dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. - potra' accedere ai benefici
e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione
anticipata soltanto:
- allorche' ricorrano le condizioni di cui all'art. 4-bis, comma
1-bis, ordin. penit., e cioe' «purche' siano stati acquisiti elementi
tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita'
organizzata, terroristica o eversiva, altresi' nei casi in cui la
limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza
di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle
responsabilita', operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque
impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, nonche' nei
casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti
oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o
internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti
previste dall'articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento
del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall' articolo
114 ovvero dall'articolo 116, secondo comma, del codice penale»;
ovvero
- limitatamente alla concessione dei permessi premio, allorche'
siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualita' di
collegamenti con la criminalita' organizzata, sia il pericolo del
ripristino di tali collegamenti, secondo quanto stabilito dalla
sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte.
2.2.- La sottoposizione dei condannati per delitti contro la
pubblica amministrazione al regime dell'art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. comporta poi una serie di effetti stabiliti da altre norme
dell'ordinamento penitenziario che rinviano allo stesso art. 4-bis, e
in particolare:
- una preclusione assoluta - non superabile neppure in presenza
di collaborazione o di condizioni equiparate - rispetto alla
concessione delle misure alternative della detenzione domiciliare
"ordinaria" per ultrasettantenni (art. 47-ter, comma 01, ordin.
penit.) e della detenzione domiciliare cosiddetta "generica" (art.
47-ter, comma 1-bis, ordin. penit.);
- l'allungamento dei tempi di espiazione di pena necessari per
l'accesso al lavoro all'esterno (art. 21, comma 1, ordin. penit.), ai
permessi premio (art. 30-ter ordin. penit.) e alla semiliberta' (art.
50, comma 2, ordin. penit.);
- un regime piu' rigoroso relativo alla revoca dei benefici
penitenziari gia' concessi, ai sensi dell'art. 58-quater, comma 5,
ordin. penit.
2.3.- L'inserimento dei delitti contro la pubblica
amministrazione indicati dalla disposizione censurata nell'elenco di
cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. comporta un identico
regime preclusivo rispetto alla liberazione condizionale, la quale -
in forza dell'art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152
(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata
e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 -
puo' essere concessa ai condannati per i delitti di cui all'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit. alla condizione che ricorrano i
presupposti ivi indicati.
2.4.- Infine, le ordinanze di rimessione sollevate dai giudici
dell'esecuzione concernono l'ulteriore effetto riflesso
dell'inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione
nell'elenco dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., stabilito
dall'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. e consistente nel
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.
Se infatti, in linea generale, in caso di condanna a pena
detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente residuo
di maggior pena, il pubblico ministero e' tenuto a sospendere
l'ordine di esecuzione contestualmente emesso nei confronti del
condannato che si trovi in stato di liberta' o agli arresti
domiciliari, si' da consentirgli di presentare istanza al tribunale
di sorveglianza competente - nei trenta giorni successivi - per la
concessione di una misura alternativa alla detenzione (art. 656,
commi 5 - come modificato dalla sentenza n. 41 del 2018 di questa
Corte - e 10, cod. proc. pen.), il comma 9, lettera a), del medesimo
art. 656 cod. proc. pen. preclude invece al pubblico ministero di
sospendere l'ordine di esecuzione relativo alle condanne per una
serie di delitti, tra i cui quelli di cui all'art. 4-bis ordin.
penit.
Ne consegue il necessario ingresso in carcere, nelle more del
procedimento di sorveglianza, di chi sia condannato a pena detentiva
non sospesa per la maggior parte dei delitti contro la pubblica
amministrazione, nonostante l'entita' della pena da scontare possa
consentire al condannato di essere ammesso a una misura alternativa
alla detenzione sin dall'inizio dell'esecuzione.
2.5.- La disposizione censurata nulla prevede in merito alla sua
efficacia nel tempo.
In forza delle indicazioni provenienti dal diritto vivente, di
cui meglio si dira' piu' innanzi (infra, 4.1.), tutte le ordinanze di
rimessione assumono tuttavia che - nel silenzio del legislatore -
tali modifiche siano immediatamente applicabili anche a coloro che
sono stati condannati per fatti commessi anteriormente all'entrata in
vigore della legge n. 3 del 2019: cio' che costituisce, per
l'appunto, l'oggetto essenziale delle censure che questa Corte e'
chiamata ora a decidere.
3.- In relazione all'ammissibilita' delle questioni prospettate,
deve osservarsi quanto segue.
3.1.- Nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019, l'Avvocatura
generale dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle
questioni sollevate, poiche', anche facendo applicazione del
principio tempus regit actum, il Tribunale di sorveglianza avrebbe
ben potuto esaminare l'istanza del condannato A. B. di affidamento in
prova al servizio sociale in base alla disciplina previgente.
L'eccezione deve ritenersi proposta anche nei giudizi iscritti ai
numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, poiche', nei rispettivi atti di
intervento, l'Avvocatura generale dello Stato ha dichiarato di
richiamare integralmente le eccezioni svolte nel giudizio iscritto al
n. 114 del r.o. 2019.
3.1.1.- In riferimento alle ordinanze iscritte ai numeri 114 e
220 del r.o. 2019, va rilevato che, nei procedimenti a quibus,
l'ordine di esecuzione della pena e' stato emesso - e contestualmente
sospeso, ai sensi rispettivamente dei commi 5 e 10 dell'art. 656 cod.
proc. pen. - anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del
2019; cosi' come prima della vigenza di quest'ultima sono state
proposte da ciascun condannato le istanze di concessione di misure
alternative alla detenzione. In entrambi i giudizi a quibus, pero',
l'udienza per la decisione sull'istanza del condannato si e' svolta
successivamente all'entrata in vigore della predetta legge.
In proposito, occorre osservare che il piu' recente orientamento
della giurisprudenza di legittimita', formatosi proprio sulla base
delle questioni di diritto intertemporale suscitate dalla legge n. 3
del 2019, e' effettivamente nel senso dell'applicabilita' della
disciplina previgente ogniqualvolta l'istanza di concessione di
misure alternative alla detenzione sia stata presentata anteriormente
alla data di entrata in vigore della legge medesima (Corte di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019, n. 25212;
sentenza 28 novembre 2019, n. 48499; sentenza 17 gennaio 2020, n.
1799).
Tuttavia, tenendo conto anche della circostanza che la
giurisprudenza appena citata e' in gran parte successiva alle
ordinanze di rimessione, deve ritenersi non implausibile la
motivazione dei rimettenti circa la rilevanza delle questioni, che
muoveva dal diverso presupposto interpretativo che il discrimen
temporale per l'applicazione della disciplina sopravvenuta fosse
rappresentato dalla data di delibazione dell'istanza da parte del
tribunale di sorveglianza.
Tanto basta per disattendere l'eccezione sollevata
dall'Avvocatura generale dello Stato, «non potendosi procedere, in
questa sede, ad un sindacato (diverso dal controllo esterno) sul
giudizio di rilevanza, espresso dall'ordinanza di rimessione in modo
non implausibile (v. per tutte, sentenza n. 286 del 1997) e con
motivazione tutt'altro che carente (v. ordinanza n. 62 del 1997)»
(sentenza n. 179 del 1999; nello stesso senso, ordinanze n. 104 del
2019 e n. 47 del 2016).
