Translate
mercoledì 12 giugno 2019
N. 141 SENTENZA 6 marzo - 7 giugno 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Reati e pene - Reclutamento e favoreggiamento della prostituzione. - Legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8). - (GU n.24 del 12-6-2019 )
N. 141 SENTENZA 6 marzo - 7 giugno 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Reati e pene - Reclutamento e favoreggiamento della prostituzione.
- Legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione
della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della
prostituzione altrui), art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte,
e 8).
-
(GU n.24 del 12-6-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3, primo
comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n.
75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta
contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), promosso dalla
Corte d'appello di Bari, nel procedimento penale a carico di G. T. e
altri, con ordinanza del 6 febbraio 2018, iscritta al n. 71 del
registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 2018.
Visti gli atti di costituzione di G. T. e di M. V., nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e gli
atti di intervento dell'Associazione Rete per la Parita' e altre e
dell'Associazione Differenza Donna Onlus;
udito nell'udienza pubblica del 5 marzo 2019 il Giudice relatore
Franco Modugno;
uditi gli avvocati Antonella Anselmo per l'Associazione Rete per
la Parita' e altre, Maria Teresa Manente per l'Associazione
Differenza Donna Onlus, Nicola Quaranta per G. T., Ascanio Amenduni e
Gioacchino Ghiro per M. V. e l'avvocato dello Stato Gabriella
Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 6 febbraio 2018, la Corte d'appello di Bari
ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma,
27 e 41 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge
20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della
prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione
altrui), «nella parte in cui configura come illecito penale il
reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione
volontariamente e consapevolmente esercitata».
1.1.- La Corte rimettente premette di essere investita
dell'appello avverso la sentenza del Tribunale di Bari del 13
novembre 2015, che ha dichiarato i quattro imputati appellanti
colpevoli, in rapporto a distinti capi di imputazione, del delitto di
reclutamento di persone a fini di prostituzione, di cui all'art. 3,
primo comma, numero 4), della legge n. 75 del 1958, e - limitatamente
a uno degli appellanti - anche del delitto di favoreggiamento della
prostituzione, di cui al numero 8) del medesimo art. 3.
Con riguardo ad alcuni dei capi di imputazione, il Tribunale ha
ritenuto, altresi', assorbito il delitto di favoreggiamento,
originariamente contestato agli imputati, in quello di reclutamento,
per il quale e' stata pronunciata condanna. Di conseguenza, ove in
esito al giudizio di appello dovesse essere riformata la condanna per
il reato di reclutamento, riemergerebbe l'esigenza di valutare la
responsabilita' degli imputati per il reato gia' dichiarato
assorbito.
La Corte barese riferisce, per altro verso, che i fatti oggetto
di giudizio sono costituiti, nella sostanza, «dall'aver gli imputati
organizzato, in favore dell'allora premier S[...] B[...], incontri
con escort occasionalmente o professionalmente dedite alla
prostituzione»: dovendosi intendere per «escort», secondo «la piu'
comune e consolidata accezione del termine», «l'accompagnatrice
ovvero la persona retribuita per accompagnare qualcuno e che e'
disponibile anche a prestazioni sessuali», con esclusione, quindi,
delle forme di esercizio della prostituzione a carattere coattivo o
«necessitato da ragioni di bisogno». Le condotte per le quali si
procede si collocherebbero, dunque, in un contesto che non implica
costrizioni incidenti sulla determinazione della prostituta di
effettuare prestazioni sessuali a pagamento.
Le questioni sollevate - intese a censurare la configurazione
come illecito penale del reclutamento e del favoreggiamento della
prostituzione, anche quando si tratti di prostituzione liberamente e
volontariamente esercitata - sarebbero, di conseguenza, rilevanti ai
fini della decisione sul gravame. Il loro accoglimento imporrebbe,
infatti, la riforma della sentenza appellata e l'assoluzione degli
imputati, per non essere i fatti loro contestati piu' previsti come
reato.
1.2.- Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, la Corte
pugliese assume che il «fenomeno sociale della prostituzione
professionale delle escort» rappresenterebbe un elemento di «novita'»
atto a far dubitare della legittimita' costituzionale della legge n.
75 del 1958, ideata in un'epoca storica nella quale il fenomeno
stesso non era conosciuto e «neppure concepibile».
Verrebbe, al riguardo, segnatamente in rilievo il «principio
della liberta' di autodeterminazione sessuale della persona umana»:
liberta' che, nel caso delle escort, si esprimerebbe nella scelta di
disporre della propria sessualita' «nei termini contrattualistici
dell'erogazione della prestazione sessuale contro pagamento di denaro
o di altra [...] utilita'». Si sarebbe al cospetto di un diritto
costituzionalmente protetto: con la sentenza n. 561 del 1987, la
Corte costituzionale ha, infatti, affermato che la sessualita'
rappresenta «uno degli essenziali modi di espressione della persona
umana», sicche' «il diritto di disporne liberamente e' senza dubbio
un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni
soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra
i diritti inviolabili della persona umana che l'art. 2 Cost. impone
di garantire».
La liberta' di esercitare la prostituzione non sarebbe stata, in
verita', misconosciuta dalla legge n. 75 del 1958. Essa era
concepita, tuttavia, dal legislatore dell'epoca essenzialmente come
esigenza di sottrarre le prostitute allo sfruttamento e al «potere
organizzativo» altrui: finalita' alle quali era preordinata la
disposta abolizione delle case di prostituzione. Nell'odierno
contesto storico, di contro, il concetto di liberta' assumerebbe «una
connotazione ben piu' positiva e piena»: la scelta di prostituirsi
verrebbe in evidenza, cioe', «come modalita' autoaffermativa della
persona umana, che percepisce il proprio se' in termini di erogazione
della propria corporeita' e genitalita' (e del piacere ad essa
connesso) verso o contro la dazione di diversa utilita'».
La collocazione della liberta' di autodeterminazione sessuale -
e, con essa, della scelta di offrire sesso a pagamento - nell'ambito
della tutela accordata dall'art. 2 Cost. imporrebbe, peraltro, di
rimuovere ogni interferenza normativa che ostacoli la sua piena
esplicazione.
L'inviolabilita' di tale diritto sarebbe intaccata, in specie,
dalla sottoposizione a pena di attivita' di terzi che, senza
interferire sulla libera autodeterminazione delle escort, si
connettono al carattere "relazionale" della liberta' considerata, in
quanto volte a mettere le escort stesse in contatto con i clienti
(come nel caso del reclutamento), ovvero a permettere un piu' comodo
esercizio della loro attivita' (come nell'ipotesi del
favoreggiamento).
Nello spaziare - come nella vicenda oggetto del giudizio a quo -
«dal persuasivo convincimento sulla bonta' del cliente
all'indicazione delle modalita' di presentazione della escort allo
stesso», il reclutamento delle libere prostitute professionali si
collocherebbe all'interno del «libero incontro sul mercato del sesso
tra domanda ed offerta», andando a supportare «il preminente
interesse delle escort a segnalarsi».
Un discorso similare varrebbe anche per l'ipotesi del
favoreggiamento: fattispecie che colpisce non la fase di
intermediazione tra domanda e offerta della prestazione sessuale, ma
quella di concreta attuazione della scelta di prostituirsi, e che
rappresenterebbe un «formidabile deterrente» al compimento, da parte
di terzi, di condotte che agevolino, anche in modo minimale,
l'esercizio della prostituzione (quale - come anche nel caso di
specie - la messa a disposizione di una autovettura per accompagnare
la escort presso il luogo di incontro con il cliente, o per
prelevarla da tale luogo).
Ne' a diversa conclusione potrebbe pervenirsi ipotizzando che le
condotte considerate siano idonee a offendere la moralita' pubblica o
il buon costume. La tutela di tali valori resterebbe, infatti,
comunque sia, recessiva di fronte all'inviolabilita' del diritto di
cui si discute.
1.3.- Le previsioni punitive censurate violerebbero, al tempo
stesso, la liberta' di iniziativa economica privata, garantita
dall'art. 41 Cost., di cui pure la prostituzione delle escort
costituirebbe espressione, stante il carattere normalmente
professionale dell'attivita' di erogazione di prestazioni sessuali
verso corrispettivo: attivita' che, d'altra parte, viene considerata
fonte di redditi tassabili.
In base al dettato costituzionale, l'iniziativa economica in
questione dovrebbe essere libera, nella stessa misura in cui e'
libera la scelta che sta a monte di essa (ossia quella di utilizzare
la propria «corporeita'» in funzione lucrativa). Cio' escluderebbe
che forme di supporto all'iniziativa, quali quelle
dell'intermediazione e del favoreggiamento, possano essere
disincentivate tramite la loro configurazione come illeciti penali,
impedendo cosi' all'attivita' economica in parola di evolversi al
pari di tutte le altre forme imprenditoriali.
Il vulnus che ne deriva sarebbe «davvero rimarchevole», ove si
consideri che alla escort dedita abitualmente alla suddetta attivita'
viene preclusa la possibilita' di assumere personale per curarne la
collocazione sul mercato o per pubblicizzarla, mentre alla escort che
esercita occasionalmente il meretricio verrebbe interdetta la stessa
possibilita' di inserirsi nel mercato, non potendo ella valersi di
collaboratori per avviare un esercizio dell'attivita' a carattere
professionale.
Si tratterebbe, in pratica, di una ingiustificata
«ghettizzazione» del libero esercizio di una peculiare attivita' di
lavoro autonomo, rispetto ad altre «forme di professionalita'»
riconosciute dall'ordinamento.
1.4.- Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto,
ancora, con il principio di offensivita', desumibile dagli artt. 13,
25, primo [recte: secondo] comma, e 27 Cost., in forza del quale non
vi puo' essere reato senza l'offesa di un bene giuridico tutelato
dall'ordinamento.
La Corte rimettente rileva, in proposito, come appaia
definitivamente superata la tesi che individua il bene giuridico
protetto dalle disposizioni penali della legge n. 75 del 1958 nel
valore "paternalistico" della pubblica moralita', a favore di quella
che lo identifica nella persona umana e nella sua liberta' di scelta
in campo sessuale: in sostanza, dunque, nella stessa liberta' di
autodeterminazione sessuale qualificabile come diritto inviolabile
dell'uomo in base all'art. 2 Cost.
Del resto, all'iniziale collocazione dei reati in materia di
prostituzione nel Titolo IX del Libro II del codice penale (dedicato
ai delitti contro la moralita' pubblica e il buon costume), ha fatto
seguito, proprio con la legge n. 75 del 1958, l'esodo da tale
partizione normativa, al quale si e' poi aggiunto il «depauperamento»
dello stesso Titolo IX operato dalla legge 15 febbraio 1996, n. 66
(Norme contro la violenza sessuale), che avrebbe sancito il
«definitivo oscuramento» della tutela della morale pubblica e del
buon costume nei reati sessuali, ora annoverati tra i delitti contro
la liberta' personale (Capo III del Titolo XII). Passaggio, questo,
in qualche modo preannuciato dalla citata sentenza n. 561 del 1987
della Corte costituzionale.
La giurisprudenza di legittimita' si sarebbe, d'altro canto,
univocamente espressa in tale direzione. Essa avrebbe riconosciuto,
infatti, che la legge n. 75 del 1958 tutela la liberta' di
determinazione della donna nel compimento di atti sessuali, evitando,
con la minaccia della pena, che l'esercizio del meretricio possa
essere frutto di scelta condizionata da forme di coazione o di
sfruttamento (sono citate, in sequenza, Corte di cassazione, sezione
terza penale, sentenza 8 giugno 2004-2 settembre 2004, n. 35776;
sezioni unite penali, sentenza 19 dicembre 2013-14 aprile 2014, n.
16207; sezione terza penale, sentenza 22 settembre 2015-17 dicembre
2015, n. 49643).
Anche la Corte europea dei diritti dell'uomo, nella sentenza 11
settembre 2007, Tremblay contro Francia, ha d'altro canto ritenuto
che la prostituzione deve essere considerata incompatibile con i
diritti e la dignita' della persona solo quando costituisca oggetto
di costrizione.
In quest'ottica, tuttavia, le disposizioni incriminatrici
censurate violerebbero il principio di offensivita', posto che le
condotte tanto di reclutamento quanto di favoreggiamento non solo non
recano alcuna offesa alla liberta' di autodeterminazione della
persona che si prostituisce, ma addittura ne facilitano la piena
attuazione. Se la escort sceglie liberamente di offrire sesso a
pagamento, chi «le da' una mano» nella realizzazione di tale scelta
«produce un vantaggio e non un danno allo stesso bene giuridico
tutelato».
Ne' gioverebbe obiettare che la condotta ausiliatrice puo'
rappresentare il primo passo verso lo sfruttamento economico del
corpo della donna da parte di terzi. Lo sfruttamento della
prostituzione costituisce, infatti, nell'articolazione della legge n.
75 del 1958, una fattispecie di reato autonoma rispetto a quelle di
reclutamento e di favoreggiamento: e, anzi, proprio la pretesa di
collegare l'offensivita' delle condotte incriminate alla loro
supposta capacita' di interferire con altre fattispecie penalmente
rilevanti dimostrerebbe come esse non siano dotate, da sole, di
«intrinseca offensivita'».
Egualmente inaccoglibile risulterebbe l'ulteriore tesi addotta a
sostegno dell'offensivita' della condotta agevolatrice, basata
sull'assunto che le sole condotte penalmente rilevanti sarebbero
quelle dotate di rilevanza causale rispetto al concreto esercizio
della prostituzione. Infatti, se per condotta agevolatrice causale si
intende la prestazione di un ausilio che consenta l'attuazione della
liberta' di autodeterminazione sessuale della escort, che altrimenti
non si sarebbe potuta esplicare, non vi sarebbe ragione per
considerare penalmente rilevante la condotta stessa, rappresentando
essa lo strumento piu' idoneo per la realizzazione dello stesso
interesse protetto. Se, invece, per condotta ausiliatrice causale si
intende quella che incide sul processo di formazione della volonta'
della escort, si ricade nella distinta ipotesi dell'induzione alla
prostituzione, autonomamente punita dalla legge n. 75 del 1958.
