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giovedì 14 marzo 2013

TAR:.. epigrafe, la ricorrente, sostituto Commissario della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di Benevento, ... servizio, poneva in essere un'attività quale Ufficiale di Polizia Giudiziaria, senza notiziare della circostanza il ... servizio..



T.A.R. Campania Napoli Sez. VI, Sent., 07-03-2013, n. 1322
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1917 del 2012, proposto da:
(Lpd), rappresentata e difesa dall'avv. --
contro
Ministero dell'Interno, Questura di (Lpd), in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, presso i cui uffici - alla via A. Diaz n.11 - è ope legis domiciliato;
per l'annullamento
- del Provv. n. 2.8./30/R del 17 febbraio 2012, con il quale il Questore della Provincia di (Lpd) ha inflitto alla ricorrente la sanzione disciplinare della "pena pecuniaria nella misura di 1/30 di una mensilità dello stipendio e degli assegni a carattere fisso e continuativo al netto delle ritenute previdenziali";
- di tutti gli atti e presupposti, connessi e consequenziali, tra cui la relazione del dirigente della locale divisione anticrimine del 10.11.2011, la nota di contestazione degli addebiti del 21.11.2011, il verbale della seduta della commissione consultiva del 16.2.2012.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Amministrazione intimata;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 febbraio 2013 il dott. Umberto Maiello e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo
Con il gravame in epigrafe, la ricorrente, sostituto Commissario della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di (Lpd), impugna, unitamente agli atti presupposti, connessi e consequenziali, il Provv. n.2.8/30/R del 17 febbraio 2012, con il quale il Questore di (Lpd) le ha inflitto la sanzione disciplinare della "pena pecuniaria nella misura di 1/30 di una mensilità netta dello stipendio e degli assegni a carattere fisso e continuativo, al netto delle ritenute previdenziali" perché, "in data 30.10.2011, libera dal servizio, poneva in essere un'attività quale ufficiale di p.g., senza informare nella circostanza il funzionario di turno in Questura ed il proprio Dirigente, informando autonomamente l'Autorità giudiziaria. Il proprio superiore gerarchico veniva messo a conoscenza dell'accaduto solo il giorno successivo".
Avverso il suddetto atto la ricorrente ha articolato le seguenti censure:
1) il decreto impugnato risulterebbe assolutamente inidoneo a chiarire l'iter logico seguito per stigmatizzare e punire il comportamento della ricorrente ed, inoltre, non sarebbe coerente con la nota di contestazione facendo, peraltro, riferimento ad un'ipotesi normativa (articolo 4.18 D.P.R. n. 737 del 1981) diversa da quella individuata in sede di contestazione (articolo 5.4. del D.P.R. n. 737 del 1981);
2) non sarebbe, nella specie, configurabile una violazione dell'obbligo di cui all'articolo 28 del D.P.R. n. 782 del 1985, in quanto l'obbligo di relazione al proprio superiore sarebbe esigibile solo nei confronti del personale in servizio e per i fatti accaduti in servizio, mentre la ricorrente era, per tutto il periodo in questione, libera dal servizio per motivi di malattia; d'altro canto, la ricorrente avrebbe redatto lo stesso giorno dell'accaduto la relazione di servizio, provvedendo a depositarla il giorno immediatamente successivo;
3) sarebbe inconferente la circostanza che le copie della relazione di servizio (quella consegnata al Questore e quella allegata all'informativa di reato) rechino due date diverse;
4) sarebbe poi del tutto apodittico l'accenno contenuto nel preambolo del provvedimento impugnato alla presunta "scarsa professionalità" della ricorrente, anche in ragione dei chiarimenti dalla stessa offerti in sede procedimentale;
5) contrariamente a quanto ritenuto, la ricorrente nell'informare direttamente e tempestivamente l'Autorità giudiziaria avrebbe adempiuto ad un obbligo di legge desumibile dal combinato disposto degli artt. 347 c.p.p. e 361 c.p.;
6) il provvedimento sarebbe inficiato dal vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti, avendo la ricorrente informato il proprio superiore gerarchico della informativa di reato poi depositata in Questura chiedendo al predetto l'apposizione del visto; né potrebbe essere addebitata alla ricorrente la presunta contraddizione in cui sarebbe incorsa nell'esporre le proprie argomentazioni difensive.