3.1.2.- L'eccezione deve poi ritenersi all'evidenza infondata con
riferimento ai giudizi iscritti ai numeri 193 e 194 del r.o. 2019,
introdotti da giudici dell'esecuzione in seguito all'opposizione
contro altrettanti ordini di esecuzione della pena, emessi
successivamente all'entrata in vigore della disposizione censurata.
3.2.- Sempre nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019,
l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l'inammissibilita'
delle questioni, in quanto miranti a conseguire un intervento
manipolativo della Corte, in assenza di una soluzione
costituzionalmente obbligata. L'eccezione deve intendersi proposta
anche nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019,
stante il rinvio operato negli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri alle eccezioni gia' svolte nel giudizio
iscritto al n. 114 del r.o. 2019.
L'eccezione non e' fondata, per l'assorbente ragione che i
rimettenti sollecitano un intervento additivo della Corte, volto a
ricondurre le modificazioni recate all'art. 4-bis ordin. penit. dalla
disposizione censurata nell'alveo della garanzia di irretroattivita'
di cui, in particolare, all'art. 25, secondo comma, Cost.; soluzione
alla quale conseguirebbe - univocamente, dato il tenore letterale del
precetto costituzionale - l'inapplicabilita' di tali modificazioni ai
condannati per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della
legge che le ha introdotte.
3.3.- Nei giudizi iscritti ai numeri 115, 118 e 119 del r.o. 2019
- originati da incidenti di esecuzione volti a conseguire la
declaratoria di illegittimita' di ordini di esecuzione emessi e non
sospesi - l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per erronea individuazione della
norma censurata. I rimettenti avrebbero infatti denunciato l'art. 1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 (che inserisce i
delitti contro la pubblica amministrazione nel catalogo di cui
all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.) e non, invece, l'art. 656,
comma 9, lettera a), cod. proc. pen. (che stabilisce il divieto di
sospensione dell'ordine di esecuzione in relazione alle condanne per
i reati di cui all'art. 4-bis stesso).
L'eccezione non e' fondata. Dal tenore complessivo delle
ordinanze di rimessione risulta infatti evidente che l'intenzione dei
giudici dell'esecuzione rimettenti e' quella di censurare, per
l'appunto, l'effetto prodottosi sul meccanismo preclusivo di cui
all'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. in conseguenza
dall'ampliamento del catalogo di cui all'art. 4-bis ordin. penit.
D'altra parte, questa Corte ha gia' avuto modo di osservare che
«il comma 9 [dell'art. 656 cod. proc. pen], alla lettera a), prevede
che la sospensione dell'esecuzione non possa essere disposta "nei
confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis della
legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni", sicche',
per effetto del rinvio in essa contenuto, la norma processuale
recepisce automaticamente le variazioni del catalogo dei delitti
indicati nello stesso art. 4-bis (Corte di cassazione, Sezioni unite
penali, sentenza n. 24561 del 2006)», e che «l'art. 656, comma 9,
cod. proc. pen. disciplina unicamente l'attivita' del pubblico
ministero, vincolandone il contenuto in funzione della presunzione di
pericolosita' che concerne i condannati per i delitti compresi nel
catalogo appena citato» (ordinanza n. 166 del 2010).
Puo' allora ritenersi che, cosi' come la sospensione dell'ordine
di esecuzione, di cui all'art. 656, comma 5, cod. proc. pen., e'
istituto di natura «servente» rispetto alla richiesta di misure
alternative alla detenzione (sentenza n. 41 del 2018), allo stesso
modo il divieto di sospensione, di cui al comma 9, lettera a), della
medesima disposizione e' condizionato dalla presunzione di
pericolosita' correlata all'inserimento di un determinato reato nel
catalogo di cui all'art. 4-bis ordin. penit. I giudici rimettenti
sono pertanto chiamati a fare direttamente applicazione anche di
quest'ultima disposizione, cosi' come integrata dall'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, contro cui correttamente essi
rivolgono le proprie censure.
3.4.- Nei giudizi iscritti ai numeri 157, 160, 161, 193, 194 e
220 del r.o. 2019, l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per mancato esperimento di
un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione
censurata.
Nemmeno questa eccezione e' fondata.
I giudici a quibus hanno argomentato che, secondo il diritto
vivente, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene
detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le
modalita' esecutive della stessa, non avrebbero carattere di norme
penali sostanziali e sarebbero pertanto soggette al principio tempus
regit actum: con conseguente loro applicazione anche a fatti di reato
antecedenti alla loro entrata in vigore.
Come meglio si vedra' piu' innanzi, in effetti, la giurisprudenza
di legittimita' e' allo stato univocamente orientata in questo senso
(infra, 4.1.2.).
Alla luce dunque del diritto vivente, la possibilita' di
un'interpretazione costituzionalmente orientata, che attragga
nell'alveo dell'art. 25, secondo comma, Cost. le modificazioni
all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., introdotte dalla disposizione
censurata, e' stata esplorata e consapevolmente scartata dai
rimettenti: il che basta ai fini dell'ammissibilita' della questione
(sentenza n. 189 del 2019).
3.5.- Nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o.
2019, l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per mancata individuazione di una
norma oggetto della questione di legittimita' costituzionale,
asserendo che i rimettenti avrebbero censurato «un mancato intervento
del legislatore».
Nemmeno tale eccezione puo' essere accolta.
I giudici a quibus, infatti, individuano puntualmente la
disposizione censurata, che ha inserito i reati contro la pubblica
amministrazione nel catalogo di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit., invocando su di essa un intervento additivo di questa Corte,
mirante a delimitarne l'ambito temporale di applicazione ai fatti di
reato successivi alla sua entrata in vigore.
3.6.- Nei giudizi iscritti ai numeri 114, 115, 118, 119, 193, 194
e 210 del r.o. 2019, l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni relative alla dedotta lesione del
divieto di retroattivita' della legge penale sfavorevole (art. 25,
secondo comma, Cost.) e del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.),
sul rilievo che analoghe censure sarebbero gia' state respinte da
questa Corte nella sentenza 273 del 2001 e nelle ordinanze n. 108 del
2004 e n. 280 del 2001.
L'eccezione non puo' evidentemente essere accolta, atteso che -
anche ad ammettere che vi sia perfetta coincidenza tra le questioni
ora sollevate e altre gia' decise in passato - nulla vieta a questa
Corte di riconsiderare i propri stessi orientamenti interpretativi.
3.7.- Sia pure in assenza di alcuna specifica eccezione da parte
dell'Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio
iscritto al n. 210 del r.o. 2019 - ove il rimettente denuncia
l'illegittimita' costituzionale dell'immediata applicazione delle
modificazioni recate all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dalla
disposizione censurata, sotto il profilo della sopravvenuta
impossibilita' di concedere il beneficio del permesso premio agli
autori dei delitti di cui agli artt. 317 e 319 cod. pen. che non
collaborino la giustizia - va osservato che non elide la rilevanza
delle questioni ivi prospettate l'intervenuta declaratoria di
illegittimita' costituzionale, operata dalla citata sentenza n. 253
del 2019, dell'art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede
che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi
permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a
norma dell'art. 58-ter ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti
elementi tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo
del ripristino di tali collegamenti.