Al fine di circoscrivere le condotte di agevolazione capaci di
offendere il bene protetto non potrebbe farsi neppure ricorso
all'«abusata» distinzione tra «favoreggiamento della prostituzione» e
«favoreggiamento della prostituta», configurando come condotta
agevolativa causale solo il primo. Tale distinzione si risolverebbe,
infatti, in una forzatura concettuale, posto che ogni condotta di
favoreggiamento puo' essere riguardata sia dal punto soggettivo, come
aiuto alla prostituta, sia da quello oggettivo, come aiuto alla
prostituzione. Per giunta, la distinzione in parola non
corrisponderebbe neppure a quella tra agevolazione causale e non:
favorire una prostituta ben potrebbe tradursi, infatti, in un ausilio
causale (come nel caso della prostituta che abbia accettato un
incontro sessuale in zona non servita da mezzi pubblici, solo perche'
il cliente si e' offerto di riaccompagnarla presso «la postazione di
lavoro»), cosi' come un aiuto non causale potrebbe essere idoneo a
favorire la prostituzione (come nel caso del terzo che riabiliti
l'utenza telefonica cellulare della prostituta, rendendola
rintracciabile dai clienti).
1.5.- Tali ultime considerazioni inducono la Corte rimettente a
prospettare - limitatamente alla fattispecie del favoreggiamento
della prostituzione - anche la violazione del principio di legalita'
enunciato dall'art. 25, secondo comma, Cost., nelle declinazioni
della tassativita' e della determinatezza.
Il problema non si porrebbe in rapporto alla fattispecie del
reclutamento, in quanto la formulazione della relativa norma
incriminatrice esigerebbe soltanto di "attualizzare" la nozione di
«reclutamento», connessa storicamente alla volonta' legislativa di
eliminare lo sfruttamento della prostituzione esercitata nelle «case
chiuse».
Per converso, la configurazione del favoreggiamento della
prostituzione come reato a forma libera («chiunque in qualsiasi modo
favorisca [...] la prostituzione altrui»), senza che sia in alcun
modo definita la nozione di favoreggiamento, diversamente da quanto
e' avvenuto per i reati di favoreggiamento personale e reale (artt.
378 e 379 cod. pen.) - scelta motivata dall'intento di garantire il
piu' ampio spazio di tutela al bene protetto - produrrebbe la
paradossale conseguenza di rendere necessaria una selezione delle
condotte penalmente rilevanti non in ragione della loro conformita'
alla fattispecie astratta, ma in rapporto alla loro concreta
capacita' di offendere l'interesse protetto. Il che equivarrebbe al
riconoscimento dell'inadeguatezza costituzionale della costruzione
della fattispecie.
Tale inadeguatezza si apprezzerebbe con riguardo non tanto alla
formula normativa «favorisca [...] la prostituzione altrui», quanto
piuttosto al «raddoppio d'indeterminatezza» di tale generica
previsione conseguente all'utilizzazione dell'espressione «in
qualsiasi modo», a fronte della quale «la sanzione penale pare
davvero non conoscere limiti al suo spazio operativo».
Infruttuoso, per quanto detto, sarebbe il tentativo di superare
il difetto di determinatezza della fattispecie a mezzo della
distinzione, concettualmente scorretta, tra ausilio alla
prostituzione e ausilio alla prostituta. Ove tale opzione
interpretativa fosse recepita, si produrrebbe, peraltro, una «ancor
piu' inaccettabile» violazione del principio di uguaglianza, di cui
all'art. 3 Cost., poiche' condotte «di pacifica idoneita'
ausiliativa» verrebbero arbitrariamente sottratte alla sanzione
penale, diversamente da altre di pari efficacia.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o
infondate.
Ad avviso dell'interveniente, il giudice a quo avrebbe sollevato
le questioni al solo scopo di ottenere un avallo interpretativo. La
Corte rimettente non avrebbe, in particolare, esperito il doveroso
tentativo di fornire un'interpretazione costituzionalmente orientata
della norma censurata, verificando se gli stessi argomenti utilizzati
per sollevare la questione possano essere "specularmente" utilizzati
per escludere dall'area di incidenza del precetto talune fattispecie
concrete.
Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.
L'ordinanza di rimessione risulterebbe, infatti, inficiata da un
errore di prospettiva, quanto all'individuazione del bene giuridico
protetto, che il giudice rimettente riferisce all'intera legge n. 75
del 1958. Dall'esame della giurisprudenza di legittimita' emergerebbe
come, in realta', la ratio di tutela delle previsioni in questione
resti complessa, non esaurendosi nella sola protezione della liberta'
di determinazione della persona nella sfera sessuale, e come alle
diverse fattispecie contemplate dalla citata legge, e dal suo art. 3
in particolare, siano sottesi beni giuridici non esattamente
sovrapponibili. Il giudice a quo non avrebbe considerato, in specie,
che il citato art. 3, nell'incriminare le cosiddette condotte
parallele alla prostituzione, ha inteso proteggere la "dignita'
obiettiva" della persona che si prostituisce, rinvenendo in cio' la
sua «ratio primaria».
La stessa sentenza della Corte di cassazione n. 49643 del 2015,
richiamata dal rimettente, ha ritenuto, d'altro canto, manifestamente
infondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 3,
primo comma, numero 8), della legge n. 75 del 1958, in riferimento
agli artt. 2, 13, 19, 21, 25 e 27 Cost., escludendo che il concetto
di «agevolazione», nel quale si risolve la condotta di
favoreggiamento della prostituzione, violi i principi di legalita',
determinatezza e offensivita', come pure che la disposizione
incriminatrice contrasti con il principio di laicita' dello Stato.
3.- Si e' costituito G. T., imputato nel giudizio a quo, instando
per l'accoglimento delle questioni.
3.1.- La parte osserva come, alla luce della piu' recente
giurisprudenza di legittimita', sia indubbio che il bene giuridico
tutelato dalle disposizioni della legge n. 75 del 1958 vada
identificato - conformemente a quanto assume la Corte rimettente -
nella liberta' di autodeterminazione sessuale, liberta' ascrivibile
al novero dei diritti fondamentali della persona umana, in forza
dell'art. 2 Cost. Dovrebbe considerarsi, quindi, penalmente rilevante
qualsiasi condotta che leda tale diritto, inducendo la donna a
disporre in maniera non volontaria della propria sessualita'.
Come ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione, la donna
che decida liberamente e spontaneamente di offrire prestazioni
sessuali a pagamento opera una scelta legittima, stante la piena
liceita' giuridica della prostituzione. Nell'odierno contesto
sociale, ben lontano da quello in cui e' maturata la legge n. 75 del
1958, si assisterebbe non di rado all'effettuazione di libere scelte
in tale direzione, dando luogo al fenomeno delle escort.
In simile situazione, la frizione tra le norme censurate e l'art.
2 Cost. risulterebbe evidente, posto che le prime incriminano
condotte di terzi inidonee a incidere sulle scelte dalla donna, gia'
operate in modo autonomo, e che si risolvono, quindi, in
comportamenti meramente strumentali - e, anzi, di ausilio - rispetto
all'estrinsecazione della liberta' sessuale dell'interessata.
3.2.- Come rilevato nell'ordinanza di rimessione, il diritto in
questione potrebbe essere inquadrato anche nell'ambito della liberta'
di iniziativa economica privata, tutelata dall'art. 41 Cost., in
quanto la donna assumerebbe il ruolo di «imprenditore in forma
individuale del sesso».
A tale conclusione sarebbero giunte, del resto, tanto la Corte di
cassazione, che ha ravvisato nell'esercizio del meretricio, frutto di
una scelta non condizionata da forme di coazione o di sfruttamento,
un'attivita' del tutto libera e fonte di redditivita' tassabile;
quanto la Corte di giustizia dell'Unione europea, secondo la quale la
libera scelta di disporre in forma imprenditoriale del proprio corpo,
non solo e' lecita, ma e' altresi' qualificabile come «attivita'
economic[a] svolt[a] in qualita' di lavoro autonomo» (e' citata la
sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e altri).
Risulterebbe, quindi, anche per questo verso palese
l'incostituzionalita' delle norme denunciate, mediante le quali il
legislatore avrebbe inibito a livello penale forme di sostegno
all'iniziativa economica in discorso.
3.3.- Parimente leso sarebbe il principio di offensivita', alla
luce del quale potrebbero assumere rilevanza penale solo le condotte
idonee a ledere o a porre in pericolo il bene protetto,
rappresentato, nel caso della legge n. 75 del 1958, dalla liberta' di
autodeterminazione sessuale della persona: attitudine che non
avrebbero le condotte di reclutamento e di favoreggiamento che si
collochino in un contesto nel quale la volonta' della donna e' gia'
maturata.
Le condotte in questione non potrebbero essere, inoltre, tradotte
esegeticamente in un «primo passo verso lo sfruttamento economico
della prostituzione», cosi' come si afferma nella sentenza di primo
grado. In questo modo, infatti, da un lato verrebbe presupposta la
futura interazione causale tra la volonta' della donna, inizialmente
libera, e la condotta dell'agente; dall'altro, si opererebbe una
eccessiva anticipazione della reazione penale rispetto all'effettiva
lesione o messa in pericolo del bene giuridico. Cio', ferma restando
la configurabilita' delle autonome fattispecie dell'induzione e dello
sfruttamento della prostituzione allorche' ne sussistano
concretamente i presupposti.
3.4.- La Corte rimettente avrebbe, per altro verso, tentato di
fornire una lettura costituzionalmente orientata delle norme
censurate, giungendo - condivisilmente - a constatarne
l'impossibilita'.
Del tutto condivisibili risulterebbero, in specie, le conclusioni
del giudice a quo riguardo all'impossibilita' di avallare la
distinzione, operata dalla giurisprudenza, tra condotte penalmente
rilevanti, e non, a seconda del carattere causale dell'intervento del
terzo rispetto all'atto di prostituzione, posto che, nel caso delle
escort, la causalita' dell'intervento si traduce nel rispetto della
volonta' della «sex worker». Cosi' come inaccettabile risulterebbe
l'ulteriore distinzione tra favoreggiamento della prostituzione e
favoreggiamento della prostituta: distinzione assolutamente oscura -
non potendosi favorire l'una senza favorire l'altra - e priva di
agganci nella generica previsione normativa.
3.5.- In questa prospettiva, quella del favoreggiamento
resterebbe una figura criminosa indefinita, la cui descrizione
contrasterebbe con i principi di tassativita' e determinatezza.
Il legislatore avrebbe consegnato all'interprete una «fattispecie
onnivora», dai contorni vaghi e privi di capacita' discretiva tra
condotte agevolatrici in grado, o non in grado, di ledere o porre in
pericolo il bene tutelato, rimettendo, cosi', all'arbitrio del
giudice l'individuazione delle condotte incriminate.
L'irragionevole parificazione quoad poenam di situazioni
oggettivamente e soggettivamente diverse si tradurrebbe, al tempo
stesso, in una palese violazione dell'art. 3 Cost.
3.6.- La parte costituita sottolinea, da ultimo, come i piu'
recenti sviluppi giurisprudenziali e legislativi siano orientati nel
senso di una sempre crescente tutela dei diritti di liberta', al
punto da riconoscere spazi di esplicazione del principio di
autodeterminazione della persona persino con riferimento al bene
supremo della vita (sono citate, al riguardo, la sentenza della Corte
di cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748, e la
legge 22 dicembre 2017, n. 219, recante «Norme in materia di consenso
informato e di disposizioni anticipate di trattamento»).
Ancor piu' pertinenti all'odierno thema decidendum
risulterebbero, peraltro, altre espansioni dei diritti di liberta'
individuali, sempre ricollegabili all'art. 2 Cost., quali quelle
connesse al progressivo riconoscimento della liberta' di scelta in
relazione all'identita' sessuale e all'omosessualita', recentemente
sfociato nella legge sulle «unioni civili». Non si comprenderebbe,
quindi, perche' ad analoghi approdi non debba pervenirsi anche con
riguardo alla prostituzione volontaria.
4.- Si e' costituito anche M. V., altro imputato nel giudizio a
quo, chiedendo del pari l'accoglimento delle questioni.
4.1.- La parte osserva che l'obiettivo della legge n. 75 del 1958
era di tutelare delle donne che esercitavano la prostituzione nelle
cosiddette case chiuse. Nel contesto sociale dell'epoca, la donna non
poteva essere considerata totalmente libera di autodeterminarsi e
poteva, quindi, ritenersi o presumersi sfruttata.
Nei sessant'anni trascorsi dall'entrata in vigore della legge
molte cose sarebbero cambiate sul piano della parita' dei diritti fra
uomo e donna. Ma sarebbe profondamente cambiato anche il fenomeno
della prostituzione. Quest'ultima non e' piu' esercitata soltanto
dalla donna, ma si e' andata espandendo anche al genere maschile e a
nuove figure, "ibride" dal punto di vista sessuale, quali i
cosiddetti transgender. Inoltre, dagli anni '70 dello scorso secolo
si e' iniziato a parlare non piu' di prostitute, ma di «sex workers»
(ossia di lavoratori del sesso): fenomeno che e' sfociato in
documenti strutturati, quale la «Dichiarazione dei diritti dei/delle
sex workers in Europa», firmata a Bruxelles nel 2005 da
rappresentanti di organizzazioni aderenti a trenta Paesi.
Attualmente, la prostituzione non rappresenterebbe, dunque, un
fenomeno unitario, dovendosi individuare, al suo interno, almeno tre
«raggruppamenti generali»: la prostituzione «per costrizione», la
prostituzione «per necessita'» e la prostituzione «consapevole,
volontaria e professionale», frutto di libera scelta del soggetto che
decide di vendere il proprio corpo e le proprie abilita' sessuali per
denaro. Per lo piu', si tratta di una prostituzione "di lusso" o
agiata, esercitata nel chiuso «di private e talora sontuose dimore»,
proprie o del cliente, il quale versa un corrispettivo molto elevato.
