N. 137 SENTENZA 27 maggio - 6 luglio 2020
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Processo penale - Arresto facoltativo in flagranza per uno dei
delitti di cui all'art. 381, comma 2, del codice di procedura
penale - Adozione di misura cautelare personale in sede di
convalida - Requisiti - Possibilita' di disporre l'applicazione
della misura coercitiva anche in deroga agli ordinari limiti
edittali di pena - Denunciata disparita' di trattamento, nonche'
violazione dei principi di proporzionalita' e di inviolabilita'
della liberta' personale - Non fondatezza delle questioni -
Auspicato intervento di coordinamento del legislatore.
- Codice di procedura penale, artt. 391, comma 5, e 280, comma 1.
- Costituzione, artt. 3 e 13.
(GU n.28 del 8-7-2020 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Marta CARTABIA;
Giudici :Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano
PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 280,
comma 1, e 391, comma 5, del codice di procedura penale, promosso dal
Tribunale ordinario di Firenze nel procedimento di convalida
dell'arresto di A. B., con ordinanza del 7 dicembre 2018, iscritta al
n. 128 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno
2019.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito il Giudice relatore Stefano Petitti nella camera di
consiglio del 26 maggio 2020, svolta ai sensi del decreto della
Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 27 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 7 dicembre 2018, il Tribunale ordinario di
Firenze, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5,
del codice di procedura penale, per contrasto con gli artt. 3 e 13
della Costituzione.
In particolare, l'art. 391, comma 5, cod. proc. pen. e' censurato
nella parte in cui prevede che quando l'arresto e' stato eseguito per
uno dei delitti indicati nell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen.
l'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari e'
disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli artt.
274, comma 1, lettera c), e 280 cod. proc. pen. L'art. 280, comma 1,
cod. proc. pen. e' a sua volta censurato nella parte in cui, nel
prevedere i requisiti di applicazione delle misure cautelari
coercitive, fa salvo il disposto dell'art. 391 cod. proc. pen.
1.1.- Il rimettente espone che A. B. e' stato arrestato in
flagranza ai sensi dell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen. dopo
essere stato sorpreso, a breve distanza di tempo dal suo
allontanamento dai locali del Pronto Soccorso dell'Ospedale di C.,
con beni di modesto valore appartenenti alla dott. D. P.
In sede di udienza di convalida, il giudice rimettente ha
convalidato l'arresto dopo aver qualificato il fatto come furto
aggravato perche' commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti
pubblici, ai sensi dell'art. 625, primo comma, numero 7), del codice
penale. Richiesto dal pubblico ministero di applicare nei confronti
del prevenuto la misura della custodia cautelare in carcere, il
giudice rimettente ha ritenuto sussistenti le esigenze cautelari di
cui all'art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., tenuto conto
che l'arrestato era recidivo ed era pertanto da ritenersi concreto e
attuale il rischio di reiterazione del reato o di commissione di
reati della stessa specie. Identificata nella misura degli arresti
domiciliari quella piu' idonea a soddisfare le predette esigenze
cautelari e meglio commisurata all'entita' del fatto, il giudice ha
determinato, ai sensi e per gli effetti dell'art. 278 cod. proc.
pen., un massimo edittale per il reato ascritto al prevenuto pari a
tre anni di reclusione, a seguito di bilanciamento compiuto in
termini di equivalenza ai sensi dell'art. 69 cod. pen. con la
circostanza attenuante di cui all'art. 62, primo comma, numero 4),
cod. pen.
Alla luce di cio', il giudice rimettente ha preso atto che
l'applicazione della misura custodiale domiciliare, di per se'
impedita dai piu' elevati limiti edittali contenuti nell'art. 274,
comma 1, lettera c), cod. proc. pen. (pena della reclusione non
inferiore nel massimo a quattro anni) e nell'art. 280, comma 1, cod.
proc. pen. (pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni),
era tuttavia possibile nel caso di specie in virtu' di quanto
disposto dall'art. 391, comma 5, cod. proc. pen., secondo il quale
«[q]uando l'arresto e' stato eseguito per uno dei delitti indicati
dall'art. 381, comma 2, ovvero per uno dei delitti per i quali e'
consentito anche fuori dei casi di flagranza, l'applicazione della
misura e' disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti
dagli articoli 274, comma 1, lettera c), e 280».
2.- Il meccanismo derogatorio derivante dal combinato disposto di
cui agli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, cod. proc. pen. e'
ritenuto dal giudice rimettente in contrasto con gli artt. 3 e 13
della Costituzione.
Innanzi tutto, esso darebbe luogo a una irragionevole disparita'
di trattamento poiche' uno stesso fatto, come nel caso di specie un
furto, o qualsiasi altro delitto per cui l'art. 381, comma 2, cod.
proc. pen. prevede l'arresto facoltativo in flagranza, «e'
suscettibile di fondare o meno l'applicazione di una misura cautelare
coercitiva o addirittura custodiale a seconda che sia intervenuto o
meno un arresto in flagranza», dipendendo tale esito da fattori anche
casuali e che comunque denotano gravi indizi di colpevolezza a carico
dell'arrestato ma che non attengono, invece, al profilo della
gravita' del fatto di reato o della pericolosita' del suo autore.
