LAVORO (RAPPORTO DI)
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-03-2013, n. 5961
LAVORO (RAPPORTO DI)
Licenziamento
per giusta causa
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMOROSO Giovanni - Presidente -
Dott. VENUTI Pietro - Consigliere -
Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere -
Dott. BALESTRIERI Federico - Consigliere -
Dott. MAROTTA Caterina - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 24166-2010 proposto da:
(Lpd) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,-
- ricorrente -
contro
I.N.P.D.A.P., ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA PER I DIPENDENTI DELLA AMMINISTRAZIONE PUBBLICA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA n. 29 presso L'AVVOCATURA CENTRALE DELL'ISTITUTO, rappresentato e difeso dall'Avvocato MASSAFRA PAOLA, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 3089/2009 della CORTE D'APPELLO di BARI, depositata il 01/07/2010 R.G.N. 4314/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/12/2012 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;
udito l'Avvocato LOFOCO FABRIZIO;
udito l'Avvocato MASSAFRA PAOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza della Corte di Appello di Bari n. 3089/2009 del 1 luglio 2010 veniva confermata la decisione di primo grado di rigetto del ricorso proposto da (Lpd) nei confronti dell'INPDAP, volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del provvedimento di licenziamento per giusta causa intimatogli, senza preavviso, con determinazione n. 88 del 4 dicembre 2001 della Direzione Generale dell'Istituto. Riteneva la Corte territoriale che il comportamento ascritto al D.M. (consistito nello svolgimento di attività di libero professionista a partire dall'11 gennaio 1997 e, quindi, in costanza di rapporto di lavoro ed in assenza delle prescritte autorizzazioni) avesse costituito violazione delle norme del T.U. n. 3 del 1957 e del D.Lgs. n. 165 del 2001 disciplinanti le incompatibilità ed esclusività per i pubblici dipendenti e comportanti la giusta causa del recesso.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso D.M. S. affidandosi a tre motivi.
Resiste con controricorso l'INPDAP. Il D.M. ha anche depositato memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. Con primo motivo il ricorrente denuncia: "Violazione o falsa applicazione del T.U. n. 3 del 1957, art. 63, comma 1, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 per contrasto insanabile tra la motivazione della sentenza in cui si richiama la pertinenza della norma relativa alla diffida e la successiva sua mancata applicazione al caso di specie". Deduce che la Corte territoriale pur richiamando la premessa di cui al T.U. n. 3 del 1957, art. 63 e cioè la necessità di una preventiva diffida a fare cessare la situazione di incompatibilità, tuttavia non ha applicato correttamente la medesima disposizione laddove nessuna conseguenza favorevole all'appellante ha fatto derivare dalla mancanza di tale diffida.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 26 - 30 del C.C.N.L. di categoria del 6 luglio 1995 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3". Deduce che la Corte territoriale ha errato nel non applicare in materia di licenziamento anche la norma pattizia e nel ritenere che la L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 60 e 61, sia sostitutiva del T.U. n. 3 del 1957, artt. da 60 a 64. Rileva che il C.C.N.L. individua procedure e sanzioni applicabili secondo un meccanismo di graduazione rapportato alla gravità dell'infrazione laddove la L. n. 662 del 1996 prevede solo la giusta causa di recesso per il pubblico dipendente che contravvenga al divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia: "Insufficiente ed erronea motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5". Deduce che la Corte territoriale ha errato nel prescindere da ogni valutazione in ordine alla proporzionalità della sanzione rispetto al comportamento contestato.
4. Va preliminarmente disattesa l'eccezione, sollevata dall'INPDAP, della inammissibilità del ricorso.
Si osserva, innanzitutto, che solo a far data dal 1 gennaio 2012 - per effetto del decreto legge numero 201 del 6 dicembre 2011, poi convertito con modifiche nella L. 27 dicembre 2011, n. 214 - l'INPDAP è confluito in I.N.P.S. (e, dunque, dopo la notifica del presente ricorso). Nè tale successione ex lege (che, peraltro, a ben guardare si sostanzia in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo) può incidere sul giudizio di legittimità posto che in quest'ultimo, che è dominato dall'impulso d'ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge.
Neppure può considerarsi nulla la notifica del ricorso per cassazione per il fatto di contenere, per un mero refuso di stampa, il riferimento, nella parte della relazione di notifica, ad un nominativo non corrispondente al ricorrente ed ad una procedura giudiziaria diversa, in quanto il contenuto dell'atto notificato consentiva di escludere ogni incertezza sul soggetto e l'oggetto del ricorso per cassazione.
In conseguenza le suddette erronee indicazioni costituiscono mere irregolarità, inidonee ad impedire il raggiungimento dello scopo dell'atto.
5. Tanto premesso, il primo di motivo di ricorso è inammissibile.
Si duole, infatti, il ricorrente di una violazione di legge sub specie di violazione del T.U. n. 3 del 1957, art. 63, comma 1, ed individua tale vizio nell'aver il giudice di appello affermato l'indispensabilità della diffida di cui al T.U. n. 3 del 1957, art. 63 quale premessa rispetto agli ulteriori comportamenti dell'amministrazione e pur tuttavia nel non aver correttamente applicato tale norma laddove alcuna conseguenza favorevole al ricorrente ha ricollegato al fatto che nessuna diffida era stata al medesimo inviata.
In realtà, la Corte di merito, pur partendo dalla premessa sopra ricordata, ha ricondotto la non necessità della preventiva diffida alla sopravvenuta L. 23 dicembre 1996, n. 662 e con compiuta argomentazione ha spiegato anche le ragioni per cui l'art. 1, comma 61 di tale legge, che qualifica come giusta causa di recesso la violazione del divieto di cui al comma 60 (il quale ha reso più rigoroso il sistema di cui al T.U. n. 3 del 1957, eliminando la necessità della diffida e prevedendo che, senza l'opzione per il tempo parziale nella misura del 50%, continuano ad essere vietate altre attività di lavoro autonomo salvo autorizzazione di legge e di altra normativa), sopravvive rispetto al D.Lgs. n. 165 del 2001. Ad avviso della Corte territoriale, infatti, tale sopravvivenza trova fondamento nella previsione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1, ult. parte, il quale prevede che resta ferma, tra le altre, la disciplina dettata dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, artt. 57 e seguenti.
Tale passaggio della motivazione in diritto non ha formato oggetto di specifica censura da parte del ricorrente il quale si è limitato sostanzialmente a riproporre le stesse censure poste al giudice del gravame (e da questi superate) e ad enunciare una violazione del T.U. n. 3 del 1957, art. 63, comma 1, e ad invocare l'applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001 laddove, come si rileva dalla sentenza, è stato ritenuto che tale D.Lgs. lungi dall'aver implicitamente abrogato la L. n. 662 del 1996, art. 61, comma 1, ne ha anzi confermato il più rigoroso sistema.
In buona sostanza, non consente il motivo di ricorso di individuare il collegamento tra detta enunciata violazione e la sentenza impugnata e le argomentazioni che la sostengono nè quindi di cogliere le ragioni per cui se ne chiede l'annullamento, non essendo a tal fine sufficiente il mero richiamo al contenuto del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1.
Nè il motivo chiaramente indica le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza, non ponendo, così, questa Corte in grado di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione.
6. Il secondo e terzo motivo di ricorso, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.
Preliminare è innanzitutto una ricostruzione della normativa relativa all'istituto della decadenza per incompatibilità, disciplinato dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 60 e seguenti, istituto mantenuto come tale nell'ambito dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazione "non privatizzati" e sostituito, nella denominazione, ancorchè non nei presupposti e più in generale nella disciplina di legge, dal recesso per giusta causa nell'ambito dei rapporti di lavoro "privatizzati".
Dispone l'art. 60 (Casi di incompatibilità) che l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, nè alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente.
Gli artt. 61 e 62 descrivono attività extraistituzionali che possono, a certe condizioni, ritenersi compatibili. L'art. 63 (Provvedimenti per casi di incompatibilità) stabilisce che l'impiegato che contravvenga ai divieti posti dagli artt. 60 e 62 viene diffidato dal Ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità (comma 1). La circostanza che l'impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l'eventuale azione disciplinare (comma 2); decorsi quindici giorni dalla diffida, senza che l'incompatibilità sia cessata, l'impiegato decade dall'impiego (comma 3). La decadenza è dichiarata con decreto del Ministro competente, sentito il Consiglio di amministrazione (comma 4). L'art. 64, infine, pone l'obbligo di denuncia dei casi di incompatibilità a carico del responsabile del servizio.
La materia concernente la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l'impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici è stata sottratta (a differenza di quella disciplinare) alla contrattazione collettiva e riservata alla legge. Si veda quanto sul punto prevede la L. 23 ottobre 1992, n. 423, art. 2, comma 1, lett. c), n. 7 secondo il quale "sono regolate con legge, ovvero, sulla base della Legge o nell'ambito dei principi dalla stessa posti, con atti normativi o amministrativi, (...) la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l'impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici" -, norma sulla quale alcun effetto abrogativo ha avuto la L. 15 marzo 1997, n. 59, successivo art. 11, comma 4 che ha solo previsto nuovi criteri direttivi di delega in modo da attuare il "principio della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni", senza toccare testualmente il regime delle incompatibilità e del cumulo di impieghi. Si veda anche il D.Lgs. n. 165 del 2001, art 69, comma 1.
La ragione di tale riserva di legge è da rinvenirsi nel fatto che il regime delle incompatibilità fra prestazione lavorativa alle dipendenze della pubblica amministrazione ed attività concomitanti è espressione di un principio a rilevanza costituzionale che lo rende sostanzialmente indisponibile per entrambi gli attori del relativo rapporto di lavoro.
Il principio di esclusività costituzionalmente garantito dall'art. 98 Cost., comma 1, vincola, infatti, il pubblico dipendente a riservare al disbrigo dell'attività di ufficio tutta la propria energia lavorativa, essenzialmente per garantire il migliore standard professionale possibile, per evitare l'insorgenza di conflitti di interesse fra pubblica amministrazione e terzi, e per tutelare il prestigio e l'imparzialità di quest'ultima.
Come precisato nella sentenza impugnata, il sistema è, in parte cambiato, con la L. 23 dicembre 1996, n. 662 che ha riconosciuto a tutti (tranne che al personale militare, a quello delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco militari ed a quello "non privatizzato") la possibilità di eliminare le incompatibilità di lavoro autonomo a condizione di passare per il 50% a tempo parziale. Se, dunque, da una parte tale legge è andata incontro alle esigenze di chi intendesse svolgere la libera professione pur in presenza di un lavoro dipendente, dall'altra ha reso più rigoroso il sistema eliminando la previa necessità della diffida e prevedendo che, senza il tempo parziale, continuano ad essere vietate altre attività di lavoro autonomo salvo autorizzazione di legge e di altra normativa. Soprattutto ha previsto che la violazione del divieto di attività non autorizzata costituisce una giusta causa di recesso ("rapporto di impiego privatizzato") e di decadenza ("rapporto di impiego non privatizzato").
Nella materia sono, quindi, intervenuti, il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 26 nonchè il D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 16, il D.Lgs. n. 29 del 1993, l'art. 58 il cui testo è oggi riprodotto nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53 (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi). In particolare, dispone il comma 1: "Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli art. 160 e seguenti del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall'art. 23- bis del presente decreto, nonchè, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dal D.P.C.M. 17 marzo 1989, n. 117, art. 6, comma 2, e dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 57 e seguenti.
Restano ferme altresì le disposizioni di cui al D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, art. 267, comma 1, artt. 273, 274 e 508 nonchè art. 676, alla L. 23 dicembre 1992, n. 498, art. 9, commi 1 e 2, alla L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 4, comma 7, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina". Gli altri commi dello stesso articolo si occupano, con norme dichiarate espressamente applicabili sia ai dipendenti a regime di diritto pubblico sia a quelli "contrattualizzati", dello svolgimento di attività extraistituzionali (incarichi), disciplinandone le condizioni di legittimità e prevedendo poteri di autorizzazione dell'amministrazione.
Dunque, per il personale, contrattualizzato e non (compresi i dipendenti pubblici per i quali vigeva in precedenza una disciplina speciale, quali i dipendenti degli enti del parastato di cui alla L. n. 70 del 1975, art. 8), in regime di tempo pieno o di tempo parziale superiore al 50% dell'orario pieno, il combinato disposto del richiamato art. 53, D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60, L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56 e ss., ribadisce e rafforza il divieto di intraprendere attività lavorative, anche professionali, ulteriori.
La norma dettata dal richiamato art. 53, comma 1, ha, poi, ha fatto salve le disposizioni speciali in materia di incompatibilità già vigenti.
Con la disciplina organica di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 permane anche la prefigurazione di una responsabilità disciplinare di fonte legale (terminologia, questa, più adatta al rapporto di lavoro privatizzato rispetto a quella di una sopravvenuta perdita dei requisiti di indipendenza e totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro, più consona alla decadenza dal rapporto di lavoro non contrattualizzato), nella quale la determinazione del contenuto della fattispecie contro ius è sottratta alla contrattazione collettiva nazionale di comparto. Ciò evidentemente vale anche per la determinazione della sanzione da applicare, dal momento che la sua violazione è qualificata ex lege come giusta causa di recesso dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 61, norma cui fa riferimento il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1.
E', dunque, la violazione in sè del divieto di svolgere altra attività lavorativa che, per volontà del legislatore, riconduce, nell'ipotesi di rapporto contrattualizzato, alla giusta causa di recesso.
Nella controversia in esame viene in considerazione il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58, come modificato ed integrato dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56 e ss. ed il cui testo è riprodotto nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Tale norma richiama espressamente il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60 nella parte in cui vieta all'impiegato lo svolgimento di attività professionale ulteriore.
Nella specie la contestazione rivolta al D.M. afferiva allo svolgimento dell'attività di libero professionista sin dall'11 gennaio 1997 con partita IVA 04948191725 e sede dello studio presso la propria abitazione.
Si trattava, dunque, di una attività già in sè idonea ad integrare l'elemento oggettivo della disposizione in esame (cui consegue l'applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 63, come espressamente sancito dall'art. 53, cit.), senza che risultasse necessaria una valutazione sulla intensità dell'impegno ovvero dei riflessi negativi riscontrabili sul rendimento nel servizio e sull'osservanza dei doveri di ufficio.
Infatti, quando è la legge stessa ad operare una valutazione di gravità dell'infrazione disciplinare e di congruità della relativa sanzione espulsiva, resta interdetto ogni ulteriore margine di valutazione ad opera del giudice (cfr. in tal senso, tra le più recenti, Cass. n. 15098 dell'8 luglio 2011).
Ciò rende ininfluenti i rilievi difensivi afferenti alla omessa valutazione della gravità della sanzione tanto in rapporto alla graduazione prevista dal C.C.N.L. di categoria del 6 luglio 1995 quanto con riferimento alla proporzionalità tra il comportamento contestato e la sanzione comminata.
Il ricorso deve, di conseguenza essere rigettato.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo tenendo conto del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (che, all'art. 41 stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all'entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012) ed avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nell'art. 4 del D.M. e delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell'Istituto resistente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2013
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