E' in quest'ultimo raggruppamento che si colloca il fenomeno
delle escort: termine che identifica l'accompagnatore a pagamento,
disponibile ad avere rapporti sessuali con il cliente. Figura
totalmente inesistente all'epoca dell'emanazione della legge n. 75
del 1958.
Sotto diverso profilo, va considerato che, nel nostro ordinamento
- come univocamente affermato dalla Corte di cassazione, sia civile,
sia penale - la prostituzione - di la' dagli apprezzamenti di ordine
morale, dei quali il giudice, quale "osservatore laico", dovrebbe
peraltro disinteressarsi - costituisce una attivita' assolutamente
lecita e non sanzionabile da parte dell'ordinamento. Lo stesso Stato
italiano, tramite la sua giurisdizione tributaria, ha d'altra parte
richiesto alle prostitute di "pagare le tasse", sul presupposto che
la prostituzione costituisca «una prestazione di servizi retribuita,
che rientra nella nozione di attivita' economiche» (Corte di
cassazione, sezione quinta civile, sentenza 13 maggio 2011, n.
10578).
Si assisterebbe, dunque, a una «"schizofrenia" giurisdizionale»:
il giudice tributario pretende di tassare il reddito da meretricio al
pari di quello delle altre attivita' lavorative autonome, in vista di
un gettito fiscale; il giudice penale, invece, punisce chi, mediante
condotte meramente agevolatrici, come il semplice reclutamento,
facilita la produzione di detto reddito e del relativo gettito.
4.2.- Cio' posto, l'art. 3, primo comma, numero 4), della legge
n. 75 del 1958, nella parte in cui punisce il reclutamento della
prostituzione, verrebbe a porsi in palese contrasto con il diritto
soggettivo alla liberta' sessuale, garantito dall'art. 2 Cost.
Che la liberta' sessuale costituisca un diritto fondamentale
della persona sarebbe pacifico, essendo stato affermato dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 561 del 1987. Essa e' garantita,
altresi', da norme sovranazionali, quali gli artt. 8 e 14 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
La liberta' sessuale puo' essere intesa, d'altro canto, in due
accezioni: in senso negativo, come diritto della persona a non essere
sottoposta ad atti sessuali senza il suo libero consenso (diritto
tutelato dal codice penale negli artt. 609-bis e seguenti); in senso
positivo, come diritto del soggetto a porre in essere, anche a scopo
di lucro, una qualsiasi pratica sessuale in modo autodeterminato e
non lesivo di interessi altrui, valendosi, se del caso, dell'aiuto o
dell'intermediazione di terzi, pure remunerandoli. E proprio in
questa seconda accezione, di liberta' positiva, si inquadrerebbe oggi
la prostituzione libera e volontaria delle escort e quel che ruota
attorno a tale fenomeno.
Alla luce di tali considerazioni, tutte le condotte agevolative
della prostituzione dovrebbero essere considerate come non lesive
della libera scelta della prostituta di offrire la propria
sessualita' in cambio di denaro. Il reclutatore - che, in base alla
piu' recente interpretazione, e' colui che si attiva al fine di
collocare la prostituta nella disponibilita' di chi intende avvalersi
dell'attivita' di meretricio - si limita, infatti, a creare maggiori
possibilita' lavorative al libero professionista della prostituzione,
senza incidere sul processo decisionale di quest'ultimo.
L'attuale quadro normativo sarebbe inficiato, per converso, dalla
seguente antinomia: una liberta' dichiarata a parole, ma scoraggiata
e ostacolata «nei fatti e nel diritto», e trattata quindi in modo
deteriore rispetto a quella di qualsiasi altro libero professionista,
che, a differenza della escort, puo' lecitamente valersi di un
procuratore d'affari.
4.3.- In quest'ottica, l'art. 3, primo comma, numero 4), della
legge n. 75 del 1958 si rivelerebbe lesivo anche della liberta' di
iniziativa economica privata, garantita dall'art. 41 Cost.
La punibilita' del reclutatore discriminerebbe, infatti, la
prostituzione volontaria rispetto ad altre forme di lavoro autonomo,
le quali possono avvalersi di strumenti organizzativi e pubblicitari,
idonei ad agevolare i contatti professionali, senza ostacoli o
deterrenti. La prostituta, al contrario, pur potendo esercitare
liberamente la propria attivita' retribuita e produttiva di redditi
tassabili, non puo' valersi di chi la "ingaggi", la segnali o la
pubblicizzi, perche', cosi' facendo, lo renderebbe perseguibile
penalmente.
Togliendo alle escort professioniste la possibilita' di essere
"ingaggiate", come loro ambiscono per l'esercizio del loro lavoro,
non si farebbe altro che spingerle a cadere vittime delle reti
criminali della prostituzione "da strada", realizzando cosi' una
paradossale eterogenesi dei fini del legislatore.
4.4.- L'attuale previsione sanzionatoria del reclutamento ai fini
di prostituzione si porrebbe in contrasto anche con il principio di
offensivita'.
Superando l'originaria impostazione, in base alla quale la legge
n. 75 del 1958 doveva ritenersi posta a tutela della moralita'
pubblica e del buon costume, la Corte di cassazione avrebbe
individuato - in particolare, con la sentenza n. 16207 del 2014 - il
bene protetto nella sola liberta' di autodeterminazione del soggetto
protetto.
In questa prospettiva, la fattispecie sanzionatoria del
reclutamento non tutelerebbe alcun bene giuridico, giacche' la
condotta del reclutatore non inciderebbe causalmente sulla scelta del
soggetto di fare mercimonio della propria sessualita', limitandosi a
facilitare l'attuazione di tale libera scelta.
Al riguardo, sarebbe significativa la circostanza che, nel
giudizio a quo, il giudice di primo grado, pur respingendo
l'eccezione di illegittimita' costituzionale formulata dai difensori,
abbia negato alle escort il risarcimento del danno chiesto con la
costituzione di parte civile, rilevando come nessuna conseguenza
negativa sulla loro sfera psichica, emotiva o privata fosse derivata
dai fatti oggetto di giudizio. Anzi, dall'istruttoria dibattimentale
era emerso chiaramente come fossero le stesse escort a chiedere agli
imputati di essere ingaggiate, manifestandosi entusiaste per
l'«irripetibile opportunita' lavorativa» loro offerta, foriera anche
di vantaggi indiretti.
4.5.- La formulazione testuale dell'art. 3, primo comma, numero
4), della legge n. 75 del 1958 apparirebbe, infine, lesiva dei
principi di tassativita' e determinatezza.
La disposizione non consentirebbe, infatti, di individuare con
sufficiente precisione le condotte penalmente sanzionate, avvalendosi
di una «fraseologia tanto enfatica quanto generica» («chiunque
recluti una persona al fine di farle esercitare la prostituzione»).
In questo modo, il legislatore sarebbe venuto meno all'obbligo di
delineare con precisione la fattispecie di reato, cosi' da delimitare
l'ambito di discrezionalita' dell'autorita' giudiziaria e da offrire
alla conoscenza preventiva dei consociati un quadro normativo certo e
ben definito, idoneo ad orientare consapevolmente le loro azioni. In
presenza di una norma incriminatrice cosi' vaga, come quella sul
reclutamento, l'ermeneutica del giudice degenererebbe in una vietata
attivita' creativa di diritto, in spregio delle garanzie di legalita'
dei cittadini.
Anche il legislatore avrebbe avvertito, d'altra parte, l'esigenza
di modificare la legge n. 75 del 1958, senza tuttavia intervenire con
una riforma organica. Di recente, infatti, il decreto-legge 20
febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza
delle citta'), convertito, con modificazioni, in legge 18 aprile
2017, n. 48, avrebbe indirettamente operato una netta distinzione tra
la "prostituzione da strada", che nella quasi totalita' dei casi
avviene mediante costrizione, e quella volontaria esercitata in
appartamenti, sulla quale il decreto nulla ha disposto.
L'assimilazione dei due fenomeni, divenuta ormai intollerabile,
permarrebbe, tuttavia, nel trattamento delle fattispecie agevolative
della prostituzione.
5.- Sono intervenute nel giudizio di legittimita' costituzionale
l'Associazione Rete per la Parita', l'Associazione Donne in quota,
l'Associazione Coordinamento italiano della Lobby Europea delle
Donne/Lef-Italia, l'Associazione Salute Donna, l'Associazione UDI
(Unione Donne in Italia), l'Associazione Resistenza Femminista e
l'Associazione IROKO ONLUS, nonche' - con distinto atto -
l'Associazione Differenza Donna Onlus, le quali tutte hanno chiesto
che le questioni siano dichiarate infondate.
6.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una
memoria, insistendo affinche' le questioni siano dichiarate
inammissibili, ovvero infondate nel merito.
Al profilo di inammissibilita' gia' dedotto nell'atto di
intervento, connesso al fatto che il giudice a quo avrebbe richiesto
un avallo interpretativo e omesso di tentare una interpretazione
costituzionalmente orientata, l'Avvocatura generale dello Stato
aggiunge quello collegato alla discrezionalita' del legislatore in
materia di individuazione dei fatti da sottoporre a pena e delle
sanzioni loro applicabili: discrezionalita' il cui esercizio e'
suscettibile di sindacato in sede di legittimita' costituzionale solo
ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio.
Nel merito, quanto alla denunciata violazione dell'art. 2 Cost.,
la difesa dello Stato rileva come la giurisprudenza piu' recente,
tanto di legittimita' (Corte di cassazione, sezione terza penale,
sentenza 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593), quanto di merito
(Corte di appello di Milano, sentenza 7 maggio 2018-16 luglio 2018,
n. 3176) - al pari, peraltro, della stessa Corte costituzionale, gia'
nella sentenza n. 44 del 1964 - rinvengano il bene giuridico protetto
dalla legge n. 75 del 1958 anche nella dignita' delle persone che si
prostituiscono, per difenderle contro lo sfruttamento e la
strumentalizzazione da parte di terzi. In un ordinamento democratico
e pluralista la liberta' di disporre della propria sessualita' non
potrebbe spingersi, in effetti, sino al punto di incidere sulla
stessa dignita' della persona umana. Ne' sarebbe condivisibile la
distinzione tra la dignita' in senso oggettivo - intesa come un
qualcosa di esterno alla volonta' del soggetto e derivante da
parametri di tipo sociale e morale desumibili dall'opinione
collettiva o dalle norme di cultura di una certa societa' - e la
dignita' in senso soggettivo, in base alla quale ciascuna persona
capace di autodeterminarsi avrebbe un "suo" concetto di dignita',
diverso da soggetto a soggetto. Alla luce della posizione di
preminenza che la dignita' assume fra i beni protetti dalla
Costituzione, sarebbe piu' corretto ritenere che si tratti di un
«valore oggettivo e inderogabile da preservare».
Insussistente sarebbe anche la denunciata violazione dell'art. 41
Cost., poiche' la liberta' del singolo di perseguire il profitto e'
tutelata solo a condizione che non comprometta altri valori che la
Costituzione considera preminenti, tra i quali anzitutto - per
l'appunto - quello della dignita' umana.
Come rilevato, d'altro canto, dalla citata sentenza della Corte
d'appello di Milano in rapporto a una fattispecie concreta analoga a
quella oggetto del giudizio principale, una volta individuato il bene
giuridico protetto nella dignita' della persona umana, non sarebbe
ravvisabile alcuna violazione del principio di offensivita' "in
astratto", inteso, cioe', come precetto rivolto al legislatore,
impegnandolo a costruire fattispecie che implichino la lesione o la
messa in pericolo dell'interesse protetto. Le norme incriminatrici in
questione perseguono, infatti, lo scopo di impedire che le persone
dedite alla prostituzione vengano strumentalizzate, reclutate e
indotte, comunque sia, alla loro attivita'.
7.- Anche G. T. ha depositato memoria, insistendo nelle
conclusioni formulate in sede di costituzione.
7.1.- La parte costituita contesta la fondatezza dell'eccezione
di inammissibilita' per omessa sperimentazione dell'interpretazione
conforme, formulata dall'Avvocatura dello Stato, rilevando come, a
partire dalla sentenza n. 221 del 2015, la Corte costituzionale abbia
"depotenziato" il relativo onere, reputando sufficiente, ai fini
dell'ammissibilita' della questione, che il giudice a quo abbia
consapevolmente escluso la possibilita' di pervenire a una lettura
della norma costituzionalmente adeguata.
Peraltro, anche ad ammettere che la Corte rimettente non abbia
preso in considerazione in modo espresso una simile eventualita', si
tratterebbe di una mancanza «del tutto formale». Il "diritto vivente"
in materia di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione
sarebbe, infatti, «graniticamente fermo» nell'escludere ogni
rilevanza al consenso della persona offesa, ossia alla libera scelta
della persona che si prostituisce. A fronte di una posizione cosi'
consolidata, espressa dalla totalita' delle pronunce
giurisprudenziali sia di legittimita', sia di merito, l'eventuale
interpretazione evolutiva e costituzionalmente conforme del giudice a
quo avrebbe avuto «un impatto episodico ed effimero», portando poi,
verosimilmente, «ad una condanna finale dell'imputato».
7.2.- Nel merito, la medesima parte costituita rileva come -
contrariamente a quanto sostiene la difesa dello Stato - la sentenza
n. 35776 del 2004 della Corte di cassazione abbia segnato una svolta
nella giurisprudenza in tema di individuazione dell'interesse
protetto dalle disposizioni penali della legge n. 75 del 1958, con lo
spostamento dell'asse della tutela da beni giuridici statali, o
comunque sia pubblicistici e collettivi, quale la moralita' pubblica,
a beni individuali della persona, quale la dignita' e la liberta' di
autodeterminazione in materia sessuale. Nella cornice di questo
indirizzo, seguito anche da pronunce successive - come la sentenza n.