Resiste in giudizio l'Amministrazione intimata.
All'udienza del 6 febbraio 2013 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
Va, anzitutto, disattesa la censura con cui la ricorrente si duole dell'insufficienza del corredo motivazionale del provvedimento impugnato, a suo dire, assolutamente inidoneo a chiarire l'iter logico seguito per punire il comportamento in contestazione.
Una piana lettura del provvedimento impugnato evidenzia, per converso, in modo adeguato le ragioni in cui impinge la comminata sanzione disciplinare, ben sintetizzate nella seguente riassuntiva proposizione "In data 30.10.2011, libera dal servizio, poneva in essere un'attività quale Ufficiale di Polizia Giudiziaria, senza notiziare della circostanza il funzionario di turno in Questura ed il proprio Dirigente, informando autonomamente l'Autorita' giudiziaria. Il proprio superiore gerarchico veniva messo a conoscenza dell'accaduto il giorno successivo. Art. 4 punto 18 del D.P.R. n. 737 del 1981".
Né colgono nel segno le osservazioni di parte ricorrente nella parte in cui rilevano ulteriori passaggi, contenuti nel corpo dello stesso provvedimento o nel verbale della commissione di disciplina, che sembrerebbero sovrapporsi - in modo poco coerente - alla motivazione sopra riportata.
Al riguardo, mette conto evidenziare che i precitati atti danno fedelmente conto di tutte le argomentazioni spese nel corso della discussione, selezionando poi correttamente, nel corpo del provvedimento impugnato, quelle che, all'esito del confronto, hanno coagulato, in una formula condivisa, il consenso della commissione sull'an, il tipo e la misura della sanzione.
Una serena lettura dei precitati atti induce, infatti, a ritenere che, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, la "divergenza tra le giustificazioni presentate in data 27 gennaio 2012 e le circostanze rappresentate dalla (Lpd) nel corso della commissione de qua" ovvero "la confusione delle date" o ancora "il non aver precisato" nelle proprie giustificazioni una determinata circostanza non siano confluite nella motivazione spesa a sostegno della sanzione irrogata.
Il riferimento contenuto nel preambolo del provvedimento impugnato alle contraddizioni che avrebbero inficiato l'affidabilità delle tesi difensive sviluppate nella fase procedimentale non concorre, infatti, a giustificare, di per sé, l'applicazione della sanzione (che poggia sulle argomentazioni sopra riportate), ma costituisce un mero espediente dialettico per rimarcare l'inidoneità complessiva delle tesi difensive a giustificare le condotte in addebito.
Del pari, prive di pregio, si rivelano le censure che involgono la contestazione ed il rapporto di coerenza tra il suddetto atto e la motivazione che regge il provvedimento finale, emergendo con evidenza la sussumibilità degli addebiti sanzionati, quali evincibili dalla motivazione sopra riportata, alle medesime fattispecie descritte nell'atto di incolpazione, siccome entrambi incentrati sulla violazione, nell'immediatezza dei fatti, dell'obbligo di informare in merito all'iniziativa assunta il funzionario di turno ed il superiore gerarchico del proprio ufficio di appartenenza ovvero sulla decisione di notiziare direttamente l'A.G. e non tramite il suddetto ufficio.
Ne', peraltro, assume rilievo, ai fini in questione, il fatto che l'atto di contestazione facesse riferimento ad un'ipotesi normativa (art. 5.4 del D.P.R. n. 737 del 1983) diversa da quella poi riconosciuta nel decreto impugnato (art. 4.18 del D.P.R. n. 737 del 1983).