Nel caso di specie, il rimettente rappresenta infatti di dover
fare applicazione dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in
conseguenza dell'inclusione, con effetto immediato, dei reati
ascritti al condannato M.P. D.G. nel catalogo contemplato da detta
disposizione; laddove, a fronte dell'eventuale accoglimento delle
questioni sollevate, egli dovrebbe valutare la concessione del
permesso premio sulla base dei soli requisiti previsti dall'art.
30-ter ordin. penit. E' pertanto evidente che sarebbe radicalmente
diverso il percorso argomentativo che il giudice a quo dovrebbe
seguire nel vagliare l'istanza del condannato in caso di applicazione
della disciplina risultante dal censurato art. 1, comma 6, lettera
b), della legge n. 3 del 2019, o, viceversa, di quella previgente.
Di qui la persistente rilevanza delle questioni prospettate.
4.- Nel merito, le questioni prospettate dalle ordinanze di
rimessione iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194
e 220 del r.o. 2019 sono fondate con riferimento alla dedotta
violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost.
Il diritto vivente ritiene, invero, che le norme disciplinanti
l'esecuzione della pena siano in radice sottratte al divieto di
applicazione retroattiva che discende dal principio di legalita'
della pena di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.1.).
Plurime e convergenti ragioni inducono, tuttavia, a dubitare
della persistente compatibilita' di tale diritto vivente con i
principi costituzionali (infra, 4.2.).
In esito a una complessiva rimeditazione della tematica, occorre
in effetti concludere nel senso che, di regola, le pene detentive
devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della
loro esecuzione, salvo pero' che tale legge comporti, rispetto al
quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione
della natura della pena e della sua incidenza sulla liberta'
personale. In questa ipotesi, l'applicazione retroattiva di una tale
legge e' incompatibile con l'art. 25, secondo comma, Cost. (infra,
4.3.).
La disposizione in questa sede censurata comporta, per una serie
di reati contro la pubblica amministrazione, una trasformazione della
natura delle pene previste al momento del reato e della loro
incidenza sulla liberta' personale del condannato, quanto agli
effetti spiegati dalla stessa disposizione in relazione alle misure
alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.
Conseguentemente, l'applicazione della disposizione censurata ai
condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in
vigore, quanto agli effetti appena menzionati, viola il divieto di
cui all'art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.4.).
Stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale
delle modifiche in esame, il rimedio appropriato, in risposta alle
questioni sollevate dai rimettenti, e' la dichiarazione di
illegittimita' costituzionale della norma censurata cosi' come
risultante dal diritto vivente (infra, 4.5.).
4.1.- Tutte le ordinanze di rimessione muovono dal comune
presupposto che, secondo il diritto vivente, le modifiche in peius
della disciplina dell'esecuzione della pena in radice non sarebbero
soggette al principio di irretroattivita' della legge penale, di cui
all'art. 25, secondo comma, Cost.
4.1.1.- Un attento esame della giurisprudenza costituzionale in
materia - peraltro tutta piuttosto risalente - restituisce, in
verita', un quadro ricco di sfumature.
Questa Corte e' stata chiamata quasi trent'anni or sono a
misurarsi con la legittimita' costituzionale della retroattivita' di
simili modifiche in peius, in relazione agli effetti retroattivi
prodotti, all'indomani della strage di Capaci, dall'art. 15 del
decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo
codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7
agosto 1992, n. 356. Tale decreto-legge aveva, con riferimento ai
condannati per delitti di criminalita' organizzata e terrorismo, per
la prima volta subordinato la concessione dei benefici penitenziari e
della generalita' delle misure alternative alla detenzione al
presupposto della collaborazione con la giustizia, contestualmente
prevedendo la revoca di tali benefici e misure, pur gia' concessi,
nei confronti dei condannati che non avessero collaborato ai sensi
dell'art. 58-ter ordin. penit.
Per tutti gli anni Novanta, questa Corte non ha risolto il
quesito ora all'esame, giungendo comunque a dichiarazioni di parziale
illegittimita' costituzionale delle disposizioni di volta in volta
censurate sulla base di parametri diversi dall'art. 25, secondo
comma, Cost.
Nell'antesignana sentenza n. 306 del 1993, questa Corte -
investita di plurime questioni aventi a oggetto la legittimita'
costituzionale della revoca di misure alternative gia' concesse -
ritenne non sufficientemente motivata la rilevanza delle questioni
relative alla compatibilita' dell'effetto retroattivo previsto
dall'art. 15, comma 2, del d.l. n. 306 del 1992 con il principio di
legalita' della pena di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., pur
riconoscendo che tale profilo avrebbe potuto «meritare una seria
riflessione». Questa Corte giudico' invece incompatibile con l'art.
27, primo e terzo comma, Cost. la previsione della revoca delle
misure gia' concesse, anche quando non fosse stata accertata la
sussistenza di collegamenti attuali del condannato con la
criminalita' organizzata; e cio' in ragione dell'aspettativa,
legittimamente nutrita dai condannati che avevano gia' ottenuto la
semiliberta', a «veder riconosciuto l'esito positivo del percorso di
risocializzazione gia' compiuto», aspettativa ormai trasformatasi
«nel diritto ad espiare la pena con modalita' idonee a favorire il
completamento di tale processo».
Nella successiva sentenza n. 504 del 1995 questa Corte dichiaro'
illegittimo l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nel testo
risultante dalle modifiche introdotte dal citato art. 15 del d.l. n.
306 del 1992, nella parte in cui precludeva la concessione di
ulteriori permessi premio ai condannati per delitti "ostativi" che
non avessero collaborato con la giustizia, anche quando essi ne
avessero gia' fruito in precedenza e non fosse stata accertata la
sussistenza di collegamenti attuali con la criminalita' organizzata.
La ragione dell'illegittimita' fu, anche in questa occasione,
ravvisata nel contrasto della disciplina censurata con gli artt. 3 e
27 Cost., in considerazione dell'irragionevolezza e incompatibilita'
con la funzione rieducativa della pena di una disciplina che
comportava una sorta di "regressione incolpevole del trattamento"
connesso al beneficio penitenziario in questione.
Analoga ratio e' stata posta a fondamento delle sentenze n. 445
del 1997 e n. 137 del 1999, con le quali l'art. 4-bis ordin. penit.
fu dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva che -
rispettivamente - la semiliberta' e i permessi premio potessero
essere concessi nei confronti dei condannati che, prima della data di
entrata in vigore dell'art. 15, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992,
avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio
richiesto, e per i quali non fosse stata accertata la sussistenza di
collegamenti attuali con la criminalita' organizzata. Principio,
quest'ultimo, che sara' in seguito applicato da questa Corte anche
con riferimento alle modifiche in peius introdotte, per i condannati
recidivi reiterati, dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al
codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione)
(sentenze n. 79 del 2007 e n. 257 del 2006).
In altre occasioni, questa Corte e' pervenuta invece a
dichiarazioni di non fondatezza delle questioni poste dall'entrata in
vigore del medesimo art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, prospettate
sotto lo specifico profilo dell'art. 25, secondo comma, Cost., senza
affermare, in maniera generale, l'estraneita' di tutte le modifiche
in peius della disciplina in materia di esecuzione della pena al
raggio di garanzia offerto dal principio di legalita' della pena.
Nel caso deciso con la sentenza n. 273 del 2001, in particolare,
questa Corte era stata nuovamente sollecitata a chiarire se «il
principio di irretroattivita' della legge penale sia circoscritto
alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi
costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonche' la specie e la
durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito - come
rit[eneva] il giudice a quo - anche alle norme che disciplinano le
modalita' di espiazione della pena detentiva». Il giudice rimettente
aveva sollevato questione di legittimita' costituzionale relativa
alla disciplina che precludeva l'accesso alla liberazione
condizionale ai condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis, comma
1, ordin. penit., commessi prima dell'entrata in vigore del d.l. n.
306 del 1992, i quali non avessero collaborato con la giustizia. Come
anticipato, questa Corte non ha dato una risposta generale al
quesito, osservando che le disposizioni censurate, nell'esigere la
collaborazione con la giustizia quale condizione di accesso alla
liberazione condizionale, non avevano modificato gli elementi
costitutivi di tale istituto, e segnatamente il requisito dell'avere
tenuto il condannato un comportamento tale da farne ritenere sicuro
il ravvedimento. La disciplina censurata si sarebbe piuttosto
limitata a introdurre un criterio legale di valutazione del
requisito, rappresentato appunto dalla collaborazione processuale;
senza, dunque, modificare in senso deteriore per il condannato la
disciplina sostanziale della liberazione condizionale.
La medesima argomentazione compare poi nelle due ordinanze n. 108
del 2004 e n. 280 del 2001, con le quali sono state parimenti
rigettate due questioni relative agli effetti intertemporali di
modifiche apportate all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
4.1.2.- Il quadro della giurisprudenza della Corte di cassazione
e' invece assai netto nel senso della non riconducibilita' all'alveo
dell'art. 25, secondo comma, Cost. delle norme sull'esecuzione della
pena, e conseguentemente nel senso della pacifica applicabilita' di
modifiche normative di segno peggiorativo anche ai condannati che
abbiano commesso il reato prima dell'entrata in vigore delle
modifiche stesse.
Il tradizionale principio secondo cui le disposizioni in parola
non hanno carattere di norme sostanziali e soggiacciono pertanto, in
assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus
regit actum e' stato affermato, in particolare, nel 2006 (Corte di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561),
ed e' poi stato sempre confermato dalla giurisprudenza successiva (ex
multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 18
settembre 2006, n. 30792; sezione prima penale, sentenza 15 luglio
2008, n. 29155; sezione prima penale, sentenza 9 dicembre 2009, n.
46924; sezione seconda penale, sentenza 22 febbraio 2012, n. 6910;
sezione prima penale, sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima
penale, sentenza 18 dicembre 2014, n. 52578; sezione prima penale,
sentenza 9 settembre 2016, n. 37578).
4.1.3.- All'indomani dell'entrata in vigore della legge n. 3 del
2019, il diritto vivente e' stato invero rimesso in discussione da
alcune pronunce di merito, che hanno ritenuto inapplicabile la
disposizione censurata ai fatti di reato pregressi, dal momento che
ad essa si sarebbe dovuta riconoscere natura "sostanzialmente
penale", secondo i noti criteri Engel elaborati dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo, con conseguente sua soggezione al divieto di
retroattivita' sfavorevole di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost.
e 7 CEDU (Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario
di Como, ordinanza 8 marzo 2019; Corte di appello di Reggio Calabria,
sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019; Corte di appello di
Napoli, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019).
La Corte di cassazione ha, tuttavia, sinora unanimemente ribadito
- salvo che in un solo caso di cui si dira' tra breve (infra, 4.2.2.)
- il precedente orientamento espresso dalle Sezioni unite,
concludendo nel senso che le modificazioni apportate all'art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit. sono applicabili anche ai fatti di reato
pregressi in virtu' del principio tempus regit actum (Corte di
cassazione, sezione prima penale, sentenze 6 giugno 2019, n. 25212;
26 settembre 2019, n. 39609; 28 novembre 2019, n. 48499; 17 gennaio
2020, n. 1799; nonche' ordinanza 18 luglio 2019, n. 31853, che
proprio sulla base di questo presupposto interpretativo ha sollevato
le questioni di legittimita' costituzionale di cui all'ordinanza
iscritta al n. 141 del r.o. 2019, che questa Corte esaminera' in un
distinto giudizio).
4.2.- Come anticipato, plurime e convergenti ragioni inducono a
dubitare della persistente compatibilita' di tale diritto vivente con
i principi costituzionali.
4.2.1.- In primo luogo, non e' senza significato che, in alcune
occasioni almeno, lo stesso legislatore abbia ritenuto di limitare
espressamente l'applicabilita' di norme incidenti sul regime di
esecuzione della pena soltanto alle condanne pronunciate per fatti
posteriori all'entrata in vigore delle norme medesime.
Cio' e' avvenuto, anzitutto, proprio con il d.l. n. 152 del 1991,
cui si deve l'introduzione dell'art. 4-bis ordin. penit., nella sua
originaria versione. L'art. 4, comma 1, di tale decreto-legge
prevedeva, infatti, che le disposizioni che innalzavano, per i
condannati per i reati di cui alla nuova disposizione, i periodi
minimi di espiazione di pena per l'accesso ai benefici penitenziari
fossero applicabili solo in relazione ai fatti commessi dopo
l'entrata in vigore del decreto-legge stesso.
Analogo accorgimento non fu poi adottato con il d.l. n. 306 del
1992, al quale si deve l'introduzione nell'art. 4-bis, comma 1,
ordin. penit. del meccanismo preclusivo imperniato sulla mancanza di
collaborazione: meccanismo la cui immediata operativita' anche
rispetto ai condannati per fatti pregressi fu, in effetti,
all'origine delle varie questioni di legittimita' costituzionale
poc'anzi ricordate (supra, 4.1.1.), decise da questa Corte sulla base
del principio di non regressione incolpevole del trattamento
penitenziario, dedotto in particolare dall'art. 27, terzo comma,
Cost.
Ma, ancora nel 2002, il legislatore - nell'aggiungere all'elenco
di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti posti in
essere per finalita' di terrorismo, anche internazionale, o di
eversione dell'ordine democratico, nonche' i delitti di cui agli
artt. 600, 601 e 602 cod. pen. - ebbe cura di escludere
l'applicabilita' della modifica normativa ai condannati per tali
titoli delittuosi che avessero commesso il fatto anteriormente alla
sua entrata in vigore (art. 4 della legge 23 dicembre 2002, n. 279,
recante «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio
1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario»).
4.2.2.- Come e' accaduto in talune piu' recenti occasioni, la
legge n. 3 del 2019 non prevede invece alcuna disposizione
transitoria che ne escluda l'applicabilita' ai condannati per fatti
pregressi.
Proprio tale silenzio del legislatore del 2019 ha provocato un
diffuso disagio nella giurisprudenza di merito riguardo alla
sostenibilita' costituzionale e convenzionale della conclusione,
imposta dal diritto vivente, nel senso della sua applicazione anche
ai condannati per fatti pregressi. Cio' si e' manifestato sia nelle
pronunce di merito, di cui si e' poc'anzi dato conto (supra, 4.1.3.),
che hanno direttamente adottato una soluzione difforme; sia nel
grande numero di ordinanze che hanno sollevato, nell'arco di un
brevissimo lasso temporale, le questioni di legittimita'
costituzionale ora in discussione, con le quali si sollecita in
sostanza questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo
quel diritto vivente.
Nella stessa giurisprudenza di legittimita' non mancano,
d'altronde, segnali indicativi del medesimo disagio.
Una sentenza della sezione sesta penale della Corte di
cassazione, in particolare, ha prospettato dubbi di legittimita'
costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria
da parte della disposizione in questa sede censurata, pur ritenendo
di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza
nel caso di specie. La Corte di cassazione ha osservato, in
proposito, che l'orientamento consolidato della giurisprudenza di
legittimita' circa il carattere processuale delle norme
dell'ordinamento penitenziario andrebbe oggi rimeditato, anche alla
luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte
EDU, si' da garantire l'effettiva prevedibilita' delle conseguenze
sanzionatorie: «l'avere il legislatore cambiato in itinere le "carte
in tavola" senza prevedere alcuna norma transitoria» presenterebbe
«tratti di dubbia conformita' con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art.
117 Cost., la' dove si traduce [...] nel passaggio - "a sorpresa" e
dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza assaggio
di pena" ad una sanzione con necessaria incarcerazione» (Corte di
cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14 marzo 2019, n. 12541).
4.2.3.- Tutte le ordinanze di rimessione valorizzano, in effetti,
i recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte EDU
sull'estensione della garanzia dell'art. 7 CEDU, con riferimento
almeno a talune modifiche in peius del regime dell'esecuzione delle
pene; recenti sviluppi che l'ordinamento italiano non puo' del resto
ignorare.
Al riguardo, va premesso che, sino a poco piu' di un decennio fa,
la Corte di Strasburgo aveva sostenuto una tesi sovrapponibile a
quella della giurisprudenza italiana, negando in particolare che le
modifiche alla disciplina dell'esecuzione della pena chiamassero in
causa la garanzia dell'art. 7 CEDU (Corte EDU, sentenza 29 novembre
2005, Uttley contro Regno Unito; nello stesso senso, Commissione dei
diritti dell'uomo, decisione 3 marzo 1986, Hogben contro Regno
Unito).
Una prima, significativa correzione di rotta risale al 2008, in
relazione a un caso in cui il ricorrente aveva commesso il reato in
un'epoca in cui la pena dell'ergastolo, in forza dell'allora vigente
normativa penitenziaria nazionale, consentiva l'accesso del
condannato alla liberazione condizionale, in caso di buona condotta,
dopo vent'anni di detenzione. In seguito alla modifica di tale
normativa, la prospettiva di una liberazione condizionale era
sostanzialmente venuta meno, con conseguente trasformazione
dell'ergastolo in una detenzione, effettivamente, a vita. La Corte
EDU ha giudicato qui insussistente l'allegata violazione del divieto
di retroattivita' delle pene, sottolineando che il novum normativo
non aveva modificato la pena - l'ergastolo - inflitta sulla base
della legge vigente al momento del fatto; nondimeno ha ritenuto
violato l'art. 7 CEDU, censurando l'insufficiente chiarezza della
legge penale al momento del fatto, e dunque l'imprevedibilita' delle
conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione del precetto
(Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008, Kafkaris contro
Cipro).
Ma la pronuncia piu' significativa della Corte EDU - invocata non
a caso da tutte le ordinanze di rimessione - e', in questo contesto,
la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro Spagna, decisa
nel 2013. La Grande Camera - sia pure con riferimento a un caso non
sovrapponibile a quelli dai quali le odierne questioni sono originate
- ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme
sull'esecuzione della pena non sono soggette al divieto di
applicazione retroattiva di cui all'art. 7 CEDU, eccezion fatta -
pero' - per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione
della portata applicativa della "pena" imposta dal giudice».
Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero liberi -
ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti
esistenti - di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la
portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l'interessato.
Ove il divieto di retroattivita' non operasse in tali ipotesi -
conclude la Corte - l'art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto
utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene
inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla
commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre
2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).
4.2.4.- Le conclusioni cui e' recentemente pervenuta la Corte EDU
trovano significative conferme nella giurisprudenza di altre corti e
nella legislazione di altri Paesi.
Secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti, il generale divieto
di "ex post facto laws" sancito dalla Costituzione americana si
applica anche alle modifiche delle norme in materia di esecuzione
della pena che producano l'effetto pratico di prolungare la
detenzione del condannato, modificando il quantum della pena e
operando cosi' come una legge retroattiva sfavorevole, in quanto tale
non applicabile al condannato (Weaver v. Graham, 450 U.S. 24, 33
(1981); Lynce v. Mathis, 519 U.S. 433 (1997). Nel senso, peraltro,
che la garanzia dell'irretroattivita' opera solo allorche' il
ricorrente sia in grado di dimostrare che la modifica legislativa
sopravvenuta crei un "sufficiente rischio" di incrementare la durata
della sua detenzione rispetto alla disciplina vigente al momento
della commissione del fatto, California Department of Corrections v.
Morales, 514 U.S. 499 (1995); Garner v. Jones, 529 U.S. 244 (2000)).
Principi analoghi sono riconosciuti nell'ordinamento francese,
quanto meno a livello di legislazione ordinaria, dall'art. 112-2 del
codice penale. Tale norma dispone in via generale l'immediata
applicabilita', in vista della repressione anche dei reati commessi
anteriormente alla loro entrata in vigore, delle leggi modificatrici
del diritto processuale penale e della prescrizione del reato o della
pena, nonche' delle leggi relative al «regime di esecuzione e
dell'applicazione delle pene»: eccezion fatta pero', in riferimento a
queste ultime, per «quelle che abbiano l'effetto di rendere piu'
severe le pene inflitte con la sentenza di condanna», le quali sono
espressamente dichiarate «applicabili soltanto alle condanne
pronunciate per fatti commessi posteriormente alla loro entrata in
vigore».
4.2.5.- Alcune ordinanze di rimessione (in particolare, quelle
iscritte ai numeri 160 e 161 del r.o. 2019) e, soprattutto, le difese
delle parti private hanno infine posto l'accento - come gia' la
citata sentenza della Corte di cassazione n. 12541 del 2019 - sugli
effetti distorsivi prodotti sulle scelte difensive degli imputati dal
mutamento, nel corso delle indagini e poi del processo, del quadro
normativo sull'esecuzione della pena; con il conseguente profilarsi,
altresi', di possibili lesioni dell'art. 24 Cost.
Un tale rilievo e', in verita', di intuitiva evidenza.
L'imputato, ad esempio, puo' determinarsi a rinunciare al proprio
"diritto di difendersi provando" e concordare invece con il pubblico
ministero una pena contenuta entro una misura che lo candidi sin da
subito a ottenere una misura alternativa alla detenzione, confidando
comunque nella garanzia di non dover "passare per il carcere" grazie
al meccanismo sospensivo di cui all'art. 656, comma 5, cod. proc.
pen.; ovvero decidere, all'opposto, di affrontare il dibattimento,
confidando nella prospettiva che la pena che gli verra' inflitta,
anche in caso di condanna, non comportera' verosimilmente il suo
ingresso in carcere, per effetto di una misura alternativa che egli
abbia una ragionevole aspettativa di ottenere in base alla normativa
in vigore al momento del fatto.
Una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in
corso, della normativa in materia penitenziaria, e' suscettibile di
frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali
scelte difensive, esponendo l'imputato a conseguenze sanzionatorie
affatto impreviste e imprevedibili al momento dell'esercizio di una
scelta processuale, i cui effetti sono pero' irrevocabili (per
analoghi rilievi, si vedano anche la gia' citate sentenze della Corte
Suprema degli Stati Uniti, Weaver v. Graham, 32, e Lynce v. Mathis,
445, nonche' Corte Suprema del Canada, R. v. K.R.J., [2016] 1 SCR
906, 926, paragrafo 25, in un caso che concerneva l'applicazione
retroattiva di misure interdittive aggiuntive alla pena detentiva a
carico di chi fosse stato condannato per abusi sessuali).
4.3.- Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, questa
Corte ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione
della portata del divieto di retroattivita' sancito dall'art. 25,
secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell'esecuzione
della pena.
4.3.1.- Come e' noto, dall'art. 25, secondo comma, Cost. discende
pacificamente tanto il divieto di applicazione retroattiva di una
legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante,
quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda
una pena piu' severa per un fatto gia' in precedenza incriminato (da
ultimo, sentenza n. 223 del 2018); divieto, quest'ultimo, che trova
esplicita menzione nell'art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU,
nell'art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale
sui diritti civili e politici, nonche' nell'art. 49, paragrafo 1,
seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE).
La ratio di tale divieto e' almeno duplice.
Per un verso, il divieto in parola mira a garantire al
destinatario della norma una ragionevole prevedibilita' delle
conseguenze cui si esporra' trasgredendo il precetto penale. E cio'
sia per garantirgli - in linea generale - la «certezza di libere
scelte d'azione» (sentenza n. 364 del 1988); sia per consentirgli poi
- nell'ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo
carico - di compiere scelte difensive, con l'assistenza del proprio
avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari
sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna
(supra, 4.2.5.).
Ma una seconda ratio, altrettanto cruciale, non puo' essere
trascurata. Come gia' acutamente colse una celebre decisione della
Corte Suprema statunitense a qualche anno appena di distanza dalla
proclamazione del divieto di "ex post facto laws" nella Costituzione
federale, il divieto in parola erige un bastione a garanzia
dell'individuo contro possibili abusi da parte del potere
legislativo, da sempre tentato di stabilire o aggravare ex post pene
per fatti gia' compiuti. Quel divieto - scriveva nel 1798 la Corte
Suprema - deriva con ogni probabilita' dalla consapevolezza dei padri
costituenti che il Parlamento della Gran Bretagna aveva spesso
rivendicato, e in concreto utilizzato, il potere di stabilire, a
carico di chi avesse gia' compiuto determinate condotte ritenute di
particolare gravita' per la salus rei publicae, pene che non erano
previste al momento del fatto, o che erano piu' gravi di quelle sino
ad allora stabilite. Ma quelle leggi, osservava la Corte, in realta'
«erano sentenze in forma di legge»: null'altro, cioe', che
«l'esercizio di potere giudiziario» da parte di un Parlamento
animato, in realta', da intenti vendicativi contro i propri avversari
(Corte Suprema degli Stati Uniti, Calder v. Bull, 3 U.S. 386, 389
(1798)).
Il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al
momento del fatto, o anche solo piu' gravi di quelle allora previste,
opera in definitiva come uno dei limiti al legittimo esercizio del
potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di "stato di
diritto". Un concetto, quest'ultimo, che evoca immediatamente la
soggezione dello stesso potere a una "legge" pensata per regolare
casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente
avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potra'
comportare.
4.3.2.- Occorre allora verificare se e in che misura tali
fondamentali rationes debbano essere estese anche alle norme che,
lasciando inalterati tipologia e quantum delle pene previste per il
reato, ne modifichino tuttavia le modalita' esecutive.
Al riguardo, non v'e' dubbio che vi siano ragioni assai solide a
fondamento della soluzione, sinora consacrata dal diritto vivente,
secondo la quale le pene devono essere eseguite - di regola - in base
alla legge in vigore al momento dell'esecuzione, e non in base a
quella in vigore al tempo della commissione del reato.
In primo luogo, dal momento che l'esecuzione delle pene detentive
e' un fenomeno che si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole
distanza dal fatto di reato, non puo' non riconoscersi che nel tempo
inevitabilmente muta il contesto, fattuale e normativo, nel quale
l'amministrazione penitenziaria si trova a operare. Da cio' deriva la
necessita' di fisiologici assestamenti della disciplina normativa,
chiamata a reagire continuamente a tali mutamenti. Ove il regime di
esecuzione delle pene detentive dovesse restare cristallizzato alla
disciplina vigente al momento del fatto, ad esempio, non potrebbero
essere applicate a chi avesse commesso un omicidio negli anni Ottanta
o Novanta le restrizioni all'uso dei telefoni cellulari o di internet
oggi previste dall'ordinamento penitenziario.
In secondo luogo, le (fisiologicamente mutevoli) regole
trattamentali sono basate esse stesse su complessi bilanciamenti tra
i delicati interessi in gioco - ex multis: la tutela dei diritti
fondamentali dei condannati, ma anche il controllo della residua
pericolosita' criminale del detenuto all'interno e all'esterno del
carcere, in un quadro di limitatezza complessiva delle risorse a
disposizione -; bilanciamenti i cui esiti mal si prestano a essere
ricondotti alla logica binaria della soluzione "piu' favorevole" o
"piu' sfavorevole" per il singolo condannato, con la quale e' pero'
costretto ad operare il divieto di applicazione retroattiva della
legge penale. Si pensi a una eventuale riduzione delle "ore d'aria",
a fronte pero' di maggiori opportunita' di lavoro extramurario.
Ma soprattutto, un rigido e generale divieto di applicazione
retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa
all'esecuzione della pena o delle misure alternative alla detenzione
che dovesse essere ritenuta in concreto deteriore per il condannato
finirebbe per creare, all'interno del medesimo istituto
penitenziario, una pluralita' di regimi esecutivi paralleli, ciascuno
legato alla data del commesso reato. Cio' che creerebbe non solo
gravi difficolta' di gestione per l'amministrazione, ma anche
differenze di trattamento tra i detenuti; con tutte le intuibili
conseguenze sul piano del mantenimento dell'ordine all'interno degli
istituti, che e' esso pure condizione essenziale per un efficace
dispiegarsi della funzione rieducativa della pena.
4.3.3.- La regola appena enunciata deve, pero', soffrire
un'eccezione allorche' la normativa sopravvenuta non comporti mere
modifiche delle modalita' esecutive della pena prevista dalla legge
al momento del reato, bensi' una trasformazione della natura della
pena, e della sua concreta incidenza sulla liberta' personale del
condannato.
In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni
effetto pratico, l'applicazione di una pena che e' sostanzialmente un
aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con
conseguente piena operativita' delle rationes, poc'anzi rammentate,
che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle
leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il
reato.
Cio' si verifica, paradigmaticamente, allorche' al momento del
fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita "fuori"
dal carcere, la quale - per effetto di una modifica normativa
sopravvenuta al fatto - divenga una pena che, pur non mutando
formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma "dentro" il
carcere. Tra il "fuori" e il "dentro" la differenza e' radicale:
qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare
diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto;
con conseguente inammissibilita' di un'applicazione retroattiva di
una tale modifica normativa, al metro dell'art. 25, secondo comma,
Cost.
E cio' vale anche laddove la differenza tra il "fuori" e il
"dentro" si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative,
rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al
momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione
allora vigente, e quella che e' invece ragionevole attendersi sulla
base del mutato quadro normativo. Proprio la giurisprudenza
statunitense cui si e' fatto poc'anzi riferimento (supra, 4.2.4.)
mostra non a caso come - ai fini della verifica del carattere
deteriore della modifica normativa sulla concreta vicenda esecutiva -
non possa prescindersi da una valutazione prognostica circa la
creazione, da parte della legge sopravvenuta, di un serio rischio che
il condannato possa essere assoggettato a un trattamento piu' severo
di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento del fatto,
in termini di minore probabilita' di accesso a modalita' extramurarie
di esecuzione della sanzione (come il parole negli Stati Uniti, o le
misure alternative alla detenzione nell'ordinamento italiano).
4.4.- Occorre a questo punto verificare in che misura gli esiti
della complessiva rimeditazione sin qui compiuta incidano sulle
questioni di legittimita' costituzionale ora all'esame.
La disposizione censurata inserisce la maggior parte dei reati
contro la pubblica amministrazione nell'elenco previsto dall'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit., determinando con cio' le conseguenze
deteriori sulla complessiva vicenda esecutiva a carico dei condannati
per tali reati, che si sono a tempo debito illustrate (supra, 2.).
V'e' dunque da stabilire se e in che misura tali conseguenze
deteriori possano essere legittimamente applicate - al metro dei
principi appena enunciati - a chi sia stato condannato per fatti
commessi prima dell'entrata in vigore della disposizione medesima.
4.4.1.- Questa Corte ritiene che l'art. 25, secondo comma, Cost.
non si opponga a un'applicazione retroattiva delle modifiche
derivanti dalla disposizione censurata alla disciplina dei meri
benefici penitenziari, e in particolare dei permessi premio e del
lavoro all'esterno.
Per quanto, infatti, non possa disconoscersi il significativo
impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittivita' della
pena per il singolo condannato, non pare a questa Corte che modifiche
normative che si limitino a rendere piu' gravose le condizioni di
accesso ai benefici medesimi determinino una trasformazione della
natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento
del fatto e inflitta, si' da chiamare in causa la garanzia
costituzionale in parola.
Il condannato che fruisca di un permesso premio, o che sia
ammesso al lavoro all'esterno del carcere, continua in effetti a
scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione
"intramuraria". Egli resta in linea di principio "dentro" il carcere,
continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza
l'istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoche' ogni aspetto
della vita del detenuto.
D'altra parte, proprio perche' i condannati ammessi
periodicamente a godere di permessi premio e/o a svolgere lavoro
all'esterno ai sensi dell'art. 21 ordin. penit. restano detenuti che
scontano la pena detentiva loro inflitta dal giudice della
cognizione, non puo' non valere nei loro confronti l'esigenza, gia'
segnalata (supra, 4.3.2.), di evitare disparita' di trattamento,
all'interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto
dal tempo del commesso reato: disparita' che sarebbero di assai
problematica gestione da parte dell'amministrazione penitenziaria, e
che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalita'
dei detenuti.
4.4.2. - La conclusione opposta si impone, invece, in relazione
agli effetti prodotti dalla disposizione censurata sul regime di
accesso alle misure alternative alla detenzione disciplinate dal
Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, e in particolare
all'affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione
domiciliare nelle sue varie forme e alla semiliberta'.
Si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla
qualita' e quantita' della pena [...] e che per cio' stesso
modificano il grado di privazione della liberta' personale imposto al
detenuto» (sentenza n. 349 del 1993), finendo anzi per costituire
delle vere e proprie "pene" alternative alla detenzione (ordinanza n.
327 del 1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e
caratterizzate non solo da una portata limitativa della liberta'
personale del condannato assai piu' contenuta, ma anche da
un'accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del
tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva.
Cio' e' stato anche di recente ribadito da questa Corte con
riferimento sia all'affidamento in prova al servizio sociale per i
condannati adulti, definito quale «strumento di espiazione della
pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo,
meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso
sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l'esito positivo
dell'affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro
effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)» (sentenza n. 68
del 2019); sia alla detenzione domiciliare, che costituisce anch'essa
«"non una misura alternativa alla pena", ma una pena "alternativa
alla detenzione"», caratterizzata da prescrizioni meramente
«limitative della liberta', sotto la vigilanza del magistrato di
sorveglianza e con l'intervento del servizio sociale» (sentenza n. 99
del 2019, con richiamo alla gia' citata ordinanza n. 327 del 1989).
Tali considerazioni valgono anche rispetto alla semiliberta', ove
l'obbligo di trascorrere una parte della giornata - e quanto meno le
ore notturne - all'interno dell'istituto penitenziario (ma, di
regola, in sezioni autonome: art. 48, comma 2, ordin. penit.) si
accompagna al godimento di spazi di liberta' assai significativi, al
di fuori della fitta rete di prescrizioni che normalmente corredano
la concessione di meri benefici extramurari.
4.4.3.- La medesima conclusione si impone - in forza del rinvio
"mobile" (sentenza n. 39 del 1994) di cui all'art. 2 del d.l. n. 152
del 1991 - per cio' che concerne la liberazione condizionale:
istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 cod. pen., ma
funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione,
essendo anch'esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento
del condannato nella societa', attraverso la concessione di uno
sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario,
«tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo
ravvedimento».
La subordinazione anche della liberazione condizionale alla
collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta per
il condannato per delitti contro la pubblica amministrazione
l'evidente rischio di un significativo prolungamento del periodo da
trascorrere in carcere, rispetto alle prospettive che gli si
presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto; con
conseguente incompatibilita' con l'art. 25, secondo comma, Cost.
dell'applicazione retroattiva della preclusione di cui all'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit. anche rispetto alla liberazione
condizionale.
4.4.4.- Identica conclusione va tratta, infine, quanto
all'effetto riflesso spiegato dalla disposizione censurata in
relazione al divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena di cui all'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.
A tale conclusione non e' di ostacolo la collocazione di tale
ultima disposizione nel codice di procedura penale, da cui la
giurisprudenza sinora unanime (per tutte, Corte di cassazione,
sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) ha dedotto la sua
sottoposizione al generale principio tempus regit actum.
Infatti, la collocazione topografica di una disposizione non puo'
mai essere considerata decisiva ai fini dell'individuazione dello
statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile. In plurime
occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha, d'altronde, gia'
esteso le garanzie discendenti dall'art. 25, secondo comma, Cost. a
norme non qualificate formalmente come penali dal legislatore
(sentenze n. 63 del 2019, n. 223 del 2018, n. 68 del 2017 e n. 196
del 2010; ordinanza n. 117 del 2019).
Tale principio non puo' non valere anche rispetto alle norme
collocate nel codice di procedura penale, allorche' incidano
direttamente sulla qualita' e quantita' della pena in concreto
applicabile al condannato.
Non v'e' dubbio che l'art. 656, comma 9, cod. proc. pen. - nel
vietare la sospensione dell'ordine di esecuzione della pena in una
serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione,
relativa alla condanna per un reato di cui all'art. 4-bis, ordin.
penit. - produce l'effetto di determinare l'inizio dell'esecuzione
della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da
parte del tribunale di sorveglianza sull'eventuale istanza di
ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte
almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziche'
con le modalita' extramurarie che erano consentite - per l'intera
durata della pena inflitta - sulla base della legge vigente al
momento della commissione del fatto.
Tanto basta per riconoscere alla disposizione in questione un
effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta
incidenza sulla liberta' personale, rispetto al quadro normativo
vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilita',
ai sensi dell'art. 25, secondo comma, Cost. alle condanne per reati
commessi anteriormente all'entrata in vigore della novella
legislativa, che ne ha indirettamente modificato l'ambito
applicativo, tramite l'inserimento di numerosi reati contro la
pubblica amministrazione nell'elenco di cui all'art. 4-bis ordin.
penit.
4.4.5.- Per le ragioni gia' anticipate (supra, 4.3.4.), non
varrebbe a inficiare le conclusioni appena raggiunte l'obiezione
secondo cui la prospettiva - per il condannato - di vedersi applicare
una misura alternativa, sulla base della legge in vigore al momento
del fatto, sarebbe stata meramente ipotetica ed eventuale.
La valutazione circa il carattere deteriore della disciplina
sopravvenuta non puo', infatti, che essere condotta secondo criteri
di rilevante probabilita': e cio' con riferimento tanto ai benefici
accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente,
quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall'entrata in vigore
della nuova disciplina.
Sotto il primo profilo, e' evidente che - in linea generale, e
salve le peculiarita' di ogni singolo caso - nei confronti dei
condannati per reati contro la pubblica amministrazione sussisteva
una rilevante probabilita', sulla base della disciplina previgente,
di accedere a misure alternative alla pena detentiva, laddove i
relativi limiti di pena ancora da scontare o i rispettivi requisiti
anagrafici (per cio' che concerne la detenzione domiciliare di cui
all'art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) lo permettessero. Un tale
assunto e', se non altro, dimostrato dallo stesso elevato numero
delle ordinanze di rimessione, che argomentano la rilevanza delle
questioni proprio muovendo da un giudizio di meritevolezza rispetto
al beneficio del singolo condannato sulla base della previgente
disciplina.
Sotto il secondo profilo, non puo' negarsi, per converso, che la
normativa sopravvenuta - oltre a precludere in via assoluta l'accesso
a taluni benefici, come la detenzione domiciliare per i condannati
ultrasettantenni (cio' che basterebbe, invero, a dimostrarne per
tabulas il carattere necessariamente deteriore) - rende
significativamente meno probabile la concessione degli stessi, anche
in considerazione delle incertezze, ancora non affrontate dalla
giurisprudenza, sulla precisa estensione dell'obbligo collaborativo
in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione e,
segnatamente, se esso debba intendersi come limitato al singolo fatto
di reato per il quale e' stata pronunciata condanna, ovvero se si
estenda a tutti i reati ad esso in qualche modo connessi, e dei quali
l'autorita' giudiziaria ritenga che il condannato sia comunque a
conoscenza.
4.5.- Come gia' evidenziato, il censurato art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, cosi' come scritto dal
legislatore, nulla prevede in relazione alla sua applicazione nel
tempo, ne' dispone la sua applicazione alle condanne per reati
commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge. In
contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost. - sotto i profili
denunciati dalle ordinanze di rimessione in questa sede esaminate -
e' la norma risultante dal diritto vivente, a tenore della quale le
modifiche introdotte con la disposizione censurata sarebbero
applicabili anche retroattivamente.
Al fine di porre rimedio a tale violazione, non puo' pero'
accogliersi la richiesta, formulata in udienza dall'Avvocatura
generale dello Stato, di una sentenza interpretativa di rigetto, che
dichiari non fondate le questioni "nei sensi di cui in motivazione".
L'indubbia esistenza di un diritto vivente in senso contrario (supra,
4.1.) - diritto vivente dal quale muovono, del resto, le stesse
ordinanze di rimessione - esclude la praticabilita' di una simile
opzione, e impone a questa Corte di pronunciare una sentenza di
accoglimento delle questioni prospettate (ex plurimis, sentenza n.
299 del 2005).
Conseguentemente, va dichiarata l'illegittimita' costituzionale,
per contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost., dell'art. 1, comma
6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel
senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1, della
legge n. 354 del 1975, si applichino anche ai condannati che abbiano
commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della legge n.
3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative
alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354
del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e
177 cod. pen. e della sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena prevista dall'art. 656, comma 9, lettera a), del codice di
procedura penale.
Restano assorbiti i profili di ammissibilita' e di merito di
tutte le ulteriori censure prospettate in riferimento ad altri
parametri costituzionali.
5.- Come gia' chiarito (supra, 4.4.1.), questa Corte non ritiene,
invece, che l'art. 25, secondo comma, Cost. vieti l'applicazione
retroattiva di modifiche normative che incidano in senso deteriore
per il condannato quanto alla disciplina di meri benefici
penitenziari, come - segnatamente - i permessi premio e il lavoro
all'esterno.
Cio' non significa, peraltro, che al legislatore sia consentito
disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal
condannato che abbia gia' raggiunto, in concreto, un grado di
rieducazione adeguato alla concessione del beneficio. Cio' si
porrebbe in contrasto - se non con l'art. 25, secondo comma, Cost. -
con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena
(artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), secondo i principi sviluppati
dalla giurisprudenza di questa Corte sin dagli anni Novanta del
secolo scorso (supra, 4.1.1.).
Un simile vulnus si e' in effetti verificato nel caso oggetto del
procedimento a quo cui si riferisce l'ordinanza del Tribunale di
sorveglianza di Potenza, iscritta al n. 210 del r.o. 2019 (Ritenuto
in fatto, 10.), relativa alla vicenda di un condannato che sta
espiando la propria pena detentiva, e che - secondo quanto esposto
dal rimettente - alla data di entrata in vigore della legge n. 3 del
2019 aveva gia' maturato, in base alla disciplina previgente, i
requisiti per la concessione del permesso premio.
Negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la
concessione del beneficio equivarrebbe a disconoscere la funzione
pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019),
quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento
nella societa', in vista dell'eventuale concessione di misure
alternative alla detenzione, in assenza di gravi comportamenti che
dimostrino la non meritevolezza del beneficio nel caso concreto
(sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 137 del
1999 e n. 445 del 1997).
L'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 deve,
pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per
contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in
cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere
concesso ai condannati per uno dei reati ivi elencati che, prima
dell'entrata in vigore della legge medesima, abbiano raggiunto un
grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso, restando
assorbiti i profili di ammissibilita' e di merito di tutte le
ulteriori censure proposte dal rimettente.
6.- L'accoglimento delle questioni prospettate dalle ordinanze
iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194 e 220 del
r.o. 2019 in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost. rende
infine priva di oggetto - e per tale ragione inammissibile - la
questione di legittimita' costituzionale iscritta al n. 157 del r.o.
2019, avente identico petitum, sollevata dal Tribunale di
sorveglianza di Taranto in riferimento al solo art. 3 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di
prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e
movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le
modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta') si
applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto
anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in
riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione
previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della
liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice
penale e del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione
previsto dall'art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura
penale;
2) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede
che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai
condannati che, prima dell'entrata in vigore della medesima legge,
abbiano gia' raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione
adeguato alla concessione del beneficio stesso;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal
Tribunale di sorveglianza di Taranto con l'ordinanza indicata in
epigrafe (r.o. n. 157 del 2019).
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Francesco VIGANO', Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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