49643 del 2015 - il riferimento alla «dignita'» non potrebbe essere
inteso che in senso soggettivo, proprio perche' tale concetto viene
accostato a quello di «liberta'» della persona che si prostituisce.
E' ben vero, per altro verso, che la citata sentenza n. 49643 del
2015 ha ritenuto manifestamente infondate le eccezioni di
incostituzionalita' della fattispecie del favoreggiamento della
prostituzione. Le argomentazioni al riguardo addotte dalla Cassazione
non sarebbero, tuttavia, affatto persuasive.
Insuscettibile di avallo sarebbe, in specie, l'affermazione per
cui il principio di determinatezza non potrebbe dirsi violato solo
perche' «la norma penale manchi di definizioni precise che delineino
preventivamente i confini dell'illecito», potendosi a cio' facilmente
rimediare tramite una interpretazione costituzionalmente orientata,
cosi' come sarebbe avvenuto in rapporto alla fattispecie che qui
interessa. Il ragionamento sarebbe chiaramente scorretto, non
potendosi legittimare la mancanza di definizioni precise in una
disposizione penale rinviando alla giurisprudenza per delinearne le
fattezze a mezzo di interpretazioni costituzionalmente orientate.
D'altronde, le interpretazioni «offensivizzanti» prospettate dalla
giurisprudenza negli ultimi anni (quale quella basata sulla
distinzione tra aiuto alla prostituzione e aiuto alla prostituta) non
avrebbero affatto risolto i problemi indotti dalla «immane
incertezza» della norma incriminatrice, ma avrebbero anzi accresciuto
la confusione, tanto che su molti casi specifici si riscontrerebbero
contrasti interpretativi, con diverso trattamento di fatti analoghi o
addirittura identici.
Sotto altro profilo, la citata pronuncia della Corte di
cassazione - pur individuando correttamente il bene protetto nella
liberta' di autodeterminazione della prostituta - avrebbe escluso la
violazione del principio di offensivita' sulla base di un artificio
argomentativo: quello per cui l'agevolazione della prostituzione,
anche nel caso di prostitute "per libera scelta", costituirebbe «il
primo passo verso lo sfruttamento economico del corpo della
prostituta». Soluzione che implicherebbe una «esagerata anticipazione
della tutela» penale a uno stadio ancora precedente a quello del
semplice pericolo per il bene tutelato. Lo sfruttamento della
prostituta "per libera scelta" - se mai dovesse verificarsi in futuro
- non sarebbe certamente legato da un rapporto giuridicamente
rilevante con una condotta di «semplice e innocua agevolazione».
7.3.- Una particolare attenzione meriterebbe l'affermazione,
contenuta nell'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri, stando alla quale la legge n. 75 del 1958 proteggerebbe la
«dignita' oggettiva» della persona che si prostituisce.
L'individuazione in tale valore del bene protetto dalle
incriminazioni di settore - repentinamente operata, in effetti, dalle
«ultimissime» decisioni giurisprudenziali - rappresenterebbe un
tentativo per eludere le conseguenze del rilevato spostamento
dell'asse della tutela dalla moralita' pubblica al bene privatistico
della liberta' di autodeterminazione: impostazione che non potrebbe
non imporre la dichiarazione di incostituzionalita' delle fattispecie
del reclutamento e del favoreggiamento, ovvero la loro
reinterpretazione nel senso di dare rilievo, come fattore di
esclusione la punibilita', al consenso dell'avente diritto (nella
specie, la prostituta per libera scelta). Surrogando, come obiettivo
di tutela, la liberta' di autodeterminazione della prostituta con la
dignita' oggettiva della stessa, si ottiene, infatti, il risultato di
escludere la disponibilita' del bene protetto in capo alla
prostituta, cosi' da legittimare la repressione penale del
reclutamento e del favoreggiamento anche nei confronti di prostitute
per libera scelta.
La concezione della dignita' maggiormente rispondente alle
esigenze costituzionali sarebbe, tuttavia, quella soggettiva. Il
diritto penale, se usato per tutelare una dignita' "oggettiva"
imposta al singolo dall'alto, contro la sua liberta' di
autodeterminazione, si trasformerebbe, infatti, in uno strumento
oppressivo e autoritario. In realta', dietro a pretese concezioni
oggettive e invalicabili della dignita' umana si nasconderebbero
intenti moralistici, che sfociano in un "paternalismo morale"
inaccettabile come giustificazione di una norma incriminatrice.
8.- Pure M. V. ha depositato memoria, insistendo affinche' le
questioni siano accolte.
8.1.- La parte osserva che la legge n. 75 del 1958, nella
temperie storica dell'epoca, ha riconosciuto bensi' la liberta' della
donna di fare commercio del proprio corpo, ma «con molte riserve
etico-religiose»: dunque, ha inteso scoraggiare l'esercizio della
prostituzione punendo non solo - com'era giusto - lo sfruttamento, ma
anche le condotte di semplice aiuto.
Oggi, sessant'anni dopo, molte donne eserciterebbero l'attivita'
di escort volontariamente e senza costrizione alcuna, come vere e
proprie libere professioniste: sarebbe giusto, pertanto, che il
suddetto scoraggiamento - dovuto a pregiudizi morali - cessi e che
sia consentito anche a loro avere «un proprio staff organizzativo».
Del resto, anche le modelle, le spogliarelliste e alcune attrici,
come le "porno dive", in qualche modo fanno commercio del proprio
corpo, senza che chi ne agevola le attivita' venga punito.
La parte reputa, altresi', particolarmente significativa la
decisione recentemente assunta dalla Corte costituzionale in ordine
alla fattispecie dell'aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018),
nella quale si riconosce che il malato che versi in determinate
condizioni ha il diritto di decidere come morire e anche di farsi
aiutare in cio': dovendosi, al riguardo, tener conto di specifiche
situazioni, inimmaginabili all'epoca in cui la norma incriminatrice
dell'istigazione o aiuto al suicidio fu introdotta. Ma, se deve
ritenersi legittimo lasciare alla liberta' individuale la scelta di
disporre della propria vita in modo estremo e irreversibile, a
maggior ragione dovrebbe riconoscersi la possibilita' di disporre in
modo transitorio del proprio corpo, destinandolo al piacere sessuale
altrui per un corrispettivo.
8.2.- Anche M. V. contesta, poi, la fondatezza dell'eccezione di
inammissibilita' delle questioni per omessa sperimentazione
dell'interpretazione conforme, formulata dall'Avvocatura dello Stato.
L'interpretazione conforme non sarebbe, infatti, possibile, in
quanto si risolverebbe nella disapplicazione del testo normativo. Il
giudice a quo e' inoltre esonerato dal tentativo di interpretazione
conforme in presenza di un diritto vivente di segno contrario: e,
nella specie, il diritto vivente formatosi sul favoreggiamento
avrebbe tentato di adeguare tale figura di reato alle mutate esigenze
di tutela, ma elaborando distinzioni inutilizzabili perche' troppo
incerte e inadatte a dare attuazione al principio di offensivita',
oltre che a risolvere i problemi di indeterminatezza della
fattispecie.
Quanto al merito delle difese del Presidente del Consiglio dei
ministri, la parte privata ribadisce, in particolare, che la Corte di
giustizia, nella sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e
altri, ha dato mostra di considerare la prostituzione «un lavoro come
un altro», inquadrabile nella categoria delle libere professioni,
tanto da garantire a chi lo esercita il diritto di poterlo svolgere
in ogni Paese europeo in base al principio della libera circolazione
dei lavoratori.
Conseguentemente, sarebbe mutato anche il concetto di «dignita'».
Il diritto penale potrebbe tutelare la dignita' solo in senso
soggettivo, e non oggettivo, non potendosi sottoporre a pena un
comportamento solo perche' considerato poco dignitoso dalla
maggioranza della popolazione, ovvero in base alla "morale di Stato",
a meno di voler far «rivivere il tramontato Stato etico d'infausta
memoria».
9.- Hanno depositato memoria anche l'Associazione Rete per la
Parita', l'Associazione Donne in quota, l'Associazione Coordinamento
italiano della Lobby Europea delle Donne/Lef-Italia, l'Associazione
Salute Donna, l'Associazione UDI (Unione Donne in Italia),
l'Associazione Resistenza Femminista e l'Associazione IROKO ONLUS,
eccependo l'inammissibilita' delle questioni, in quanto intese a
chiedere un intervento che rientra nella discrezionalita' del
legislatore, e sviluppando ulteriormente, nel merito, le critiche
all'impianto argomentativo dell'ordinanza di rimessione formulate con
l'atto di intervento.
10.- Con ordinanza pronunciata all'udienza pubblica del 5 marzo
2019 questa Corte ha dichiarato, peraltro, inammissibili gli
interventi ad opponendum delle Associazioni ora indicate e quello
dell'Associazione Differenza Donna Onlus.
Considerato in diritto
1.- La Corte d'appello di Bari dubita della legittimita'
costituzionale dell'art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e
8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della
regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento
della prostituzione altrui), «nella parte in cui configura come
illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della
prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata».
La Corte rimettente muove dal rilievo che, nell'attuale contesto
storico, la prostituzione non e' un fenomeno unitario. Accanto alla
prostituzione "coattiva" e a quella "per bisogno", vi sarebbe,
infatti, una prostituzione per scelta totalmente libera e volontaria,
la quale troverebbe espressione paradigmatica nella figura della
escort (intendendosi per tale l'accompagnatrice retribuita,
disponibile anche a prestazioni sessuali): figura ignota all'epoca
dell'approvazione della legge n. 75 del 1958.
Su tale premessa, la Corte pugliese assume che la scelta di
offrire prestazioni sessuali verso corrispettivo costituirebbe una
forma di estrinsecazione della liberta' di autodeterminazione
sessuale, garantita dall'art. 2 della Costituzione quale diritto
inviolabile della persona umana. Tale liberta', di natura
intrinsecamente "relazionale", risulterebbe compromessa da
disposizioni che sanzionino penalmente attivita' di terzi che - senza
incidere sull'autodeterminazione della persona che si prostituisce -
si limitino a mettere in contatto quest'ultima con i clienti (come
nel caso del reclutamento) o a rendere piu' comodo l'esercizio della
sua attivita' (come nell'ipotesi del favoreggiamento).
Risulterebbe con cio' violata anche la liberta' di iniziativa
economica privata, tutelata dall'art. 41 Cost., della quale il
volontario esercizio della prostituzione costituirebbe pure
espressione, in quanto attivita' normalmente professionale svolta a
fine di profitto. Precludendo, con la minaccia della pena, forme di
supporto all'iniziativa, quali quelle dell'intermediazione e
dell'agevolazione, le norme denunciate priverebbero l'attivita'
economica in questione della possibilita' di svilupparsi al pari di
ogni altra iniziativa imprenditoriale.
Le norme censurate si porrebbero in contrasto, ancora, con il
principio di necessaria offensivita' del reato, desumibile dagli
artt. 13, 25, secondo comma, e 27 Cost. Secondo la giurisprudenza di
legittimita' piu' recente, infatti, il bene protetto dalle
disposizioni penali della legge n. 75 del 1958 andrebbe identificato,
non gia' nel valore "paternalistico" e anacronistico della morale
pubblica e del buon costume, ma proprio nella libera
autodeterminazione della persona che si prostituisce. In questa
prospettiva, tuttavia, le condotte di reclutamento e di
favoreggiamento della prostituzione liberamente esercitata
risulterebbero del tutto inoffensive: il "reclutatore" e il
"favoreggiatore" si limiterebbero, infatti, ad agevolare la
realizzazione della scelta dell'interessata, producendo, cosi', un
vantaggio e non un danno per lo stesso interesse tutelato.
Una conclusiva questione investe la sola fattispecie del
favoreggiamento, che la Corte rimettente denuncia come lesiva dei
principi di tassativita' e determinatezza dell'illecito penale,
ricavabili dall'art. 25, secondo comma, Cost. La formula descrittiva
della condotta incriminata - «chiunque, in qualsiasi modo, favorisca
[...] la prostituzione altrui» - risulterebbe, infatti, totalmente
generica, rimettendo al giudice il compito di individuare, nella
infinita gamma dei comportamenti riconducibili alla fattispecie
astratta, quelli lesivi dell'interesse protetto.
I criteri elaborati dalla giurisprudenza allo scopo non
sarebbero, d'altra parte, affatto valsi a colmare la carenza di
precisione del precetto, ma avrebbero anzi generato ulteriori
incertezze. Il discorso varrebbe, in modo particolare, per la
distinzione giurisprudenziale tra favoreggiamento della prostituzione
(punibile) e favoreggiamento della persona dedita alla prostituzione
(non punibile): distinzione da ritenere concettualmente scorretta e
che finirebbe per generare disparita' di trattamento lesive del
principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
2.- In via preliminare, va rilevato che non possono essere prese
in esame le deduzioni svolte dalla parte costituita M. V., intese a
dimostrare che anche la norma incriminatrice del reclutamento ai fini
dell'esercizio della prostituzione, di cui all'art. 3, primo comma,
numero 4), prima parte, della legge n. 75 del 1958, e' carente sul
piano della tassativita' e della determinatezza.
L'ordinanza di rimessione e', infatti, univoca nel limitare la
censura di violazione dei principi di tassativita' e determinatezza
alla sola ipotesi del favoreggiamento, escludendo espressamente che
analogo problema di costituzionalita' si ponga in rapporto alla
fattispecie del reclutamento (la cui descrizione normativa esigerebbe
soltanto di "attualizzare" la nozione di «reclutamento», connessa
storicamente alla volonta' legislativa di eliminare lo sfruttamento
della prostituzione esercitata nelle «case chiuse»).