Cio' si tradurrebbe in un difetto di proporzionalita' della misura
cautelare perche' «ad incidere sull'applicabilita' della misura e' un
dato (l'arresto) estraneo all'entita' del fatto (e alla sanzione
irrogabile) e alle esigenze cautelari». A contrastare con l'art. 13
Cost. sarebbe anche il fatto che il giudice della convalida svolge un
apprezzamento limitato alla verifica dei presupposti per l'arresto,
con la conseguenza che una simile prospettiva solo parziale
acquisirebbe indebitamente rilievo anche ai fini dell'applicazione di
misure cautelari. Ad essere violato sarebbe altresi' il principio
costituzionale della riserva di legge in tema di limitazione della
liberta' personale, perche' per effetto delle norme censurate «un
atto della Polizia Giudiziaria, soggetto a verifica di legittimita'
ma comunque discrezionale, finisce per effetto della citata deroga ex
art. 391 co. 5 c.p.p. per incidere non solo sulla limitazione della
liberta' personale connessa alla misura precautelare, ma sulla
concreta applicabilita' successiva di una misura cautelare coercitiva
e dunque limitativa della liberta' personale».
2.1.- Distinto profilo di censura avanzato dal giudice rimettente
e' poi quello che investe gli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5,
cod. proc. pen. per il fatto che la deroga in essi contenuta darebbe
luogo ad «evidenti disparita' di trattamento», che discenderebbero
dal fatto che gli autori dei delitti di cui all'art. 381, comma 2,
cod. proc. pen., tutti puniti con la pena della reclusione non
inferiore nel massimo a tre anni, si troverebbero, in sede di udienza
di convalida, a subire ai fini cautelari un regime piu' sfavorevole
rispetto ai soggetti accusati dei delitti previsti in via generale
dall'art. 381, comma 1, cod. proc. pen., puniti con pene piu' severe
(delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali la legge
stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni
ovvero delitti colposi per i quali la legge stabilisce la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni).
Tale disparita' di trattamento emergerebbe, in particolare,
laddove venga in rilievo un delitto consumato per il quale sia
previsto un massimo edittale superiore a tre anni, ma inferiore a
cinque anni di reclusione (come nel caso di violenza privata ex art.
610 cod. pen. o cessione di stupefacenti ex art. 73, comma 5, d.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309, recante il Testo unico delle leggi in materia
di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), in
relazione al quale sara' possibile l'arresto ma non l'applicazione
della custodia cautelare in carcere. Altra ipotesi addotta a sostegno
dell'incostituzionalita' e' poi quella relativa alla fattispecie di
un delitto consumato per il quale sia previsto un massimo edittale
superiore a tre anni ma inferiore a quattro anni (come nel caso della
cessione di stupefacenti ex art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del
1990, ove ricorra la circostanza attenuante di cui all'art. 62, primo
comma, numero 4, cod. pen.), per il quale sara' possibile l'arresto
ma non l'applicazione di misure custodiali neppure domiciliari. Altri
casi da cui ricavare la medesima disparita' di trattamento sarebbero
poi quelli consistenti in taluni reati di cui all'art. 381, comma 2,
cod. proc. pen. (come il furto aggravato di cui all'art. 625, cod.
pen.), ma integrati nella sola forma tentata, per cui l'arresto
sarebbe possibile ai sensi del comma 1 dello stesso articolo ma non
opererebbe la deroga di cui all'art. 391, comma 5, cod. proc. pen.,
ovvero in taluni reati sempre integrati nella forma tentata - come
nel caso di tentati furti aggravati ex art. 625, primo comma, numero
2, prima ipotesi, cod. pen. o ex art. 625, primo comma, numero 5),
cod. pen., senza che ricorra l'attenuante di cui all'art. 62, primo
comma, numero 4), cod. pen -, per i quali l'arresto e' obbligatorio
secondo quanto prevede l'art. 380 cod. proc. pen. senza che sia
applicabile la misura della custodia cautelare in carcere,
riferendosi il censurato art. 391, comma 5, cod. proc. pen.
unicamente agli specifici delitti per cui l'art. 381, comma 2, cod.
proc. pen. prevede l'arresto facoltativo in flagranza.
3.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili e, in
subordine, infondate.
L'Avvocatura ritiene le questioni inammissibili perche' prive del
requisito della rilevanza, in quanto il giudice rimettente ha
proceduto alla convalida dell'arresto e, senza pronunciarsi sulla
richiesta di misura cautelare, ha ordinato l'immediata liberazione
dell'arrestato all'atto di sollevare le presenti questioni di
legittimita' costituzionale. In questo modo, egli si situerebbe al di
fuori dello spazio applicativo dell'art. 391, comma 5, cod. proc.
pen., che presuppone la simultaneita' tra convalida della misura
precautelare e applicazione delle cautele, optando, con la
liberazione dell'arrestato, per una soluzione alternativa rispetto a
quella di cui alla norma censurata, rappresentata dalla facolta'
attribuitagli dal comma 6 dello stesso articolo, secondo il quale
«[q]uando non provvede a norma del comma 5, il giudice dispone con
ordinanza la immediata liberazione dell'arrestato o del fermato». Le
questioni sarebbero poi inammissibili sotto l'ulteriore profilo della
violazione dell'ambito di discrezionalita' riservato al legislatore
in questa materia.
