Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-01288
presentato da
Interrogazione a risposta scritta 4-01288
PINNA Paola
testo di
Mercoledì 17 luglio 2013, seduta n. 55
i diritti umani sono un prodotto storico, frutto della sovrapposizione fra teorie, fatti e norme e sono stati generati da cambiamenti ed evoluzioni di natura economica, politica e culturale. La loro affermazione ha presupposto il rovesciamento di un ordine concettuale e sociale e il fondamento degli stessi è da ricercare nel loro riconoscimento da parte della società come valori in sé. Tuttavia, come affermava Norberto Bobbio ne L'età dei diritti, «nonostante la loro desiderabilità non sono ancora stati tutti, dappertutto, e in egual misura, riconosciuti»;
il divieto di tortura costituisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche ed ha natura assoluta e inderogabile;
la condanna della tortura, sia come prassi sia attraverso il divieto esplicito sancito da specifiche leggi, rappresenta una della maggiori sfide della comunità internazionale e del nostro Paese. Tuttavia, nell'ordinamento italiano tale reato non è ancora riconosciuto e perseguito, infatti, nonostante i vari governi succedutisi abbiano manifestato buone intenzioni non si è mai giunti a una codificazione definitiva;
l'immobilismo italiano lascia perplessi in quanto il divieto di tortura, oltre a essere previsto da numerose convenzioni e trattati sottoscritti dall'Italia, è espressamente sancito dalla Costituzione, che all'articolo 13 afferma: «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà», e trova fondamento negli articoli 2 e 10, del testo costituzionale, in cui rispettivamente si afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» e che «l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute»;
in ambito internazionale, con l'articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, la comunità internazionale si è espressa per la prima volta contro il perpetrarsi di gravi violazioni: «nessuno può essere sottoposto a tortura e a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti». Nel 1966 il divieto della pratica della tortura fu inserito nell'articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato in Italia ai sensi della legge n. 881 del 1977, che riporta il dettato dell'articolo 5 sopracitato;
inoltre, l'articolo 1, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite – approvata dall'Assemblea generale il 10 dicembre 1984 e ratificata dall'Italia con la legge 3 novembre 1988, n. 498 – definisce come tortura «qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito». Inoltre, all'articolo 4 la citata Convenzione prevede che ogni Stato consideri tali atti quali trasgressioni nei confronti del proprio diritto penale, pertanto, l'introduzione del reato di tortura nel codice penale corrisponde ad un obbligo giuridico internazionale, come più volte sollecitato dal Comitato istituito dalla Convenzione europea per la prevenzione della tortura – adottata a Strasburgo il 26 novembre 1987, di cui alla legge 2 gennaio 1989, n. 7 – il quale ha sottolineato reiteratamente come sia necessario supplire a tale lacuna normativa;
a livello europeo la proibizione della tortura è prevista all'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali – firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848 – tale articolo, che richiama letteralmente l'articolo 5 della Dichiarazione del 1948, contempla tre tipi di condotte: tortura, trattamenti o pene inumane e trattamenti o pene degradanti, senza fornire alcuna indicazione per distinguere le diverse situazioni con il preciso fine di evitare che rimangano prive di copertura altre eventuali forme di patimento. Tale carattere di essenzialità ha permesso di sviluppare una piuttosto ampia discrezionalità interpretativa e la Corte europea ha fatto discendere dalla disposizione anche una serie di obblighi, negativi e positivi, a carico degli Stati membri, fra cui l'obbligo positivo che concerne il trattamento penitenziario da riservare alle persone sottoposte a misure privative della libertà personale. Infatti, secondo il giudice di Strasburgo lo stato di detenzione «non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato»;