Vale, dunque, il principio, costantemente affermato da questa
Corte, per cui l'oggetto del giudizio di legittimita' costituzionale
in via incidentale e' limitato alle disposizioni e ai parametri
indicati nelle ordinanze di rimessione: con la conseguenza che non
possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili
di costituzionalita' dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti
propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare
successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis,
sentenze n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018 e n. 29 del 2017).
3.- L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito
l'inammissibilita' delle questioni sotto due distinti profili.
3.1.- Secondo la difesa dello Stato, il giudice a quo avrebbe
omesso, anzitutto, di esperire il doveroso tentativo di
interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate,
sollevando le questioni al solo scopo di ottenere un avallo
interpretativo.
L'eccezione e' infondata.
L'ipotetica interpretazione adeguatrice cui allude l'Avvocatura
dello Stato, senza peraltro specificarne i contenuti, dovrebbe
evidentemente consistere nel ritenere che il reclutamento e il
favoreggiamento della prostituzione restino, gia' ora, esenti da pena
allorche' la persona reclutata o favorita abbia liberamente scelto di
prostituirsi. Cio', o perche' si tratterebbe di condotte non conformi
alla fattispecie legale, ovvero, eventualmente, in ragione
dell'operativita' della scriminante del consenso dell'avente diritto
(art. 50 del codice penale).
Entrambe le soluzioni ermeneutiche si pongono, tuttavia, in
frontale contrasto con il diritto vivente. La giurisprudenza di
legittimita' non ha mai dubitato, infatti, che le incriminazioni in
esame trovino applicazione a prescindere dall'atteggiamento
psicologico della persona che si prostituisce e dal suo eventuale
pieno consenso al compimento degli atti di meretricio (in questo
senso, espressamente, da ultimo, Corte di cassazione, sezione terza
penale, sentenze 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593 e 19 luglio
2017-7 febbraio 2018, n. 5768). Conclusione che appare, peraltro, in
linea non soltanto con l'indifferenziato tenore letterale delle
previsioni punitive, ma anche - come si avra' presto modo di
verificare - con la logica stessa del modello di intervento adottato
dalla legge n. 75 del 1958.
Non si puo', pertanto, rimproverare alla Corte rimettente di non
essersi espressamente interrogata sulla praticabilita' di alternative
ermeneutiche, che risulterebbero chiaramente eccentriche rispetto al
modo in cui le disposizioni censurate "vivono" da sessant'anni. Per
costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, in presenza di un
orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo, se pure
e' libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa esegesi,
ha, alternativamente, la facolta' di assumere l'interpretazione
censurata in termini di «diritto vivente» e di richiederne su tale
presupposto il controllo di compatibilita' con i parametri
costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 39 del 2018, n. 259 del 2017
e n. 200 del 2016; ordinanza n. 201 del 2015). Cio', senza che gli si
possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, piu'
aderente ai parametri stessi, sussistendo tale onere solo in assenza
di un contrario diritto vivente (tra le altre, sentenze n. 122 del
2017 e n. 11 del 2015): nell'ipotesi considerata, infatti, «la norma
vive ormai nell'ordinamento in modo cosi' radicato che e'
difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza
l'intervento del legislatore o [della] Corte» (tra le altre, sentenza
n. 191 del 2016; in senso analogo, ordinanza n. 207 del 2018).
3.2.- L'altra eccezione di inammissibilita', formulata
dell'Avvocatura dello Stato nella memoria, fa leva sull'ampia
discrezionalita' che, secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte, compete al legislatore in tema di individuazione dei fatti
punibili.
Essa attiene, peraltro, piu' propriamente al merito delle
questioni.
4.- Quanto al merito, l'approccio al thema decidendum non puo'
prescindere da una preliminare ricognizione del quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento.
4.1.- Il fenomeno della prostituzione - vocabolo che designa, in
via di prima approssimazione, l'effettuazione di prestazioni sessuali
verso corrispettivo, di norma in modo abituale e indiscriminato
(senza, cioe', una previa limitazione a specifici partner) -
rappresenta un tema fra i piu' problematici per il legislatore
penale. Il problema non riguarda, ovviamente, la prostituzione
"forzata" o la tratta a fini di sfruttamento sessuale: ipotesi nelle
quali e' l'esigenza di tutela della persona a reclamare in modo
evidente e indiscutibile l'intervento punitivo. Ma quando si tratti
della prostituzione volontaria, l'analisi storico-comparatistica e'
quanto mai restia a esprimere delle costanti, offrendo, nei tempi e
nei luoghi, una amplissima gamma di risposte differenziate circa l'an
e il quomodo dell'impiego della sanzione penale.
Al fondo della varieta' di soluzioni normative, si colloca,
peraltro, la preliminare opzione tra due visioni alternative.
In base alla prima, la prostituzione andrebbe riguardata come una
scelta attinente all'autodeterminazione in materia sessuale
dell'individuo, che da' luogo a un'attivita' economica legale.
L'ordinamento dovrebbe, quindi, lasciare gli individui
tendenzialmente liberi di praticare la prostituzione, di fruire del
servizio sessuale e di agevolarlo. Si tratterebbe, semmai, solo di
regolare opportunamente l'esercizio dell'attivita', onde far fronte
ai "pericoli" in essa insiti, analogamente a quanto avviene per tutte
le attivita' economiche che comportino "rischi consentiti"
dall'ordinamento (cosiddetto modello regolamentarista).
Nella seconda prospettiva, per converso, la prostituzione
costituirebbe un fenomeno da contrastare, anche penalmente, in
ragione delle sue ricadute negative sul piano individuale e sociale.
Tali ricadute si apprezzerebbero su una pluralita' di versanti:
quello dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili; quello
della dignita' umana (intesa in una accezione oggettiva, ossia come
principio che si impone a prescindere dalla volonta' e dalle
convinzioni del singolo individuo); quello della salute, individuale
e collettiva (non soltanto in rapporto al pericolo di diffusione di
malattie trasmissibili sessualmente, ma anche in relazione ai
maggiori rischi di dipendenza da droga e alcol, nonche' di traumi
fisici e psicologici, depressione e disturbi mentali, cui e' esposta
la persona che si prostituisce); quello, infine, dell'ordine pubblico
(tenuto conto delle attivita' illecite che frequentemente si
associano alla prostituzione, quali, ad esempio, oltre alla tratta di
persone, il traffico di stupefacenti e il crimine organizzato).
In quest'ottica, la prostituzione viene quindi collocata
nell'ambito di una disciplina "di sfavore" variamente calibrata,
secondo chi si decida di punire: entrambe le parti del mercimonio
sessuale (persona dedita alla prostituzione e cliente: cosiddetto
modello proibizionista, adottato, ad esempio, negli Stati Uniti, con
alcune eccezioni); ovvero una sola di esse (la quale nelle soluzioni
piu' recenti si identifica nel cliente: cosiddetto modello
neo-proibizionista); ovvero, ancora, soltanto le cosiddette condotte
parallele alla prostituzione, ossia i comportamenti dei terzi che
entrano in relazione con questa, inducendo la persona a esercitare
tale attivita', ovvero favorendola o traendone utili (cosiddetto
modello abolizionista).
4.2.- La disciplina italiana della materia anteriore alla legge
n. 75 del 1958 si ispirava al modello, di origine francese, del
cosiddetto regolamentarismo classico (per distinguerlo dal
regolamentarismo contemporaneo, di cui si dira' piu' avanti), basato
sul sistema delle «case di tolleranza» (maisons de tolerance).
L'idea di fondo ad esso sottesa e' che la prostituzione
rappresenti un "male necessario", non eliminabile, ma suscettibile e
meritevole di essere regolato a fini di tutela dell'ordine pubblico e
della salute (idea riflessa anche nel riferimento alla «tolleranza»,
che compare nel nomen delle case di prostituzione). In questo
modello, la prostituzione viene quindi concepita come un'attivita'
sottoposta a controllo di polizia, subordinata al rilascio di un
permesso alla singola prostituta e di una licenza per l'esercizio di
gruppo, che deve avvenire in appositi edifici rispondenti a una serie
di requisiti.
Nel nostro ordinamento, la relativa regolamentazione -
particolarmente rigida e capillare - era racchiusa nel testo unico
delle leggi di pubblica sicurezza (artt. 190 e seguenti del regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante «Approvazione del testo unico
delle leggi di pubblica sicurezza») e nel relativo regolamento (artt.
345 e seguenti del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, recante
«Approvazione del regolamento per l'esecuzione del testo unico 18
giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza»). L'esercizio
abituale della prostituzione era consentito solo nei locali
dichiarati di meretricio dall'autorita' di pubblica sicurezza,
controllati dal punto di vista sanitario, aventi particolari
caratteristiche (una sola uscita, persiane sempre chiuse), soggetti a
specifici orari di apertura e sui quali lo Stato riscuoteva regolari
imposte; fuori dalle case di prostituzione, l'attivita' poteva essere
esercitata solo in sede non fissa, costituendo reato il meretricio in
luogo chiuso non preventivamente autorizzato; le prostitute erano
schedate in un apposito registro, munite di un libretto personale e
sottoposte a visite mediche obbligatorie.
In tale cornice, la tutela penale aveva un ambito sensibilmente
piu' ristretto rispetto all'attuale. La materia era disciplinata nel
Titolo XI del Libro II del codice penale, dedicato ai «delitti contro
la moralita' pubblica e il buon costume». Esclusa la punibilita'
della prostituzione in se', nel codice Rocco esistevano ovviamente
fattispecie incriminatrici contro la prostituzione forzata: ma le
"condotte parallele" alla prostituzione volontaria - quali
l'istigazione, il favoreggiamento e lo sfruttamento - costituivano
reato solo in presenza di particolari condizioni, legate
segnatamente, quanto alle prime due ipotesi (istigazione e
favoreggiamento), alla qualita' dei soggetti passivi (minorenni,
persone in stato di infermita' o deficienza psichica, stretti
congiunti dell'autore del fatto: artt. 531 e 532 cod. pen.) e, quanto
alla terza (sfruttamento), alla circostanza che fosse posto in essere
un vero e proprio "sistema di vita" di tipo parassitario in danno
della persona dedita alla prostituzione (cosi' venendo ordinariamente
inteso dalla giurisprudenza il concetto di farsi «mantenere» da una
prostituta, evocato dall'art. 534 cod. pen.).
Un simile regime si era rivelato, peraltro, largamente
insoddisfacente. Pur riconoscendo una parvenza di legittimita'
all'operato delle donne che si prostituivano, esso non si proponeva,
in ultima analisi, di tutelarle. Dietro la patina di tolleranza, si
celava, in effetti, una legislazione orientata alla "ghettizzazione":
confinate all'interno delle «case chiuse», schedate e sottoposte a
trattamenti sanitari obbligatori, le prostitute si trovavano
costrette, di fatto, ad esercitare la loro attivita' in condizioni di
avvilimento e degrado, nonche' in situazione di sfruttamento e di
sottomissione al tenutario della "casa".
4.3.- Nel frattempo, si era peraltro fatto strada in ambito
europeo un nuovo modello di disciplina della prostituzione, originato
da un movimento sorto in Gran Bretagna: il cosiddetto abolizionismo.
Il suo postulato di partenza e' che la prostituzione costituisca
una attivita' lesiva della dignita' delle persone che la esercitano,
le quali non avrebbero verosimilmente operato una simile scelta in
diverse e piu' favorevoli condizioni economiche e sociali. Lo Stato
non dovrebbe, pertanto, regolare tale attivita': meno che mai, poi,
prevedendo misure, quali le case di prostituzione e gli obblighi di
visita medica, che si risolvano, di fatto, in limitazioni della
liberta' personale del soggetto che si prostituisce.
Nel lungo termine, la prostituzione andrebbe piuttosto eliminata.
A questo risultato non si dovrebbe giungere, pero', punendo la
persona dedita alla prostituzione, perche' in tal modo si finirebbe
per colpire due volte quelle che sono in realta' vittime del sistema
sociale; e neppure punendo il cliente, perche' cosi' si scaricherebbe
sul semplice fruitore della prestazione una responsabilita' della
quale dovrebbe farsi carico lo Stato. L'obiettivo dovrebbe essere
conseguito invece, da un lato, rimovendo le cause sociali della
prostituzione; dall'altro, reprimendo severamente le attivita' ad
essa collegate - quali l'induzione, il lenocinio, lo sfruttamento o
anche il semplice favoreggiamento (le "condotte parallele") - cosi'
da non consentire alla prostituzione di svilupparsi e di proliferare.
Idee, queste, che hanno trovato una significativa eco nella
Convenzione per la repressione della tratta degli esseri umani e
dello sfruttamento della prostituzione, adottata dall'Assemblea
generale delle Nazioni Unite il 2 dicembre 1949 e aperta alla firma a
Lake Success-New York il 21 marzo 1950, alla quale l'Italia ha
aderito il 18 gennaio 1980, depositando il relativo strumento sulla
base dell'autorizzazione rilasciata con legge 23 novembre 1966, n.
1173.
Nel nostro Paese, l'adeguamento ai principi abolizionisti ha
avuto luogo con la legge n. 75 del 1958 (cosiddetta legge Merlin, dal
nome della proponente): legge il cui titolo recita significativamente
«Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro
lo sfruttamento della prostituzione altrui».
La riforma muta radicalmente la prospettiva del modello
preesistente. Di la' dalle motivazioni di ordine piu' propriamente
etico e morale (delle quali pure i lavori parlamentari recano ampia
traccia), si ritiene fondamentalmente, in linea con i ricordati
principi abolizionisti, che la scelta di esercitare la prostituzione
trovi normalmente la sua matrice in una condizione di vulnerabilita',
legata a cause individuali e sociali (quali «la distruzione della
vita di famiglia, l'insufficienza dell'educazione, il bisogno», «i
rischi speciali inerenti a certe professioni» o il «quadro
ambientale» di moralita' degradata). La persona che vende prestazioni
sessuali e', dunque, potenzialmente una vittima e l'aggressore e' la
societa' nel suo complesso. Di qui la necessita' che lo Stato si
astenga dal rendersi compartecipe dell'"industria del sesso": «allo
Stato, che ha gli stessi doveri verso tutti i cittadini, non e'
lecito di sacrificare una parte della popolazione, la piu' debole e
la piu' miserabile, agli uomini che vogliono abusarne» (in questi
termini la relazione del senatore Boggiano Pico del 21 gennaio 1955
alla prima commissione permanente del Senato della Repubblica).