Esse sarebbero comunque infondate perche' il rimettente muove da
erronei presupposti interpretativi quanto ai presupposti di
applicazione delle norme censurate e denuncia disparita' di
trattamento non sussistenti, ponendo a raffronto situazioni
eterogenee.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 13 della
Costituzione, dell'art. 391, comma 5, del codice di procedura penale,
nella parte in cui prevede che quando l'arresto e' stato eseguito per
uno dei delitti indicati nell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen.
l'applicazione della misura cautelare personale e' disposta anche al
di fuori dei limiti di pena previsti dagli artt. 274, comma 1,
lettera c), e 280 cod. proc. pen., nonche' dell'art. 280, comma 1,
cod. proc. pen., nella parte in cui, nel prevedere i requisiti di
applicazione delle misure coercitive, fa salvo il disposto dell'art.
391 cod. proc. pen.
1.1.- Il rimettente ritiene che le norme censurate violerebbero
gli evocati parametri perche' esse attribuiscono rilievo, ai fini
dell'applicazione di misure cautelari in sede di udienza di
convalida, al "dato" dell'intervenuto arresto, di per se' non idoneo
a giustificare la deroga agli ordinari limiti edittali, ne' con
riferimento alle ragioni giustificative della misura precautelare,
consistenti nei soli gravi indizi di colpevolezza a carico
dell'arrestato, ne', di conseguenza, in relazione al controllo
demandato al giudice della convalida, limitato a vagliare, in
un'ottica retrospettiva, la sola legittimita' dell'apprehensio
effettuata dall'autorita' di pubblica sicurezza. Le norme censurate
sarebbero poi irragionevoli perche' esse si applicano unicamente ai
delitti elencati nell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen., puniti in
modo meno grave rispetto ai delitti di cui al comma 1 dello stesso
articolo.
2.- L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per difetto di rilevanza, perche'
il giudice rimettente, nel momento in cui ha convalidato l'arresto e
disposto la liberazione dell'arrestato, avrebbe optato per
l'applicazione di una norma alternativa rispetto al censurato art.
391, comma 5, cod. proc. pen. Mentre quest'ultimo, infatti, rinviene
il suo presupposto applicativo nel fatto che il giudice adotti,
all'atto della convalida, misure cautelari nei confronti di soggetto
gia' limitato nella sua liberta' personale per effetto della misura
precautelare, nel momento in cui ha disposto la liberazione
dell'arrestato il giudice a quo avrebbe dato invece seguito a quanto
previsto dall'art. 391, comma 6, cod. proc. pen., che costituisce
un'opzione alternativa e incompatibile rispetto all'esercizio del
potere cautelare attribuito dal comma precedente al giudice della
convalida, oggetto del presente giudizio di costituzionalita'.
2.1.- L'eccezione e' infondata.
Benche' l'esercizio del potere cautelare attribuito al giudice
dall'art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen. presupponga
che esso si dispieghi, simultaneamente alla convalida dell'arresto,
nei confronti di persona gia' sottoposta a limitazione della liberta'
personale, cio' non comporta che, quando il giudice dubiti proprio
della legittimita' delle norme che di quel potere regolano
presupposti e condizioni, la mancata applicazione delle misure
cautelari e la conseguente necessita' di disporre la liberazione
dell'arrestato possano essere di ostacolo al promovimento della
relativa questione di costituzionalita'.
A ragionare diversamente, il giudice della convalida si
troverebbe sistematicamente nell'impossibilita' di sollevare
questione di legittimita' costituzionale sulle norme che disciplinano
i presupposti delle misure cautelari, con conseguente creazione di
una vera e propria "zona franca" dal giudizio di costituzionalita'.
Se, infatti, il giudice della convalida - al fine di promuovere
l'incidente di costituzionalita' - applicasse la misura richiesta dal
pubblico ministero, egli non solo limiterebbe la liberta' personale
dell'arrestato sulla base di presupposti normativi della cui
legittimita' costituzionale dubita, ma farebbe con cio' stesso
applicazione della disposizione censurata, esaurendo il proprio
potere decisionale e privando cosi' di rilevanza la stessa questione
di legittimita' costituzionale. In questo quadro, la liberazione
dell'arrestato disposta dal giudice e' conseguenza non gia' del
rigetto implicito della richiesta del pubblico ministero, ma della
impossibilita' della protrazione dello stato di privazione della
liberta' dell'arrestato in assenza di una misura cautelare adottata
ai sensi dell'art. 391, comma 5, cod. proc. pen., e cioe' della norma
della cui legittimita' costituzionale il rimettente dubita.