sempre in ambito europeo, l'esigenza dell'Unione europea di sganciarsi dagli angusti confini di una dimensione meramente economica per avviarsi verso la meta dell'integrazione politica ha portato alla stesura la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, coronamento di un percorso anticipato dalle sentenze della Corte di Lussemburgo: un corpus di norme non scritte che ha introdotto la tutela dei diritti umani in una situazione di quasi totale silenzio dei testi normativi comunitari. La Carta al Capo I articolo 4 recita: «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti»;
infine, il 3 aprile 2013 l'Italia ha depositato lo strumento di ratifica del protocollo opzionale alla Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti. Esso istituisce un sistema a «doppio pilastro» di ispezione e monitoraggio dei luoghi di detenzione volto a prevenire la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti: a livello internazionale viene istituito il Sottocomitato delle Nazioni Unite sulla prevenzione della tortura, mentre a livello nazionale gli Stati parte hanno l'obbligo di creare, entro un anno dalla ratifica del Protocollo, un apposito organismo indipendente, il cosiddetto meccanismo nazionale di prevenzione;
tuttavia, come anticipato, nonostante le nostre istituzioni e la nostra classe politica dichiarino di essere a favore dell'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento italiano non si riesce a portare a termine tale processo. Introducendo leggi chiare contro la tortura, anche a carico dei pubblici ufficiali, si tutelerebbero non solo gli individui vittime dei delitti ma, sul piano della prevenzione e della repressione, si agevolerebbe l'accertamento delle responsabilità personali dei colpevoli proteggendo la reputazione complessiva delle forze di polizia spesso oggetto di una indiscriminata e ingiusta criminalizzazione;
l'8 gennaio 2013, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per violazione dell'articolo 3 Cedu – Torreggiani e altri c. Italia, ric. nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10 – rigettando la richiesta per il riesame del caso. La ragione che ha determinato tale condanna per il nostro Paese trae origine dal numero di detenuti presenti all'interno delle strutture carcerarie italiane che è di molto superiore a quello che le stesse sono programmate ad ospitare. Secondo i dati del portale del Ministero della giustizia, al 30 giugno 2013, la popolazione carceraria presente negli istituti è pari a 66.028 persone, mentre la capienza regolamentare è di 47.022. A questi numeri si aggiungono altri tristi dati: nell'ultimo anno e mezzo, nei penitenziari italiani, vi sono stati 84 suicidi e 150 morti per altre cause;
non è la prima occasione in cui l'Italia riceve una condanna per tali ragioni, infatti, il 16 luglio 2009 i giudici di Strasburgo avevano accertato la violazione del suddetto articolo 3 a carico dell'Italia. Ma rispetto ad allora la sentenza di gennaio 2013 si inserisce nella procedura delle cosiddette «sentenze pilota». Infatti, tale decisione porta con sé un'inevitabile forza cogente volta ad assicurare esecuzione alle sentenze della Corte, secondo quanto previsto dall'articolo 46 Cedu, per cui lo Stato membro responsabile della violazione non può limitarsi al risarcimento economico a titolo di equa soddisfazione, ma deve trovare mezzi e misure atti a rimuovere la violazione accertata;
infatti, la Corte di Strasburgo ha ingiunto allo Stato italiano di introdurre, entro il termine di un anno dal momento in cui la sentenza della Corte sarà divenuta definitiva, «un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte». In tale lasso di tempo la Corte sospenderà le procedure relative a tutti gli altri ricorsi analoghi attualmente pendenti e che allo stato attuale superano la soglia dei cinquecento –:
quale sia la sua posizione in merito all'introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento e quali decisioni intenda adottare a riguardo, al fine di adempiere – nel rispetto della Costituzione e nello specifico degli articoli 2, 10 e 13 – gli impegni assunti in ambito internazionale concernenti il divieto di «tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti» e la tutela dei diritti umani, humus di un Paese democratico;
quali rimedi, preventivi e compensativi, intenda utilizzare per rimuovere la violazione accertata nella sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo dell'8 gennaio 2013, Causa Torreggiani e altri c. Italia. (4-01288)
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