Viene evocata - correlativamente - anche l'esigenza di
salvaguardia della dignita' umana (alla quale fa riferimento pure il
preambolo della citata Convenzione delle Nazioni Unite). La pregressa
disciplina della materia viene considerata contrastante, in specie,
con i principi di «pari dignita' sociale» e di promozione
dell'eguaglianza sostanziale dei cittadini in vista del «pieno
sviluppo della persona umana» (art. 3 Cost.), con il limite del
«rispetto della persona umana» nella previsione di trattamenti
sanitari obbligatori (art. 32 Cost.), nonche' con i limiti della
liberta' e della dignita' umana cui e' soggetta l'iniziativa
economica privata (art. 41 Cost.) (in questo senso la relazione alla
proposta di legge presentata dall'onorevole Tozzi Condivi alla
Presidenza della Camera dei deputati il 6 aprile 1956, ove pure si
ribadisce come le persone «cadute nella prostituzione» non lo siano
«quasi mai per loro decisa e libera volonta'», essendo «invece
trascinate a quella vita per condizioni di vita famigliare, sociale,
affettiva»). Nella medesima relazione, la nuova normativa viene
presentata come un provvedimento che mira «non a sopprimere la
prostituzione ma soltanto a sopprimere la regolamentazione della
prostituzione», impedendo «che nello Stato possa esistere una
prostituzione autorizzata e regolamentata» e che «ci siano degli
esseri umani che vivano sfruttando legalmente il vizio e la miseria».
A questi fini, la legge vieta, quindi, l'esercizio di case di
prostituzione e dispone la chiusura di quelle esistenti (artt. 1 e 2
della legge n. 75 del 1958). Fa espresso divieto, altresi', di
qualsiasi forma di registrazione delle donne che esercitano la
prostituzione, escludendo che le stesse possano essere obbligate a
presentarsi periodicamente alle autorita' di pubblica sicurezza o
alle autorita' sanitarie (art. 7). Prevede, al tempo stesso, misure
di rieducazione e reinserimento sociale delle donne che escono dalle
case di prostituzione (artt. 8 e 9).
Sul piano penalistico, rimane ferma la non punibilita' tanto del
soggetto che si prostituisce - a meno che i suoi comportamenti
integrino gli estremi della nuova contravvenzione di adescamento o
invito al libertinaggio, di cui all'art. 5 della legge n. 75 del 1958
(contravvenzione poi depenalizzata dal decreto legislativo 30
dicembre 1999, n. 507, recante «Depenalizzazione dei reati minori e
riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell'articolo 1 della
legge 25 giugno 1999, n. 205») - quanto del cliente che si limiti a
fruire della prestazione sessuale (la cui punibilita' sara' poi
prevista nella sola ipotesi della prostituzione minorile dall'art.
600-bis cod. pen., aggiunto dalla legge 3 agosto 1998, n. 269,
recante «Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della
pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove
forme di riduzione in schiavitu'»).
Le politiche abolizioniste rivelano, peraltro, chiaramente il
loro obiettivo ultimo con la criminalizzazione "a tappeto" delle
"condotte parallele" alla prostituzione. Quest'ultima e' configurata,
bensi', come un'attivita' in se' lecita: e pero' le si fa "terra
bruciata" attorno, vietando, sotto minaccia di sanzione penale,
qualsiasi interazione di terzi con essa, sia sul piano materiale (in
termini di promozione, agevolazione o sfruttamento), sia sul piano
morale (in termini di induzione).
Le disposizioni di cui agli artt. da 531 a 536 cod. pen. vengono
sostituite, in questa chiave, da quelle dell'art. 3 della legge n. 75
del 1958, il quale, nei suoi otto numeri, reca un fitto e policromo
elenco di condotte incriminate, tutte punite con l'energica pena
della reclusione da due a sei anni, oltre la multa (attualmente da
euro 258 a euro 10.329).
Nella lista dei comportamenti incriminati figurano anche le due
fattispecie che formano oggetto degli odierni quesiti di
costituzionalita': il reclutamento di «una persona al fine di farle
esercitare la prostituzione» (art. 3, primo comma, numero 4, prima
parte) e il favoreggiamento, «in qualsiasi modo», della prostituzione
altrui (art. 3, primo comma, numero 8, prima parte).
Per «reclutamento» si intende, in sostanza, l'ingaggio per
l'esercizio della prostituzione: e cio' indipendentemente dal fatto
che la persona ingaggiata sia gia' dedita a tale attivita' o fino a
quel momento estranea ad essa. Al lume della corrente esegesi
giurisprudenziale, il reclutamento si realizza, in specie, allorche'
l'agente si attivi al fine di collocare la persona nella
disponibilita' del soggetto che intende trarre vantaggio
dall'attivita' di meretricio. Per l'integrazione del reato e',
quindi, sufficiente un'attivita' di ricerca della persona da
ingaggiare e di persuasione della medesima, mediante la
rappresentazione dei vantaggi realizzabili, a recarsi in un
determinato luogo e a rimanervi per un certo tempo al fine di
esaudire le richieste di prestazioni sessuali dei clienti (ex
plurimis, tra le piu' recenti, Corte di cassazione, sezione terza
penale, sentenze 20 ottobre 2016-28 marzo 2017, n. 15217 e 12
novembre 2014-27 marzo 2015, n. 12999).
Il favoreggiamento (previsto dal numero 8 in alternativa allo
sfruttamento) rappresenta, a sua volta, una fattispecie residuale e
"di chiusura", finalizzata a reprimere tutti quei comportamenti atti
a creare condizioni favorevoli per l'esercizio della prostituzione
che sarebbero potuti sfuggire altrimenti all'incriminazione, stante
la tecnica casistica utilizzata per descrivere le fattispecie di cui
ai numeri precedenti. La lata formulazione della disposizione fa si'
che essa si presti a reprimere le piu' svariate condotte che valgono
a rendere piu' facile, comodo, sicuro o lucroso l'esercizio della
prostituzione altrui.
4.4.- L'esperienza piu' recente ha visto, peraltro, emergere, in
ambito europeo, ulteriori modelli di disciplina della prostituzione,
ai quali non e' inopportuno far cenno in questa sede, ai fini di una
visione comparata del fenomeno.
Essi muovono dal riscontro delle criticita' manifestate dal
modello abolizionista nel conseguimento degli obiettivi prefissi:
essendosi rilevato che, se, per un verso, nei Paesi che lo hanno
adottato la prostituzione non ha affatto registrato una significativa
flessione; per un altro verso, esso avrebbe finito per perpetuare la
condizione di debolezza sociale della persona che si prostituisce e
per esporla a maggiori rischi, sul piano dell'incolumita' personale e
della salute.
Le soluzioni per far fronte a tali criticita' sono state,
peraltro, ricercate in due direzioni contrapposte.
Da un lato, si e' infatti ritenuto che occorra superare le
ambiguita' dell'abolizionismo in direzione "liberale", considerando,
cioe', la prostituzione volontaria come un'attivita' economica lecita
a tutti gli effetti, assimilabile alle altre fonti di guadagno e
generatrice di ordinari diritti economici e sociali (nonche' di
doveri fiscali) in capo a coloro che la esercitano. L'attenzione del
legislatore si dovrebbe focalizzare, in quest'ottica, essenzialmente
sulle cosiddette procedure di riduzione del danno, intese a limitare
le conseguenze negative che la vendita di prestazioni sessuali puo'
comportare. Questo approccio e' fondamentalmente alla base delle
legislazioni "neo-regolamentariste", di vario taglio, messe in campo
a partire dagli anni '90 dello scorso secolo in Paesi quali l'Olanda,
la Germania, l'Austria e la Svizzera.
In senso diametralmente opposto, si addebita invece
all'abolizionismo di "non fare abbastanza" per tutelare la persona
che si prostituisce dalla condotta vessatoria degli altri soggetti,
fra i quali rientrerebbe lo stesso cliente. Andrebbe percio' eretto
un argine piu' robusto contro l'approfittamento di una condizione di
vulnerabilita', che caratterizzerebbe le persone che si
prostituiscono.
E' sulla scia di questo filone critico dell'"abolizionismo" che
si sviluppano le recenti politiche "neo-proibizioniste" adottate da
alcuni Paesi europei: politiche che hanno trovato, in certa misura,
appoggio anche da parte delle istituzioni dell'Unione europea. In
base ad esse, il legislatore penale dovrebbe intervenire per
proteggere il soggetto debole (anche) da colui che, attraverso la
"domanda" del servizio sessuale, ne alimenta lo sfruttamento: ossia
il cliente.
Nella versione piu' "temperata" di tale modello, il "consumatore"
viene punito solo quando acquisti servizi sessuali da una persona che
sia vittima di prostituzione forzata (e' la soluzione adottata nel
Regno Unito con il Policing and Crime Act del 2009). Una simile
tecnica d'intervento trova eco nella direttiva 2011/36/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011, concernente «la
prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la
protezione delle vittime», la quale invita specificamente gli Stati
membri a impegnarsi per ridurre la "domanda" che e' alla base del
traffico di esseri umani, anche valutando la possibilita' di
prevedere come reato l'utilizzo di servizi che sono oggetto di
sfruttamento, qualora l'agente sia a conoscenza che la persona e'
vittima di tratta (art. 18, paragrafo 4).
Nella versione piu' ricorrente e radicale, per converso, si
sceglie di punire il cliente sic et simpliciter, ossia a prescindere
dalle caratteristiche della persona che offre i servizi sessuali e
dalla condizione di soggiogamento o di necessita' in cui essa
eventualmente si trovi. Si tratta del cosiddetto "modello nordico",
essendo stata una simile strategia adottata anzitutto dalla Svezia,
sul finire degli anni '90, e poi seguita da altri Paesi del Nord
Europa, ai quali si e' peraltro recentemente aggiunta anche la
Francia.
Il ricorso a un simile modello e' visto, altresi', con favore
nella Risoluzione del Parlamento europeo del 26 febbraio 2014, su
«sfruttamento sessuale e prostituzione, e loro conseguenze per la
parita' di genere» (2013/2103 - INI, punto 29).
4.5.- E' di sicuro interesse, agli odierni fini, rilevare come
tanto le soluzioni legislative ispirate al modello "abolizionista",
quanto quelle ispirate al modello "neo-proibizionista" nella versione
piu' radicale - che espande ulteriormente, tramite la punizione del
cliente, il perimetro della "terra bruciata" attorno all'attivita'
della persona dedita alla prostituzione - siano state ritenute
costituzionalmente compatibili dai Tribunali costituzionali di altri
Paesi europei, in relazione a censure in buona misura sovrapponibili
a quelle oggi rimesse all'esame di questa Corte.
Riguardo alle soluzioni del primo tipo, si e' pronunciato
segnatamente in tal senso il Tribunale costituzionale del Portogallo
(Paese la cui legislazione rispecchia anch'essa il modello
"abolizionista"), il quale, con la sentenza n. 641/2016 del 21
novembre 2016, ha negato che possa ritenersi costituzionalmente
illegittima la norma incriminatrice del cosiddetto lenocinio semplice
(art. 169, comma 1, del codice penale portoghese, come novellato),
costituito dal fatto di chi, «professionalmente o comunque a fine di
lucro, fomenta, favorisce o facilita l'esercizio della prostituzione
da parte di altra persona».
Quanto al secondo modello, il Consiglio costituzionale francese
ha parimente escluso, con la recente decisione n. 2018-761 QPC del 1°
febbraio 2019, la denunciata incostituzionalita' dell'art. 611-1 del
codice penale francese, aggiunto dalla legge 13 aprile 2016, n.
2016-444, che sottopone a pena (pecuniaria) il cliente della persona
che si prostituisce, a prescindere dal carattere forzato, o no,
dell'attivita' di quest'ultima.
5.- Scendendo, quindi, sulla scorta di tale excursus, all'esame
delle censure di illegittimita' costituzionale formulate dalla Corte
rimettente, l'attenzione va portata anzitutto su quella riferita
all'art. 2 Cost.
Nel denunciare la violazione di tale parametro, la Corte pugliese
muove dal rilievo che l'attuale contesto storico - ben diverso da
quello, postbellico, nel quale la legge n. 75 del 1958 fu concepita -
si caratterizzerebbe per la presenza di una prostituzione totalmente
libera e volontaria, non dovuta, cioe', ne' a coazione altrui, ne' a
uno stato di bisogno della persona che la esercita: una prostituzione
tendenzialmente "di elite" e rivolta a clienti facoltosi, incarnata
emblematicamente dalla figura della cosiddetta escort
(accompagnatrice retribuita, disponibile anche a prestazioni
sessuali). Ed e' alla luce di tale nuova realta' sociale che
andrebbe, dunque, verificata la legittimita' costituzionale delle
soluzioni adottate dal legislatore del 1958.
Secondo il giudice a quo, la scelta di prostituirsi, ove libera e
volontaria, rappresenterebbe, in effetti, una modalita' di
espressione della «liberta' di autodeterminazione sessuale»,
qualificabile come diritto inviolabile della persona umana garantito
dall'art. 2 Cost. Da cio' l'asserita necessita' costituzionale di
rimuovere ogni ostacolo alla piena realizzazione della scelta stessa:
ostacolo che verrebbe, per converso, frapposto da disposizioni quali
quelle censurate, che reprimono condotte di terzi intese a promuovere
e ad agevolare l'attivita' della prostituta, in accordo con i suoi
stessi desiderata.
Si tratta di conclusione che, se fondata, avrebbe una forza
espansiva che va chiaramente oltre le fattispecie del reclutamento e
del favoreggiamento. Nella medesima logica, sarebbero destinate,
infatti, a cadere anche tutte le altre previsioni punitive dell'art.