Com'è noto, la normativa in tema di procedimento disciplinare intende salvaguardare il diritto di difesa dell'incolpato che deve essere messo nelle condizioni di conoscere esattamente i fatti che gli vengono addebitati onde potersi adeguatamente difendere, il che non toglie che l'organo competente possa nel corso del procedimento effettuare un diverso apprezzamento disciplinare di tali fatti, ascrivendo le medesime mancanze ad una norma diversa da quella citata nell'atto di contestazione (cfr. T.A.R. Trieste Friuli Venezia Giulia sez. I, del 12 dicembre 2012, n. 464); e ciò vieppiù nei casi, come quello di specie, in cui si e' operata, di fatto, una derubricazione dell'ipotesi di illecito originariamente ipotizzata, procedendo all'applicazione di una sanzione meno grave di quella inizialmente prospettata.
Tanto premesso, vanno ora scrutinate le censure articolate in riferimento alle ragioni giustificative, come sopra individuate, poste a fondamento dell'avversato provvedimento disciplinare, essendosi già evidenziata l'inconferenza delle ragioni di doglianza articolate avverso profili estranei al nucleo delle argomentazioni confluite nella motivazione sopra richiamata ("In data 30.10.2011, libera dal servizio, poneva in essere un'attività quale Ufficiale di Polizia Giudiziaria, senza notiziare della circostanza il funzionario di turno in Questura ed il proprio Dirigente, informando autonomamente l'Autorita' giudiziaria. Il proprio superiore gerarchico veniva messo a conoscenza dell'accaduto il giorno successivo. Art. 4 punto 18 del D.P.R. n. 737 del 1981").
Un primo ordine di rilievi investe la ritenuta violazione dell'obbligo di notiziare, nell'immediatezza dei fatti, il funzionario di turno della Questura ovvero il proprio superiore gerarchico.
Sul punto, la ricorrente sostiene che, a norma dell'art. 28 del D.P.R. n. 782 del 1985, recante l'ordinamento di servizio degli appartenenti alla Polizia di Stato, l'obbligo in argomento vada riferito solo al personale in servizio ed ai fatti conosciuti durante l'espletamento del servizio medesimo. Di contro, nel caso in esame, difetterebbero entrambi i suddetti presupposti applicativi, in quanto la ricorrente era, per tutto il periodo in considerazione, libera dal servizio, per motivi di malattia.
In via ulteriormente gradata la ricorrente oppone di aver comunque redatto, lo stesso giorno 30.10.2011, la relazione di servizio, poi depositata in Questura il giorno immediatamente successivo.
Il Collegio ritiene che il costrutto giuridico attoreo non possa essere condiviso.
E' necessario, infatti, prendere abbrivio dal disposto di cui all'art. 68 della L. n. 121 del 1981, a tenore del quale "gli appartenenti ai ruoli dell'amministrazione della pubblica sicurezza sono comunque tenuti, anche fuori dal servizio, ad osservare i doveri inerenti alla propria funzione".
L'ordinamento del personale delle Forze di polizia prevede, dunque, che il dipendente debba sempre rispettare gli obblighi connessi al servizio anche qualora lo stesso sia in aspettativa per malattia (cfr. T.A.R. Napoli Campania sez. VI, 02 settembre 2011 n. 17271).
Gli appartenenti alla Polizia di Stato sono, infatti, considerati in servizio permanente, e non cessano dalla loro qualità di pubblici ufficiali anche quando non sono comandati in servizio (cfr. Cassazione penale sez. VI, 22 settembre 2009 n. 42639; Cass. Pen. Sez. 1, 4-2-1992 n. 3200) e, dunque, anche nei periodi di permesso o di licenza, sono obbligati ad assumere l'esercizio attuale delle funzioni, allorché se ne verifichino le condizioni (cfr. Cassazione civile sez. I, 08 luglio 2005 n. 14390).
D'altro canto, e' proprio in considerazione della piena valenza delle prerogative connesse al proprio status, anche durante il periodo di aspettativa, che la ricorrente ha potuto compiere atti di polizia giudiziaria, quali ad esempio l'identificazione dei soggetti e l'affidamento dei minori al padre, normalmente non consentiti al privato cittadino.
A fronte dell'esercizio dei poteri connessi alla qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, a sua volta inscindibilmente connessa al suo status di appartenente ai ruoli della polizia di stato, si riespandono inevitabilmente gli obblighi correlati a tale status, ed in primo luogo quelli di informativa interna, resi ineludibili anche dal fatto che, attraverso la propria condotta, gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria impegnano nei rapporti esterni la propria amministrazione di appartenenza.
Appare, inoltre, di tutta evidenza come, da un punto di vista temporale, la cura del suddetto obbligo di informativa debba essere rapportata al singolo fatto accertato, onde consentire all'Ufficio di offrire ai singoli agenti operanti la necessaria collaborazione in vista del proficuo svolgimento dei compiti di istituto.
Nella suddetta prospettiva, non sembra affatto pretestuoso l'addebito mosso alla ricorrente, che poneva in essere un'attività di polizia giudiziaria connessa ad un episodio di maltrattamento dei minori al quale aveva personalmente assistito, omettendo però, nell'immediatezza dei fatti, ed anche a conclusione del proprio intervento, di riferirne al funzionario di turno della Questura di (Lpd) ed al dirigente della divisione anticrimine, ufficio di appartenenza, avvertendo quest'ultimo solo il giorno dopo.
Segnatamente, in data 30.10.2011, la ricorrente assisteva al violento allontanamento di due minori da un'autovettura, all'interno della quale vi erano anche due adulti, identificati nella madre e nel compagno della stessa.
La ricorrente, dopo aver raccolto le confidenze dei due bambini, che riferivano di essere stati violentemente schiaffeggiati e del clima di violenza e di intimidazioni di cui erano abitualmente vittime, li affidava al padre.
La suddetta attività - che faceva dunque seguito all'acquisizione di una notitia criminis - veniva svolta di iniziativa della ricorrente senza mai in alcun modo coinvolgere il proprio ufficio, che pur avrebbe potuto coadiuvare la ricorrente nello svolgimento delle suddette incombenze, oltre che orientarne la condotta in modo da assolvere in modo ottimale ai compiti di istituto. Né può ritenersi che, avuto riguardo alla fattispecie in esame, di tutto ciò non vi fosse alcun immediato bisogno, ben potendo essere assolto il suddetto obbligo di informativa interna anche successivamente.
Dalla relazione redatta dal dirigente della divisione anticrimine della Questura di (Lpd), in data 10.11.2011, si evincono, invero, una serie di iniziative che il predetto Ufficio avrebbe in teoria potuto assumere, ove tempestivamente notiziato dell'accaduto, come ad esempio prendere contatto con il Magistrato di turno onde concordare con l'A.G. le attività da compiere nell'immediatezza dei fatti, tra le quali quella di far refertare i minori, interessare i servizi sociali, individuare le soluzioni più appropriate in ordine al loro affido.
Di contro, il dirigente della divisione anticrimine della Questura di (Lpd) veniva a conoscenza dell'accaduto solo il giorno dopo e secondo modalità, almeno inizialmente, alquanto irrituali.
Ed, invero, dalla relazione redatta dal suddetto funzionario, in data 10.11.2011, si evince che il predetto dirigente, nel pomeriggio del 31.10.2011, incontrava nel piazzale retrostante della Questura la ricorrente, la quale gli chiedeva istruzioni sulla "..procedura da seguire atteso che stava aiutando, sotto un profilo assistenziale, una famiglia bisognosa con figli minori".
Solo successivamente, dopo aver preavvisato telefonicamente il predetto dirigente, la ricorrente si decideva di presentare una relazione di servizio sui fatti in questione, mettendo in rilievo - per la prima volta - attraverso una più pertinente descrizione dei fatti la rilevanza penale delle condotte accertate.
Appare, dunque, riscontrata la prima condotta in addebito, attesa l'evidenziata elusione dell'obbligo di informativa interna, assolto in ritardo, il giorno dopo il servizio espletato.
Del pari, immune rispetto alle censure attoree si rivela l'ulteriore profilo di illecito censurato dal provvedimento impugnato e consistente nell'aver autonomamente informato della vicenda sopra descritta l'Autorità giudiziaria.
Secondo il costrutto giuridico attoreo, la ricorrente sarebbe astretta, in base al combinato disposto degli articoli 347 c.p.p. e 361 c.p., da un obbligo, di natura personale, di riferire, senza ritardo, ogni notizia di reato direttamente all'Autorità Giudiziaria.