Del resto, la questione di legittimita' costituzionale delle
norme censurate assume nel giudizio a quo, in conformita' a quanto
richiesto dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
un'evidente portata pregiudiziale rispetto alla decisione del giudice
della convalida sulle misure cautelari, che egli ritiene di non poter
applicare in presenza dei riferiti vizi di costituzionalita', senza
che a cio' possa essere di ostacolo la struttura del giudizio di
convalida. In proposito, non puo' non rilevarsi che il giudice ben
puo' «limitare il provvedimento di sospensione al singolo momento o
segmento processuale in cui il giudizio si svolge» e che resta sempre
in capo a questa Corte il controllo «dell'effettiva possibilita' di
circoscrivere la rilevanza della questione, che rimane pur sempre
incidentale e che, come tale, e' pregiudiziale rispetto ad una
decisione del giudice rimettente» (sentenza n. 180 del 2018).
Peraltro, il giudice a quo, con la convalida dell'arresto, da un
lato, ha soddisfatto un presupposto necessario per pronunciarsi in
materia cautelare ai sensi dell'art. 391, comma 5, cod. proc. pen. e,
dall'altro, disponendo la liberazione dell'arrestato e sollevando
l'odierno incidente di costituzionalita', non ha omesso di
condizionare l'esito del procedimento cautelare alla definizione del
presente giudizio. In tal modo, egli non ha esaurito la propria
potestas iudicandi, potendo ancora adottare la misura cautelare in
deroga agli ordinari limiti edittali (ex multis, sentenze n. 10 del
2018 e n. 84 del 2016).
3.- Deve essere del pari disattesa l'ulteriore eccezione di
inammissibilita' delle questioni formulata dalla difesa statale, sul
rilievo che le questioni stesse investirebbero un ambito, quello
relativo alle forme e alle modalita' di limitazione della liberta'
personale, riservato costituzionalmente alla discrezionalita' del
legislatore.
L'eccezione e', in realta', relativa a un profilo che attiene al
merito delle questioni, anziche' alla loro ammissibilita', poiche'
implica un esame della ratio e dei presupposti applicativi delle
norme censurate.
4.- Nel merito, le questioni non sono fondate.
4.1.- Nella disciplina del codice, l'arresto obbligatorio in
flagranza e' previsto dall'art. 380, comma 1, cod. proc. pen., per i
delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali la legge
stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore
nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni; ai sensi del
comma 2 del medesimo articolo, l'arresto e' obbligatorio per una
serie di delitti specificamente indicati dal legislatore per il
titolo del reato.
Analoga struttura ha la disciplina dell'arresto facoltativo in
flagranza: l'art. 381, comma 1, cod. proc. pen. prevede che «[g]li
ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria hanno facolta' di
arrestare chiunque e' colto in flagranza di un delitto non colposo,
consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della
reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero di un delitto
colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
inferiore nel massimo a cinque anni». Il comma 2 dello stesso
articolo prevede poi alcuni delitti, specificamente e tassativamente
indicati, per i quali e' comunque possibile procedere all'arresto in
flagranza, a prescindere dalla entita' della sanzione massima
edittale.
L'art. 391, comma 5, cod. proc. pen. attribuiva al giudice
chiamato a convalidare l'arresto il potere di applicare misure
cautelari allorche' sussistessero le condizioni previste dall'art.
273 cod. proc. pen. e taluna delle esigenze cautelari di cui all'art.
274 cod. proc. pen. Il medesimo comma, in un secondo periodo,
stabiliva che «[q]uando l'arresto e' stato eseguito per uno dei
delitti indicati nell'articolo 381 comma 2, l'applicazione della
misura e' disposta anche al di fuori dei limiti previsti
dall'articolo 280».
L'art. 280, comma 1, cod. proc. pen., a sua volta, disponeva che
le misure coercitive potessero essere disposte dal giudice nei
procedimenti relativi a delitti puniti con la reclusione superiore
nel massimo a tre anni: cio' faceva si' che per i reati che
ricadevano nella previsione generale di cui all'art. 381, comma 1,
cod. proc. pen., le misure cautelari potevano essere applicate
secondo la regola generale; per altro verso, per i delitti
tassativamente elencati nell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen., per
i quali l'art. 280, cod. proc. pen. poneva una barriera edittale
all'applicazione di misure coercitive, le esigenze cautelari erano
comunque soddisfatte in virtu' del meccanismo derogatorio scaturente
dal richiamo effettuato dallo stesso art. 280, comma 1, all'intero
art. 391, e dunque anche al suo comma 5, cod. proc. pen. e alla
disciplina ivi prevista.
Il legislatore e' intervenuto successivamente a modificare tali
coordinate normative, innanzi tutto stabilendo, mediante il nuovo
comma 2 dell'art. 280 cod. proc. pen., introdotto dall'art. 7 della
legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale
in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di
diritto di difesa), che, fermo quanto previsto dal comma 1 (rimasto
invariato), la custodia cautelare in carcere potesse essere disposta
solo per delitti, consumati o tentati, per i quali fosse prevista la
pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. A
tale sopravvenienza normativa si aggiungeva poi, per effetto della
modifica introdotta con l'art. 3, comma 2, della medesima legge n.