3 della legge n. 75 del 1958 che colpiscono forme specifiche di
"cooperazione" alla prostituzione altrui, non importa se remunerate.
Risulterebbe posta, anzi, in dubbio - contrariamente a quanto
mostrano di ritenere la Corte rimettente e le parti costituite -
persino la legittimita' costituzionale dell'incriminazione
dell'induzione alla prostituzione (numeri 5 e 6 dell'art. 3 della
legge n. 75 del 1958), ove scevra da violenza, minaccia o inganno
(modalita' di condotta che, nell'architettura della legge n. 75 del
1958, integrano una circostanza aggravante speciale: art. 4, numero
1). Non si comprenderebbe infatti - in quella logica - perche' debba
essere sottoposta a pena la persuasione ad effettuare una certa
opzione, anziche' un'altra, nell'ambito del ventaglio delle possibili
modalita' alternative di esercizio di un diritto inviolabile della
persona.
5.1.- La tesi del giudice a quo non puo' essere condivisa.
L'art. 2 Cost. impegna la Repubblica italiana a riconoscere e
garantire i «diritti inviolabili dell'uomo», sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita' e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarieta' politica,
economica e sociale. La previsione si presenta strettamente connessa
a quella del successivo art. 3, secondo comma, che, al fine di
rendere effettivi tali diritti, impegna altresi' la Repubblica a
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono
«il pieno sviluppo della persona umana».
L'art. 2 Cost. collega, dunque, i diritti inviolabili al valore
della persona e al principio di solidarieta'. I diritti di liberta'
sono riconosciuti, cioe', dalla Costituzione in relazione alla tutela
e allo sviluppo del valore della persona e tale valore fa riferimento
non all'individuo isolato, ma a una persona titolare di diritti e
doveri e, come tale, inserita in relazioni sociali. Il
costituzionalismo contemporaneo e', del resto, ispirato all'idea che
l'ordinamento non deve limitarsi a garantire i diritti costituzionali
ma deve adoprarsi per il loro sviluppo. Di qui una concezione
dell'individuo come persona cui spetta una "liberta' di" e non
soltanto una "liberta' da".
E' vero che con la sentenza n. 561 del 1987 - richiamata dal
giudice a quo a sostegno della sua tesi - questa Corte ha ritenuto
che il catalogo dei diritti inviolabili evocati dall'art. 2 Cost.
includa la «liberta' sessuale». Si e' rilevato, infatti, che la
sessualita' rappresenta «uno degli essenziali modi di espressione
della persona umana», con la conseguenza che «il diritto di disporne
liberamente e' senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va
ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla
Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona
umana che l'art. 2 Cost. impone di garantire». Ma l'affermazione e'
stata resa in rapporto a una fattispecie nella quale veniva in
rilievo il profilo negativo di tale liberta', ossia il diritto ad
opporsi a "intrusioni" altrui non volute nella propria sfera
sessuale, e con riguardo alle pretese risarcitorie scaturenti dalla
violazione di tale diritto. Si lamentava, infatti, nell'occasione,
che la disciplina sul trattamento pensionistico di guerra escludesse
la risarcibilita' dei danni non patrimoniali patiti dalle vittime di
violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici.
E' indubbio, peraltro, che l'asserto dianzi riprodotto ben puo'
ritenersi riferibile anche al profilo positivo della liberta' in
questione, il quale implica che ciascun individuo possa fare libero
uso della sessualita' come mezzo di esplicazione della propria
personalita', s'intende, nel limite del rispetto dei diritti e delle
liberta' altrui.
5.2.- Se e' il collegamento con lo sviluppo della persona a
qualificare la garanzia apprestata dall'art. 2 Cost., non e'
possibile ritenere che la prostituzione volontaria partecipi della
natura di diritto inviolabile - il cui esercizio dovrebbe essere, a
questa stregua, non solo non ostacolato, ma addirittura,
all'occorrenza, agevolato dalla Repubblica - sulla base del mero
rilievo che essa coinvolge la sfera sessuale di chi la esercita.
Non puo' essere certamente condiviso l'assunto del giudice
rimettente, stando al quale la prostituzione volontaria
rappresenterebbe una «modalita' autoaffermativa della persona umana,
che percepisce il proprio se' in termini di erogazione della propria
corporeita' e genitalita' (e del piacere ad essa connesso) verso o
contro la dazione di diversa utilita'».
L'offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non
rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della
persona umana, ma costituisce - molto piu' semplicemente - una
particolare forma di attivita' economica. La sessualita'
dell'individuo non e' altro, in questo caso, che un mezzo per
conseguire un profitto: una "prestazione di servizio" inserita nel
quadro di uno scambio sinallagmatico. E come «prestazione di servizi
retribuita», rientrante nel novero delle «attivita' economiche»
svolte in qualita' di lavoro autonomo, la prostituzione e' stata in
effetti qualificata tanto dalla Corte di giustizia delle Comunita'
europee nella sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e
altri, citata dalle parti costituite; quanto dalla Corte di
cassazione, nelle pronunce - richiamate sia dal giudice a quo, sia
dalle stesse parti costituite - che hanno ritenuto assoggettabili ad
imposta i proventi di tale attivita' (Corte di cassazione, sezione
quinta civile, sentenze 4 novembre 2016, n. 22413; 27 luglio 2016, n.
15596; 13 maggio 2011, n. 10578; 1° ottobre 2010, n. 20528). Ammesso
pure che vi siano persone che considerano personalmente gratificante
esercitare la prostituzione, questo non cambia la sostanza delle
cose.
Al riguardo, non gioverebbe obiettare che un diritto fondamentale
resta tale anche se esercitato dietro corrispettivo. L'argomento
prova troppo: ragionando in questi termini, qualsiasi attivita'
imprenditoriale o di lavoro autonomo verrebbe a costituire un diritto
inviolabile della persona, nella misura in cui richiede l'esercizio
di una qualche liberta' costituzionalmente garantita.
Lo stesso giudice a quo mostra, del resto, di essere consapevole
di tutto cio' nel momento in cui evoca come parametro congiunto dello
scrutinio di costituzionalita' l'art. 41 Cost., in materia di
liberta' di iniziativa economica privata.
I rilievi che precedono appaiono tanto piu' validi, d'altro
canto, in rapporto a questioni di costituzionalita' quali quelle
odierne, nella cui cornice la tutela della persona che si
prostituisce e' solo indiretta, mirando l'incidente di
costituzionalita' a salvaguardare, in prima battuta - e soprattutto -
i terzi che si intromettono nell'attivita' di tale persona o che
cooperano con essa. Paradigmatico, in proposito, il modo in cui la
Corte rimettente - pur nell'ambito della denuncia di violazione
dell'art. 2 Cost. - configura la condotta di reclutamento ai fini
dell'esercizio della prostituzione, osservando come la stessa si
collochi all'interno del «libero incontro sul mercato del sesso tra
domanda e offerta»: dunque, una attivita' di intermediazione
pertinente a un contesto tipicamente "commerciale".
La questione e', in conclusione, infondata, essendo l'invocato
art. 2 Cost. un parametro non conferente rispetto all'(intromissione
di terzi nell')esercizio dell'attivita' di prostituzione.
6.- Pertinente risulta, invece, alla luce di quanto si e' detto,
il riferimento all'art. 41 Cost.: parametro, del resto, espressamente
richiamato (con i suoi divieti) nell'ambito dei lavori preparatori
della legge n. 75 del 1958, ove pure si affermo' che lo scopo della
legge era di mettere fine al coinvolgimento dello Stato
nell'"industria del meretricio".
Quel che lamenta il giudice a quo, d'altra parte, e' che le norme
incriminatrici censurate, inibendo con la minaccia della pena la
collaborazione di terzi, impediscano alla persona dedita alla
prostituzione di svolgere la propria attivita' in modo organizzato,
ed eventualmente anche nella forma di una vera e propria impresa.
6.1.- Anche tale questione e', tuttavia, infondata.
In base all'art. 41, secondo comma, Cost. la liberta' di
iniziativa economica e' tutelata a condizione che non comprometta
altri valori che la Costituzione considera preminenti: essa non puo',
infatti, svolgersi «in contrasto con l'utilita' sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana».
Nella specie, la compressione delle possibilita' di sviluppo
dell'attivita' di prostituzione che deriva dalle norme censurate e'
strumentale al perseguimento di obiettivi che involgono i valori ora
indicati. Tali obiettivi si identificano segnatamente, anche alla
luce delle ricordate indicazioni dei lavori preparatori della legge
n. 75 del 1958, nella tutela dei diritti fondamentali delle persone
vulnerabili e della dignita' umana.
E', in effetti, inconfutabile che, anche nell'attuale momento
storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme
di prostituzione forzata, la scelta di "vendere sesso" trova alla sua
radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che
condizionano e limitano la liberta' di autodeterminazione
dell'individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle
sue opzioni esistenziali. Puo' trattarsi non soltanto di fattori di
ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano
affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire
la naturale riluttanza verso una "scelta di vita" quale quella di
offrire prestazioni sessuali contro mercede.
Ne' giova obiettare che, in tale prospettiva, la disciplina
censurata si paleserebbe - nella sua assolutezza - eccedente lo
scopo, vietando ogni cooperazione anche con quelle persone che si
prostituiscano per effetto di scelte pienamente libere e consapevoli:
fenomenologia che, per quanto ridotta possa essere la sua incidenza
percentuale, meriterebbe, comunque sia, un trattamento differenziato.
Al riguardo, occorre considerare che, in questa materia, la linea
di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo
sono si presenta fluida gia' sul piano teorico - risultando, percio',
non agevolmente traducibile sul piano normativo in formule astratte -
e, correlativamente, di problematica verifica sul piano processuale,
tramite un accertamento ex post affidato alla giurisdizione penale.
A cio' si affiancano, peraltro, anche preoccupazioni di tutela
delle stesse persone che si prostituiscono - in ipotesi - per effetto
di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole. Cio' in
considerazione dei pericoli cui esse si espongono nell'esercizio
della loro attivita': pericoli connessi al loro ingresso in un
circuito dal quale sara' poi difficile uscire volontariamente, stante
la facilita' con la quale possono divenire oggetto di indebite
pressioni e ricatti, nonche' ai rischi per l'integrita' fisica e la
salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si
trovano isolate a contatto con il cliente (pericoli di violenza
fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di contagio
conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo).
Riguardo, poi, alla concorrente finalita' di tutela della
dignita' umana, e' incontestabile che, nella cornice della previsione
dell'art. 41, secondo comma, Cost., il concetto di «dignita'» vada
inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della "dignita'
soggettiva", quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo
lavoratore. E', dunque, il legislatore che - facendosi interprete del
comune sentimento sociale in un determinato momento storico - ravvisa
nella prostituzione, anche volontaria, una attivita' che degrada e
svilisce l'individuo, in quanto riduce la sfera piu' intima della
corporeita' a livello di merce a disposizione del cliente.
Valutazioni tutte, quelle dianzi indicate, che spiegano e
giustificano, dunque, sul piano costituzionale, la scelta del
legislatore italiano - per nulla isolata, come si e' visto, nel
panorama internazionale - di inibire, con le norme denunciate, la
possibilita' che l'esercizio della prostituzione formi oggetto di
attivita' imprenditoriale.
6.2.- Il fatto stesso che il legislatore - in accordo con i
postulati del modello abolizionista - identifichi nella persona che
si prostituisce il "soggetto debole" del rapporto spiega, altresi',
la scelta di non intervenire penalmente nei confronti di
quest'ultima, ma solo nei confronti dei terzi che "interagiscano" con
la prostituzione altrui.
Come rilevato anche dal Tribunale costituzionale del Portogallo
nella decisione in precedenza richiamata, non vi e' alcuna insanabile
contraddizione nella dissociazione del giudizio sulla condotta-base
della prostituta da quello sulla condotta del terzo che ne agevola -
o sfrutta o istiga - l'attivita'.
Non si tratta di ipotesi isolata.
Allo stesso modo, infatti, questa Corte ha escluso che possa
ritenersi censurabile sul piano costituzionale la disparita' di
trattamento tra il consumatore di sostanze stupefacenti e chi gli
fornisce la sostanza: il primo resta immune da pena (incorrendo solo
in sanzioni amministrative: art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n.
309, recante il «Testo unico delle leggi in materia di disciplina
degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza»); il secondo
va, invece, incontro a severe sanzioni criminali (art. 73 del d.P.R.
n. 309 del 1990) (sentenza n. 296 del 1996).
Giova sottolineare, per altro verso, che e' ben vero che il
vigente ordinamento non vieta, di per se', l'offerta di sesso a
pagamento, ma cio' non significa che essa si configuri come
espressione di un diritto costituzionalmente tutelato. Significativo,
in tal senso, e' che il patto avente ad oggetto lo scambio tra
prestazioni sessuali e utilita' economica venga tradizionalmente
configurato come contratto nullo per illiceita' della causa, in
quanto contrario ai boni mores (art. 1343 del codice civile), il cui
unico effetto giuridicamente rilevante e' la soluti retentio, vale a
dire il diritto della persona che si prostituisce di trattenere le
somme ricevute dal cliente (art. 2035 cod. civ.), senza, tuttavia,
che ella possa agire giudizialmente nel caso di mancato pagamento
spontaneo (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 17
gennaio 2001-5 marzo 2001, n. 9348; vedi, anche, Corte di cassazione,
sezione quinta civile, sentenza 27 luglio 2016, n. 15596).