Occorre a tal riguardo evidenziare che l'art. 347 c.p.p., comma 1, nel disciplinare l'obbligo di riferire la notizia del reato, impone agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria di riferire senza ritardo e per iscritto al pubblico ministero la notitia criminis ( il successivo comma 3 prevede che se si tratta di taluno dei delitti indicati nell'articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6) e, in ogni caso, quando sussistono ragioni di urgenza, la comunicazione della notizia di reato è data immediatamente anche in forma orale).
La norma è diretta ovviamente ad assicurare lo svolgimento di tutte le attività di acquisizione probatoria entro un arco di tempo ragionevole dal momento in cui l'operatore di polizia giudiziaria ne viene a conoscenza, scongiurando il rischio di una dispersione di elementi di prova. A tanto deve aggiungersi che, almeno per l'ipotesi ordinaria, le attività informative poste in essere dalla polizia giudiziaria debbano essere annotate per iscritto, a norma dell'art. 357 c.p.p. per conferire carattere di certezza alle medesime.
Orbene, appare di tutta evidenza, avuto riguardo al caso di specie, che nessuna particolare urgenza - peraltro solo genericamente allegata dalla ricorrente - imponeva l'immediata trasmissione all'A.G. di un'informativa di reato, sì da impedire che il suddetto obbligo potesse essere assolto, come da prassi, in modo coerente con l'organizzazione in forma gerarchica dell'ufficio della ricorrente, per il tramite dunque del dirigente responsabile, che evidentemente avrebbe dovuto poter condividere i relativi contenuti.
D'altro canto, la riprova di quanto fin qui osservato - circa la possibilità di utilmente coniugare gli obblighi di cui all'art. 34 7 c.p.p. con la dimensione organizzativa dell'ufficio di appartenenza della ricorrente - si coglie nella disamina della stessa tempistica che ha caratterizzato la gestione da parte della ricorrente della notitia criminis, che risulta acquisita il 30.10.2011 e messa a disposizione dell'A.G. (con un'informativa datata 30.10.2011) ben più tardi, il successivo 9.11.2011.
Né assume rilievo scriminante il fatto che la ricorrente, nell'arco della stessa giornata del 9.11.2011, si sia recata prima presso la Questura di (Lpd) per l'acquisizione del visto del predetto dirigente, e solo dopo alla Procura della Repubblica, non venendo qui più in rilievo (a differenza del profilo di illecito sopra scrutinato) l'elusione dell'obbligo di notiziare il proprio dirigente ma la gestione, in via autonoma, di un adempimento (quello di informare la Procura della Repubblica) che - non ricorrente particolari ragioni di urgenza ovvero difformità di vedute sulla decisione in sé di informare la Procura della Repubblica - avrebbe dovuto essere curato direttamente dall'ufficio per il tramite del suo dirigente. A fronte di quanto fin qui emerso, si rivelano inconferenti - siccome non idonee a scalfire i fatti come sopra ricostruiti - le residue osservazioni censoree volte a negare le presunte contraddizioni che avrebbero caratterizzato le versioni difensive offerte dalla ricorrente nella fase procedimentale. Tale profilo resta, invero, estraneo al nucleo motivazionale che regge il provvedimento impugnato ed è del tutto irrilevante ai fini del sindacato sulla legittimità dell'atto impugnato.
In definitiva, nell'ambito dei limiti del sindacato del G.A., nei confronti dell'esercizio del potere disciplinare della P.A., caratterizzato da ampia discrezionalità, non appare illegittima né irragionevole la qualificazione in termini di "sconvenienza" della condotta complessivamente tenuta dalla ricorrente nell'espletamento dei doveri connessi al proprio servizio.
Conclusivamente, ribadite le scolte considerazioni, il ricorso va respinto siccome infondato.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e, per l'effetto, la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, liquidate complessivamente in Euro 2.000,00 (duemila/00).
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell'Amministrazione intimata, delle spese processuali, liquidate complessivamente in Euro 2.000 (duemila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

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