332 del 1995, un periodo nell'art. 274, comma 1, lettera c), cod.
proc. pen., secondo il quale, nel caso in cui l'esigenza cautelare
derivasse da una prognosi di recidiva, le misure di custodia
cautelare venivano disposte solo se il reato di cui si paventava la
reiterazione era punito con la reclusione non inferiore nel massimo a
quattro anni.
Solo con l'art. 12 della legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi
legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini) e'
stato modificato l'art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc.
pen., il quale prevede oggi che «[q]uando l'arresto e' stato eseguito
per uno dei delitti indicati nell'articolo 381, comma 2, ovvero per
uno dei delitti per i quali e' consentito anche fuori dai casi di
flagranza, l'applicazione della misura e' disposta anche al di fuori
dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera c),
e 280».
Da ultimo, e per effetto della modificazione apportata dalla
lettera 0a) del comma 1 dell'art. 1 del decreto-legge 1° luglio 2013,
n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena),
convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 94,
l'art. 280, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce ora che «[l]a
custodia cautelare in carcere puo' essere disposta solo per delitti,
consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per il delitto
di finanziamento illecito dei partiti di cui all'articolo 7 della
legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni». Identico
limite edittale e' stato poi previsto, per effetto della modifica
introdotta dalla lettera 0b) del comma 1 dell'art. 1 del gia'
richiamato d.l. n. 78 del 2013, nel testo dell'art. 274, comma 1,
lettera c), cod. proc. pen. per l'applicazione della misura cautelare
carceraria nel caso in cui ricorra l'esigenza cautelare ivi prevista.
Il quadro normativo scaturito dalle plurime modificazioni di cui
si e' detto mostra un difetto di coordinamento tra le norme
richiamate, derivante dalla circostanza che solo per i delitti
tassativamente indicati dall'art. 381, comma 2, cod. proc. pen., e'
oggi possibile l'applicazione, in sede di convalida, delle misure
cautelari coercitive in deroga agli ordinari limiti edittali, nel
mentre per i delitti, consumati o tentati, di cui al precedente comma
1, per i quali la pena edittale massima sia compresa tra i tre anni e
i quattro anni, non e' possibile applicare la misura degli arresti
domiciliari, fermo restando che per l'applicazione della misura
cautelare della custodia in carcere, al di fuori della deroga
contenuta nel comma 5 dell'art. 391, cod. proc. pen., e' necessario
che il delitto per il quale si procede sia punito con la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
Ed e' proprio muovendo correttamente dal vigente quadro
normativo, che il rimettente dubita della legittimita' costituzionale
degli artt. 391, comma 5 e 280, comma 1, cod. proc. pen.
4.2.- Tanto premesso, deve rilevarsi che la facolta', per il
giudice chiamato a convalidare l'arresto, di applicare nei confronti
del prevenuto misure cautelari in deroga agli ordinari limiti
edittali segnati dagli artt. 274, comma 1, lettera c), e 280 cod.
proc. pen., secondo quanto previsto dal censurato art. 391, comma 5,
cod. proc. pen., e' riconducibile all'esigenza di raccordare
funzionalmente la decisione in ordine alla misura precautelare con
quella riguardante la salvaguardia di esigenze di natura propriamente
cautelare. Gia' la legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa
al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di
procedura penale) aveva previsto all'art. 2, numero 34), che al
giudice dovesse incombere l'obbligo di decidere «sulla convalida o
meno dell'arresto o del fermo e sulla loro eventuale conversione, ai
sensi del numero 59), in una delle misure di coercizione ivi
previste», con cio' prefigurando l'attribuzione alle relative
previsioni del codice di procedura penale di un carattere speciale
rispetto ai limiti sanciti in via generale per le misure cautelari
coercitive applicabili in via autonoma.
Cio' si e' tradotto nella disciplina dell'art. 391, comma 5,
secondo periodo, cod. proc. pen., che contempla, come si e' detto, la
possibilita' di derogare agli ordinari limiti edittali, sia quello
generale di cui all'art. 280, comma 1, cod. proc. pen., sia quello
connesso all'esigenza cautelare special-preventiva di cui all'art.
274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., quando la misura cautelare
sia da applicarsi nei confronti di soggetto accusato di uno dei
delitti di cui all'art. 381, comma 2, cod. proc. pen. e gia'
temporaneamente limitato nella sua liberta' personale per effetto
della misura precautelare dell'arresto. Tale eccezionale possibilita'
resta pur sempre rigidamente condizionata al «presupposto necessario»
(sentenza n. 4 del 1992) che l'arresto sia convalidato, a differenza
di quanto avviene nei casi ordinari, nei quali il giudice della
convalida puo' pronunciarsi in materia cautelare nel rispetto della
disciplina generale di cui agli artt. 280 e 274, comma 1, lettera c),
cod. proc. pen.: in tali casi, dunque, «la decisione sulla convalida
e' concettualmente e funzionalmente scissa da quella che inerisce
alla applicazione delle misure cautelari» (ancora sentenza n. 4 del
1992).
4.2.1.- Nel motivare il dubbio di incostituzionalita' delle norme
censurate, il rimettente muove pertanto da un erroneo assunto
interpretativo, consistente nel fatto che ad operare quale
presupposto per l'applicazione delle misure cautelari di cui all'art.
391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen. sia il fatto
costituito dall'arresto e non, invece, l'intervenuta convalida della
misura precautelare ad opera del giudice. Solo la verifica della
legittimita' dell'arresto effettuata dal giudice, idonea come tale a
preservare la natura di esso come istituto eccezionale dai contorni
applicativi di stretta interpretazione (sentenza n. 89 del 1970 e
ordinanza n. 412 del 1999), puo' operare infatti come presupposto in
grado di attribuire al medesimo giudice il potere di pronunciarsi in
materia cautelare anche in deroga rispetto agli ordinari limiti
edittali, «all'evidente e non irragionevole fine di coordinare la
facolta' di procedere all'arresto in flagranza con la possibilita' di
disporre all'esito della convalida, e dunque solamente quando
l'arresto risulti legittimamente eseguito, misure coercitive»
(ordinanza n. 187 del 2001).
Le norme censurate, pertanto, rientrano in un ambito
caratterizzato dalla discrezionalita' legislativa, riguardante «la
determinazione dei casi eccezionali di necessita' e urgenza in cui
possono essere adottati provvedimenti provvisori limitativi della
liberta' personale ai sensi dell'art. 13, terzo comma, della
Costituzione» (sentenza n. 188 del 1996 e ordinanza n. 187 del 2001),
intesa anche quale riflesso specifico della piu' ampia
discrezionalita' del legislatore nella conformazione degli istituti
processuali in materia penale (sentenze n. 31 e n. 20 del 2017, n.
216 del 2016).
Pur ribadendo che i provvedimenti provvisori restrittivi della
liberta' personale, secondo quanto imposto dall'art. 13, comma 3,
Cost., possono essere adottati «solo quando abbiano natura servente
rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione, tra cui
in primo luogo quelle connesse al perseguimento delle finalita' del
processo penale» (sentenza n. 223 del 2004) e che la convalida
dell'arresto e' da ritenersi «di per se' non sufficiente a
legittimare l'applicazione in concreto delle misure» (ordinanza n.
148 del 1998), dovendo il giudice vagliare, secondo un criterio di
stretta necessita', la sussistenza delle esigenze cautelari e in
particolare quella di cui all'art. 274, comma 1, lettera c), cod.
proc. pen., deve nondimeno ritenersi che le norme censurate non siano
di per se' manifestamente irragionevoli, perche' con esse il
legislatore ha ritenuto non impropriamente che possa essere esclusa
la liberazione dell'arrestato ove specifiche esigenze cautelari
impongano il mantenimento della restrizione della liberta' personale,
senza che a tale esito possano essere di impedimento soglie edittali
piu' basse rispetto a quelle ordinarie, laddove i relativi delitti,
come quelli tassativamente elencati dall'art. 381, comma 2, cod.
proc. pen., siano dal legislatore apprezzati come di particolare
allarme sociale.
La questione di legittimita' costituzionale non e' quindi
fondata.
5.- Con una distinta censura, il rimettente prospetta un piu'
limitato motivo di illegittimita' costituzionale degli artt. 280,
comma 1, e 391, comma 5, cod. proc. pen., consistente nella
disparita' di trattamento che da essi discende per chi, accusato di
uno dei delitti elencati dall'art. 381, comma 2, cod. proc. pen. e
puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre
anni, subisce ai fini dell'applicazione delle misure cautelari - e,
in particolare, della misura degli arresti domiciliari - in sede di
udienza di convalida dell'arresto un trattamento deteriore rispetto a
quello che si presterebbero a subire, ai medesimi fini, i soggetti
arrestati in flagranza e accusati, secondo quanto prescrive l'art.
381, comma 1, cod. proc. pen., di un delitto non colposo, consumato o
tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione
superiore nel massimo a tre anni.
5.1.- Anche tale questione non e' fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la determinazione
delle ipotesi tassative, di per se' eccezionali, nelle quali e'
consentito adottare misure custodiali [...] spetta al legislatore, ai
sensi dell'art. 13 della Costituzione, nel rispetto degli altri
principi costituzionali e nei limiti della non manifesta
irragionevolezza» (ordinanza n. 137 del 2003; nello stesso senso,
ordinanza n. 40 del 2002).
L'elenco di delitti di cui all'art. 381, comma 2, cod. proc.
pen., in relazione ai quali e' previsto l'arresto facoltativo in
flagranza ed e' attribuita al giudice della convalida, nei confronti
dei soggetti di essi accusati e in stato d'arresto la facolta' di
applicare misure cautelari dall'art. 391, comma 5, cod. proc. pen.,
anche in deroga ai limiti edittali contenuti negli artt. 274, comma
1, lettera c), e 280 cod. proc. pen., ha sicuramente portata
derogatoria rispetto alla clausola generale del comma 1 dell'art. 381
cod. proc. pen. e, pertanto, «non e' suscettibile ne' di letture
estensive (i reati sono indicati con la loro denominazione e con il
richiamo alla corrispondente disposizione del codice penale o di
altra legge, e dunque si tratta di fattispecie ben determinate), ne'
tanto meno di applicazione analogica» (sentenza n. 188 del 1996).
Ribaditi questi principi, il rinvio, operato dall'art. 391, comma
5, cod. proc. pen. e, indirettamente, dall'art. 280 cod. proc. pen.
ai delitti di cui all'art. 381, comma 2, dello stesso codice non si
traduce tuttavia in una soluzione manifestamente irragionevole, ne'
in linea generale, ne' con riferimento alle specifiche figure di
reato per cui si procede nel giudizio a quo, con particolare
riferimento al delitto di furto.
Come questa Corte ha piu' volte stabilito, «la configurazione
delle fattispecie criminose e la determinazione della pena per
ciascuna di esse costituiscono materia affidata alla discrezionalita'
del legislatore, involvendo apprezzamenti tipicamente politici. Le
scelte legislative sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di
legittimita' costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta
irragionevolezza o nell'arbitrio» (sentenza n. 35 del 2018; nello
stesso senso, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148 del 2016).
5.1.1.- La categoria di delitti elencati nell'art. 381, comma 2,
cod. proc. pen. risponde a un apprezzamento tipicamente riservato al
legislatore, che ha ritenuto - anche sulla scorta del criterio
direttivo contenuto nel gia' richiamato art. 2, numero 34) della
legge n. 81 del 1987 - di individuare in quelle figure di reato non
solo delle fattispecie idonee a consentire l'arresto in flagranza al
di fuori della regola generale del comma 1, ma anche, e per
l'effetto, delle ipotesi in relazione alle quali il rispetto dei
limiti edittali ordinari per l'applicazione delle cautele avrebbe
irragionevolmente frustrato l'esigenza di dare continuita', al
ricorrere di determinati presupposti (tra cui in primis la
legittimita' dell'arresto, vagliata in sede di convalida), alla
preservazione delle esigenze cautelari messe a repentaglio dagli
autori di delitti ritenuti generatori di un particolare allarme
sociale.
Peraltro, nel caso di specie il legislatore non ha stabilito un
collegamento tra determinati titoli di reato e l'applicazione
necessaria di determinate misure cautelari, come quella carceraria,
nei termini di una presunzione assoluta, facendo leva semplicemente
sulla loro gravita' astratta e sull'allarme sociale da essi destato
(sentenza n. 45 del 2014). Non e' infatti superfluo ribadire, sul
punto, che il compito di pronunciarsi in materia cautelare, valutando
la sussistenza delle relative esigenze (con particolare riferimento a
quella contenuta nell'art. 274, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.)
e approntando la misura eventualmente ritenuta piu' idonea, non puo'
nel caso di specie che spettare in ultima istanza al giudice della
convalida, chiamato a liberamente valutare gli elementi forniti dal
pubblico ministero.
Del resto, il collegamento tra la discrezionale scelta
legislativa intorno all'allarme sociale generato da determinati
delitti e la correlata possibilita' che, in relazione ad essi, si
proceda all'arresto in flagranza e si applichino, anche in deroga ai
limiti edittali previsti, misure cautelari coercitive e' di
particolare evidenza nel caso dell'art. 381, comma 2, cod. proc.
pen., che ha una struttura e una ratio non omogenee rispetto a quelle
del primo comma del medesimo articolo. Non solo perche' quest'ultimo
prevede limiti generali di pena, laddove il secondo comma rimanda
invece a fattispecie determinate, da intendersi in modo tassativo e
non ancorate a soglie edittali massime predeterminate, ma anche
perche' il catalogo di cui al medesimo art. 381, comma 2, cod. proc.
pen. ha operato col tempo - a riprova dell'inerenza dei suoi
contenuti a scelte politiche discrezionali - quale catalogo aperto,
nel quale sono stati via via inseriti ulteriori delitti rispetto a
quelli originariamente previsti, e nel quale figurano oggi delitti
che si prestano ad essere ricondotti anche alla categoria generale
del primo comma, come nel caso della violazione di domicilio di cui
all'art. 614, primo e secondo comma, cod. pen. (art. 381, comma 2,
lettera f-bis, cod. proc. pen.), punita con la pena della reclusione
fino a quattro anni, dell'appropriazione indebita di cui all'art. 646
cod. pen. (art. 381, comma 2, lettera l, cod. proc. pen.), punita con
la pena della reclusione fino a cinque anni, ovvero delle fraudolente
alterazioni per impedire l'identificazione o l'accertamento di
qualita' personali di cui all'art. 495-ter cod. pen. (art. 381, comma
2, lettera m-quater, cod. proc. pen.), punite con la pena della
reclusione fino a sei anni.
Fermo rimanendo, pertanto, il rispetto del complesso dei principi
costituzionali attinenti alla tutela della liberta' personale, e in
particolare del principio di tassativita' (art. 13, comma terzo,
Cost.), deve pertanto essere ribadito come nella materia de qua
spetti al legislatore il compito di individuare presupposti e
condizioni per l'esercizio dell'azione punitiva dello Stato,
raccordando le relative scelte, anche quelle concernenti i
presupposti per l'applicazione delle misure cautelari,
all'apprezzamento dei fatti generatori di allarme sociale. Tali
scelte incontrano i soli limiti della non manifesta irragionevolezza
e della non arbitrarieta', che, nel caso di specie, per le ragioni
sin qui esposte, non possono ritenersi superati.
5.2.- Ne', per quanto detto, le norme censurate danno luogo, nel
caso di specie, a una disparita' di trattamento lesiva degli artt. 3
e 13 Cost.
Il giudice rimettente ha addotto a sostegno delle censure una
serie di esempi, da cui tuttavia non e' dato ricavare alcun elemento
a supporto della pretesa disparita' di trattamento subita
dall'arrestato nel giudizio a quo.
Le situazioni poste a raffronto sono infatti, nella maggior parte
dei casi, inconferenti e inidonee a essere commisurate rispetto a
quella sub iudice, perche' riferite a situazioni del tutto eterogenee
e non comparabili, come nel caso di delitti integrati nella sola
forma tentata ovvero nel caso in cui la disparita' sia riferita
all'applicazione della custodia cautelare in carcere. Ne' e' fondata
la censura relativa alla disparita' di trattamento subita dal
soggetto arrestato e accusato di furto semplice (delitto ricompreso
nell'art. 381, comma 2, lettera g, cod. proc. pen.) rispetto a chi
sia accusato di cessione di stupefacenti ai sensi dell'art. 73, comma
5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in
materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza), quando ricorre la circostanza attenuante di cui
all'art. 62, primo comma, numero 4, cod. pen., in relazione alla
quale e' consentito l'arresto facoltativo in flagranza secondo quanto
prevede l'art. 381, comma 1, cod. proc. pen., ma non l'applicazione
della misura custodiale domiciliare, perche' punita con pena
inferiore a quattro anni e per la quale non opera la deroga di cui
all'art. 391, comma 5, cod. proc. pen. Anche in questo caso, il
giudice pone a raffronto situazioni marcatamente eterogenee, sia con
riferimento alla struttura dei reati che al bene giuridico rispetto
ai quali essi si pongono a presidio, sicche' non e' dato a questa
Corte di addivenire a una pronuncia che, senza inficiare la scelta
non manifestamente irragionevole del legislatore di consentire al
giudice della convalida l'adozione in deroga delle misure custodiali
per i delitti di cui all'art. 381, comma 2, cod. proc. pen., consenta
di superare il problema denunciato dal rimettente.
Pertanto, il fatto che siano stati indicati a paragone una
quantita' di reati, tra loro diversi, e non soltanto uno od alcuni di
essi, mostra chiaramente che nessuno di questi e' in grado di
costituire un modello comparativo. Ed e' noto che «anche in presenza
di norme manifestamente arbitrarie o irragionevoli, solo
l'indicazione di un tertium comparationis idoneo, o comunque di
specifici cogenti punti di riferimento, puo' legittimare l'intervento
della Corte in materia penale, poiche' non spetta ad essa assumere
autonome determinazioni in sostituzione delle valutazioni riservate
al legislatore. Se cosi' non fosse, l'intervento, essendo creativo,
interferirebbe indebitamente nella sfera delle scelte di politica
sanzionatoria rimesse al legislatore (sentenze n. 236 e n. 148 del
2016)» (sentenza n. 207 del 2017).
5.3.- Non puo' peraltro non rilevarsi come la deroga ai termini
massimi della pena detentiva edittale previsti per l'adozione delle
misure cautelari coercitive, non irragionevolmente disposta dal
legislatore con le disposizioni censurate, presenti profili
problematici che, pur senza dare luogo alla illegittimita'
costituzionale delle disposizioni qui in esame, tuttavia rendono
opportuno un intervento che eccede l'ambito del sindacato di
costituzionalita'. In proposito, non puo' non considerarsi che la
disciplina dei presupposti per l'adozione delle misure cautelari,
anche di quella custodiale in carcere, originariamente coordinata con
quelli per le misure precautelari, ha subito numerose variazioni nel
corso degli anni, sicche' sarebbe auspicabile un intervento del
legislatore volto a ricondurre il rapporto tra misure precautelari e
misure cautelari coercitive all'originario coordinamento quanto ai
presupposti per la loro adozione.
6.- In conclusione, le questioni di legittimita' costituzionale
degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, cod. proc. pen. devono
essere dichiarate non fondate in riferimento a entrambi i parametri
evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale
degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, del codice di procedura
penale, sollevate dal Tribunale ordinario di Firenze, in riferimento
agli artt. 3 e 13 della Costituzione, con l'ordinanza indicata in
epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Stefano PETITTI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA
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