La circostanza - sulla quale insistono tanto l'ordinanza di
rimessione, quanto le parti costituite - che la giurisprudenza di
legittimita' consideri ormai tassabili i proventi della prostituzione
e', poi, ben poco significativa. Attualmente, infatti, l'ordinamento
tributario assoggetta, in via generale, a imposizione anche i
proventi derivanti da fatti, atti o attivita' qualificabili come
illecito civile, amministrativo o penale, ove non sottoposti a
sequestro o confisca penale (art. 14, comma 4, della legge 24
dicembre 1993, n. 537, recante «Interventi correttivi di finanza
pubblica»). Anche per questo aspetto, dunque, non vi e' nulla di
contraddittorio fra l'assoggettamento a imposta dei proventi
dell'attivita' di meretricio e il fatto che la legge, pur senza
sanzionarla direttamente, adotti misure indirette, di carattere
penale, intese ad arginare lo sviluppo dell'attivita' tassata,
colpendo i terzi che vi cooperano.
Nessun argomento a sostegno della denunciata violazione dell'art.
41 Cost. puo' essere ricavato, infine, dalla sentenza della Corte di
giustizia 20 novembre 2011, causa C-268/99, Jany e altri,
precedentemente richiamata. Essa ha qualificato, bensi', la
prostituzione come attivita' economica svolta in qualita' di
lavoratore autonomo: ma cio' al solo fine di escludere che
l'esercizio di tale attivita' possa essere considerato un
comportamento abbastanza grave da legittimare restrizioni all'accesso
o al soggiorno, nel territorio di uno Stato membro, di un cittadino
di altro Stato membro, nel caso in cui il primo Stato (nella specie
l'Olanda, Paese la cui legislazione e' ispirata al modello
"regolamentarista") non abbia adottato misure repressive ove il
medesimo comportamento sia posto in essere da un proprio cittadino.
7.- Nelle considerazioni dianzi svolte e' insita l'infondatezza
anche dell'ulteriore questione riferita al principio di necessaria
offensivita' del reato.
7.1.- Per costante giurisprudenza di questa Corte,
l'individuazione dei fatti punibili, cosi' come la determinazione
della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata alla
discrezionalita' del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla
"meritevolezza" e al "bisogno di pena" - dunque, sull'opportunita'
del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa -
sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici (sentenze n. 95
del 2019 e n. 394 del 2006). Le scelte legislative in materia sono
pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimita'
costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza
o nell'arbitrio (ex plurimis, sentenze n. 95 del 2019, n. 273 e n. 47
del 2010; ordinanze n. 249 e n. 71 del 2007; nonche', con particolare
riguardo al trattamento sanzionatorio, sentenze n. 179 del 2017, n.
236 e n. 148 del 2016).
Tali affermazioni appaiono tanto piu' valide in rapporto a un
fenomeno come quello della prostituzione, il quale, per quanto
rilevato in apertura di discorso, si presta a un'ampia varieta' di
differenti valutazioni e strategie d'intervento.
Per quel che attiene, poi, piu' specificamente, alla limitazione
della discrezionalita' legislativa che deriva, comunque sia,
dall'esigenza di rispetto del principio di offensivita', questa Corte
ha da tempo chiarito come tale principio «operi su due piani
distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale
e' tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro
configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o
interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensivita'
"in astratto"). Dall'altro, come criterio interpretativo-applicativo
per il giudice comune, il quale, nella verifica della
riconducibilita' della singola fattispecie concreta al paradigma
punitivo astratto, dovra' evitare che ricadano in quest'ultimo
comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta
offensivita' "in concreto") (sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del
2005, n. 519 e n. 263 del 2000). Quanto al primo versante, il
principio di offensivita' "in astratto" non implica che l'unico
modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del
reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalita' del
legislatore l'opzione per forme di tutela anticipata, le quali
colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della
semplice esposizione a pericolo, nonche', correlativamente,
l'individuazione della soglia di pericolosita' alla quale
riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del 2008):
prospettiva nella quale non e' precluso, in linea di principio, il
ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133
del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986). In tale ipotesi,
tuttavia, affinche' il principio in questione possa ritenersi
rispettato, occorrera' "che la valutazione legislativa di
pericolosita' del fatto incriminato non risulti irrazionale e
arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit" (sentenza n.
225 del 2008; analogamente, sentenza n. 333 del 1991)» (sentenza n.
109 del 2016).
7.2.- Nel caso in esame, si registrano significative oscillazioni
della giurisprudenza di legittimita' in ordine all'individuazione del
bene giuridico protetto dalle disposizioni penali della legge n. 75
del 1958.
Per lungo tempo, essa ha infatti individuato l'oggetto della
tutela - conformemente all'originaria impostazione del codice penale
- nel buon costume e nella moralita' pubblica (dunque, in un
interesse "metaindividuale" e indisponibile). Nel 2004 tale indirizzo
e' stato oggetto di revisione, essendosi affermato, in alcune
pronunce, che la legge in questione mirerebbe, in realta',
principalmente a salvaguardare la dignita' e la liberta' di
determinazione della persona che si prostituisce (Corte di
cassazione, sezione terza penale, 8 giugno 2004-2 settembre 2004, n.
35776; abbina pariteticamente tale interesse individuale alla
protezione della moralita' pubblica e del buon costume, Corte di
cassazione, sezione terza penale, 9 novembre 2004-21 gennaio 2005, n.
1716). Ed e' proprio valorizzando il riferimento alla libera
autodeterminazione della persona nella sfera sessuale, operato dal
nuovo indirizzo giurisprudenziale (peraltro in combinazione alla
dignita'), che la Corte rimettente nega che le norme censurate
possano ritenersi rispettose del principio di offensivita': se la
persona ha liberamente scelto di prostituirsi, chi l'aiuta a
realizzare la sua scelta recherebbe un vantaggio, e non un danno,
allo stesso interesse tutelato.
Successivamente, peraltro, la giurisprudenza di legittimita' ha
conosciuto una ulteriore evoluzione. Secondo le piu' recenti pronunce
in materia, infatti, il bene protetto dalla legge n. 75 del 1958 non
sarebbe ne' la morale pubblica, ne' la libera autodeterminazione
sessuale della persona che esercita il meretricio, la quale, se fosse
conculcata contro la sua volonta', darebbe luogo a ben diversi reati.
La tutela si focalizzerebbe, invece, soltanto sulla dignita' della
persona esplicata attraverso lo svolgimento dell'attivita' sessuale,
che non potrebbe costituire materia di contrattazioni (Corte di
cassazione, sezione terza penale, sentenze 17 novembre 2017-30 marzo
2018, n. 14593 e 19 luglio 2017-7 febbraio 2018, n. 5768).
Questa nuova correzione di rotta e' criticata dalle parti
costituite, le quali ravvisano in essa un mero espediente per evitare
di dover riconoscere l'illegittimita' costituzionale delle
disposizioni censurate. Il richiamo al concetto di dignita' - che
nella cornice del piu' recente orientamento assume chiaramente una
valenza oggettiva - maschererebbe, nella sostanza, una riesumazione
della vecchia prospettiva della tutela della morale dominante: valore
insuscettibile - in assunto - di assurgere a oggetto della tutela
penale, ostandovi il principio di laicita' dello Stato, che
impedirebbe di assoggettare a pena determinate condotte solo perche'
considerate dai piu' eticamente scorrette.
7.3.- Al riguardo, e' peraltro dirimente il rilievo che le
incriminazioni oggetto dell'odierno scrutinio si rivelano, comunque
sia, conciliabili con il principio di offensivita' "in astratto" ove
riguardate nell'ottica della protezione dei diritti fondamentali dei
soggetti vulnerabili e delle stesse persone che esercitano la
prostituzione per scelta, nei termini gia' illustrati: ottica nella
quale esse risultano rispettose dei canoni indicati dalla
giurisprudenza di questa Corte, appena sopra ricordati.
Quanto precede non significa, peraltro - come appare evidente -
che l'incriminazione delle "condotte parallele" alla prostituzione
rappresenti una soluzione costituzionalmente imposta e che il
legislatore non possa, nella sua discrezionalita', decidere di
fronteggiare i pericoli insiti nel fenomeno della prostituzione con
una strategia diversa. Quella in esame rientra, semplicemente, nel
ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non
contrastanti con la Costituzione.
In rapporto alla disciplina vigente, resta d'altra parte ferma,
in ogni caso, l'operativita' del principio di offensivita' nella sua
proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di
escludere la configurabilita' del reato in presenza di condotte che,
in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino concretamente
prive di ogni potenzialita' lesiva.
8.- Infondata e' anche l'ultima questione, con la quale si
denuncia il difetto di determinatezza e tassativita' della sola
fattispecie del favoreggiamento.
Questa Corte ha gia' avuto modo di dichiarare non fondata analoga
questione, sollevata all'indomani dell'entrata in vigore della legge
n. 75 del 1958, anche con riguardo alla fattispecie dello
sfruttamento (sentenza n. 44 del 1964, ribadita dalla successiva
ordinanza n. 98 del 1964). La conclusione va qui confermata.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, «l'inclusione nella
formula descrittiva dell'illecito di espressioni sommarie, di
vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti
"elastici", non comporta un vulnus del parametro costituzionale
evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato
consenta comunque al giudice - avuto riguardo alle finalita'
perseguite dall'incriminazione ed al piu' ampio contesto
ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il significato di
tale elemento mediante un'operazione interpretativa non esorbitante
dall'ordinario compito a lui affidato: quando cioe' quella
descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della
fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un
fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta
al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente
chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza n. 25
del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del 2014, n. 282 del
2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004).
Nella specie, la descrizione del fatto incriminato, nella sua
"asciuttezza" - «chiunque in qualsiasi modo favorisca [...] la
prostituzione altrui» - fa perno, comunque sia, su un concetto, quale
quello di favoreggiamento, di ampio e sperimentato uso nell'ambito
del diritto penale, e che compare (sia pure senza l'inciso «in
qualsiasi modo») anche in rapporto al delitto di prostituzione
minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.).
Per questo verso, la disposizione incriminatrice non e' affatto
piu' indeterminata di quanto lo sia la generale disposizione sul
concorso di persone nel reato (art. 110 cod. pen.), costruita
anch'essa come clausola sintetica («[q]uando piu' persone concorrono
nel medesimo reato»). Il favoreggiamento, del resto, non e' altro che
una forma di concorso materiale nella prostituzione altrui (pur con
la particolarita' che, per le ragioni gia' poste in evidenza,
nell'occasione e' punito solo il compartecipe e non l'autore del
fatto).
Contrariamente a quanto ritiene la Corte rimettente, nessun
argomento a sostegno della tesi dell'indeterminatezza del precetto
puo' essere ricavato dall'indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale, ai fini della punibilita', la condotta di favoreggiamento deve
essersi risolta in un aiuto alla prostituzione, e non gia' alla
persona dedita ad essa (per tutte, Corte di cassazione, sezione terza
penale, sentenze 4 febbraio 2014-17 febbraio 2014, n. 7338 e 22
maggio 2012-21 settembre 2012, n. 36595). L'affermazione e', infatti,
sintonica al testo della norma censurata - il quale esige che la
condotta incriminata favorisca l'attivita', e non la persona che la
esercita - e mira proprio ad evitare indebite dilatazioni della sfera
applicativa della figura criminosa. L'esistenza, poi, di dubbi o
contrasti riguardo alla concreta applicazione del principio in
rapporto a determinate fattispecie non vale, di per se', a dimostrare
il difetto di precisione del precetto, trattandosi di evenienza che
rientra nella fisiologia dell'ermeneutica giudiziale.
Cade, con cio', anche la censura di violazione dell'art. 3 Cost.,
sotto il profilo dell'ingiustificata disparita' di trattamento di
situazioni in assunto analoghe.
9.- Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni
vanno dichiarate, pertanto, non fondate in relazione a tutti i
parametri evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge
20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della
prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione
altrui), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo
comma, 27 e 41 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Bari con
l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Allegato:
ordinanza letta all'udienza del 5 marzo 2019
ORDINANZA
Rilevato che nel giudizio di legittimita' costituzionale promosso
dalla Corte di Appello di Bari con ordinanza del 6 febbraio 2018
(r.o. n. 71 del 2018), hanno depositato un unitario atto di
intervento l'Associazione Rete per la Parita', l'Associazione Donne
in quota, l'Associazione Coordinamento italiano della Lobby Europea
delle Donne/Lef-Italia, l'Associazione Salute Donna, l'Associazione
UDI (Unione Donne in Italia), l'Associazione Resistenza Femminista e
l'Associazione IROKO ONLUS; ha, altresi', depositato atto di
intervento l'Associazione Differenza Donna Onlus;
che le suindicate associazioni hanno depositato memoria,
rispettivamente, il 12 e il 13 febbraio 2019.
Considerato che le associazioni intervenienti non rivestono la
qualita' di parti del giudizio principale;
che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la
partecipazione al giudizio di legittimita' costituzionale e'
circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al
Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale,
al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale);
che a tale disciplina e' possibile derogare - senza venire in
contrasto con il carattere incidentale del giudizio di
costituzionalita' - soltanto a favore di soggetti terzi che siano
titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al
rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2019, n. 217 e n. 180 del
2018, ordinanze allegate alle sentenze n. 194 del 2018, n. 29 del
2017, n. 286 e n. 243 del 2016);
che il presente giudizio - che ha ad oggetto l'art. 3, primo
comma, numero 4), prima parte, e numero 8), della legge 20 febbraio
1958, n. 75, «nella parte in cui configura come illecito penale il
reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione
volontariamente e consapevolmente esercitata» - non e' destinato a
produrre, nei confronti delle associazioni intervenienti, effetti
immediati, neppure indiretti;
che, pertanto, esse non sono legittimate a partecipare al
giudizio dinanzi a questa Corte.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi dell'Associazione Rete per
la Parita', dell'Associazione Donne in quota, dell'Associazione
Coordinamento italiano della Lobby Europea delle Donne/Lef-Italia,
dell'Associazione Salute Donna, dell'Associazione UDI (Unione Donne
in Italia), dell'Associazione Resistenza Femminista,
dell'Associazione IROKO ONLUS e dell'Associazione Differenza Donna
Onlus.
F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento