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mercoledì 4 marzo 2020

N. 32 SENTENZA 12 - 26 febbraio 2020 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 introdotte dalla legge c.d. "spazzacorrotti" - Inserimento di determinati reati contro la pubblica amministrazione nell'elenco dei reati ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione previste dalla legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale e della sospensione dell'ordine di esecuzione - Applicabilita', secondo il diritto vivente, anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della novella - Violazione del divieto di retroattivita' della legge penale sfavorevole - Illegittimita' costituzionale della norma censurata, come interpretata dal diritto vivente. Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 introdotte dalla legge c.d. "spazzacorrotti" - Inserimento di determinati reati contro la pubblica amministrazione nell'elenco dei reati ostativi alla concessione del beneficio del permesso premio - Inapplicabilita' ai condannati che, prima dell'entrata in vigore della novella, abbiano gia' raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso - Omessa previsione - Irragionevole disparita' di trattamento e violazione della finalita' rieducativa della pena - Illegittimita' costituzionale in parte qua. - Legge 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 6, lettera b), modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354. - Costituzione, artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, (111) e 117, primo comma; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 7. (GU n.10 del 4-3-2020 )

N. 32 SENTENZA 12 - 26 febbraio 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1,  della
  legge n. 354 del 1975 introdotte dalla legge c.d.  "spazzacorrotti"
  -   Inserimento   di   determinati   reati   contro   la   pubblica
  amministrazione nell'elenco dei  reati  ostativi  alla  concessione
  delle misure alternative alla detenzione previste  dalla  legge  n.
  354 del 1975, della liberazione condizionale  e  della  sospensione
  dell'ordine di esecuzione  -  Applicabilita',  secondo  il  diritto
  vivente,  anche  ai  condannati  che  abbiano  commesso  il   fatto
  anteriormente all'entrata in vigore della novella - Violazione  del
  divieto  di  retroattivita'  della  legge  penale   sfavorevole   -
  Illegittimita'   costituzionale   della   norma   censurata,   come
  interpretata dal diritto vivente.
Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1,  della
  legge n. 354 del 1975 introdotte dalla legge c.d.  "spazzacorrotti"
  -   Inserimento   di   determinati   reati   contro   la   pubblica
  amministrazione nell'elenco dei reati ostativi alla concessione del
  beneficio del permesso premio - Inapplicabilita' ai condannati che,
  prima dell'entrata in vigore della novella, abbiano gia' raggiunto,
  in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del
  beneficio stesso - Omessa previsione - Irragionevole disparita'  di
  trattamento e violazione della finalita' rieducativa della  pena  -
  Illegittimita' costituzionale in parte qua.
- Legge  9  gennaio  2019,  n.  3,  art.  1,  comma  6,  lettera  b),
  modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio  1975,
  n. 354.
- Costituzione, artt. 3, 24, secondo comma, 25,  secondo  comma,  27,
  terzo  comma,  (111)  e  117,  primo  comma;  Convenzione  per   la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,
  art. 7.
(GU n.10 del 4-3-2020 )
 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Marta CARTABIA;
Giudici :Aldo CAROSI,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI,
     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma  6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in  materia  di
prescrizione del reato e in materia  di  trasparenza  dei  partiti  e
movimenti politici), modificativo dell'art.  4-bis,  comma  1,  della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
promossi dal Tribunale  di  sorveglianza  di  Venezia  con  ordinanza
dell'8 aprile 2019, dalla Corte d'appello di Lecce con ordinanza  del
4 aprile 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del  Tribunale
ordinario di Cagliari con ordinanza del 10 giugno 2019,  dal  Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale  ordinario  di  Napoli  con
ordinanza del 2 aprile 2019, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto
con ordinanza del 7 giugno 2019, dal Tribunale ordinario di  Brindisi
con due ordinanze del 30 aprile 2019, dal  Giudice  per  le  indagini
preliminari  del  Tribunale  ordinario  di  Caltanissetta   con   due
ordinanze del 16  luglio  2019,  dal  Tribunale  di  sorveglianza  di
Potenza  con  ordinanza  del  31  luglio  2019  e  dal  Tribunale  di
sorveglianza  di  Salerno  con  ordinanza   del   12   giugno   2019,
rispettivamente iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 157, 160, 161,
193, 194, 210 e 220 del registro ordinanze 2019  e  pubblicate  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 34, 35, 36, 41, 42, 46, 48
e 50, prima serie speciale, dell'anno 2019.
    Visti gli atti di costituzione di A. B., R.B. L. e A. B., nonche'
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    udito nell'udienza pubblica dell'11 febbraio 2020 e nella  camera
di consiglio del 12  febbraio  2020  il  Giudice  relatore  Francesco
Vigano';
    uditi gli avvocati Tommaso Bortoluzzi e Vittorio Manes per A. B.,
Amilcare Tana e Gian Domenico Caiazza per R.B. L.,  Ladislao  Massari
per  A.  B.  e  l'avvocato  dello  Stato  Massimo  Giannuzzi  per  il
Presidente del Consiglio dei ministri;
    deliberato nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020.

                          Ritenuto in fatto

    1.- Con ordinanza dell'8 aprile 2019 (r.o. n. 114 del  2019),  il
Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato  -  in  riferimento
agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma,
della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  7  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta'   fondamentali   (CEDU)   -   questioni   di    legittimita'
costituzionale dell'art. 1,  comma  6,  lettera  b),  della  legge  9
gennaio 2019, n. 3 (Misure per  il  contrasto  dei  reati  contro  la
pubblica amministrazione, nonche'  in  materia  di  prescrizione  del
reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti  politici),
«nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis, comma 1,  della  legge
26 luglio 1975, n. 354, si applica anche in relazione ai  delitti  di
cui  agli  artt.  318,  319,  319-quater   e   321   c.p.,   commessi
anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge».
    Il rimettente e' investito di un'istanza di affidamento in  prova
al servizio sociale presentata da A. B.  -  allo  stato,  libero  per
sospensione dell'ordine di esecuzione della pena, avvenuta  ai  sensi
dell'art. 656,  comma  5,  del  codice  di  procedura  penale,  prima
dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 -  condannato  dalla
Corte d'appello  di  Venezia,  con  sentenza  del  12  novembre  2015
(irrevocabile  il  12  ottobre  2017),  alla  pena  di  tre  anni  di
reclusione per i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 318,  319,
319-quater e 321 del codice penale, commessi dal 2002 al  2011  (pena
residua da espiare pari a due anni,  tre  mesi  e  dodici  giorni  di
reclusione).
    1.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo osserva che, per effetto dell'entrata  in  vigore  della  norma
censurata, i reati ascritti ad A. B. sono stati inclusi nel  catalogo
di cui all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio  1975,  n.  354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta'), con la  conseguenza  che,  in
relazione agli stessi, la concessione  dei  benefici  penitenziari  e
delle misure alternative alla  detenzione  e'  ora  subordinata  alla
collaborazione del condannato con la giustizia,  ai  sensi  dell'art.
58-ter ordin. penit. e  dell'art.  323-bis  cod.  pen.,  oppure  alla
impossibilita' o  irrilevanza  della  collaborazione  medesima  (art.
4-bis, comma 1-bis, ordin. penit.). Requisiti, questi ultimi, che non
possono dirsi realizzati da A. B.
    La gia' intervenuta sospensione dell'ordine di  esecuzione  della
pena, ai sensi dell'art. 656, comma 5, cod. proc. pen., non  varrebbe
a sottrarre la fattispecie all'ambito  applicativo  di  azione  della
novella recata dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, atteso che l'istanza di concessione  delle  misure  alternative
alla detenzione avrebbe introdotto una distinta fase del procedimento
esecutivo, in cui il tribunale di sorveglianza  sarebbe  chiamato  ad
applicare anche  le  modifiche  normative  sopravvenute  rispetto  al
momento  della  sospensione  dell'esecuzione  (e'  citata  Corte   di
Cassazione, sezione prima  penale,  sentenza  18  dicembre  2014,  n.
52578).
    Non potrebbe evocarsi - al  fine  di  escludere  l'applicabilita'
della disciplina introdotta dalla legge n. 3 del 2019 - il  principio
di matrice costituzionale che, a fronte di sopravvenute modifiche  di
segno restrittivo dei presupposti per  la  concessione  dei  benefici
penitenziari,   salvaguarda   la   gia'    realizzata    progressione
trattamentale del  condannato,  vietando  «l'immotivata  regressione»
nella fruizione dei benefici stessi (sono citate le sentenze  n.  149
del 2018, n. 257 e n. 255 del 2006, n. 445 del  1997  e  n.  504  del
1995). Nel caso di specie, infatti,  A.  B.  si  trova  in  stato  di
liberta'  e  non  sussistono  elementi  per  formulare  una  positiva
valutazione circa i progressi trattamentali dell'interessato.
    In  definitiva,  la   concessione   ad   A.   B.   della   misura
dell'affidamento in prova al servizio sociale risulterebbe  preclusa,
in conseguenza dell'attuale formulazione dell'art.  4-bis,  comma  1,
ordin. penit., come modificato dalla legge n.  3  del  2019;  e  cio'
benche'   le   risultanze   istruttorie    offrano    elementi    che
consentirebbero, nel merito, di addivenire a una pronuncia favorevole
all'interessato, in considerazione della regolare condotta serbata in
regime cautelare, del principio di risarcimento del danno effettuato,
della positiva situazione socio-familiare  e  lavorativa.  Donde,  la
rilevanza delle questioni sollevate.
    1.2.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
premette che, secondo il costante orientamento  della  giurisprudenza
di legittimita', le disposizioni concernenti l'esecuzione delle  pene
detentive e le misure alternative alla  detenzione,  non  riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma  soltanto  le
modalita' esecutive della stessa, non avrebbero  carattere  di  norme
penali  sostanziali  e  soggiacerebbero  pertanto,  in   assenza   di
specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit  actum  e
non alle regole dettate dagli artt. 25 Cost. e 2 cod. pen. in tema di
successione di norme penali  del  tempo,  con  conseguente  immediata
applicabilita' a tutti i rapporti esecutivi non  ancora  esauriti  di
eventuali modifiche normative  di  segno  peggiorativo  (sono  citate
Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17  luglio  2006,
n. 24561; sezione prima penale, sentenza 20 luglio  2006,  n.  25113;
sezione prima penale, sentenza 1° settembre 2006, n.  29508;  sezione
prima penale, sentenza  4  ottobre  2006,  n.  33062;  sezione  prima
penale, sentenza 3 dicembre 2009, n.  46649;  sezione  prima  penale,
sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima penale,  sentenza  18
dicembre 2014, n. 52578; sezione prima  penale,  sentenza  27  aprile
2018, n. 18496). In ragione di tale consolidata  giurisprudenza,  non
sarebbe praticabile - diversamente da quanto ritenuto da un'ordinanza
dell'8 marzo  2019  del  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del
Tribunale ordinario di Como -  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3
del 2019, volta a  escluderne  l'applicabilita'  ai  fatti  di  reato
commessi prima della sua entrata in vigore.
    1.2.1.- Il giudice a quo osserva poi che la Corte di  cassazione,
sezione sesta penale, nella sentenza 20 marzo 2019, n. 12541, avrebbe
ritenuto non manifestamente  infondato  -  ancorche',  nella  specie,
irrilevante - il dubbio di legittimita' costituzionale  dell'art.  1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019  in  riferimento  agli
artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU, cosi' come interpretato nella
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 21  ottobre  2013,
Del Rio Prada contro Spagna, sul rilievo che «l'avere il  legislatore
cambiato in itinere le "carte in tavola" senza prevedere alcuna norma
transitoria [...] si traduce, [...], nel passaggio - "a  sorpresa"  e
dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza  assaggio
di pena" ad una sanzione con necessaria incarcerazione». In  adesione
alle argomentazioni della citata pronuncia, il  rimettente  prospetta
anzitutto   l'illegittimita'   costituzionale   della    disposizione
censurata, per contrasto con gli artt.  25,  secondo  comma,  e  117,
primo comma, Cost. (in relazione all'art. 7 CEDU), sotto  il  profilo
della violazione del divieto di  retroattivita'  della  legge  penale
sfavorevole.
    Il rimettente ritiene che, al metro  della  giurisprudenza  della
Corte EDU, le misure alternative alla detenzione non  possano  essere
considerate mere modalita' di esecuzione  della  pena,  incidendo  su
quest'ultima in termini  di  sostanziale  modificazione  quantitativa
ovvero qualitativa,  sicche'  eventuali  sopravvenienze  normative  o
giurisprudenziali che operino in senso restrittivo  sulla  disciplina
dei presupposti e delle condizioni  di  accesso  alle  misure  stesse
dovrebbero essere assistite dalla garanzia di irretroattivita' di cui
all'art. 7 CEDU.
    La stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe riconosciuto che,
a differenza degli altri benefici penitenziari, le misure alternative
alla   detenzione,   «nell'estinguere   lo   status   di    detenuto,
costituiscono altro status diverso e specifico rispetto a  quello  di
semplice condannato», e che  esse  «partecipano  della  natura  della
pena, proprio per il loro coefficiente di afflittivita'» (sentenza n.
188 del 1990). Pertanto, «modifiche che  comportano  una  sostanziale
modificazione nel grado di privazione della  liberta'  personale  non
possono considerarsi fenomeno  privo  di  rilievo  sotto  il  profilo
costituzionale», secondo quanto si evincerebbe dalla sentenza n.  306
del 1993.
    Confermerebbe la  necessita'  costituzionale  di  una  disciplina
transitoria,  in  caso  di  modifiche  in  senso  restrittivo   delle
condizioni di accesso alle misure  alternative,  la  circostanza  che
l'art. 4 del decreto-legge 13  maggio  1991,  n.  152  (Provvedimenti
urgenti  in  tema  di  lotta  alla  criminalita'  organizzata  e   di
trasparenza  e   buon   andamento   dell'attivita'   amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio  1991,  n.  203,
abbia  circoscritto  l'applicazione   dell'allora   introdotto   art.
58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975  -  norma  limitativa
della concessione di  benefici  penitenziari  per  i  condannati  per
taluni gravi delitti - ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore del
decreto-legge stesso.
    In occasione di altri interventi normativi, non  accompagnati  da
una disciplina  transitoria,  questa  Corte  avrebbe  poi  dichiarato
l'illegittimita'  di  modifiche   di   segno   restrittivo   rispetto
all'accesso ai benefici penitenziari, nella misura in cui  le  stesse
si applicassero anche ai condannati che avevano gia' raggiunto, sulla
base della normativa previgente, un grado di rieducazione adeguato ai
benefici richiesti (sono citate le sentenze n. 79 del  2007,  n.  257
del 2006, n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997).
    1.2.2.- Il rimettente ritiene che il censurato art. 1,  comma  6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019 si ponga in contrasto  con  gli
artt. 25, secondo comma, e 117,  primo  comma,  Cost.  (in  relazione
all'art.  7  CEDU)  anche  sotto  il  profilo  della  violazione  del
principio dell'affidamento, che imporrebbe la  cristallizzazione  del
trattamento sanzionatorio irrogabile all'autore del reato,  sotto  il
profilo  dell'entita'  e  qualita'  della  pena,  al  momento   della
commissione del fatto o, quantomeno, del passaggio in giudicato della
sentenza di condanna.
    La  garanzia  di  irretroattivita'  della  legge  penale  di  cui
all'art. 7 CEDU comporterebbe, da un lato, la necessita' che la legge
si concreti in una «regola di giudizio accessibile e prevedibile» per
i consociati;  e,  dall'altro  lato,  l'illegittimita'  convenzionale
dell'applicazione retroattiva di misure afflittive qualificabili come
pene in senso sostanziale (sono citate le sentenze della Corte EDU 15
dicembre 2009, Gurguchiani contro Spagna; 17 dicembre 2009, M. contro
Germania; 21 ottobre  2013,  Del  Rio  Prada  contro  Spagna).  Dalla
pronuncia Del Rio Prada si trarrebbe in particolare che il  requisito
di prevedibilita' della  legge  penale,  imposto  dall'art.  7  CEDU,
riguarderebbe non soltanto la sanzione, ma anche la  sua  esecuzione,
senza che assuma rilievo «il settore ordinamentale nazionale sul  cui
versante si colloca l'espiazione, [sia] di diritto sostanziale  o  di
diritto processuale».
    Ad avviso del rimettente, la «trasformazione della  tipologia  di
pena eseguibile (che da meramente limitativa della  liberta'  diventa
radicalmente privativa della liberta' personale)»  si  configurerebbe
come «un  mutamento  imprevedibile  e  indipendente  dalla  sfera  di
controllo del soggetto, tale da modificare in  senso  sostanziale  il
quadro giuridico-normativo che il soggetto aveva di fronte a se'  nel
momento in cui si e' determinato nella sua scelta delinquenziale».
    L'esigenza   costituzionale   di   salvaguardare   il   principio
dell'affidamento   troverebbe   riscontro    nella    piu'    recente
giurisprudenza   di   questa   Corte,   che    avrebbe    evidenziato
l'estensibilita'  del  divieto  di   irretroattivita'   della   legge
sfavorevole, di cui all'art. 25, secondo  comma,  Cost.,  anche  alle
sanzioni amministrative a carattere punitivo (e' citata  la  sentenza
n. 223 del 2018).
    1.2.3. - Il rimettente ritiene infine che il denunciato  art.  1,
comma 6, lettera b), della legge n.  3  del  2019  contrasti  con  il
principio di ragionevolezza e con la funzione rieducativa della pena,
di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
    La norma censurata introdurrebbe un'irragionevole  disparita'  di
trattamento tra condannati per i medesimi delitti, la cui istanza  di
concessione di una  misura  alternativa  alla  detenzione  sia  stata
esaminata - per mera casualita' o per il difforme  carico  di  lavoro
dei tribunali  di  sorveglianza  -  anteriormente  o  successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 3  del  2019,  «determinando  in
modo  irrazionale  gli  esiti   processuali   indipendentemente   dal
coefficiente di meritevolezza dei singoli condannati». Tale risultato
sarebbe  altresi'  contrario  ai  principi  di   proporzionalita'   e
individualizzazione della pena (sono citate le sentenze  n.  306  del
1993, n. 299 del 1992, n. 203 del 1991 e n. 50 del 1980),  corollario
della funzione rieducativa, riconosciuta come  autentico  «imperativo
costituzionale»  dalla  sentenza  n.  149  del  2018.  L'applicazione
immediata delle nuove preclusioni all'accesso alle misure alternative
alla  detenzione  inciderebbe  infatti  in  modo  irragionevole   sul
percorso rieducativo, senza consentire  al  giudice  una  valutazione
individualizzata dei presupposti per l'applicazione  delle  misure  a
piu' alta valenza risocializzante.
    1.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
siano dichiarate inammissibili o infondate.
    1.3.1.- L'inammissibilita' risulterebbe anzitutto dal difetto  di
rilevanza delle questioni, atteso che  un'applicazione  rigorosa  del
principio tempus regit actum - che governa le modifiche  delle  norme
penitenziarie, da qualificarsi come norme processuali, anche  secondo
la giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 376  del
1997 e n. 306 del 1993) - condurrebbe a escludere  il  rilievo  delle
previsioni della  legge  n.  3  del  2019  nel  procedimento  a  quo,
incardinatosi, con la sospensione  dell'ordine  di  esecuzione  della
pena, anteriormente all'entrata in vigore della  legge  stessa.  Tale
soluzione, gia'  sperimentata  dalla  giurisprudenza  di  merito  (e'
citata l'ordinanza del 1°  marzo  2019  del  Tribunale  ordinario  di
Napoli), sarebbe conforme all'orientamento  della  giurisprudenza  di
legittimita' circa la non revocabilita' della sospensione dell'ordine
di esecuzione, a fronte di modifiche normative che includano il reato
per cui e' stata pronunciata condanna nel catalogo  di  cui  all'art.
4-bis ordin. penit. (e' citata Corte  di  cassazione,  sezione  prima
penale, sentenza 1° luglio 2010,  n.  24831).  Una  simile  soluzione
troverebbe   altresi'   avallo   nei   principi   di   progressivita'
trattamentale e di divieto di regressione incolpevole del trattamento
enunciati dalla giurisprudenza costituzionale (e' citata la  sentenza
n. 149 del 2018).
    1.3.2.- Le questioni sollevate sarebbero altresi'  inammissibili,
in quanto tendenti a sollecitare  un  intervento  manipolativo  della
Corte, in assenza di una soluzione costituzionalmente  obbligata.  La
data di commissione del reato, infatti, rappresenterebbe solo uno dei
possibili criteri temporali  cui  ancorare  l'applicabilita'  o  meno
della normativa sopravvenuta di cui alla legge n.  3  del  2019,  ben
potendo  farsi  altresi'  riferimento  alla  data  del  passaggio  in
giudicato della sentenza di condanna, oppure alla data di sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena.
    1.3.3.- Quanto al merito  delle  censure  relative  alla  lesione
degli artt.  3,  25,  secondo  comma,  e  117,  primo  comma,  Cost.,
quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU, le stesse si  fonderebbero
su un acritico richiamo del rimettente alla sentenza della Corte  EDU
Del Rio Prada, laddove sarebbe, invece, necessario «valutare come  ed
in quale misura il prodotto dell'interpretazione della Corte  europea
si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano»  (sentenza  n.
317 del 2009), tenuto conto del margine di apprezzamento di cui  gode
questa Corte nel valutare la giurisprudenza  europea  (e'  citata  la
sentenza n. 311 del 2009).
    La sentenza Del Rio Prada non avrebbe disconosciuto che le  norme
penitenziarie  e  quelle  relative  all'esecuzione  delle  pene   non
costituiscono norme penali in senso proprio, ma si  sarebbe  limitata
ad accertare che, nel caso concreto,  un  mutamento  non  prevedibile
nell'interpretazione   giurisprudenziale   aveva   prodotto   effetti
deteriori sul trattamento penitenziario della ricorrente.
    D'altro canto, l'interpretazione  dell'art.  25,  secondo  comma,
Cost. finora offerta da questa Corte escluderebbe decisamente che  le
norme  di  diritto  penitenziario  possono  essere  qualificate  come
"penali". Questa Corte avrebbe infatti escluso, nella sentenza n. 273
del 2001 e nell'ordinanza n. 280 del 2001, l'incidenza del divieto di
retroattivita' della legge penale sulla normativa  penitenziaria,  il
che comporterebbe l'inammissibilita' della  questione  sollevata  dal
rimettente in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost.
    La stessa giurisprudenza di legittimita' sarebbe poi costante nel
ritenere che le  disposizioni  concernenti  l'esecuzione  delle  pene
detentive e le misure alternative alla  detenzione,  non  riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma  soltanto  le
modalita' esecutive della stessa, sono soggette al  principio  tempus
regit actum (sono  richiamate  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite
penali, sentenza n. 24561 del 2006,  nonche'  sezione  prima  penale,
sentenze n. 46649 del 2009 e n.  11580  del  2013,  e  sezione  sesta
penale, sentenza n. 535 [recte: n. 12541] del 2019).
    1.3.4.- La Corte costituzionale avrebbe inoltre gia' escluso, con
l'ordinanza n. 108  del  2004,  la  lesione  dell'art.  3  Cost.,  in
relazione ad altra modifica normativa dell'art. 4-bis della legge  n.
354 del 1975 (intervenuta ad opera dell'art. 4, comma 1, della  legge
23 dicembre 2002, n. 279, recante «Modifica degli  articoli  4-bis  e
41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di  trattamento
penitenziario»). Assumerebbe infine rilievo, nel caso di  specie,  la
sentenza n. 188 del 2019 di questa Corte.
    1.4.-  Si  e'  costituito  in  giudizio  A.  B.,  insistendo  per
l'accoglimento  delle  questioni   di   legittimita'   costituzionale
sollevate dal Tribunale di sorveglianza  di  Venezia,  in  base  alle
stesse argomentazioni offerte dall'ordinanza di rimessione.
    1.5.- In prossimita' dell'udienza pubblica, A. B.  ha  depositato
memoria illustrativa, insistendo sulla necessita' di includere  nella
nozione di «materia penale», soggetta al divieto di retroattivita' di
modifiche  normative  sfavorevoli,  le  «disposizioni  processuali  o
esecutive  che  abbiano  una  incidenza  afflittiva  sul  trattamento
giuridico-penale del singolo» determinando un «mutamento  qualitativo
della   sanzione   concretamente   inflitta,   da   "alternativa"   a
"detentiva"».
    La parte  privata  denuncia  poi  come  la  disciplina  censurata
determini una  lesione  dell'affidamento  del  reo,  suscettibile  di
trasmodare in un vulnus al diritto di difesa - «declinato nel diritto
di stabilire le scelte difensive secondo i punti di  riferimento  che
l'ordinamento garantisce  senza  che  il  legislatore  modifichi,  "a
sorpresa", le "carte in tavola"» - all'equita' del processo,  di  cui
agli artt. 111 Cost.  e  6  CEDU  (disposizione,  quest'ultima,  gia'
ritenuta applicabile all'esecuzione della pena nella sentenza  n.  97
del 2015 di questa Corte), e alla stessa certezza del diritto.
    La   parte   privata    sollecita    infine,    in    alternativa
all'accoglimento  delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale,
l'adozione di una pronuncia interpretativa di rigetto, che  indirizzi
il diritto vivente nel senso della inapplicabilita', in  specie,  del
principio tempus regit actum.
    2.- Con ordinanza del 4 aprile 2019 (r.o. n. 115  del  2019),  la
Corte di appello di Lecce  ha  sollevato  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, «nella parte in cui ha inserito  i  reati  contro  la  pubblica
amministrazione, ed in particolare il  reato  di  cui  all'art.  314,
comma 1,  c.p.,  tra  quelli  ostativi  alla  concessione  di  alcuni
benefici penitenziari ai sensi dell'art. 4-bis legge 26/7/1975 n. 354
[...] senza prevedere un regime transitorio che dichiari  applicabile
la norma ai soli fatti commessi successivamente alla sua  entrata  in
vigore», per asserito contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e
117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.
    Il  rimettente  e'  investito  dell'istanza   di   R.B.   L.   di
declaratoria di illegittimita' dell'ordine di esecuzione emesso il 27
febbraio 2019 dalla Procura generale di Lecce, in relazione alla pena
detentiva residua di tre anni, dieci mesi e due giorni di reclusione,
da espiare in conseguenza della condanna (a sette anni e  venticinque
giorni di reclusione) per i reati di cui agli artt.  81,  110  e  314
cod. pen., commessi tra il  19  maggio  2000  e  il  21  marzo  2002,
pronunciata con sentenza della Corte  di  appello  di  Lecce  del  28
ottobre 2016, divenuta irrevocabile il 1° febbraio 2019.
    2.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo evidenzia come l'ordine di  esecuzione  della  pena  sia  stato
emesso - pur a fronte di una condanna per  fatti  di  reato  commessi
prima dell'entrata  in  vigore  della  legge  n.  3  del  2019  -  in
applicazione  della  norma  censurata,   che   ha   modificato,   con
operativita' immediata, l'art. 4-bis  ordin.  penit.,  includendo  il
delitto di peculato nel novero di quelli  ostativi  alla  sospensione
dell'ordine  stesso,  ai  sensi  dell'art.  656   cod.   proc.   pen.
Dall'accoglimento  delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
prospettate deriverebbe la  possibilita'  per  R.B.  L.  di  ottenere
l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione e di presentare  da
libero  l'istanza  di  concessione   di   misure   alternative   alla
detenzione.
    2.2.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
rammenta che dubbi di legittimita' costituzionale dell'art. 1,  comma
6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 sono  gia'  stati  adombrati
dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 535  [recte:  n.  12541]
del 2019, ed evidenzia come la norma censurata sia anzitutto  foriera
di una ingiustificata disparita' di trattamento, lesiva  dell'art.  3
Cost., tra coloro che hanno posto in essere delle condotte delittuose
anteriormente all'entrata in  vigore  della  legge  n.  3  del  2019,
facendo affidamento sulla possibilita' di non scontare in carcere una
pena (anche residua) inferiore ai quattro anni, e coloro che, invece,
hanno commesso i medesimi reati nella vigenza della citata legge.
    L'art. 1, comma 6, lettera b), della  legge  n.  3  del  2019  si
porrebbe altresi' in contrasto con la  garanzia  di  irretroattivita'
della legge penale, di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., «per  i
suoi indubbi riflessi sostanziali in punto di esecuzione  della  pena
in concreto, frutto di un cambiamento delle  regole  successivo  alla
data del commesso reato».
    La modifica peggiorativa del regime di esecuzione della pena, non
accompagnata da alcuna norma transitoria, contrasterebbe  infine  con
l'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  in  relazione  all'art.  7  CEDU,
traducendosi in un «passaggio a sorpresa e non prevedibile al momento
della  commissione   del   reato   alla   sanzione   con   necessaria
incarcerazione».
    2.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  le  questioni  sollevate   siano   dichiarate
inammissibili o infondate.
    2.3.1.-  Le  questioni  sarebbero  anzitutto  inammissibili   per
erronea individuazione della norma censurata,  avendo  il  rimettente
trascurato di investire dei propri dubbi di costituzionalita'  l'art.
656, comma 9, cod. proc. pen., che individua i  casi  nei  quali  non
puo' farsi luogo alla sospensione dell'esecuzione della pena.  L'art.
4-bis  ordin.  penit.  verrebbe  infatti   in   considerazione   solo
indirettamente, in quanto richiamato ai fini dell'individuazione  dei
reati per i quali e' preclusa la sospensione dell'esecuzione.
    2.3.2.- Riprendendo le argomentazioni gia'  svolte  nell'atto  di
intervento  nel  giudizio  iscritto  al  n.  114   del   r.o.   2018,
l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce inoltre,  specificamente,
l'inammissibilita' delle questioni sollevate  in  relazione  all'art.
25,  secondo   comma,   Cost.,   alla   luce   della   giurisprudenza
costituzionale e di quella di  legittimita',  che  avrebbero  escluso
l'incidenza del divieto di retroattivita' della  legge  penale  sulla
normativa penitenziaria.
    2.3.3.-  Sarebbe  altresi'  inammissibile  la   censura   fondata
sull'art. 3 Cost., in quanto, da un lato, la lamentata  irragionevole
disparita' di trattamento tra persone che abbiano commesso  il  reato
di peculato prima o dopo l'entrata in vigore della  legge  n.  3  del
2019 sarebbe una mera conseguenza dell'inapplicabilita' del principio
di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. alla materia  penitenziaria;
e, dall'altro  lato,  questa  Corte  avrebbe  gia'  respinto  analoga
doglianza con l'ordinanza n. 108 del 2004.
    2.3.4.- Con riferimento alla censura incentrata sulla  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost.,  in  relazione  all'art.  7  CEDU,
l'Avvocatura  generale  dello  Stato   ripropone   integralmente   le
argomentazioni  gia'  svolte  nell'atto  di  intervento  relativo  al
giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2018.
    2.4.- Si e'  costituito  in  giudizio  R.B.  L.,  insistendo  per
l'accoglimento delle questioni sollevate dal giudice rimettente.
    2.5.-  Con  memoria  depositata   in   prossimita'   dell'udienza
pubblica, R.B. L. ha contestato l'eccezione dell'Avvocatura  generale
dello Stato di inammissibilita' delle questioni  per  omessa  censura
dell'art. 656, comma 9, cod. proc. pen. Richiamando l'ordinanza della
Corte di cassazione, sezione prima penale, 18 luglio 2019, n.  31853,
la parte  sottolinea  il  carattere  meramente  «servente»,  rispetto
all'art. 4-bis ordin. penit., dell'art.  656,  comma  9,  cod.  proc.
pen., che si limiterebbe a recepire automaticamente le variazioni del
catalogo dei delitti elencati nella prima disposizione e, quindi,  la
non necessita' di censurare la seconda disposizione.
    3.- Con ordinanza del 10 giugno 2019 (r.o. n. 118 del  2019),  il
Giudice per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale  ordinario  di
Cagliari  ha  sollevato  questioni  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1,  comma  6],  lettera  b),  della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui ha inserito i  reati  contro
la pubblica amministrazione, tra quelli ostativi alla concessione  di
alcuni benefici penitenziari ai sensi dell'art. 4-bis legge 26 luglio
1975, n. 354 senza prevedere un regime  transitorio»,  per  contrasto
con gli  artt.  3,  24,  25,  27,  111  e  117,  primo  comma,  Cost.
(quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU).
    Il rimettente e' investito di un incidente di esecuzione proposto
da A. D. -  detenuto  -  e  volto  alla  declaratoria  di  temporanea
inefficacia dell'ordine di esecuzione,  emesso  dalla  Procura  della
Repubblica dopo il passaggio in giudicato, il 30 aprile  2019,  della
sentenza  della  Corte  d'appello  di  Cagliari,  che  ha  condannato
l'interessato alla pena di due anni e otto mesi di reclusione, per il
reato di cui all'art. 314 cod. pen., commesso  fino  al  16  novembre
2011.
    3.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo richiama la giurisprudenza di legittimita'  sull'applicabilita'
del  principio  tempus  regit  actum  alle  disposizioni  concernenti
l'esecuzione delle  pene  detentive  e  le  misure  alternative  alla
detenzione (e' citata Corte  di  cassazione,  sezioni  unite  penali,
sentenza n. 24561 del 2006) e afferma che, alla data di passaggio  in
giudicato della sentenza di condanna, si incardinerebbe  il  rapporto
esecutivo e si cristallizzerebbe il contesto normativo che  definisce
le modalita' di esecuzione della pena, sicche' le modifiche  all'art.
4-bis della legge n. 354 del 1975 apportate  dalla  legge  n.  3  del
2019, in assenza di una disciplina transitoria, sarebbero applicabili
anche ai fatti commessi da A. D. prima dell'entrata in  vigore  della
legge stessa. Viceversa, in caso  di  dichiarata  incostituzionalita'
dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del  2019,  A.  D.
potrebbe ottenere l'immediata sospensione dell'ordine  di  esecuzione
della pena.
    3.2.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
ritiene che l'applicabilita' immediata della disposizione censurata a
coloro che abbiano commesso il reato anteriormente alla  sua  entrata
in vigore confligga con la garanzia di irretroattivita'  della  legge
penale, di  cui  all'art.  7  CEDU.  Riportando  ampi  stralci  della
sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione  penale,  n.  12541
del  2019,  il  rimettente  dichiara  di  condividere  i  dubbi,  ivi
espressi, di conformita' con l'art. 7 CEDU, come  interpretato  nella
sentenza della Corte EDU Del Rio Prada - e, per esso, con l'art. 117,
primo  comma,  Cost.  -  dell'omessa  previsione  di  una  disciplina
transitoria nella legge n. 3 del 2019.
    La  disciplina  censurata  sarebbe  altresi'   foriera   di   una
ingiustificata disparita' di trattamento, lesiva dell'art.  3  Cost.,
tra  soggetti  che  abbiano  commesso   identici   fatti   di   reato
anteriormente o posteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3
del 2019.
    Il consolidato  orientamento  giurisprudenziale  in  ordine  alla
natura processuale  delle  norme  di  ordinamento  penitenziario  non
consentirebbe  una   lettura   costituzionalmente   orientata   della
disposizione censurata, che, in definitiva, presenterebbe profili  di
contrarieta' con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 7 CEDU.
    3.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  instando  per   la   declaratoria   di   inammissibilita'   o
infondatezza   delle   questioni,   sulla   base    delle    medesime
argomentazioni  esposte  nell'atto  di  intervento   depositato   nel
giudizio iscritto al n. 115 del r.o. 2018.
    4.- Con ordinanza del 2 aprile 2019 (r.o. n. 119  del  2019),  il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli
ha sollevato questioni di legittimita'  costituzionale  dell'art.  6,
comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge  n.  3  del
2019, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27,  111  e
117, primo comma, Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 7  CEDU),
«nella parte in cui, ampliando il  novero  dei  reati  "ostativi"  ai
sensi dell'art. 4-bis l. 354/1975, includendovi  i  reati  contro  la
pubblica  amministrazione,  ha  mancato  di   prevedere   un   regime
intertemporale».
    Il rimettente e' chiamato a  delibare  l'istanza  presentata,  ai
sensi dell'art. 666 cod. proc. pen., da V. P.,  e  volta  a  ottenere
l'invalidazione dell'ordine di esecuzione emesso l'11  febbraio  2019
dalla Procura della Repubblica, in relazione alla condanna alla  pena
di un anno di reclusione, inflitta dalla Corte  d'appello  di  Napoli
con sentenza del 20 gennaio 2015 (irrevocabile il  1°  giugno  2018),
per i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 112, numero 1),  319,
320, 321 cod. pen., commessi dal novembre 2007 al febbraio 2008.
    4.1.- Rammentato  il  consolidato  orientamento  di  legittimita'
circa la natura processuale delle norme previste dalla legge  n.  354
del 1975, il rimettente argomenta che il censurato art. 1,  comma  6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, avendo ampliato il novero  dei
reati "ostativi" di cui all'art. 4-bis ordin. penit. senza  prevedere
alcuna disciplina transitoria in relazione ai  fatti  commessi  prima
della sua entrata in vigore, si porrebbe in contrasto con l'art. 117,
primo  comma,  Cost.,  in  relazione  all'art.  7  CEDU  cosi'   come
interpretato dalla Corte  EDU  nella  sentenza  Del  Rio  Prada,  che
avrebbe assoggettato al principio  di  irretroattivita'  della  legge
penale  «i  trattamenti  esecutivi  sfavorevoli».  A  sostegno  della
propria argomentazione, il giudice a quo trascrive ampi stralci della
sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione  penale,  n.  12541
del 2019.
    4.2.- Conclude il  rimettente  evidenziando  la  rilevanza  delle
questioni sollevate, atteso che il loro  accoglimento  determinerebbe
la fondatezza del ricorso di V. P.
    4.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano  dichiarate  inammissibili  o
infondate, sulla base delle medesime argomentazioni svolte  nell'atto
di intervento depositato nel giudizio iscritto al  n.  115  del  r.o.
2019.
    5.- Con ordinanza del 7 giugno 2019 (r.o. n. 157  del  2019),  il
Tribunale di sorveglianza di Taranto  ha  sollevato,  in  riferimento
all'art. 3 Cost., questione di legittimita' costituzionale  dell'art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019,  «nella  parte  in
cui, modificando l'art. 4 bis, comma 1 della Legge  n.  354/1975,  ha
inserito i reati contro la  p.a.  e  in  particolare  quello  di  cui
all'art. 314 comma 1 tra quelli ostativi alla concessione  di  alcuni
benefici penitenziari, senza  prevedere  un  regime  transitorio  che
dichiari applicabile la norma ai soli fatti commessi  successivamente
alla sua entrata in vigore».
    Il rimettente deve decidere  dell'istanza  di  concessione  della
detenzione domiciliare per gravi motivi di salute  o,  in  subordine,
per ragioni di eta', avanzata da R.B. L. (parte  anche  nel  giudizio
iscritto al n. 115 del r.o. 2019), condannato dalla Corte di  appello
di Lecce, con sentenza irrevocabile il 1° febbraio 2019, alla pena di
sette anni e venticinque giorni di reclusione, per plurimi delitti di
peculato commessi fino al 25 marzo 2002  e  attualmente  detenuto,  a
seguito dell'emissione di ordine di esecuzione da parte della Procura
generale presso la medesima Corte di appello.
    5.1.- In punto di rilevanza, espone il giudice a quo che,  da  un
lato, non risulta concedibile la  detenzione  domiciliare  per  gravi
motivi di salute, ex artt. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. e  147,
primo comma, numero 2), cod.  pen.,  non  versando  l'interessato  in
condizioni  di  infermita'  fisica  o  psichica   tali   da   rendere
impossibili le cure  in  ambiente  carcerario;  e,  dall'altro  lato,
risulta inammissibile l'istanza di concessione della  detenzione  per
motivi di eta', ex art. 47-ter, comma 01, ordin. penit., atteso  che,
per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 1, comma 6, lettera  b),
della legge n. 3 del 2019, il delitto di peculato e'  stato  inserito
nel catalogo dei reati di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.,
ostativi alla concessione della detenzione domiciliare in  favore  di
soggetti ultrasettantenni. Tale regime di ostativita' potrebbe  venir
meno solo in forza dell'accertamento della collaborazione di R.B.  L.
con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit. o dell'art.
323-bis,  secondo  comma,  cod.  pen.,  o  dell'inesigibilita'  della
collaborazione stessa. Nel caso di specie, tuttavia, tali  condizioni
non risultano realizzate, sicche' l'interessato soggiace al regime di
ostativita' previsto dal novellato  art.  4-bis  ordin.  penit.,  pur
essendo soggetto  ultrasettantenne,  astrattamente  idoneo  a  fruire
della detenzione domiciliare prevista  dall'art.  47-ter,  comma  01,
ordin. penit. Donde, la rilevanza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale sollevata.
    5.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il  giudice  a  quo
rileva come l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del  2019
abbia ampliato il novero dei  reati  ostativi  contemplati  dall'art.
4-bis ordin. penit. senza prevedere  alcuna  disciplina  transitoria,
diversamente  da  quanto  avvenuto  in  occasione   dell'introduzione
dell'art. 4-bis, realizzata dal decreto-legge  n.  152  del  1991,  e
delle modifiche allo stesso apportate dall'art. 1 della legge n.  279
del 2002, ove il legislatore aveva  previsto  l'applicabilita'  delle
nuove e piu' restrittive disposizioni ai soli fatti di reato commessi
successivamente all'entrata in vigore delle stesse.
    Ritiene  il  giudice  a  quo  che  l'assenza  di  una  disciplina
transitoria nella legge n. 3 del 2019 sia foriera  di  disparita'  di
trattamento e pregiudizio al diritto di difesa, che si  tradurrebbero
in una lesione dell'art. 3 Cost. Coloro che  abbiano  commesso  reati
inclusi nel novellato catalogo di cui all'art.  4-bis  ordin.  penit.
prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019,  infatti,  si
troverebbero ad essere o meno soggetti  all'ordine  di  esecuzione  e
alla preclusione nella richiesta di accesso alle  misure  alternative
alla detenzione, a seconda che  siano  stati  ammessi  all'esecuzione
penale esterna prima o dopo  la  novella;  dato  che,  a  sua  volta,
dipenderebbe  da  circostanze  del  tutto   contingenti   quali   «la
collocazione  territoriale,  la  velocita'  con  la  quale  e'  stato
celebrato il processo, la rapidita'  dell'emanazione  dell'ordine  di
esecuzione da parte del pubblico ministero e quella del Tribunale  di
Sorveglianza che, per ragioni istruttorie o  per  altro  motivo,  non
abbia assunto  una  decisione  prima  dell'entrata  in  vigore  della
legge».
    Ad avviso del rimettente, invece,  la  natura  processuale  delle
norme penitenziarie non  consentirebbe  di  ritenere  applicabile  la
garanzia di irretroattivita' della legge penale sfavorevole,  di  cui
all'art. 7 CEDU. Ne' le norme relative alle modalita' di accesso alle
misure alternative potrebbero formare oggetto di un  affidamento  del
condannato,  alla  luce  dell'imprescindibilita'  della   valutazione
discrezionale  del  tribunale  di   sorveglianza   in   ordine   alla
concessione di ciascuna misura.
    5.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, eccependo l'inammissibilita' della  questione  sollevata,  per
non  avere   il   giudice   rimettente   tentato   un'interpretazione
costituzionalmente  orientata  della   norma   censurata,   tale   da
escluderne l'applicabilita' ai fatti commessi prima della sua entrata
in vigore. Simile  interpretazione  sarebbe  infatti  «in  linea  con
l'esigenza di garantire al cittadino libere e consapevoli  scelte  di
condotta che costituisce una pietra angolare del modello  di  sistema
penale disegnato dai principi costituzionali  (Corte  costituzionale,
sentenza n. 364/1988)».
    5.4.- Si e' costituita in giudizio la parte R.B. L., chiedendo  a
questa Corte di dichiarare costituzionalmente illegittimo  l'art.  6,
comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge  n.  3  del
2019, per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117,  primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.
    5.5.-  Con  memoria  depositata   in   prossimita'   dell'udienza
pubblica,  R.B.  L.  ha  evidenziato  l'impossibilita'  di   adottare
un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della  disposizione
censurata, alla luce  del  diritto  vivente  che  attribuisce  natura
processuale alle norme dell'ordinamento penitenziario.
    6.- Con ordinanza del 30 aprile 2019 (r.o. n. 160 del  2019),  il
Tribunale  ordinario  di   Brindisi   ha   sollevato   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera  b),  della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando  l'art.  4  bis
comma 1° della Legge  26  luglio  1975  n.  354  -  norma  richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lett.  a)  c.p.p.  -  si  applica  anche  al
delitto di cui all'art. 314 c.p. commesso  anteriormente  all'entrata
in vigore della medesima legge», denunciandone il contrasto  con  gli
artt. 24, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,  quest'ultimo
in relazione all'art. 7 CEDU.
    Il rimettente e' investito dell'istanza di A.  B.,  in  stato  di
detenzione,  volta  a  ottenere   la   declaratoria   di   temporanea
inefficacia dell'ordine di esecuzione emesso dal  pubblico  ministero
il 5 aprile 2019, in relazione alla condanna inflitta all'interessato
dal Tribunale ordinario  di  Brindisi  il  25  marzo  2015  (divenuta
irrevocabile il 13 marzo 2019) alla pena di due anni e otto  mesi  di
reclusione per i delitti di cui agli artt. 110, 56, 314, primo comma,
61, numero 9), cod. pen. (commesso l'11 agosto  2011),  di  cui  agli
artt. 110, 117, e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 18  luglio
2011) e di cui all'art. 314, primo comma, cod. pen. (commesso  il  24
febbraio 2011).
    6.1.- In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo espone che, a seguito dell'entrata in vigore del censurato art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019,  A.  B.  non  puo'
piu' beneficiare della sospensione dell'ordine di esecuzione, essendo
stato il delitto di cui all'art. 314 cod.  pen.  incluso  nell'elenco
dei reati ostativi di cui  all'art.  4-bis  ordin.  penit.,  laddove,
prima  dell'intervenuta  modifica  normativa,  egli  avrebbe   potuto
chiedere la concessione di una  misura  alternativa  alla  detenzione
senza previo periodo di osservazione in carcere.
    6.2.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
premette  che,  in  assenza  di  una   disciplina   transitoria,   la
disposizione censurata risulta immediatamente applicabile, in base al
consolidato orientamento che attribuisce carattere  processuale  alle
norme penitenziarie.
    6.2.1.-  Ritiene  tuttavia  il  giudice  a   quo   che   la   non
sospendibilita' dell'ordine di esecuzione,  risultante  dal  richiamo
dell'art. 4-bis ordin.  penit.  da  parte  dell'art.  656,  comma  9,
lettera  a),  cod.  proc.  pen.,  incida  non  solo  sulle  modalita'
esecutive della pena ma anche sulla sua effettiva portata  e  natura,
imponendo al condannato  che  aspiri  alle  misure  alternative  alla
detenzione «una temporanea anticipazione del regime  detentivo  [...]
in  attesa  delle  decisioni  del  magistrato  di  sorveglianza   sul
possibile accesso a una di tali  misure»;  il  tutto,  peraltro,  con
«possibili frizioni con la finalita' rieducativa della pena  prevista
dall'art. 27 Cost.», attesa l'incongruita' - rilevata anche da questa
Corte con la sentenza n. 41 del 2018 - della temporanea  carcerazione
di soggetti che possano poi  beneficiare  di  misure  risocializzanti
extramurarie. L'art. 4-bis ordin. penit., richiamato  dall'art.  656,
comma  9,  lettera  a),  cod.  proc.  pen.,  «benche'  "nominalmente"
processuale» esibirebbe dunque «nella "sostanza" [...]  un  contenuto
"afflittivo"  per  le   ricadute   sulla   liberta'   personale   del
condannato»,  impossibilitato  appunto  a  ottenere  la   sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena.
    6.2.2.- Attesa la natura "penale" dell'art. 4-bis ordin.  penit.,
l'applicazione  immediata  delle   modifiche   normative   di   segno
peggiorativo apportate a detta disposizione dalla legge n. 3 del 2019
integrerebbe una violazione del divieto di retroattivita' della legge
penale sfavorevole, sancito dall'art. 7 CEDU, cosi' come interpretato
dalla Corte EDU nella sentenza Del Rio Prada.
    6.2.3.- Sarebbe violato  anche  il  corrispondente  principio  di
irretroattivita' contenuto nell'art. 25, secondo comma, Cost., la cui
operativita'  questa  Corte  avrebbe  esteso   a   disposizioni   non
formalmente penali, ma «a carattere "intrinsecamente punitivo"» (sono
citate le sentenze n. 223 del 2018 e n. 196 del 2010).
    6.2.4.- La modifica in senso sfavorevole della portata  dell'art.
4-bis ordin. penit.,  realizzata  dal  censurato  art.  1,  comma  6,
lettera b), della legge n. 3 del  2019,  vanificherebbe  altresi'  il
legittimo  affidamento  del  condannato  a  ottenere  la  sospensione
dell'ordine di esecuzione della pena detentiva di durata inferiore  a
quattro anni  (come  quella  in  specie  irrogata),  con  conseguente
ulteriore violazione degli artt. 117, primo comma, Cost.  e  7  CEDU,
gia' evidenziata dalla Corte di  cassazione,  sezione  sesta  penale,
nella sentenza n. 12541 del 2019.
    6.2.5.-  L'incidente  di  esecuzione  riguardante   l'ordine   di
esecuzione emesso a carico di  A.  B.  rientrerebbe  a  pieno  titolo
nell'ambito applicativo dell'art. 6  CEDU  sul  diritto  al  processo
equo, atteso lo stretto legame tra la nozione  di  "pena"  risultante
dall'art. 7 CEDU e quella di "accusa in materia  penale",  utilizzata
dall'art. 6.
    Ne deriverebbe la possibilita' di estendere le garanzie dell'art.
6 CEDU anche a «istituti rientranti nel "procedimento di  esecuzione"
che concorrono a  determinare  l'effettiva  durata  della  privazione
della liberta' da scontare», quali il procedimento ex art.  671  cod.
proc. pen. per l'applicazione della continuazione in sede  esecutiva,
nonche' i procedimenti relativi alla validita' o efficacia del titolo
esecutivo o dell'ordine di esecuzione.
    La riconducibilita' del procedimento di  esecuzione  disciplinato
dall'art. 666 cod. proc. pen. all'ambito applicativo dell'art. 6 CEDU
comporterebbe  la  qualificabilita'  come  disposizione   di   natura
"penale", ai sensi dell'art. 7 CEDU, dell'art. 656, comma 9,  lettera
a), cod. proc. pen.  sulla  sospensione  dell'ordine  di  esecuzione,
«cosi' come integrato» dall'art. 1, comma 6, lettera b), della  legge
n. 3 del 2019, che ha modificato l'art. 4-bis ordin. penit. E invero,
gli effetti derivanti dalla disciplina in scrutinio «si traducono  in
un'anticipazione della pena  detentiva  che  comporta  la  privazione
della liberta' personale attraverso  la  carcerazione,  anche  se  il
condannato risultera' meritevole di una misura alternativa».
    6.2.6.- L'applicazione retroattiva della  disciplina  sfavorevole
introdotta dalla legge n.  3  del  2019  comporterebbe  altresi'  una
lesione  del  diritto  di  difesa  garantito  dall'art.   24   Cost.,
vanificando le strategie processuali dell'imputato, il quale potrebbe
avere chiesto l'applicazione di un rito alternativo confidando in una
diminuzione di pena sufficiente a poter beneficiare della sospensione
dell'ordine di esecuzione;  sospensione  che,  invece,  non  potrebbe
essere piu' accordata in forza dell'entrata in vigore della legge  n.
3 del 2019.
    6.2.7.- Il  contrasto  della  norma  censurata  con  i  parametri
costituzionali evocati non sarebbe superabile in via  interpretativa,
in presenza di un consolidato diritto vivente di segno contrario.
    6.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  instando  per  la  declaratoria  di  inammissibilita'   delle
questioni sollevate, in base alle medesime argomentazioni  spese  nel
giudizio iscritto al n. 157 del r.o. 2019 e  incentrate  sul  mancato
esperimento,  da  parte   del   rimettente,   di   un'interpretazione
costituzionalmente orientata della disciplina censurata.
    6.4.- Si e' altresi' costituita in giudizio la parte  privata  A.
B., insistendo per la declaratoria di  illegittimita'  costituzionale
del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019.
    Ripercorrendo  adesivamente  le  motivazioni  dell'ordinanza   di
rimessione, la parte privata aggiunge che le misure alternative  alla
detenzione, stante la «fisiologica funzionalizzazione a garantire  la
diversificazione tipologica del trattamento sanzionatorio, corollario
del principio rieducativo di cui  all'art.  27,  co.  3,  Cost.»  non
potrebbero essere considerate  delle  mere  modalita'  di  esecuzione
della pena, essendo invece  istituti  che  «incidono  sulla  qualita'
essenziale della pena  stessa»;  sicche'  qualsiasi  mutamento  delle
condizioni di accesso a dette misure soggiacerebbe alle  garanzie  di
irretroattivita' di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU.
Disposizione,  quest'ultima,  che  la  Corte  EDU  avrebbe   ritenuto
applicabile sia a revirements giurisprudenziali  relativi  al  regime
applicativo di misure assimilabili alla  liberazione  anticipata  (e'
citata la sentenza Del Rio Prada), sia a  modifiche  della  normativa
processuale  suscettibili  di  spiegare   diretta   incidenza   sulla
determinazione  della  pena  inflitta  (e'  citata  la  sentenza,  17
settembre 2009, Scoppola contro Italia).
    6.5.- In prossimita' dell'udienza pubblica, A. B.  ha  depositato
memoria illustrativa, insistendo sulla necessita' di  applicare  alle
misure alternative alla detenzione il divieto di retroattivita' della
legge penale sfavorevole, sulla  scorta  della  giurisprudenza  della
Corte EDU e di  recenti  pronunce  della  giurisprudenza  di  merito,
avallate dalla sentenza n. 12541 del 2019 della Corte di  cassazione.
La parte evidenzia altresi' come la mancata previsione, ad opera  del
censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019,  di
una disciplina transitoria, determini  una  lesione  dell'affidamento
dell'imputato,  in  riferimento  sia  al  trattamento   sanzionatorio
applicabile   (che   da   extramurario   diverrebbe   necessariamente
carcerario), sia alle strategie perseguibili in giudizio, atteso  che
l'interessato - giudicato anteriormente all'entrata in  vigore  della
novella  -  non  avrebbe  potuto  prospettarsi   la   necessita'   di
collaborare con  la  giustizia,  ai  sensi  dell'art.  58-ter  ordin.
penit., nel corso delle indagini o del processo, al  fine  di  fruire
della possibilita' di accesso a misure alternative  alla  detenzione,
secondo il restrittivo regime delineato dall'art. 4-bis ordin. penit.
Richiamando la sentenza n. 253  del  2019  di  questa  Corte,  A.  B.
lamenta infine l'irragionevolezza dell'inclusione dei reati contro la
pubblica amministrazione nell'ambito applicativo dell'art. 4-bis, sul
rilievo che  la  conseguente  necessita'  di  collaborazione  con  la
giustizia, al fine  della  concessione  di  misure  alternative  alla
detenzione, si tradurrebbe in una violazione del diritto al  silenzio
e in un aggravamento del trattamento sanzionatorio.
    7.- Con ordinanza del 30 aprile 2019 (r.o. n. 161 del  2019),  il
Tribunale  ordinario  di   Brindisi   ha   sollevato   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera  b),  della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando  l'art.  4  bis
comma 1° della Legge  26  luglio  1975  n.  354  -  norma  richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lett.  a)  c.p.p.  -  si  applica  anche  al
delitto di cui all'art. 314 c.p. commesso  anteriormente  all'entrata
in vigore della medesima legge», denunciandone il contrasto  con  gli
artt. 24, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,  quest'ultimo
in relazione all'art. 7 CEDU.
    Il rimettente deve pronunciarsi, ex art.  666  cod.  proc.  pen.,
sull'incidente di esecuzione promosso  da  C.  M.  onde  ottenere  la
declaratoria di  temporanea  inefficacia  dell'ordine  di  esecuzione
emesso dal pubblico ministero il 5 aprile  2019,  in  relazione  alla
condanna inflitta all'interessato dal Tribunale  di  Brindisi  il  25
marzo 2015 (divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019) alla pena di  due
anni e quattro mesi di reclusione per il delitto di  cui  agli  artt.
110 e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 3 agosto 2011)  e  per
il delitto di cui agli artt. 110, 81, 56 e  314,  primo  comma,  cod.
pen. (commesso il 22 luglio e il 13 agosto 2011).
    7.1.- In punto di rilevanza e non  manifesta  infondatezza  delle
questioni sollevate,  il  giudice  a  quo  svolge  considerazioni  di
identico tenore a quelle che compaiono nell'ordinanza  di  rimessione
iscritta al n. 160 del r.o. 2019.
    7.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, per
le medesime ragioni  esposte  nell'atto  di  intervento  relativo  al
giudizio iscritto al n. 160 del r.o. 2019.
    8.- Con ordinanza del 16 luglio 2019 (r.o. n. 193 del  2019),  il
Giudice per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale  ordinario  di
Caltanissetta ha sollevato questioni di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1,  comma  6],  lettera  b),  della
legge n. 3 del 2019, denunciandone il contrasto con gli artt. 3,  24,
25, 27, 111 e 117 Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 7  CEDU),
«nella parte in cui, ampliando il  novero  dei  reati  "ostativi"  ai
sensi dell'art. 4-bis legge 354/1975, includendovi i reati contro  la
pubblica  amministrazione,  ha  mancato  di   prevedere   un   regime
intertemporale».
    Il tribunale rimettente e' investito  di  un'istanza,  presentata
dal detenuto U. A., di declaratoria di illegittimita' dell'ordine  di
esecuzione emesso dalla locale Procura della Repubblica e  notificato
il 7 giugno 2019, per l'espiazione della pena  di  tre  anni,  undici
mesi e dieci giorni di reclusione, applicata - in relazione a diversi
reati uniti dal vincolo della continuazione, tra cui  il  delitto  di
cui all'art. 319 cod. pen., commesso tra il 16 maggio e il 31  maggio
2017 - ex art. 444 cod. proc. pen. con sentenza del 12 febbraio 2019,
divenuta irrevocabile il 28 maggio 2019.
    8.1.-   Premessa   l'adesione   al    consolidato    orientamento
giurisprudenziale circa  la  natura  processuale  delle  disposizioni
concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative
alla detenzione, il rimettente osserva, in punto di  rilevanza  delle
questioni  sollevate,  che,  attesa  l'immediata  operativita'  della
previsione dell'art. 1, comma 6, lettera b), della  legge  n.  3  del
2019, l'istanza di U. A.  dovrebbe  essere  rigettata.  Diversamente,
l'accoglimento   delle   questioni   comporterebbe   la   sospensione
dell'ordine di  esecuzione  della  pena,  poiche'  relativo  a  fatti
commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.
    8.2.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
argomenta la contrarieta' della disposizione censurata all'art.  117,
primo comma, Cost., in relazione  all'art.  7  CEDU,  richiamando  la
sentenza della Corte EDU Del Rio Prada  e  le  considerazioni  svolte
dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 12541 del 2019.
    8.3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  le  questioni  sollevate   siano   dichiarate
inammissibili o infondate.
    L'inammissibilita' conseguirebbe  sia  al  mancato  tentativo  di
un'interpretazione   costituzionalmente   orientata    della    norma
censurata,  volta  ad   attribuirle   valenza   sostanziale   e   non
processuale; sia al carattere manipolativo della pronuncia  richiesta
alla Corte, atteso il  carattere  non  costituzionalmente  necessario
della disciplina transitoria auspicata dal rimettente;  sia,  infine,
alla mancata individuazione di una norma di  sospetta  illegittimita'
costituzionale, lamentando il rimettente un  mancato  intervento  del
legislatore.
    Ulteriori  ragioni  di  inammissibilita'  e  infondatezza   delle
questioni sollevate sono argomentate attraverso l'integrale  richiamo
all'atto di intervento depositato dalla  stessa  Avvocatura  generale
dello Stato nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019.
    9.- Con ordinanza del 16 luglio 2019 (r.o. n. 194 del  2019),  il
Giudice per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale  ordinario  di
Caltanissetta ha sollevato questioni di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 6, comma 1 [recte: art. 1,  comma  6],  lettera  b),  della
legge  n.  3  del  2019,  identiche   a   quelle   gia'   prospettate
nell'ordinanza iscritta al n. 193 del r.o. 2019 quanto al  petitum  e
ai parametri costituzionali evocati.
    In  questo  caso,  il  rimettente  e'  investito  di  un'istanza,
presentata dal detenuto F.  R.,  di  declaratoria  di  illegittimita'
dell'ordine  di  esecuzione  emesso  dalla   locale   Procura   della
Repubblica e notificato il 7 giugno 2019, per l'espiazione della pena
di tre anni, tre mesi e dieci giorni di reclusione,  applicata  -  in
relazione a diversi reati uniti dal vincolo della continuazione,  tra
cui il delitto di cui all'art. 319 cod. pen., commesso tra il 16 e il
31 maggio 2017 - ex art. 444 cod. proc.  pen.  con  sentenza  del  12
febbraio 2019, divenuta irrevocabile il 28 maggio 2019.
    9.1.- Il rimettente ripropone, a sostegno della rilevanza  e  non
manifesta  infondatezza  delle  questioni  sollevate,   le   medesime
argomentazioni svolte nell'ordinanza iscritta  al  n.  193  del  r.o.
2019.
    9.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, con  atto  di  intervento  avente  tenore  identico  a  quello
depositato nel giudizio iscritto al n. 193 del r.o. 2019.
    10.- Con ordinanza del 31 luglio 2019 (r.o. n. 210 del 2019),  il
Tribunale di  sorveglianza  di  Potenza  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera  b),  della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art.  4  bis,
comma 1 della L. 26.7.1975 n. 354, si applica anche in  relazione  ai
delitti di cui agli artt. 317 c.p. e 319 c.p. commessi  anteriormente
alla  entrata  in  vigore  della  medesima  legge»,  denunciando   il
contrasto della disposizione con gli artt. 3, 25, secondo comma,  27,
secondo e terzo comma, e 117, primo  comma,  Cost.  (quest'ultimo  in
relazione all'art. 7 CEDU).
    Il rimettente e' chiamato  a  statuire  sul  reclamo  avverso  il
decreto del 21 febbraio 2019, con cui il magistrato  di  sorveglianza
ha dichiarato inammissibile  l'istanza  di  concessione  di  permesso
premio, ex art. 30-ter ordin. penit., avanzata da M.P. D.G., detenuto
in espiazione della pena (residuo di otto anni) di sette  anni,  otto
mesi e ventiquattro giorni di reclusione,  inflitta  dalla  Corte  di
appello di Potenza con  sentenza  del  30  settembre  2016  (divenuta
irrevocabile l'8 agosto 2017), in relazione  ai  reati  di  cui  agli
artt. 81, comma 2, 110, 317 e 319 cod. pen.
    10.1.- In  punto  di  rilevanza  delle  questioni  sollevate,  il
giudice a quo evidenzia che l'istanza  di  concessione  del  permesso
premio e' stata presentata prima dell'entrata in vigore  della  legge
n. 3 del 2019,  ma  delibata  dal  magistrato  di  sorveglianza  solo
successivamente, con  conseguente  applicabilita'  delle  preclusioni
alla concessione del permesso premio, in  difetto  di  collaborazione
con la  giustizia,  previste  dall'art.  4-bis  ordin.  penit.,  come
novellato dall'art. 1, comma 6, lettera b),  della  legge  n.  3  del
2019, per i reati  ostativi  ivi  indicati,  tra  i  quali  risultano
attualmente inclusi quelli  di  concussione  e  corruzione  per  atto
contrario ai doveri di ufficio. Osserva altresi' il  rimettente  che,
in difetto della sopravvenuta modifica dell'art. 4-bis ordin. penit.,
M.P. D.G. avrebbe avuto diritto alla concessione del permesso premio,
sussistendo i requisiti  previsti  dall'art.  30-ter  della  medesima
legge.
    10.2.- Quanto alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
richiama da un lato  il  consolidato  orientamento  giurisprudenziale
circa  la  natura  processuale   delle   norme   penitenziarie,   con
conseguente immediata applicabilita'  di  modifiche  normative  anche
peggiorative ai fatti pregressi, in difetto  di  apposita  disciplina
transitoria; e, dall'altro lato, la recente pronuncia della Corte  di
cassazione, sezione sesta penale, n. 12541 del 2019, che ha  ritenuto
non manifestamente infondato - ancorche', in specie, non rilevante  -
il dubbio di legittimita' costituzionale, in riferimento  agli  artt.
117,  primo  comma,  Cost.  e  7  CEDU,  determinato  dalla   mancata
previsione  di  una  disposizione  transitoria   volta   a   limitare
l'applicabilita' delle modifiche  introdotte  all'art.  4-bis  ordin.
penit. ai soli fatti di reato commessi successivamente all'entrata in
vigore della legge n. 3 del 2019.
    10.3.- Ad avviso del giudice a quo, il permesso premio, lungi dal
risolversi in una mera modalita' di esecuzione della pena,  «viene  a
incidere sulla qualita' essenziale della pena  stessa  rispetto  alla
quale la funzione  rieducativa  viene  assicurata  anche  tramite  il
beneficio ex art. 30 ter O.P.», come  riconosciuto  da  questa  Corte
nella sentenza n. 349 del 1993; sicche' eventuali modifiche normative
che  restringano  i  presupposti  di   accesso   a   tale   beneficio
modificherebbero  «la  natura  stessa  della   sanzione   penale»   e
dovrebbero essere soggette alla garanzia di irretroattivita' prevista
dagli artt. 25, secondo comma, Cost., e 7 CEDU. Riprendendo in  larga
misura le argomentazioni dell'ordinanza di rimessione iscritta al  n.
114 del r.o. 2019, il rimettente evidenzia come  questa  Corte  abbia
gia'  censurato  modifiche  normative  che   incidessero   in   senso
peggiorativo   sulle   condizioni   di   fruibilita'   di    benefici
penitenziari, applicandosi indistintamente anche  ai  condannati  che
avessero  gia'  raggiunto  un  grado  di  rieducazione  adeguato   al
beneficio richiesto (sono richiamate le sentenze n. 79 del  2007,  n.
257 del 2006, n. 137 del 1999, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995).
    10.4.- Il rimettente argomenta poi la dedotta lesione degli artt.
25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione all'art. 7
CEDU),  sotto  il  profilo  della   violazione   del   principio   di
affidamento,  svolgendo  considerazioni  analoghe  a  quelle  esposte
nell'ordinanza di rimessione iscritta al n. 114 del r.o. 2019.
    10.5.- In relazione al prospettato contrasto  della  disposizione
censurata con gli artt. 3 e 27, secondo  e  terzo  comma,  Cost.,  il
rimettente parimenti ripropone le  argomentazioni  dell'ordinanza  di
rimessione iscritta al n. 114 del r.o.  2019,  soggiungendo  che  «la
preclusione   all'accesso   ai   benefici   penitenziari   o,    piu'
correttamente,  la  possibilita'  di  accesso   solo   in   caso   di
collaborazione o di accertata collaborazione impossibile senza alcuna
distinzione di ordine temporale quanto  alla  sfera  di  applicazione
della nuova normativa» introdurrebbe un automatismo tale da  impedire
al  giudice  ogni  valutazione  individuale  sul  concreto   percorso
rieducativo compiuto dal  condannato  prima  dell'entrata  in  vigore
della  legge  n.   3   del   2019,   con   conseguente   frustrazione
dell'imperativo costituzionale della funzione rieducativa della  pena
(sono richiamate la sentenza n. 149  del  2018  e  la  giurisprudenza
costituzionale ivi citata).
    10.6.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei   Ministri   non   e'
intervenuto in giudizio.
    11.- Con ordinanza del 12 giugno 2019 (r.o. n. 220 del 2019),  il
Tribunale di  sorveglianza  di  Salerno  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera  b),  della
legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l'art.  4  bis,
comma 1 O.P., si  applica  anche  in  relazione  ai  delitti  di  cui
all'art. 319-quater comma 1 c.p. commessi anteriormente alla  entrata
in vigore della  medesima  legge»,  denunciando  il  contrasto  della
disposizione con gli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 117
Cost. e 7 CEDU.
    Il rimettente e' chiamato a  delibare  l'istanza  di  concessione
dell'affidamento in prova al servizio sociale, o in subordine,  della
detenzione domiciliare o  della  semiliberta',  avanzata  da  D.  M.,
condannato alla pena di sei anni di reclusione dalla Corte di appello
di Milano con sentenza del 14 novembre 2017, per i reati di cui  agli
artt. 319-quater, primo comma, e 648 cod. pen., attualmente in regime
di arresti domiciliari e in attesa della valutazione del Tribunale di
sorveglianza circa  la  concedibilita'  di  misure  alternative  alla
detenzione, ai sensi dell'art. 656, comma 10, cod. proc. pen.
    11.1.- Premette il giudice a quo che  l'immediata  applicabilita'
delle modifiche apportate all'art. 4-bis ordin. penit.  dall'art.  1,
comma 6, lettera b), della legge n. 3 del  2019  -  e,  segnatamente,
l'inclusione del delitto di cui  all'art.  319-quater,  primo  comma,
cod. pen. nel novero  di  quelli  "ostativi"  ai  sensi  della  prima
disposizione -  comporterebbe  la  declaratoria  di  inammissibilita'
delle istanze di M. D., in difetto del requisito della collaborazione
con la giustizia, o della impossibilita' della stessa,  previsto  per
l'accesso  ai  benefici   penitenziari   dal   citato   art.   4-bis.
Diversamente,    l'auspicata    declaratoria    di     illegittimita'
costituzionale della norma censurata, sotto il profilo della  mancata
previsione  dell'inapplicabilita'  ai  fatti  di   reato   pregressi,
consentirebbe al rimettente di accogliere le  istanze  del  detenuto,
alla luce dell'assenza di altri  precedenti  penali,  della  regolare
condotta  serbata  durante  il   periodo   trascorso   agli   arresti
domiciliari e della possibilita' di svolgere un'attivita'  lavorativa
idonea a favorire il reinserimento sociale. Donde, la rilevanza delle
questioni sollevate.
    11.2.-  Quanto  alla  non   manifesta   infondatezza,   essa   e'
argomentata in base a considerazioni analoghe  a  quelle  svolte  dal
Tribunale di sorveglianza di Venezia nell'ordinanza  iscritta  al  n.
114 del r.o. 2019.
    11.3.- E' intervenuto anche in questo giudizio il Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo  che  le  questioni  sollevate  siano
dichiarate inammissibili o infondate, per le medesime ragioni esposte
negli atti di intervento depositati nei giudizi  iscritti  ai  numeri
114 e 193 del r.o. 2019.
    12.-  All'udienza  dell'11  febbraio  2020,   il   rappresentante
dell'Avvocatura generale  dello  Stato,  a  parziale  modifica  delle
conclusioni gia' rassegnate negli atti  di  intervento,  ha  invitato
questa Corte ad adottare  una  pronuncia  interpretativa  di  rigetto
delle  questioni  sollevate,  sulla  base  di   una   lettura   della
disposizione  censurata  secondo  la  quale  le  modifiche  da   essa
apportate dovrebbero essere  applicate  soltanto  ai  fatti  commessi
successivamente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Cio'
in quanto tutte le norme ivi previste «che peggiorano  la  condizione
dei detenuti in  termini  di  status  libertatis»  dovrebbero  essere
«lette necessariamente come norme di carattere sostanziale  e  quindi
non retroattive, non solo alla luce dell'art. 25 della  Costituzione,
ma anche alla luce dell'art. 2 del codice penale».

                       Considerato in diritto

    1.- Le undici ordinanze di rimessione indicate in  epigrafe,  che
e'  opportuno  riunire  ai  fini  della  decisione,  sollevano  tutte
questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,  comma  6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in  materia  di
prescrizione del reato e in materia  di  trasparenza  dei  partiti  e
movimenti politici).
    Secondo    i    rimettenti,     tale     disposizione     sarebbe
costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che  le
modifiche da essa apportate all'art. 4-bis, comma 1, della  legge  26
luglio 1975, n. 354 (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla
esecuzione delle misure privative e  limitative  della  liberta')  si
applichino soltanto ai condannati per fatti commessi  successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.
    1.1.- Piu' in particolare, le ordinanze iscritte ai  numeri  114,
157, 210 e 220 del r.o. 2019 sono state pronunciate da  tribunali  di
sorveglianza investiti di istanze di concessione di benefici o misure
alternative alla detenzione (permesso premio, affidamento in prova al
servizio sociale, detenzione domiciliare) da parte di condannati  per
reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell'entrata
in vigore della legge n. 3 del 2019.
    Tali reati risultano ora inseriti - ad opera del  censurato  art.
1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 -  nell'elenco  dei
delitti  previsti   dall'art.   4-bis,   comma   1,   ordin.   penit.
Conseguentemente, per tali reati sono oggi previste condizioni  assai
piu' gravose, per l'accesso ai benefici penitenziari  e  alle  misure
alternative, rispetto a quelle vigenti al momento  della  commissione
del fatto.
    1.2.- Le ordinanze iscritte ai numeri 115, 118,  119,  160,  161,
193 e 194 del r.o. 2019 sono  state  invece  pronunciate  da  giudici
dell'esecuzione, investiti di istanze volte a ottenere la sospensione
o la declaratoria di illegittimita' di  ordini  di  esecuzione  della
pena emessi nei confronti di condannati per reati contro la  pubblica
amministrazione, commessi prima dell'entrata in vigore della legge n.
3 del 2019.
    Tali ordini di esecuzione non sono  stati  sospesi,  per  effetto
dell'inclusione del reato per il  quale  l'interessato  e'  stato  di
volta in volta condannato nell'elenco dei  delitti  di  cui  all'art.
4-bis ordin. penit., in relazione  ai  quali  l'art.  656,  comma  9,
lettera a), del codice di procedura penale prevede, per l'appunto, il
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.
    1.3.- Secondo i giudici rimettenti, la mancata limitazione  degli
effetti dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3  del  2019
ai soli  condannati  per  fatti  commessi  successivamente  alla  sua
entrata in vigore sarebbe di dubbia compatibilita':
    - con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione e  con  l'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art.  7  della  Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali (CEDU), sotto il profilo del principio  di  legalita'  e
non retroattivita' della  pena;  e  cio'  in  quanto  il  divieto  di
applicazione retroattiva delle modifiche normative che  aggravano  la
pena prevista per  il  reato  comprenderebbe  altresi'  le  modifiche
normative che,  come  quella  in  esame,  restringano  presupposti  e
condizioni di accesso a benefici penitenziari  e  misure  alternative
alla detenzione (ordinanze iscritte ai numeri  114,  115,  118,  119,
160, 161, 193, 194, 210 e 220 del r.o. 2019);
    - con il diritto di difesa di cui  all'art.  24,  secondo  comma,
Cost.,  dal  momento  che  la  modifica   normativa   operata   dalla
disposizione censurata avrebbe vanificato  le  strategie  processuali
degli imputati poi condannati, i quali potrebbero, ad  esempio,  aver
scelto un rito alternativo confidando  in  una  diminuzione  di  pena
sufficiente per poter beneficiare della  sospensione  dell'ordine  di
esecuzione della pena (ordinanze iscritte ai numeri  160  e  161  del
r.o. 2019);
    -  con  gli  artt.  3  e  27,  terzo   comma,   Cost.   (nonche',
nell'ordinanza iscritta al n. 210 del r.o. 2019, con il secondo comma
di  quest'ultima  disposizione),  in   relazione   ai   principi   di
ragionevolezza e funzione rieducativa della pena, attesa l'automatica
incidenza,   sul   percorso   rieducativo   dei   condannati,   delle
sopravvenute preclusioni all'accesso  a  benefici  penitenziari  e  a
misure alternative alla detenzione,  con  conseguente  impossibilita'
per l'autorita' giudiziaria di operare  valutazioni  individualizzate
in sede di esame delle istanze di concessione  di  detti  benefici  e
misure (ordinanze iscritte ai numeri 114, 210 e 220 del r.o. 2019);
    - con l'art. 3 Cost., sotto  un  duplice  profilo:  da  un  lato,
l'irragionevole disparita' di trattamento creatasi tra condannati per
i medesimi delitti,  commessi  anteriormente  all'entrata  in  vigore
dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, i  quali
sarebbero sottoposti a un regime differenziato quanto all'accesso  ai
benefici penitenziari e alle misure alternative  alla  detenzione,  a
seconda del momento - anteriore o successivo alla  vigenza  di  detta
disposizione - in cui la  magistratura  di  sorveglianza  esamini  la
relativa istanza di concessione (ordinanze iscritte  ai  numeri  114,
157, 210 e 220 del r.o. 2019); dall'altro, l'irragionevole disparita'
di  trattamento   fra   autori   dei   medesimi   delitti,   commessi
rispettivamente prima o dopo l'entrata in vigore  della  disposizione
censurata, poiche' solo i primi, ma non anche i  secondi,  potrebbero
espiare la pena in regime extramurario (ordinanze iscritte ai  numeri
115 e 118 del r.o. 2019).
    2.- In  via  preliminare,  conviene  brevemente  ricapitolare  il
contesto  normativo  nel  quale  si  inseriscono   le   censure   dei
rimettenti.
    Come gia' rammentato, l'art. 1, comma 6, lettera b), della  legge
n. 3 del 2019, in questa sede censurato,  inserisce  nell'elenco  dei
delitti previsti dall'art. 4-bis, comma 1, ordin.  penit.  i  delitti
contro la pubblica amministrazione  di  cui  agli  artt.  314,  primo
comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320,
321, 322 e 322-bis del codice penale.
    2.1.- Per effetto di detto inserimento, tali  delitti  sono  oggi
soggetti, anzitutto, al  medesimo  regime  "ostativo"  rispetto  alla
concessione dei permessi  premio,  del  lavoro  all'esterno  e  delle
misure  alternative   alla   detenzione,   esclusa   la   liberazione
anticipata, che vige per  i  delitti  cosiddetti  "di  prima  fascia"
elencati nell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
    Cio'  significa  che  i  benefici  e  le  misure  alternative  in
questione possono ora essere concessi ai condannati  per  la  maggior
parte dei delitti contro  la  pubblica  amministrazione,  di  regola,
soltanto nel caso in cui essi collaborino con la giustizia.
    Tale collaborazione potra' avvenire, alternativamente,  ai  sensi
dell'art. 58-ter ordin. penit., ovvero -  in  forza  di  un'ulteriore
modifica del testo dell'art. 4-bis ordin. penit.,  operata  dall'art.
1, comma 6, lettera a),  della  legge  n.  3  del  2019  -  ai  sensi
dell'art. 323-bis, secondo comma, cod. pen.
    L'art. 58-ter ordin. penit., a sua volta, descrive la condotta di
collaborazione con la giustizia come quella  di  «coloro  che,  anche
dopo la condanna, si  sono  adoperati  per  evitare  che  l'attivita'
delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero  hanno  aiutato
concretamente l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria  nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei  fatti  e  per
l'individuazione o la cattura degli autori dei reati».
    L'art. 323-bis, secondo  comma,  cod.  pen.  prevede  invece  una
circostanza attenuante, applicabile a vari delitti contro la pubblica
amministrazione, in favore di «chi si sia efficacemente adoperato per
evitare  che  l'attivita'  delittuosa  sia  portata   a   conseguenze
ulteriori, per assicurare le prove dei reati e  per  l'individuazione
degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o  altre
utilita'  trasferite».  Se  il   riconoscimento   della   circostanza
attenuante e' evidentemente circoscritto alle condotte  collaborative
poste in essere dall'imputato prima della  sentenza  irrevocabile  di
condanna, il richiamo a tale disposizione da parte  dell'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit., nel testo modificato dalla  legge  n.  3  del
2019, sta probabilmente a significare che la collaborazione richiesta
al condannato per i reati contro la pubblica amministrazione puo'  in
concreto esplicarsi - anche dopo la condanna - nelle  forme  indicate
dallo stesso  art.  323-bis,  secondo  comma,  cod.  pen.,  ove  -  a
differenza di quanto accade nell'art. 58-ter ordin. penit. - e' fatta
esplicita menzione dell'attivita' rivolta ad assicurare il «sequestro
delle somme o altre utilita' trasferite».
    In difetto di collaborazione, il condannato per i delitti  contro
la pubblica amministrazione menzionati dalla disposizione censurata -
cosi' come qualsiasi  altro  condannato  per  i  delitti  contemplati
dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. - potra' accedere ai benefici
e alle misure alternative alla detenzione diverse  dalla  liberazione
anticipata soltanto:
    - allorche' ricorrano le condizioni di cui all'art. 4-bis,  comma
1-bis, ordin. penit., e cioe' «purche' siano stati acquisiti elementi
tali da escludere l'attualita' di collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata, terroristica o eversiva, altresi' nei  casi  in  cui  la
limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella  sentenza
di condanna,  ovvero  l'integrale  accertamento  dei  fatti  e  delle
responsabilita', operato con sentenza irrevocabile, rendono  comunque
impossibile un'utile collaborazione con  la  giustizia,  nonche'  nei
casi in cui, anche se la collaborazione  che  viene  offerta  risulti
oggettivamente irrilevante, nei confronti  dei  medesimi  detenuti  o
internati  sia  stata  applicata  una  delle  circostanze  attenuanti
previste dall'articolo 62, numero 6), anche qualora  il  risarcimento
del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna,  dall'  articolo
114 ovvero dall'articolo 116,  secondo  comma,  del  codice  penale»;
ovvero
    - limitatamente alla concessione dei permessi  premio,  allorche'
siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualita'  di
collegamenti con la criminalita' organizzata,  sia  il  pericolo  del
ripristino di  tali  collegamenti,  secondo  quanto  stabilito  dalla
sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte.
    2.2.- La sottoposizione dei  condannati  per  delitti  contro  la
pubblica amministrazione al regime dell'art. 4-bis, comma  1,  ordin.
penit. comporta poi una serie di effetti  stabiliti  da  altre  norme
dell'ordinamento penitenziario che rinviano allo stesso art. 4-bis, e
in particolare:
    - una preclusione assoluta - non superabile neppure  in  presenza
di  collaborazione  o  di  condizioni  equiparate  -  rispetto   alla
concessione delle misure  alternative  della  detenzione  domiciliare
"ordinaria" per  ultrasettantenni  (art.  47-ter,  comma  01,  ordin.
penit.) e della detenzione domiciliare  cosiddetta  "generica"  (art.
47-ter, comma 1-bis, ordin. penit.);
    - l'allungamento dei tempi di espiazione di  pena  necessari  per
l'accesso al lavoro all'esterno (art. 21, comma 1, ordin. penit.), ai
permessi premio (art. 30-ter ordin. penit.) e alla semiliberta' (art.
50, comma 2, ordin. penit.);
    - un regime piu'  rigoroso  relativo  alla  revoca  dei  benefici
penitenziari gia' concessi, ai sensi dell'art.  58-quater,  comma  5,
ordin. penit.
    2.3.-   L'inserimento   dei   delitti    contro    la    pubblica
amministrazione indicati dalla disposizione censurata nell'elenco  di
cui all'art. 4-bis, comma  1,  ordin.  penit.  comporta  un  identico
regime preclusivo rispetto alla liberazione condizionale, la quale  -
in forza dell'art.  2  del  decreto-legge  13  maggio  1991,  n.  152
(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata
e di trasparenza e  buon  andamento  dell'attivita'  amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n.  203  -
puo' essere concessa ai condannati per  i  delitti  di  cui  all'art.
4-bis, comma  1,  ordin.  penit.  alla  condizione  che  ricorrano  i
presupposti ivi indicati.
    2.4.- Infine, le ordinanze di rimessione  sollevate  dai  giudici
dell'esecuzione    concernono    l'ulteriore     effetto     riflesso
dell'inserimento  dei  delitti  contro  la  pubblica  amministrazione
nell'elenco  dell'art.  4-bis,  comma  1,  ordin.  penit.,  stabilito
dall'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. e consistente nel
divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.
    Se infatti, in  linea  generale,  in  caso  di  condanna  a  pena
detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente  residuo
di maggior  pena,  il  pubblico  ministero  e'  tenuto  a  sospendere
l'ordine di  esecuzione  contestualmente  emesso  nei  confronti  del
condannato  che  si  trovi  in  stato  di  liberta'  o  agli  arresti
domiciliari, si' da consentirgli di presentare istanza  al  tribunale
di sorveglianza competente - nei trenta giorni successivi  -  per  la
concessione di una misura  alternativa  alla  detenzione  (art.  656,
commi 5 - come modificato dalla sentenza n. 41  del  2018  di  questa
Corte - e 10, cod. proc. pen.), il comma 9, lettera a), del  medesimo
art. 656 cod. proc. pen. preclude invece  al  pubblico  ministero  di
sospendere l'ordine di esecuzione  relativo  alle  condanne  per  una
serie di delitti, tra i cui  quelli  di  cui  all'art.  4-bis  ordin.
penit.
    Ne consegue il necessario ingresso in  carcere,  nelle  more  del
procedimento di sorveglianza, di chi sia condannato a pena  detentiva
non sospesa per la maggior  parte  dei  delitti  contro  la  pubblica
amministrazione, nonostante l'entita' della pena  da  scontare  possa
consentire al condannato di essere ammesso a una  misura  alternativa
alla detenzione sin dall'inizio dell'esecuzione.
    2.5.- La disposizione censurata nulla prevede in merito alla  sua
efficacia nel tempo.
    In forza delle indicazioni provenienti dal  diritto  vivente,  di
cui meglio si dira' piu' innanzi (infra, 4.1.), tutte le ordinanze di
rimessione assumono tuttavia che - nel  silenzio  del  legislatore  -
tali modifiche siano immediatamente applicabili anche  a  coloro  che
sono stati condannati per fatti commessi anteriormente all'entrata in
vigore  della  legge  n.  3  del  2019:  cio'  che  costituisce,  per
l'appunto, l'oggetto essenziale delle censure  che  questa  Corte  e'
chiamata ora a decidere.
    3.- In relazione all'ammissibilita' delle questioni  prospettate,
deve osservarsi quanto segue.
    3.1.- Nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019, l'Avvocatura
generale dello Stato  ha  eccepito  il  difetto  di  rilevanza  delle
questioni  sollevate,  poiche',  anche   facendo   applicazione   del
principio tempus regit actum, il Tribunale  di  sorveglianza  avrebbe
ben potuto esaminare l'istanza del condannato A. B. di affidamento in
prova al servizio sociale in base alla disciplina previgente.
    L'eccezione deve ritenersi proposta anche nei giudizi iscritti ai
numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, poiche', nei rispettivi atti  di
intervento,  l'Avvocatura  generale  dello  Stato  ha  dichiarato  di
richiamare integralmente le eccezioni svolte nel giudizio iscritto al
n. 114 del r.o. 2019.
    3.1.1.- In riferimento alle ordinanze iscritte ai  numeri  114  e
220 del r.o. 2019,  va  rilevato  che,  nei  procedimenti  a  quibus,
l'ordine di esecuzione della pena e' stato emesso - e contestualmente
sospeso, ai sensi rispettivamente dei commi 5 e 10 dell'art. 656 cod.
proc. pen. - anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del
2019; cosi' come prima  della  vigenza  di  quest'ultima  sono  state
proposte da ciascun condannato le istanze di  concessione  di  misure
alternative alla detenzione. In entrambi i giudizi a  quibus,  pero',
l'udienza per la decisione sull'istanza del condannato si  e'  svolta
successivamente all'entrata in vigore della predetta legge.
    In proposito, occorre osservare che il piu' recente  orientamento
della giurisprudenza di legittimita', formatosi  proprio  sulla  base
delle questioni di diritto intertemporale suscitate dalla legge n.  3
del 2019,  e'  effettivamente  nel  senso  dell'applicabilita'  della
disciplina  previgente  ogniqualvolta  l'istanza  di  concessione  di
misure alternative alla detenzione sia stata presentata anteriormente
alla data di  entrata  in  vigore  della  legge  medesima  (Corte  di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019,  n.  25212;
sentenza 28 novembre 2019, n. 48499; sentenza  17  gennaio  2020,  n.
1799).
    Tuttavia,  tenendo  conto  anche   della   circostanza   che   la
giurisprudenza  appena  citata  e'  in  gran  parte  successiva  alle
ordinanze  di  rimessione,  deve  ritenersi   non   implausibile   la
motivazione dei rimettenti circa la rilevanza  delle  questioni,  che
muoveva dal  diverso  presupposto  interpretativo  che  il  discrimen
temporale per  l'applicazione  della  disciplina  sopravvenuta  fosse
rappresentato dalla data di delibazione  dell'istanza  da  parte  del
tribunale di sorveglianza.
    Tanto    basta    per    disattendere    l'eccezione    sollevata
dall'Avvocatura generale dello Stato, «non  potendosi  procedere,  in
questa sede, ad un sindacato  (diverso  dal  controllo  esterno)  sul
giudizio di rilevanza, espresso dall'ordinanza di rimessione in  modo
non implausibile (v. per tutte, sentenza  n.  286  del  1997)  e  con
motivazione tutt'altro che carente (v. ordinanza  n.  62  del  1997)»
(sentenza n. 179 del 1999; nello stesso senso, ordinanze n.  104  del
2019 e n. 47 del 2016).
    3.1.2.- L'eccezione deve poi ritenersi all'evidenza infondata con
riferimento ai giudizi iscritti ai numeri 193 e 194  del  r.o.  2019,
introdotti da  giudici  dell'esecuzione  in  seguito  all'opposizione
contro  altrettanti  ordini  di   esecuzione   della   pena,   emessi
successivamente all'entrata in vigore della disposizione censurata.
    3.2.- Sempre nel giudizio iscritto  al  n.  114  del  r.o.  2019,
l'Avvocatura generale  dello  Stato  ha  eccepito  l'inammissibilita'
delle  questioni,  in  quanto  miranti  a  conseguire  un  intervento
manipolativo   della   Corte,   in   assenza   di    una    soluzione
costituzionalmente obbligata. L'eccezione  deve  intendersi  proposta
anche nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220  del  r.o.  2019,
stante il rinvio operato negli atti di intervento del Presidente  del
Consiglio dei  ministri  alle  eccezioni  gia'  svolte  nel  giudizio
iscritto al n. 114 del r.o. 2019.
    L'eccezione non  e'  fondata,  per  l'assorbente  ragione  che  i
rimettenti sollecitano un intervento additivo della  Corte,  volto  a
ricondurre le modificazioni recate all'art. 4-bis ordin. penit. dalla
disposizione censurata nell'alveo della garanzia di  irretroattivita'
di cui, in particolare, all'art. 25, secondo comma, Cost.;  soluzione
alla quale conseguirebbe - univocamente, dato il tenore letterale del
precetto costituzionale - l'inapplicabilita' di tali modificazioni ai
condannati per fatti commessi  prima  dell'entrata  in  vigore  della
legge che le ha introdotte.
    3.3.- Nei giudizi iscritti ai numeri 115, 118 e 119 del r.o. 2019
-  originati  da  incidenti  di  esecuzione  volti  a  conseguire  la
declaratoria di illegittimita' di ordini di esecuzione emessi  e  non
sospesi   -   l'Avvocatura   generale   dello   Stato   ha   eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per erronea  individuazione  della
norma censurata. I rimettenti avrebbero infatti denunciato l'art.  1,
comma 6, lettera b), della legge n.  3  del  2019  (che  inserisce  i
delitti contro  la  pubblica  amministrazione  nel  catalogo  di  cui
all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.) e non,  invece,  l'art.  656,
comma 9, lettera a), cod. proc. pen. (che stabilisce  il  divieto  di
sospensione dell'ordine di esecuzione in relazione alle condanne  per
i reati di cui all'art. 4-bis stesso).
    L'eccezione  non  e'  fondata.  Dal  tenore   complessivo   delle
ordinanze di rimessione risulta infatti evidente che l'intenzione dei
giudici  dell'esecuzione  rimettenti  e'  quella  di  censurare,  per
l'appunto, l'effetto prodottosi  sul  meccanismo  preclusivo  di  cui
all'art. 656, comma 9, lettera a), cod.  proc.  pen.  in  conseguenza
dall'ampliamento del catalogo di cui all'art. 4-bis ordin. penit.
    D'altra parte, questa Corte ha gia' avuto modo di  osservare  che
«il comma 9 [dell'art. 656 cod. proc. pen], alla lettera a),  prevede
che la sospensione dell'esecuzione non  possa  essere  disposta  "nei
confronti dei condannati per i delitti di cui  all'art.  4-bis  della
legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive  modificazioni",  sicche',
per effetto del  rinvio  in  essa  contenuto,  la  norma  processuale
recepisce automaticamente le  variazioni  del  catalogo  dei  delitti
indicati nello stesso art. 4-bis (Corte di cassazione, Sezioni  unite
penali, sentenza n. 24561 del 2006)», e che  «l'art.  656,  comma  9,
cod.  proc.  pen.  disciplina  unicamente  l'attivita'  del  pubblico
ministero, vincolandone il contenuto in funzione della presunzione di
pericolosita' che concerne i condannati per i  delitti  compresi  nel
catalogo appena citato» (ordinanza n. 166 del 2010).
    Puo' allora ritenersi che, cosi' come la sospensione  dell'ordine
di esecuzione, di cui all'art. 656, comma  5,  cod.  proc.  pen.,  e'
istituto di natura  «servente»  rispetto  alla  richiesta  di  misure
alternative alla detenzione (sentenza n. 41 del  2018),  allo  stesso
modo il divieto di sospensione, di cui al comma 9, lettera a),  della
medesima  disposizione   e'   condizionato   dalla   presunzione   di
pericolosita' correlata all'inserimento di un determinato  reato  nel
catalogo di cui all'art. 4-bis ordin.  penit.  I  giudici  rimettenti
sono pertanto chiamati a  fare  direttamente  applicazione  anche  di
quest'ultima disposizione, cosi' come integrata dall'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, contro cui correttamente  essi
rivolgono le proprie censure.
    3.4.- Nei giudizi iscritti ai numeri 157, 160, 161,  193,  194  e
220 del r.o. 2019, l'Avvocatura  generale  dello  Stato  ha  eccepito
l'inammissibilita'  delle  questioni  per  mancato   esperimento   di
un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della  disposizione
censurata.
    Nemmeno questa eccezione e' fondata.
    I giudici a quibus hanno  argomentato  che,  secondo  il  diritto
vivente,  le  disposizioni  concernenti   l'esecuzione   delle   pene
detentive e le misure alternative alla  detenzione,  non  riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma  soltanto  le
modalita' esecutive della stessa, non avrebbero  carattere  di  norme
penali sostanziali e sarebbero pertanto soggette al principio  tempus
regit actum: con conseguente loro applicazione anche a fatti di reato
antecedenti alla loro entrata in vigore.
    Come meglio si vedra' piu' innanzi, in effetti, la giurisprudenza
di legittimita' e' allo stato univocamente orientata in questo  senso
(infra, 4.1.2.).
    Alla  luce  dunque  del  diritto  vivente,  la  possibilita'   di
un'interpretazione   costituzionalmente   orientata,   che   attragga
nell'alveo  dell'art.  25,  secondo  comma,  Cost.  le  modificazioni
all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., introdotte dalla disposizione
censurata,  e'  stata  esplorata  e  consapevolmente   scartata   dai
rimettenti: il che basta ai fini dell'ammissibilita' della  questione
(sentenza n. 189 del 2019).
    3.5.- Nei giudizi iscritti ai numeri 193,  194  e  220  del  r.o.
2019,    l'Avvocatura    generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per mancata individuazione di  una
norma  oggetto  della  questione  di   legittimita'   costituzionale,
asserendo che i rimettenti avrebbero censurato «un mancato intervento
del legislatore».
    Nemmeno tale eccezione puo' essere accolta.
    I  giudici  a  quibus,  infatti,  individuano   puntualmente   la
disposizione censurata, che ha inserito i reati  contro  la  pubblica
amministrazione nel catalogo di cui all'art. 4-bis, comma  1,  ordin.
penit., invocando su di essa un intervento additivo di questa  Corte,
mirante a delimitarne l'ambito temporale di applicazione ai fatti  di
reato successivi alla sua entrata in vigore.
    3.6.- Nei giudizi iscritti ai numeri 114, 115, 118, 119, 193, 194
e 210 del r.o. 2019, l'Avvocatura generale dello  Stato  ha  eccepito
l'inammissibilita' delle questioni relative alla dedotta lesione  del
divieto di retroattivita' della legge penale  sfavorevole  (art.  25,
secondo comma, Cost.) e del principio di eguaglianza (art. 3  Cost.),
sul rilievo che analoghe censure sarebbero  gia'  state  respinte  da
questa Corte nella sentenza 273 del 2001 e nelle ordinanze n. 108 del
2004 e n. 280 del 2001.
    L'eccezione non puo' evidentemente essere accolta, atteso  che  -
anche ad ammettere che vi sia perfetta coincidenza tra  le  questioni
ora sollevate e altre gia' decise in passato - nulla vieta  a  questa
Corte di riconsiderare i propri stessi orientamenti interpretativi.
    3.7.- Sia pure in assenza di alcuna specifica eccezione da  parte
dell'Avvocatura generale dello Stato,  con  riferimento  al  giudizio
iscritto al n. 210  del  r.o.  2019  -  ove  il  rimettente  denuncia
l'illegittimita'  costituzionale  dell'immediata  applicazione  delle
modificazioni recate all'art. 4-bis, comma  1,  ordin.  penit.  dalla
disposizione  censurata,  sotto   il   profilo   della   sopravvenuta
impossibilita' di concedere il beneficio  del  permesso  premio  agli
autori dei delitti di cui agli artt. 317 e  319  cod.  pen.  che  non
collaborino la giustizia - va osservato che non  elide  la  rilevanza
delle  questioni  ivi  prospettate  l'intervenuta   declaratoria   di
illegittimita' costituzionale, operata dalla citata sentenza  n.  253
del 2019, dell'art. 4-bis, comma 1, nella parte in  cui  non  prevede
che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi
permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a
norma dell'art. 58-ter ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti
elementi tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti  con  la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva,  sia  il  pericolo
del ripristino di tali collegamenti.
    Nel caso di specie, il rimettente rappresenta  infatti  di  dover
fare  applicazione  dell'art.  4-bis,  comma  1,  ordin.  penit.,  in
conseguenza  dell'inclusione,  con  effetto  immediato,   dei   reati
ascritti al condannato M.P. D.G. nel catalogo  contemplato  da  detta
disposizione; laddove, a  fronte  dell'eventuale  accoglimento  delle
questioni  sollevate,  egli  dovrebbe  valutare  la  concessione  del
permesso premio sulla base  dei  soli  requisiti  previsti  dall'art.
30-ter ordin. penit. E' pertanto evidente  che  sarebbe  radicalmente
diverso il percorso argomentativo  che  il  giudice  a  quo  dovrebbe
seguire nel vagliare l'istanza del condannato in caso di applicazione
della disciplina risultante dal censurato art. 1,  comma  6,  lettera
b), della legge n. 3 del 2019, o, viceversa, di quella previgente.
    Di qui la persistente rilevanza delle questioni prospettate.
    4.- Nel merito,  le  questioni  prospettate  dalle  ordinanze  di
rimessione iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193,  194
e 220 del  r.o.  2019  sono  fondate  con  riferimento  alla  dedotta
violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost.
    Il diritto vivente ritiene, invero, che  le  norme  disciplinanti
l'esecuzione della pena siano  in  radice  sottratte  al  divieto  di
applicazione retroattiva che  discende  dal  principio  di  legalita'
della pena di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.1.).
    Plurime e convergenti  ragioni  inducono,  tuttavia,  a  dubitare
della persistente  compatibilita'  di  tale  diritto  vivente  con  i
principi costituzionali (infra, 4.2.).
    In esito a una complessiva rimeditazione della tematica,  occorre
in effetti concludere nel senso che, di  regola,  le  pene  detentive
devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento  della
loro esecuzione, salvo pero' che tale  legge  comporti,  rispetto  al
quadro normativo vigente al momento  del  fatto,  una  trasformazione
della  natura  della  pena  e  della  sua  incidenza  sulla  liberta'
personale. In questa ipotesi, l'applicazione retroattiva di una  tale
legge e' incompatibile con l'art. 25, secondo  comma,  Cost.  (infra,
4.3.).
    La disposizione in questa sede censurata comporta, per una  serie
di reati contro la pubblica amministrazione, una trasformazione della
natura delle  pene  previste  al  momento  del  reato  e  della  loro
incidenza  sulla  liberta'  personale  del  condannato,  quanto  agli
effetti spiegati dalla stessa disposizione in relazione  alle  misure
alternative alla  detenzione,  alla  liberazione  condizionale  e  al
divieto  di  sospensione  dell'ordine  di  esecuzione   della   pena.
Conseguentemente,  l'applicazione  della  disposizione  censurata  ai
condannati per fatti  commessi  anteriormente  alla  sua  entrata  in
vigore, quanto agli effetti appena menzionati, viola  il  divieto  di
cui all'art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.4.).
    Stante il silenzio  del  legislatore  sul  regime  intertemporale
delle modifiche in esame, il rimedio appropriato,  in  risposta  alle
questioni  sollevate  dai  rimettenti,   e'   la   dichiarazione   di
illegittimita'  costituzionale  della  norma  censurata  cosi'   come
risultante dal diritto vivente (infra, 4.5.).
    4.1.-  Tutte  le  ordinanze  di  rimessione  muovono  dal  comune
presupposto che, secondo il diritto vivente, le  modifiche  in  peius
della disciplina dell'esecuzione della pena in radice  non  sarebbero
soggette al principio di irretroattivita' della legge penale, di  cui
all'art. 25, secondo comma, Cost.
    4.1.1.- Un attento esame della giurisprudenza  costituzionale  in
materia -  peraltro  tutta  piuttosto  risalente  -  restituisce,  in
verita', un quadro ricco di sfumature.
    Questa Corte  e'  stata  chiamata  quasi  trent'anni  or  sono  a
misurarsi con la legittimita' costituzionale della retroattivita'  di
simili modifiche in peius,  in  relazione  agli  effetti  retroattivi
prodotti, all'indomani della  strage  di  Capaci,  dall'art.  15  del
decreto-legge 8 giugno 1992,  n.  306  (Modifiche  urgenti  al  nuovo
codice  di  procedura  penale  e  provvedimenti  di  contrasto   alla
criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, nella  legge  7
agosto 1992, n. 356. Tale decreto-legge  aveva,  con  riferimento  ai
condannati per delitti di criminalita' organizzata e terrorismo,  per
la prima volta subordinato la concessione dei benefici penitenziari e
della  generalita'  delle  misure  alternative  alla  detenzione   al
presupposto della collaborazione con  la  giustizia,  contestualmente
prevedendo la revoca di tali benefici e misure,  pur  gia'  concessi,
nei confronti dei condannati che non avessero  collaborato  ai  sensi
dell'art. 58-ter ordin. penit.
    Per tutti gli anni  Novanta,  questa  Corte  non  ha  risolto  il
quesito ora all'esame, giungendo comunque a dichiarazioni di parziale
illegittimita' costituzionale delle disposizioni di  volta  in  volta
censurate sulla base  di  parametri  diversi  dall'art.  25,  secondo
comma, Cost.
    Nell'antesignana  sentenza  n.  306  del  1993,  questa  Corte  -
investita di plurime  questioni  aventi  a  oggetto  la  legittimita'
costituzionale della revoca di misure  alternative  gia'  concesse  -
ritenne non sufficientemente motivata la  rilevanza  delle  questioni
relative  alla  compatibilita'  dell'effetto   retroattivo   previsto
dall'art. 15, comma 2, del d.l. n. 306 del 1992 con il  principio  di
legalita' della pena di cui all'art. 25, secondo  comma,  Cost.,  pur
riconoscendo che tale profilo  avrebbe  potuto  «meritare  una  seria
riflessione». Questa Corte giudico' invece incompatibile  con  l'art.
27, primo e terzo comma,  Cost.  la  previsione  della  revoca  delle
misure gia' concesse, anche  quando  non  fosse  stata  accertata  la
sussistenza  di  collegamenti   attuali   del   condannato   con   la
criminalita'  organizzata;  e  cio'  in   ragione   dell'aspettativa,
legittimamente nutrita dai condannati che avevano  gia'  ottenuto  la
semiliberta', a «veder riconosciuto l'esito positivo del percorso  di
risocializzazione gia'  compiuto»,  aspettativa  ormai  trasformatasi
«nel diritto ad espiare la pena con modalita' idonee  a  favorire  il
completamento di tale processo».
    Nella successiva sentenza n. 504 del 1995 questa Corte  dichiaro'
illegittimo  l'art.  4-bis,  comma  1,  ordin.  penit.,   nel   testo
risultante dalle modifiche introdotte dal citato art. 15 del d.l.  n.
306 del 1992,  nella  parte  in  cui  precludeva  la  concessione  di
ulteriori permessi premio ai condannati per  delitti  "ostativi"  che
non avessero collaborato con  la  giustizia,  anche  quando  essi  ne
avessero gia' fruito in precedenza e non  fosse  stata  accertata  la
sussistenza di collegamenti attuali con la criminalita'  organizzata.
La  ragione  dell'illegittimita'  fu,  anche  in  questa   occasione,
ravvisata nel contrasto della disciplina censurata con gli artt. 3  e
27 Cost., in considerazione dell'irragionevolezza e  incompatibilita'
con  la  funzione  rieducativa  della  pena  di  una  disciplina  che
comportava una sorta di  "regressione  incolpevole  del  trattamento"
connesso al beneficio penitenziario in questione.
    Analoga ratio e' stata posta a fondamento delle sentenze  n.  445
del 1997 e n. 137 del 1999, con le quali l'art. 4-bis  ordin.  penit.
fu dichiarato illegittimo nella parte in  cui  non  prevedeva  che  -
rispettivamente - la  semiliberta'  e  i  permessi  premio  potessero
essere concessi nei confronti dei condannati che, prima della data di
entrata in vigore dell'art. 15, comma 1, del d.l. n.  306  del  1992,
avessero raggiunto un grado di  rieducazione  adeguato  al  beneficio
richiesto, e per i quali non fosse stata accertata la sussistenza  di
collegamenti attuali  con  la  criminalita'  organizzata.  Principio,
quest'ultimo, che sara' in seguito applicato da  questa  Corte  anche
con riferimento alle modifiche in peius introdotte, per i  condannati
recidivi reiterati, dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al
codice penale e alla legge 26 luglio 1975,  n.  354,  in  materia  di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione  delle
circostanze di reato per i recidivi,  di  usura  e  di  prescrizione)
(sentenze n. 79 del 2007 e n. 257 del 2006).
    In  altre  occasioni,  questa  Corte  e'   pervenuta   invece   a
dichiarazioni di non fondatezza delle questioni poste dall'entrata in
vigore del medesimo art. 15 del d.l. n.  306  del  1992,  prospettate
sotto lo specifico profilo dell'art. 25, secondo comma, Cost.,  senza
affermare, in maniera generale, l'estraneita' di tutte  le  modifiche
in peius della disciplina in materia  di  esecuzione  della  pena  al
raggio di garanzia offerto dal principio di legalita' della pena.
    Nel caso deciso con la sentenza n. 273 del 2001, in  particolare,
questa Corte era stata  nuovamente  sollecitata  a  chiarire  se  «il
principio di irretroattivita' della  legge  penale  sia  circoscritto
alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi
costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonche' la specie e la
durata  delle  sanzioni  edittali,  ovvero  vada  riferito   -   come
rit[eneva] il giudice a quo - anche alle norme  che  disciplinano  le
modalita' di espiazione della pena detentiva». Il giudice  rimettente
aveva sollevato questione  di  legittimita'  costituzionale  relativa
alla   disciplina   che   precludeva   l'accesso   alla   liberazione
condizionale ai condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis, comma
1, ordin. penit., commessi prima dell'entrata in vigore del  d.l.  n.
306 del 1992, i quali non avessero collaborato con la giustizia. Come
anticipato, questa  Corte  non  ha  dato  una  risposta  generale  al
quesito, osservando che le disposizioni  censurate,  nell'esigere  la
collaborazione con la giustizia  quale  condizione  di  accesso  alla
liberazione  condizionale,  non  avevano  modificato   gli   elementi
costitutivi di tale istituto, e segnatamente il requisito  dell'avere
tenuto il condannato un comportamento tale da farne  ritenere  sicuro
il  ravvedimento.  La  disciplina  censurata  si  sarebbe   piuttosto
limitata  a  introdurre  un  criterio  legale  di   valutazione   del
requisito, rappresentato appunto  dalla  collaborazione  processuale;
senza, dunque, modificare in senso deteriore  per  il  condannato  la
disciplina sostanziale della liberazione condizionale.
    La medesima argomentazione compare poi nelle due ordinanze n. 108
del 2004 e n. 280  del  2001,  con  le  quali  sono  state  parimenti
rigettate due  questioni  relative  agli  effetti  intertemporali  di
modifiche apportate all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
    4.1.2.- Il quadro della giurisprudenza della Corte di  cassazione
e' invece assai netto nel senso della non riconducibilita'  all'alveo
dell'art. 25, secondo comma, Cost. delle norme sull'esecuzione  della
pena, e conseguentemente nel senso della pacifica  applicabilita'  di
modifiche normative di segno peggiorativo  anche  ai  condannati  che
abbiano  commesso  il  reato  prima  dell'entrata  in  vigore   delle
modifiche stesse.
    Il tradizionale principio secondo cui le disposizioni  in  parola
non hanno carattere di norme sostanziali e soggiacciono pertanto,  in
assenza di specifica  disciplina  transitoria,  al  principio  tempus
regit actum e' stato affermato, in particolare, nel  2006  (Corte  di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561),
ed e' poi stato sempre confermato dalla giurisprudenza successiva (ex
multis, Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,  sentenza  18
settembre 2006, n. 30792; sezione prima penale,  sentenza  15  luglio
2008, n. 29155; sezione prima penale, sentenza 9  dicembre  2009,  n.
46924; sezione seconda penale, sentenza 22 febbraio  2012,  n.  6910;
sezione prima penale, sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima
penale, sentenza 18 dicembre 2014, n. 52578;  sezione  prima  penale,
sentenza 9 settembre 2016, n. 37578).
    4.1.3.- All'indomani dell'entrata in vigore della legge n. 3  del
2019, il diritto vivente e' stato invero rimesso  in  discussione  da
alcune pronunce  di  merito,  che  hanno  ritenuto  inapplicabile  la
disposizione censurata ai fatti di reato pregressi, dal  momento  che
ad  essa  si  sarebbe  dovuta  riconoscere  natura   "sostanzialmente
penale", secondo i noti criteri Engel elaborati dalla  Corte  europea
dei diritti dell'uomo, con conseguente sua soggezione al  divieto  di
retroattivita' sfavorevole di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost.
e 7 CEDU (Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario
di Como, ordinanza 8 marzo 2019; Corte di appello di Reggio Calabria,
sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019; Corte di appello  di
Napoli, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019).
    La Corte di cassazione ha, tuttavia, sinora unanimemente ribadito
- salvo che in un solo caso di cui si dira' tra breve (infra, 4.2.2.)
-  il  precedente  orientamento   espresso   dalle   Sezioni   unite,
concludendo nel senso che le modificazioni apportate all'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit. sono  applicabili  anche  ai  fatti  di  reato
pregressi in virtu'  del  principio  tempus  regit  actum  (Corte  di
cassazione, sezione prima penale, sentenze 6 giugno 2019,  n.  25212;
26 settembre 2019, n. 39609; 28 novembre 2019, n. 48499;  17  gennaio
2020, n. 1799; nonche'  ordinanza  18  luglio  2019,  n.  31853,  che
proprio sulla base di questo presupposto interpretativo ha  sollevato
le questioni di  legittimita'  costituzionale  di  cui  all'ordinanza
iscritta al n. 141 del r.o. 2019, che questa Corte esaminera'  in  un
distinto giudizio).
    4.2.- Come anticipato, plurime e convergenti ragioni  inducono  a
dubitare della persistente compatibilita' di tale diritto vivente con
i principi costituzionali.
    4.2.1.- In primo luogo, non e' senza significato che,  in  alcune
occasioni almeno, lo stesso legislatore abbia  ritenuto  di  limitare
espressamente l'applicabilita'  di  norme  incidenti  sul  regime  di
esecuzione della pena soltanto alle condanne  pronunciate  per  fatti
posteriori all'entrata in vigore delle norme medesime.
    Cio' e' avvenuto, anzitutto, proprio con il d.l. n. 152 del 1991,
cui si deve l'introduzione dell'art. 4-bis ordin. penit.,  nella  sua
originaria  versione.  L'art.  4,  comma  1,  di  tale  decreto-legge
prevedeva, infatti,  che  le  disposizioni  che  innalzavano,  per  i
condannati per i reati di cui  alla  nuova  disposizione,  i  periodi
minimi di espiazione di pena per l'accesso ai  benefici  penitenziari
fossero  applicabili  solo  in  relazione  ai  fatti  commessi   dopo
l'entrata in vigore del decreto-legge stesso.
    Analogo accorgimento non fu poi adottato con il d.l. n.  306  del
1992, al quale si  deve  l'introduzione  nell'art.  4-bis,  comma  1,
ordin. penit. del meccanismo preclusivo imperniato sulla mancanza  di
collaborazione:  meccanismo  la  cui  immediata  operativita'   anche
rispetto  ai  condannati  per  fatti  pregressi   fu,   in   effetti,
all'origine delle  varie  questioni  di  legittimita'  costituzionale
poc'anzi ricordate (supra, 4.1.1.), decise da questa Corte sulla base
del  principio  di  non  regressione  incolpevole   del   trattamento
penitenziario, dedotto in  particolare  dall'art.  27,  terzo  comma,
Cost.
    Ma, ancora nel 2002, il legislatore - nell'aggiungere  all'elenco
di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin.  penit.  i  delitti  posti  in
essere per  finalita'  di  terrorismo,  anche  internazionale,  o  di
eversione dell'ordine democratico, nonche'  i  delitti  di  cui  agli
artt.  600,  601  e  602  cod.  pen.  -  ebbe   cura   di   escludere
l'applicabilita' della modifica  normativa  ai  condannati  per  tali
titoli delittuosi che avessero commesso il fatto  anteriormente  alla
sua entrata in vigore (art. 4 della legge 23 dicembre 2002,  n.  279,
recante «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio
1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario»).
    4.2.2.- Come e' accaduto in talune  piu'  recenti  occasioni,  la
legge  n.  3  del  2019  non  prevede  invece   alcuna   disposizione
transitoria che ne escluda l'applicabilita' ai condannati  per  fatti
pregressi.
    Proprio tale silenzio del legislatore del 2019  ha  provocato  un
diffuso  disagio  nella  giurisprudenza  di  merito   riguardo   alla
sostenibilita'  costituzionale  e  convenzionale  della  conclusione,
imposta dal diritto vivente, nel senso della sua  applicazione  anche
ai condannati per fatti pregressi. Cio' si e' manifestato  sia  nelle
pronunce di merito, di cui si e' poc'anzi dato conto (supra, 4.1.3.),
che hanno direttamente  adottato  una  soluzione  difforme;  sia  nel
grande numero di ordinanze  che  hanno  sollevato,  nell'arco  di  un
brevissimo   lasso   temporale,   le   questioni   di    legittimita'
costituzionale ora in discussione,  con  le  quali  si  sollecita  in
sostanza questa Corte  a  dichiarare  costituzionalmente  illegittimo
quel diritto vivente.
    Nella  stessa  giurisprudenza  di   legittimita'   non   mancano,
d'altronde, segnali indicativi del medesimo disagio.
    Una  sentenza  della  sezione  sesta  penale   della   Corte   di
cassazione, in particolare,  ha  prospettato  dubbi  di  legittimita'
costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria
da parte della disposizione in questa sede censurata,  pur  ritenendo
di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza
nel  caso  di  specie.  La  Corte  di  cassazione  ha  osservato,  in
proposito, che l'orientamento  consolidato  della  giurisprudenza  di
legittimita'   circa   il   carattere   processuale    delle    norme
dell'ordinamento penitenziario andrebbe oggi rimeditato,  anche  alla
luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza  della  Corte
EDU, si' da garantire l'effettiva  prevedibilita'  delle  conseguenze
sanzionatorie: «l'avere il legislatore cambiato in itinere le  "carte
in tavola" senza prevedere alcuna  norma  transitoria»  presenterebbe
«tratti di dubbia conformita' con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art.
117 Cost., la' dove si traduce [...] nel passaggio - "a  sorpresa"  e
dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza  assaggio
di pena" ad una sanzione con  necessaria  incarcerazione»  (Corte  di
cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14 marzo 2019, n. 12541).
    4.2.3.- Tutte le ordinanze di rimessione valorizzano, in effetti,
i   recenti   sviluppi   della   giurisprudenza   della   Corte   EDU
sull'estensione della garanzia  dell'art.  7  CEDU,  con  riferimento
almeno a talune modifiche in peius del regime  dell'esecuzione  delle
pene; recenti sviluppi che l'ordinamento italiano non puo' del  resto
ignorare.
    Al riguardo, va premesso che, sino a poco piu' di un decennio fa,
la Corte di Strasburgo aveva  sostenuto  una  tesi  sovrapponibile  a
quella della giurisprudenza italiana, negando in particolare  che  le
modifiche alla disciplina dell'esecuzione della pena  chiamassero  in
causa la garanzia dell'art. 7 CEDU (Corte EDU, sentenza  29  novembre
2005, Uttley contro Regno Unito; nello stesso senso, Commissione  dei
diritti dell'uomo,  decisione  3  marzo  1986,  Hogben  contro  Regno
Unito).
    Una prima, significativa correzione di rotta risale al  2008,  in
relazione a un caso in cui il ricorrente aveva commesso il  reato  in
un'epoca in cui la pena dell'ergastolo, in forza dell'allora  vigente
normativa   penitenziaria   nazionale,   consentiva   l'accesso   del
condannato alla liberazione condizionale, in caso di buona  condotta,
dopo vent'anni di  detenzione.  In  seguito  alla  modifica  di  tale
normativa,  la  prospettiva  di  una  liberazione  condizionale   era
sostanzialmente   venuta   meno,   con   conseguente   trasformazione
dell'ergastolo in una detenzione, effettivamente, a  vita.  La  Corte
EDU ha giudicato qui insussistente l'allegata violazione del  divieto
di retroattivita' delle pene, sottolineando che  il  novum  normativo
non aveva modificato la pena -  l'ergastolo  -  inflitta  sulla  base
della legge vigente al  momento  del  fatto;  nondimeno  ha  ritenuto
violato l'art. 7 CEDU,  censurando  l'insufficiente  chiarezza  della
legge penale al momento del fatto, e dunque l'imprevedibilita'  delle
conseguenze  sanzionatorie  connesse  alla  violazione  del  precetto
(Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008, Kafkaris contro
Cipro).
    Ma la pronuncia piu' significativa della Corte EDU - invocata non
a caso da tutte le ordinanze di rimessione - e', in questo  contesto,
la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro  Spagna,  decisa
nel 2013. La Grande Camera - sia pure con riferimento a un  caso  non
sovrapponibile a quelli dai quali le odierne questioni sono originate
- ha ribadito che, in linea di principio,  le  modifiche  alle  norme
sull'esecuzione  della  pena  non  sono  soggette   al   divieto   di
applicazione retroattiva di cui all'art. 7  CEDU,  eccezion  fatta  -
pero' - per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione
della  portata  applicativa  della  "pena"  imposta   dal   giudice».
Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero  liberi  -
ad esempio modificando  la  legge  o  reinterpretando  i  regolamenti
esistenti - di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano  la
portata della pena imposta, in senso sfavorevole  per  l'interessato.
Ove il divieto di retroattivita'  non  operasse  in  tali  ipotesi  -
conclude la Corte - l'art. 7 CEDU verrebbe privato  di  ogni  effetto
utile per i condannati, nei  cui  confronti  la  portata  delle  pene
inflitte potrebbe essere liberamente inasprita  successivamente  alla
commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21  ottobre
2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).
    4.2.4.- Le conclusioni cui e' recentemente pervenuta la Corte EDU
trovano significative conferme nella giurisprudenza di altre corti  e
nella legislazione di altri Paesi.
    Secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti, il  generale  divieto
di "ex post facto  laws"  sancito  dalla  Costituzione  americana  si
applica anche alle modifiche delle norme  in  materia  di  esecuzione
della  pena  che  producano  l'effetto  pratico  di   prolungare   la
detenzione del  condannato,  modificando  il  quantum  della  pena  e
operando cosi' come una legge retroattiva sfavorevole, in quanto tale
non applicabile al condannato (Weaver v.  Graham,  450  U.S.  24,  33
(1981); Lynce v. Mathis, 519 U.S. 433 (1997).  Nel  senso,  peraltro,
che  la  garanzia  dell'irretroattivita'  opera  solo  allorche'   il
ricorrente sia in grado di dimostrare  che  la  modifica  legislativa
sopravvenuta crei un "sufficiente rischio" di incrementare la  durata
della sua detenzione rispetto  alla  disciplina  vigente  al  momento
della commissione del fatto, California Department of Corrections  v.
Morales, 514 U.S. 499 (1995); Garner v. Jones, 529 U.S. 244 (2000)).
    Principi analoghi sono  riconosciuti  nell'ordinamento  francese,
quanto meno a livello di legislazione ordinaria, dall'art. 112-2  del
codice  penale.  Tale  norma  dispone  in  via  generale  l'immediata
applicabilita', in vista della repressione anche dei  reati  commessi
anteriormente alla loro entrata in vigore, delle leggi  modificatrici
del diritto processuale penale e della prescrizione del reato o della
pena, nonche'  delle  leggi  relative  al  «regime  di  esecuzione  e
dell'applicazione delle pene»: eccezion fatta pero', in riferimento a
queste ultime, per «quelle che  abbiano  l'effetto  di  rendere  piu'
severe le pene inflitte con la sentenza di condanna», le  quali  sono
espressamente  dichiarate   «applicabili   soltanto   alle   condanne
pronunciate per fatti commessi posteriormente alla  loro  entrata  in
vigore».
    4.2.5.- Alcune ordinanze di rimessione  (in  particolare,  quelle
iscritte ai numeri 160 e 161 del r.o. 2019) e, soprattutto, le difese
delle parti private hanno infine  posto  l'accento  -  come  gia'  la
citata sentenza della Corte di cassazione n. 12541 del 2019  -  sugli
effetti distorsivi prodotti sulle scelte difensive degli imputati dal
mutamento, nel corso delle indagini e poi del  processo,  del  quadro
normativo sull'esecuzione della pena; con il conseguente  profilarsi,
altresi', di possibili lesioni dell'art. 24 Cost.
    Un  tale  rilievo  e',  in  verita',   di   intuitiva   evidenza.
L'imputato, ad esempio, puo' determinarsi  a  rinunciare  al  proprio
"diritto di difendersi provando" e concordare invece con il  pubblico
ministero una pena contenuta entro una misura che lo candidi  sin  da
subito a ottenere una misura alternativa alla detenzione,  confidando
comunque nella garanzia di non dover "passare per il carcere"  grazie
al meccanismo sospensivo di cui all'art. 656,  comma  5,  cod.  proc.
pen.; ovvero decidere, all'opposto, di  affrontare  il  dibattimento,
confidando nella prospettiva che la pena  che  gli  verra'  inflitta,
anche in caso di condanna,  non  comportera'  verosimilmente  il  suo
ingresso in carcere, per effetto di una misura alternativa  che  egli
abbia una ragionevole aspettativa di ottenere in base alla  normativa
in vigore al momento del fatto.
    Una modifica in peius, con effetto retroattivo  sui  processi  in
corso, della normativa in materia penitenziaria, e'  suscettibile  di
frustrare le (legittime)  aspettative  poste  a  fondamento  di  tali
scelte difensive, esponendo l'imputato  a  conseguenze  sanzionatorie
affatto impreviste e imprevedibili al momento dell'esercizio  di  una
scelta processuale,  i  cui  effetti  sono  pero'  irrevocabili  (per
analoghi rilievi, si vedano anche la gia' citate sentenze della Corte
Suprema degli Stati Uniti, Weaver v. Graham, 32, e Lynce  v.  Mathis,
445, nonche' Corte Suprema del Canada, R. v.  K.R.J.,  [2016]  1  SCR
906, 926, paragrafo 25, in  un  caso  che  concerneva  l'applicazione
retroattiva di misure interdittive aggiuntive alla pena  detentiva  a
carico di chi fosse stato condannato per abusi sessuali).
    4.3.- Alla luce di tutte le considerazioni che precedono,  questa
Corte ritiene necessario procedere a  una  complessiva  rimeditazione
della portata del divieto di  retroattivita'  sancito  dall'art.  25,
secondo comma, Cost., in relazione  alla  disciplina  dell'esecuzione
della pena.
    4.3.1.- Come e' noto, dall'art. 25, secondo comma, Cost. discende
pacificamente tanto il divieto di  applicazione  retroattiva  di  una
legge che incrimini un fatto in  precedenza  penalmente  irrilevante,
quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda
una pena piu' severa per un fatto gia' in precedenza incriminato  (da
ultimo, sentenza n. 223 del 2018); divieto, quest'ultimo,  che  trova
esplicita menzione nell'art. 7, paragrafo 1, secondo  periodo,  CEDU,
nell'art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto  internazionale
sui diritti civili e politici, nonche'  nell'art.  49,  paragrafo  1,
seconda  proposizione,   della   Carta   dei   diritti   fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE).
    La ratio di tale divieto e' almeno duplice.
    Per  un  verso,  il  divieto  in  parola  mira  a  garantire   al
destinatario  della  norma  una  ragionevole   prevedibilita'   delle
conseguenze cui si esporra' trasgredendo il precetto penale.  E  cio'
sia per garantirgli - in linea generale  -  la  «certezza  di  libere
scelte d'azione» (sentenza n. 364 del 1988); sia per consentirgli poi
- nell'ipotesi in cui sia instaurato un  procedimento  penale  a  suo
carico - di compiere scelte difensive, con l'assistenza  del  proprio
avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti  scenari
sanzionatori a cui potrebbe  andare  incontro  in  caso  di  condanna
(supra, 4.2.5.).
    Ma una seconda  ratio,  altrettanto  cruciale,  non  puo'  essere
trascurata. Come gia' acutamente colse una  celebre  decisione  della
Corte Suprema statunitense a qualche anno appena  di  distanza  dalla
proclamazione del divieto di "ex post facto laws" nella  Costituzione
federale,  il  divieto  in  parola  erige  un  bastione  a   garanzia
dell'individuo  contro  possibili   abusi   da   parte   del   potere
legislativo, da sempre tentato di stabilire o aggravare ex post  pene
per fatti gia' compiuti. Quel divieto - scriveva nel  1798  la  Corte
Suprema - deriva con ogni probabilita' dalla consapevolezza dei padri
costituenti che  il  Parlamento  della  Gran  Bretagna  aveva  spesso
rivendicato, e in concreto utilizzato,  il  potere  di  stabilire,  a
carico di chi avesse gia' compiuto determinate condotte  ritenute  di
particolare gravita' per la salus rei publicae, pene  che  non  erano
previste al momento del fatto, o che erano piu' gravi di quelle  sino
ad allora stabilite. Ma quelle leggi, osservava la Corte, in  realta'
«erano  sentenze  in  forma  di  legge»:   null'altro,   cioe',   che
«l'esercizio  di  potere  giudiziario»  da  parte  di  un  Parlamento
animato, in realta', da intenti vendicativi contro i propri avversari
(Corte Suprema degli Stati Uniti, Calder v. Bull,  3  U.S.  386,  389
(1798)).
    Il divieto di applicazione retroattiva di pene  non  previste  al
momento del fatto, o anche solo piu' gravi di quelle allora previste,
opera in definitiva come uno dei limiti al  legittimo  esercizio  del
potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di "stato  di
diritto". Un concetto,  quest'ultimo,  che  evoca  immediatamente  la
soggezione dello stesso potere a una  "legge"  pensata  per  regolare
casi  futuri,  e  destinata  a  fornire  a   tutti   un   trasparente
avvertimento  sulle  conseguenze  che  la  sua  trasgressione  potra'
comportare.
    4.3.2.- Occorre  allora  verificare  se  e  in  che  misura  tali
fondamentali rationes debbano essere estese  anche  alle  norme  che,
lasciando inalterati tipologia e quantum delle pene previste  per  il
reato, ne modifichino tuttavia le modalita' esecutive.
    Al riguardo, non v'e' dubbio che vi siano ragioni assai solide  a
fondamento della soluzione, sinora consacrata  dal  diritto  vivente,
secondo la quale le pene devono essere eseguite - di regola - in base
alla legge in vigore al momento dell'esecuzione,  e  non  in  base  a
quella in vigore al tempo della commissione del reato.
    In primo luogo, dal momento che l'esecuzione delle pene detentive
e' un fenomeno che si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole
distanza dal fatto di reato, non puo' non riconoscersi che nel  tempo
inevitabilmente muta il contesto, fattuale  e  normativo,  nel  quale
l'amministrazione penitenziaria si trova a operare. Da cio' deriva la
necessita' di fisiologici assestamenti  della  disciplina  normativa,
chiamata a reagire continuamente a tali mutamenti. Ove il  regime  di
esecuzione delle pene detentive dovesse restare  cristallizzato  alla
disciplina vigente al momento del fatto, ad esempio,  non  potrebbero
essere applicate a chi avesse commesso un omicidio negli anni Ottanta
o Novanta le restrizioni all'uso dei telefoni cellulari o di internet
oggi previste dall'ordinamento penitenziario.
    In  secondo  luogo,   le   (fisiologicamente   mutevoli)   regole
trattamentali sono basate esse stesse su complessi bilanciamenti  tra
i delicati interessi in gioco - ex  multis:  la  tutela  dei  diritti
fondamentali dei condannati, ma  anche  il  controllo  della  residua
pericolosita' criminale del detenuto all'interno  e  all'esterno  del
carcere, in un quadro di  limitatezza  complessiva  delle  risorse  a
disposizione -; bilanciamenti i cui esiti mal si  prestano  a  essere
ricondotti alla logica binaria della soluzione  "piu'  favorevole"  o
"piu' sfavorevole" per il singolo condannato, con la quale  e'  pero'
costretto ad operare il divieto  di  applicazione  retroattiva  della
legge penale. Si pensi a una eventuale riduzione delle "ore  d'aria",
a fronte pero' di maggiori opportunita' di lavoro extramurario.
    Ma soprattutto, un rigido  e  generale  divieto  di  applicazione
retroattiva  di  qualsiasi   modifica   della   disciplina   relativa
all'esecuzione della pena o delle misure alternative alla  detenzione
che dovesse essere ritenuta in concreto deteriore per  il  condannato
finirebbe   per   creare,   all'interno   del    medesimo    istituto
penitenziario, una pluralita' di regimi esecutivi paralleli, ciascuno
legato alla data del commesso reato.  Cio'  che  creerebbe  non  solo
gravi  difficolta'  di  gestione  per  l'amministrazione,  ma   anche
differenze di trattamento tra i  detenuti;  con  tutte  le  intuibili
conseguenze sul piano del mantenimento dell'ordine all'interno  degli
istituti, che e' esso pure  condizione  essenziale  per  un  efficace
dispiegarsi della funzione rieducativa della pena.
    4.3.3.-  La  regola  appena  enunciata  deve,   pero',   soffrire
un'eccezione allorche' la normativa sopravvenuta  non  comporti  mere
modifiche delle modalita' esecutive della pena prevista  dalla  legge
al momento del reato, bensi' una trasformazione  della  natura  della
pena, e della sua concreta incidenza  sulla  liberta'  personale  del
condannato.
    In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a  ogni
effetto pratico, l'applicazione di una pena che e' sostanzialmente un
aliud  rispetto  a  quella  stabilita  al  momento  del  fatto:   con
conseguente piena operativita' delle rationes,  poc'anzi  rammentate,
che stanno alla base del divieto di  applicazione  retroattiva  delle
leggi che aggravano il  trattamento  sanzionatorio  previsto  per  il
reato.
    Cio' si verifica, paradigmaticamente, allorche'  al  momento  del
fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita "fuori"
dal carcere, la  quale  -  per  effetto  di  una  modifica  normativa
sopravvenuta al fatto  -  divenga  una  pena  che,  pur  non  mutando
formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma "dentro"  il
carcere. Tra il "fuori" e il  "dentro"  la  differenza  e'  radicale:
qualitativa, prima ancora  che  quantitativa.  La  pena  da  scontare
diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto;
con conseguente inammissibilita' di  un'applicazione  retroattiva  di
una tale modifica normativa, al metro dell'art.  25,  secondo  comma,
Cost.
    E cio' vale anche laddove la  differenza  tra  il  "fuori"  e  il
"dentro" si apprezzi in esito a  valutazioni  prognostiche  relative,
rispettivamente, al tipo di pena che era  ragionevole  attendersi  al
momento della commissione del fatto, sulla  base  della  legislazione
allora vigente, e quella che e' invece ragionevole  attendersi  sulla
base  del  mutato  quadro  normativo.   Proprio   la   giurisprudenza
statunitense cui si e' fatto  poc'anzi  riferimento  (supra,  4.2.4.)
mostra non a caso  come  -  ai  fini  della  verifica  del  carattere
deteriore della modifica normativa sulla concreta vicenda esecutiva -
non possa  prescindersi  da  una  valutazione  prognostica  circa  la
creazione, da parte della legge sopravvenuta, di un serio rischio che
il condannato possa essere assoggettato a un trattamento piu'  severo
di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento  del  fatto,
in termini di minore probabilita' di accesso a modalita' extramurarie
di esecuzione della sanzione (come il parole negli Stati Uniti, o  le
misure alternative alla detenzione nell'ordinamento italiano).
    4.4.- Occorre a questo punto verificare in che misura  gli  esiti
della complessiva  rimeditazione  sin  qui  compiuta  incidano  sulle
questioni di legittimita' costituzionale ora all'esame.
    La disposizione censurata inserisce la maggior  parte  dei  reati
contro la pubblica  amministrazione  nell'elenco  previsto  dall'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit., determinando con cio'  le  conseguenze
deteriori sulla complessiva vicenda esecutiva a carico dei condannati
per tali reati, che si sono a tempo debito illustrate (supra, 2.).
    V'e' dunque da stabilire se e  in  che  misura  tali  conseguenze
deteriori possano essere legittimamente  applicate  -  al  metro  dei
principi appena enunciati - a chi  sia  stato  condannato  per  fatti
commessi prima dell'entrata in vigore della disposizione medesima.
    4.4.1.- Questa Corte ritiene che l'art. 25, secondo comma,  Cost.
non  si  opponga  a  un'applicazione  retroattiva   delle   modifiche
derivanti dalla  disposizione  censurata  alla  disciplina  dei  meri
benefici penitenziari, e in particolare dei  permessi  premio  e  del
lavoro all'esterno.
    Per quanto, infatti, non  possa  disconoscersi  il  significativo
impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittivita'  della
pena per il singolo condannato, non pare a questa Corte che modifiche
normative che si limitino a rendere piu'  gravose  le  condizioni  di
accesso ai benefici medesimi  determinino  una  trasformazione  della
natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento
del  fatto  e  inflitta,  si'  da  chiamare  in  causa  la   garanzia
costituzionale in parola.
    Il condannato che fruisca  di  un  permesso  premio,  o  che  sia
ammesso al lavoro all'esterno del  carcere,  continua  in  effetti  a
scontare una pena che resta connotata da una fondamentale  dimensione
"intramuraria". Egli resta in linea di principio "dentro" il carcere,
continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza
l'istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoche' ogni  aspetto
della vita del detenuto.
    D'altra   parte,   proprio   perche'   i    condannati    ammessi
periodicamente a godere di permessi  premio  e/o  a  svolgere  lavoro
all'esterno ai sensi dell'art. 21 ordin. penit. restano detenuti  che
scontano  la  pena  detentiva  loro  inflitta   dal   giudice   della
cognizione, non puo' non valere nei loro confronti  l'esigenza,  gia'
segnalata (supra, 4.3.2.),  di  evitare  disparita'  di  trattamento,
all'interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti  soltanto
dal tempo del commesso  reato:  disparita'  che  sarebbero  di  assai
problematica gestione da parte dell'amministrazione penitenziaria,  e
che verrebbero come tali difficilmente  accettate  dalla  generalita'
dei detenuti.
    4.4.2. - La conclusione opposta si impone, invece,  in  relazione
agli effetti prodotti dalla  disposizione  censurata  sul  regime  di
accesso alle misure  alternative  alla  detenzione  disciplinate  dal
Titolo I, Capo VI, della legge n. 354  del  1975,  e  in  particolare
all'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale,  alla   detenzione
domiciliare nelle sue varie forme e alla semiliberta'.
    Si tratta di «misure di natura  sostanziale  che  incidono  sulla
qualita'  e  quantita'  della  pena  [...]  e  che  per  cio'  stesso
modificano il grado di privazione della liberta' personale imposto al
detenuto» (sentenza n. 349 del 1993),  finendo  anzi  per  costituire
delle vere e proprie "pene" alternative alla detenzione (ordinanza n.
327  del  1989)   disposte   dal   tribunale   di   sorveglianza,   e
caratterizzate non solo da  una  portata  limitativa  della  liberta'
personale  del  condannato  assai  piu'  contenuta,   ma   anche   da
un'accentuata vocazione rieducativa, che  si  esplica  in  forme  del
tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva.
    Cio' e' stato anche di  recente  ribadito  da  questa  Corte  con
riferimento sia all'affidamento in prova al servizio  sociale  per  i
condannati adulti, definito  quale  «strumento  di  espiazione  della
pena, alternativo rispetto alla  detenzione:  uno  strumento,  certo,
meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso
sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l'esito  positivo
dell'affidamento in prova estingue la pena  detentiva  e  ogni  altro
effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)»  (sentenza  n.  68
del 2019); sia alla detenzione domiciliare, che costituisce anch'essa
«"non una misura alternativa alla pena",  ma  una  pena  "alternativa
alla   detenzione"»,   caratterizzata   da   prescrizioni   meramente
«limitative della liberta', sotto  la  vigilanza  del  magistrato  di
sorveglianza e con l'intervento del servizio sociale» (sentenza n. 99
del 2019, con richiamo alla gia' citata ordinanza n. 327 del 1989).
    Tali considerazioni valgono anche rispetto alla semiliberta', ove
l'obbligo di trascorrere una parte della giornata - e quanto meno  le
ore  notturne  -  all'interno  dell'istituto  penitenziario  (ma,  di
regola, in sezioni autonome: art. 48,  comma  2,  ordin.  penit.)  si
accompagna al godimento di spazi di liberta' assai significativi,  al
di fuori della fitta rete di prescrizioni che  normalmente  corredano
la concessione di meri benefici extramurari.
    4.4.3.- La medesima conclusione si impone - in forza  del  rinvio
"mobile" (sentenza n. 39 del 1994) di cui all'art. 2 del d.l. n.  152
del 1991  -  per  cio'  che  concerne  la  liberazione  condizionale:
istituto  disciplinato  dagli  artt.  176  e  177   cod.   pen.,   ma
funzionalmente  analogo  alle  misure  alternative  alla  detenzione,
essendo anch'esso finalizzato a consentire il graduale  reinserimento
del condannato nella  societa',  attraverso  la  concessione  di  uno
sconto di pena  a  chi  abbia,  durante  il  percorso  penitenziario,
«tenuto  un  comportamento  tale  da  far  ritenere  sicuro  il   suo
ravvedimento».
    La  subordinazione  anche  della  liberazione  condizionale  alla
collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta  per
il  condannato  per  delitti  contro  la   pubblica   amministrazione
l'evidente rischio di un significativo prolungamento del  periodo  da
trascorrere  in  carcere,  rispetto  alle  prospettive  che  gli   si
presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto; con
conseguente incompatibilita' con  l'art.  25,  secondo  comma,  Cost.
dell'applicazione  retroattiva  della  preclusione  di  cui  all'art.
4-bis,  comma  1,  ordin.  penit.  anche  rispetto  alla  liberazione
condizionale.
    4.4.4.-  Identica   conclusione   va   tratta,   infine,   quanto
all'effetto  riflesso  spiegato  dalla  disposizione   censurata   in
relazione al divieto di sospensione dell'ordine di  esecuzione  della
pena di cui all'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.
    A tale conclusione non e' di ostacolo  la  collocazione  di  tale
ultima disposizione  nel  codice  di  procedura  penale,  da  cui  la
giurisprudenza  sinora  unanime  (per  tutte,  Corte  di  cassazione,
sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) ha dedotto  la  sua
sottoposizione al generale principio tempus regit actum.
    Infatti, la collocazione topografica di una disposizione non puo'
mai essere considerata decisiva  ai  fini  dell'individuazione  dello
statuto costituzionale di garanzia ad essa  applicabile.  In  plurime
occasioni, la  giurisprudenza  costituzionale  ha,  d'altronde,  gia'
esteso le garanzie discendenti dall'art. 25, secondo comma,  Cost.  a
norme  non  qualificate  formalmente  come  penali  dal   legislatore
(sentenze n. 63 del 2019, n. 223 del 2018, n. 68 del 2017  e  n.  196
del 2010; ordinanza n. 117 del 2019).
    Tale principio non puo' non  valere  anche  rispetto  alle  norme
collocate  nel  codice  di  procedura  penale,   allorche'   incidano
direttamente sulla  qualita'  e  quantita'  della  pena  in  concreto
applicabile al condannato.
    Non v'e' dubbio che l'art. 656, comma 9, cod. proc.  pen.  -  nel
vietare la sospensione dell'ordine di esecuzione della  pena  in  una
serie di ipotesi, tra cui quella, che qui  viene  in  considerazione,
relativa alla condanna per un reato di  cui  all'art.  4-bis,  ordin.
penit. - produce l'effetto di  determinare  l'inizio  dell'esecuzione
della pena stessa in regime detentivo, in attesa della  decisione  da
parte  del  tribunale  di  sorveglianza  sull'eventuale  istanza   di
ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una  parte
almeno della pena sia effettivamente scontata  in  carcere,  anziche'
con le modalita' extramurarie che erano  consentite  -  per  l'intera
durata della pena inflitta  -  sulla  base  della  legge  vigente  al
momento della commissione del fatto.
    Tanto basta per riconoscere alla  disposizione  in  questione  un
effetto di trasformazione della pena inflitta, e della  sua  concreta
incidenza sulla liberta'  personale,  rispetto  al  quadro  normativo
vigente al momento del fatto; con conseguente  sua  inapplicabilita',
ai sensi dell'art. 25, secondo comma, Cost. alle condanne  per  reati
commessi  anteriormente   all'entrata   in   vigore   della   novella
legislativa,   che   ne   ha   indirettamente   modificato   l'ambito
applicativo,  tramite  l'inserimento  di  numerosi  reati  contro  la
pubblica amministrazione nell'elenco di  cui  all'art.  4-bis  ordin.
penit.
    4.4.5.- Per le  ragioni  gia'  anticipate  (supra,  4.3.4.),  non
varrebbe a inficiare  le  conclusioni  appena  raggiunte  l'obiezione
secondo cui la prospettiva - per il condannato - di vedersi applicare
una misura alternativa, sulla base della legge in vigore  al  momento
del fatto, sarebbe stata meramente ipotetica ed eventuale.
    La valutazione circa  il  carattere  deteriore  della  disciplina
sopravvenuta non puo', infatti, che essere condotta  secondo  criteri
di rilevante probabilita': e cio' con riferimento tanto  ai  benefici
accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente,
quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall'entrata in vigore
della nuova disciplina.
    Sotto il primo profilo, e' evidente che - in  linea  generale,  e
salve le peculiarita' di  ogni  singolo  caso  -  nei  confronti  dei
condannati per reati contro la  pubblica  amministrazione  sussisteva
una rilevante probabilita', sulla base della  disciplina  previgente,
di accedere a misure  alternative  alla  pena  detentiva,  laddove  i
relativi limiti di pena ancora da scontare o i  rispettivi  requisiti
anagrafici (per cio' che concerne la detenzione  domiciliare  di  cui
all'art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) lo permettessero.  Un  tale
assunto e', se non altro,  dimostrato  dallo  stesso  elevato  numero
delle ordinanze di rimessione, che  argomentano  la  rilevanza  delle
questioni proprio muovendo da un giudizio di  meritevolezza  rispetto
al beneficio del  singolo  condannato  sulla  base  della  previgente
disciplina.
    Sotto il secondo profilo, non puo' negarsi, per converso, che  la
normativa sopravvenuta - oltre a precludere in via assoluta l'accesso
a taluni benefici, come la detenzione domiciliare  per  i  condannati
ultrasettantenni (cio' che  basterebbe,  invero,  a  dimostrarne  per
tabulas   il   carattere   necessariamente   deteriore)    -    rende
significativamente meno probabile la concessione degli stessi,  anche
in considerazione  delle  incertezze,  ancora  non  affrontate  dalla
giurisprudenza, sulla precisa estensione  dell'obbligo  collaborativo
in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione e,
segnatamente, se esso debba intendersi come limitato al singolo fatto
di reato per il quale e' stata pronunciata  condanna,  ovvero  se  si
estenda a tutti i reati ad esso in qualche modo connessi, e dei quali
l'autorita' giudiziaria ritenga che  il  condannato  sia  comunque  a
conoscenza.
    4.5.- Come gia'  evidenziato,  il  censurato  art.  1,  comma  6,
lettera b), della legge  n.  3  del  2019,  cosi'  come  scritto  dal
legislatore, nulla prevede in relazione  alla  sua  applicazione  nel
tempo, ne' dispone  la  sua  applicazione  alle  condanne  per  reati
commessi  anteriormente  all'entrata  in  vigore  della   legge.   In
contrasto con l'art. 25, secondo  comma,  Cost.  -  sotto  i  profili
denunciati dalle ordinanze di rimessione in questa sede  esaminate  -
e' la norma risultante dal diritto vivente, a tenore della  quale  le
modifiche  introdotte  con  la   disposizione   censurata   sarebbero
applicabili anche retroattivamente.
    Al fine di porre  rimedio  a  tale  violazione,  non  puo'  pero'
accogliersi  la  richiesta,  formulata  in  udienza   dall'Avvocatura
generale dello Stato, di una sentenza interpretativa di rigetto,  che
dichiari non fondate le questioni "nei sensi di cui in  motivazione".
L'indubbia esistenza di un diritto vivente in senso contrario (supra,
4.1.) - diritto vivente dal  quale  muovono,  del  resto,  le  stesse
ordinanze di rimessione - esclude la  praticabilita'  di  una  simile
opzione, e impone a questa  Corte  di  pronunciare  una  sentenza  di
accoglimento delle questioni prospettate (ex  plurimis,  sentenza  n.
299 del 2005).
    Conseguentemente, va dichiarata l'illegittimita'  costituzionale,
per contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost., dell'art. 1, comma
6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato  nel
senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1,  della
legge n. 354 del 1975, si applichino anche ai condannati che  abbiano
commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della legge  n.
3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle  misure  alternative
alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della  legge  n.  354
del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt.  176  e
177 cod. pen. e della sospensione  dell'ordine  di  esecuzione  della
pena prevista dall'art. 656, comma  9,  lettera  a),  del  codice  di
procedura penale.
    Restano assorbiti i profili di  ammissibilita'  e  di  merito  di
tutte le  ulteriori  censure  prospettate  in  riferimento  ad  altri
parametri costituzionali.
    5.- Come gia' chiarito (supra, 4.4.1.), questa Corte non ritiene,
invece, che l'art. 25,  secondo  comma,  Cost.  vieti  l'applicazione
retroattiva di modifiche normative che incidano  in  senso  deteriore
per  il  condannato  quanto  alla   disciplina   di   meri   benefici
penitenziari, come - segnatamente - i permessi  premio  e  il  lavoro
all'esterno.
    Cio' non significa, peraltro, che al legislatore  sia  consentito
disconoscere il  percorso  rieducativo  effettivamente  compiuto  dal
condannato che  abbia  gia'  raggiunto,  in  concreto,  un  grado  di
rieducazione  adeguato  alla  concessione  del  beneficio.  Cio'   si
porrebbe in contrasto - se non con l'art. 25, secondo comma, Cost.  -
con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena
(artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.),  secondo  i  principi  sviluppati
dalla giurisprudenza di questa  Corte  sin  dagli  anni  Novanta  del
secolo scorso (supra, 4.1.1.).
    Un simile vulnus si e' in effetti verificato nel caso oggetto del
procedimento a quo cui si  riferisce  l'ordinanza  del  Tribunale  di
sorveglianza di Potenza, iscritta al n. 210 del r.o.  2019  (Ritenuto
in fatto, 10.), relativa  alla  vicenda  di  un  condannato  che  sta
espiando la propria pena detentiva, e che -  secondo  quanto  esposto
dal rimettente - alla data di entrata in vigore della legge n. 3  del
2019 aveva gia' maturato,  in  base  alla  disciplina  previgente,  i
requisiti per la concessione del permesso premio.
    Negare, a chi si trovi nella posizione  di  quel  condannato,  la
concessione del beneficio equivarrebbe  a  disconoscere  la  funzione
pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019),
quale strumento idoneo a consentirne un  suo  iniziale  reinserimento
nella  societa',  in  vista  dell'eventuale  concessione  di   misure
alternative alla detenzione, in assenza di  gravi  comportamenti  che
dimostrino la non  meritevolezza  del  beneficio  nel  caso  concreto
(sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, sentenze  n.  137  del
1999 e n. 445 del 1997).
    L'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3  del  2019  deve,
pertanto,  essere  dichiarato  costituzionalmente  illegittimo,   per
contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.,  nella  parte  in
cui non prevede che il beneficio del  permesso  premio  possa  essere
concesso ai condannati per uno dei  reati  ivi  elencati  che,  prima
dell'entrata in vigore della legge  medesima,  abbiano  raggiunto  un
grado  di  rieducazione  adeguato  al  beneficio   stesso,   restando
assorbiti i profili  di  ammissibilita'  e  di  merito  di  tutte  le
ulteriori censure proposte dal rimettente.
    6.- L'accoglimento delle questioni  prospettate  dalle  ordinanze
iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194 e  220  del
r.o. 2019 in riferimento all'art.  25,  secondo  comma,  Cost.  rende
infine priva di oggetto - e  per  tale  ragione  inammissibile  -  la
questione di legittimita' costituzionale iscritta al n. 157 del  r.o.
2019,  avente  identico   petitum,   sollevata   dal   Tribunale   di
sorveglianza di Taranto in riferimento al solo art. 3 Cost.
     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in  materia  di
prescrizione del reato e in materia  di  trasparenza  dei  partiti  e
movimenti  politici),  in  quanto  interpretato  nel  senso  che   le
modificazioni introdotte all'art. 4-bis,  comma  1,  della  legge  26
luglio 1975, n. 354 (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla
esecuzione delle misure privative e  limitative  della  liberta')  si
applichino  anche  ai  condannati  che  abbiano  commesso  il   fatto
anteriormente all'entrata in vigore della legge n.  3  del  2019,  in
riferimento alla disciplina delle misure alternative alla  detenzione
previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354  del  1975,  della
liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e  177  del  codice
penale  e  del  divieto  di  sospensione  dell'ordine  di  esecuzione
previsto dall'art. 656, comma 9, lettera a), del codice di  procedura
penale;
    2) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,
lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede
che il  beneficio  del  permesso  premio  possa  essere  concesso  ai
condannati che, prima dell'entrata in vigore  della  medesima  legge,
abbiano  gia'  raggiunto,  in  concreto,  un  grado  di  rieducazione
adeguato alla concessione del beneficio stesso;
    3)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, sollevata, in riferimento all'art. 3  della  Costituzione,  dal
Tribunale di sorveglianza di  Taranto  con  l'ordinanza  indicata  in
epigrafe (r.o. n. 157 del 2019).
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2020.

                                F.to:
                     Marta CARTABIA, Presidente
                    Francesco VIGANO', Redattore
                     Roberto MILANA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2020.

                   Il Direttore della Cancelleria
                        F.to: Roberto MILANA 

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