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mercoledì 12 giugno 2019

N. 141 SENTENZA 6 marzo - 7 giugno 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Reati e pene - Reclutamento e favoreggiamento della prostituzione. - Legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8). - (GU n.24 del 12-6-2019 )



N. 141 SENTENZA 6 marzo - 7 giugno 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Reati e pene - Reclutamento e favoreggiamento della prostituzione.
- Legge 20 febbraio 1958, n. 75  (Abolizione  della  regolamentazione
  della  prostituzione  e  lotta   contro   lo   sfruttamento   della
  prostituzione altrui), art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte,
  e 8).

(GU n.24 del 12-6-2019 )
 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI,
     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  3,  primo
comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n.
75 (Abolizione della regolamentazione  della  prostituzione  e  lotta
contro lo sfruttamento della prostituzione  altrui),  promosso  dalla
Corte d'appello di Bari, nel procedimento penale a carico di G. T.  e
altri, con ordinanza del 6 febbraio  2018,  iscritta  al  n.  71  del
registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 2018.
    Visti gli atti di costituzione di G.  T.  e  di  M.  V.,  nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e  gli
atti di intervento dell'Associazione Rete per la Parita'  e  altre  e
dell'Associazione Differenza Donna Onlus;
    udito nell'udienza pubblica del 5 marzo 2019 il Giudice  relatore
Franco Modugno;
    uditi gli avvocati Antonella Anselmo per l'Associazione Rete  per
la  Parita'  e  altre,  Maria  Teresa  Manente   per   l'Associazione
Differenza Donna Onlus, Nicola Quaranta per G. T., Ascanio Amenduni e
Gioacchino Ghiro  per  M.  V.  e  l'avvocato  dello  Stato  Gabriella
Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.- Con ordinanza del 6 febbraio 2018, la Corte d'appello di Bari
ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo  comma,
27 e 41 della Costituzione, questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8),  della  legge
20 febbraio 1958, n.  75  (Abolizione  della  regolamentazione  della
prostituzione e lotta  contro  lo  sfruttamento  della  prostituzione
altrui), «nella parte  in  cui  configura  come  illecito  penale  il
reclutamento    ed    il    favoreggiamento    della    prostituzione
volontariamente e consapevolmente esercitata».
    1.1.-  La  Corte  rimettente   premette   di   essere   investita
dell'appello avverso  la  sentenza  del  Tribunale  di  Bari  del  13
novembre 2015,  che  ha  dichiarato  i  quattro  imputati  appellanti
colpevoli, in rapporto a distinti capi di imputazione, del delitto di
reclutamento di persone a fini di prostituzione, di cui  all'art.  3,
primo comma, numero 4), della legge n. 75 del 1958, e - limitatamente
a uno degli appellanti - anche del delitto di  favoreggiamento  della
prostituzione, di cui al numero 8) del medesimo art. 3.
    Con riguardo ad alcuni dei capi di imputazione, il  Tribunale  ha
ritenuto,  altresi',  assorbito  il   delitto   di   favoreggiamento,
originariamente contestato agli imputati, in quello di  reclutamento,
per il quale e' stata pronunciata condanna. Di  conseguenza,  ove  in
esito al giudizio di appello dovesse essere riformata la condanna per
il reato di reclutamento, riemergerebbe  l'esigenza  di  valutare  la
responsabilita'  degli  imputati  per  il   reato   gia'   dichiarato
assorbito.
    La Corte barese riferisce, per altro verso, che i  fatti  oggetto
di giudizio sono costituiti, nella sostanza, «dall'aver gli  imputati
organizzato, in favore dell'allora premier  S[...]  B[...],  incontri
con  escort   occasionalmente   o   professionalmente   dedite   alla
prostituzione»: dovendosi intendere per «escort»,  secondo  «la  piu'
comune  e  consolidata  accezione  del  termine»,  «l'accompagnatrice
ovvero la persona retribuita  per  accompagnare  qualcuno  e  che  e'
disponibile anche a prestazioni sessuali»,  con  esclusione,  quindi,
delle forme di esercizio della prostituzione a carattere  coattivo  o
«necessitato da ragioni di bisogno». Le  condotte  per  le  quali  si
procede si collocherebbero, dunque, in un contesto  che  non  implica
costrizioni  incidenti  sulla  determinazione  della  prostituta   di
effettuare prestazioni sessuali a pagamento.
    Le questioni sollevate - intese  a  censurare  la  configurazione
come illecito penale del reclutamento  e  del  favoreggiamento  della
prostituzione, anche quando si tratti di prostituzione liberamente  e
volontariamente esercitata - sarebbero, di conseguenza, rilevanti  ai
fini della decisione sul gravame. Il  loro  accoglimento  imporrebbe,
infatti, la riforma della sentenza appellata  e  l'assoluzione  degli
imputati, per non essere i fatti loro contestati piu'  previsti  come
reato.
    1.2.- Quanto, poi, alla  non  manifesta  infondatezza,  la  Corte
pugliese  assume  che  il  «fenomeno  sociale   della   prostituzione
professionale delle escort» rappresenterebbe un elemento di «novita'»
atto a far dubitare della legittimita' costituzionale della legge  n.
75 del 1958, ideata in  un'epoca  storica  nella  quale  il  fenomeno
stesso non era conosciuto e «neppure concepibile».
    Verrebbe, al riguardo,  segnatamente  in  rilievo  il  «principio
della liberta' di autodeterminazione sessuale della  persona  umana»:
liberta' che, nel caso delle escort, si esprimerebbe nella scelta  di
disporre della propria  sessualita'  «nei  termini  contrattualistici
dell'erogazione della prestazione sessuale contro pagamento di denaro
o di altra [...] utilita'». Si sarebbe  al  cospetto  di  un  diritto
costituzionalmente protetto: con la sentenza  n.  561  del  1987,  la
Corte  costituzionale  ha,  infatti,  affermato  che  la  sessualita'
rappresenta «uno degli essenziali modi di espressione  della  persona
umana», sicche' «il diritto di disporne liberamente e'  senza  dubbio
un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso  tra  le  posizioni
soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra
i diritti inviolabili della persona umana che l'art. 2  Cost.  impone
di garantire».
    La liberta' di esercitare la prostituzione non sarebbe stata,  in
verita',  misconosciuta  dalla  legge  n.  75  del  1958.  Essa   era
concepita, tuttavia, dal legislatore dell'epoca  essenzialmente  come
esigenza di sottrarre le prostitute allo sfruttamento  e  al  «potere
organizzativo»  altrui:  finalita'  alle  quali  era  preordinata  la
disposta  abolizione  delle  case  di   prostituzione.   Nell'odierno
contesto storico, di contro, il concetto di liberta' assumerebbe «una
connotazione ben piu' positiva e piena»: la  scelta  di  prostituirsi
verrebbe in evidenza, cioe', «come  modalita'  autoaffermativa  della
persona umana, che percepisce il proprio se' in termini di erogazione
della propria corporeita'  e  genitalita'  (e  del  piacere  ad  essa
connesso) verso o contro la dazione di diversa utilita'».
    La collocazione della liberta' di autodeterminazione  sessuale  -
e, con essa, della scelta di offrire sesso a pagamento -  nell'ambito
della tutela accordata dall'art. 2  Cost.  imporrebbe,  peraltro,  di
rimuovere ogni interferenza  normativa  che  ostacoli  la  sua  piena
esplicazione.
    L'inviolabilita' di tale diritto sarebbe  intaccata,  in  specie,
dalla  sottoposizione  a  pena  di  attivita'  di  terzi  che,  senza
interferire  sulla  libera  autodeterminazione   delle   escort,   si
connettono al carattere "relazionale" della liberta' considerata,  in
quanto volte a mettere le escort stesse in  contatto  con  i  clienti
(come nel caso del reclutamento), ovvero a permettere un piu'  comodo
esercizio   della   loro    attivita'    (come    nell'ipotesi    del
favoreggiamento).
    Nello spaziare - come nella vicenda oggetto del giudizio a quo  -
«dal   persuasivo   convincimento   sulla    bonta'    del    cliente
all'indicazione delle modalita' di presentazione  della  escort  allo
stesso», il reclutamento delle  libere  prostitute  professionali  si
collocherebbe all'interno del «libero incontro sul mercato del  sesso
tra  domanda  ed  offerta»,  andando  a  supportare  «il   preminente
interesse delle escort a segnalarsi».
    Un  discorso  similare   varrebbe   anche   per   l'ipotesi   del
favoreggiamento:  fattispecie   che   colpisce   non   la   fase   di
intermediazione tra domanda e offerta della prestazione sessuale,  ma
quella di concreta attuazione della scelta  di  prostituirsi,  e  che
rappresenterebbe un «formidabile deterrente» al compimento, da  parte
di  terzi,  di  condotte  che  agevolino,  anche  in  modo  minimale,
l'esercizio della prostituzione (quale  -  come  anche  nel  caso  di
specie - la messa a disposizione di una autovettura per  accompagnare
la escort  presso  il  luogo  di  incontro  con  il  cliente,  o  per
prelevarla da tale luogo).
    Ne' a diversa conclusione potrebbe pervenirsi ipotizzando che  le
condotte considerate siano idonee a offendere la moralita' pubblica o
il buon costume.  La  tutela  di  tali  valori  resterebbe,  infatti,
comunque sia, recessiva di fronte all'inviolabilita' del  diritto  di
cui si discute.
    1.3.- Le previsioni punitive  censurate  violerebbero,  al  tempo
stesso,  la  liberta'  di  iniziativa  economica  privata,  garantita
dall'art. 41  Cost.,  di  cui  pure  la  prostituzione  delle  escort
costituirebbe   espressione,   stante   il   carattere    normalmente
professionale dell'attivita' di erogazione  di  prestazioni  sessuali
verso corrispettivo: attivita' che, d'altra parte, viene  considerata
fonte di redditi tassabili.
    In base al  dettato  costituzionale,  l'iniziativa  economica  in
questione dovrebbe essere libera,  nella  stessa  misura  in  cui  e'
libera la scelta che sta a monte di essa (ossia quella di  utilizzare
la propria «corporeita'» in funzione  lucrativa).  Cio'  escluderebbe
che    forme    di    supporto    all'iniziativa,    quali     quelle
dell'intermediazione   e   del   favoreggiamento,   possano    essere
disincentivate tramite la loro configurazione come  illeciti  penali,
impedendo cosi' all'attivita' economica in  parola  di  evolversi  al
pari di tutte le altre forme imprenditoriali.
    Il vulnus che ne deriva sarebbe «davvero  rimarchevole»,  ove  si
consideri che alla escort dedita abitualmente alla suddetta attivita'
viene preclusa la possibilita' di assumere personale per  curarne  la
collocazione sul mercato o per pubblicizzarla, mentre alla escort che
esercita occasionalmente il meretricio verrebbe interdetta la  stessa
possibilita' di inserirsi nel mercato, non potendo  ella  valersi  di
collaboratori per avviare un  esercizio  dell'attivita'  a  carattere
professionale.
    Si   tratterebbe,   in    pratica,    di    una    ingiustificata
«ghettizzazione» del libero esercizio di una peculiare  attivita'  di
lavoro  autonomo,  rispetto  ad  altre  «forme  di  professionalita'»
riconosciute dall'ordinamento.
    1.4.- Le  disposizioni  censurate  si  porrebbero  in  contrasto,
ancora, con il principio di offensivita', desumibile dagli artt.  13,
25, primo [recte: secondo] comma, e 27 Cost., in forza del quale  non
vi puo' essere reato senza l'offesa di  un  bene  giuridico  tutelato
dall'ordinamento.
    La  Corte  rimettente   rileva,   in   proposito,   come   appaia
definitivamente superata la tesi  che  individua  il  bene  giuridico
protetto dalle disposizioni penali della legge n.  75  del  1958  nel
valore "paternalistico" della pubblica moralita', a favore di  quella
che lo identifica nella persona umana e nella sua liberta' di  scelta
in campo sessuale: in sostanza,  dunque,  nella  stessa  liberta'  di
autodeterminazione sessuale qualificabile  come  diritto  inviolabile
dell'uomo in base all'art. 2 Cost.
    Del resto, all'iniziale collocazione  dei  reati  in  materia  di
prostituzione nel Titolo IX del Libro II del codice penale  (dedicato
ai delitti contro la moralita' pubblica e il buon costume), ha  fatto
seguito, proprio con la  legge  n.  75  del  1958,  l'esodo  da  tale
partizione normativa, al quale si e' poi aggiunto il «depauperamento»
dello stesso Titolo IX operato dalla legge 15 febbraio  1996,  n.  66
(Norme  contro  la  violenza  sessuale),  che  avrebbe   sancito   il
«definitivo oscuramento» della tutela della  morale  pubblica  e  del
buon costume nei reati sessuali, ora annoverati tra i delitti  contro
la liberta' personale (Capo III del Titolo XII).  Passaggio,  questo,
in qualche modo preannuciato dalla citata sentenza n.  561  del  1987
della Corte costituzionale.
    La giurisprudenza di  legittimita'  si  sarebbe,  d'altro  canto,
univocamente espressa in tale direzione. Essa  avrebbe  riconosciuto,
infatti,  che  la  legge  n.  75  del  1958  tutela  la  liberta'  di
determinazione della donna nel compimento di atti sessuali, evitando,
con la minaccia della pena,  che  l'esercizio  del  meretricio  possa
essere frutto di scelta  condizionata  da  forme  di  coazione  o  di
sfruttamento (sono citate, in sequenza, Corte di cassazione,  sezione
terza penale, sentenza 8 giugno  2004-2  settembre  2004,  n.  35776;
sezioni unite penali, sentenza 19 dicembre 2013-14  aprile  2014,  n.
16207; sezione terza penale, sentenza 22 settembre  2015-17  dicembre
2015, n. 49643).
    Anche la Corte europea dei diritti dell'uomo, nella  sentenza  11
settembre 2007, Tremblay contro Francia, ha  d'altro  canto  ritenuto
che la prostituzione deve  essere  considerata  incompatibile  con  i
diritti e la dignita' della persona solo quando  costituisca  oggetto
di costrizione.
    In  quest'ottica,  tuttavia,   le   disposizioni   incriminatrici
censurate violerebbero il principio di  offensivita',  posto  che  le
condotte tanto di reclutamento quanto di favoreggiamento non solo non
recano  alcuna  offesa  alla  liberta'  di  autodeterminazione  della
persona che si prostituisce, ma  addittura  ne  facilitano  la  piena
attuazione. Se la escort  sceglie  liberamente  di  offrire  sesso  a
pagamento, chi «le da' una mano» nella realizzazione di  tale  scelta
«produce un vantaggio e non  un  danno  allo  stesso  bene  giuridico
tutelato».
    Ne'  gioverebbe  obiettare  che  la  condotta  ausiliatrice  puo'
rappresentare il primo passo  verso  lo  sfruttamento  economico  del
corpo  della  donna  da  parte  di  terzi.  Lo   sfruttamento   della
prostituzione costituisce, infatti, nell'articolazione della legge n.
75 del 1958, una fattispecie di reato autonoma rispetto a  quelle  di
reclutamento e di favoreggiamento: e, anzi,  proprio  la  pretesa  di
collegare  l'offensivita'  delle  condotte  incriminate   alla   loro
supposta capacita' di interferire con  altre  fattispecie  penalmente
rilevanti dimostrerebbe come esse  non  siano  dotate,  da  sole,  di
«intrinseca offensivita'».
    Egualmente inaccoglibile risulterebbe l'ulteriore tesi addotta  a
sostegno  dell'offensivita'  della  condotta   agevolatrice,   basata
sull'assunto che le  sole  condotte  penalmente  rilevanti  sarebbero
quelle dotate di rilevanza causale  rispetto  al  concreto  esercizio
della prostituzione. Infatti, se per condotta agevolatrice causale si
intende la prestazione di un ausilio che consenta l'attuazione  della
liberta' di autodeterminazione sessuale della escort, che  altrimenti
non  si  sarebbe  potuta  esplicare,  non  vi  sarebbe  ragione   per
considerare penalmente rilevante la condotta  stessa,  rappresentando
essa lo strumento piu'  idoneo  per  la  realizzazione  dello  stesso
interesse protetto. Se, invece, per condotta ausiliatrice causale  si
intende quella che incide sul processo di formazione  della  volonta'
della escort, si ricade nella distinta  ipotesi  dell'induzione  alla
prostituzione, autonomamente punita dalla legge n. 75 del 1958.
    Al fine di circoscrivere le condotte di  agevolazione  capaci  di
offendere  il  bene  protetto  non  potrebbe  farsi  neppure  ricorso
all'«abusata» distinzione tra «favoreggiamento della prostituzione» e
«favoreggiamento  della  prostituta»,  configurando   come   condotta
agevolativa causale solo il primo. Tale distinzione si  risolverebbe,
infatti, in una forzatura concettuale, posto  che  ogni  condotta  di
favoreggiamento puo' essere riguardata sia dal punto soggettivo, come
aiuto alla prostituta, sia  da  quello  oggettivo,  come  aiuto  alla
prostituzione.   Per   giunta,   la   distinzione   in   parola   non
corrisponderebbe neppure a quella tra  agevolazione  causale  e  non:
favorire una prostituta ben potrebbe tradursi, infatti, in un ausilio
causale (come nel  caso  della  prostituta  che  abbia  accettato  un
incontro sessuale in zona non servita da mezzi pubblici, solo perche'
il cliente si e' offerto di riaccompagnarla presso «la postazione  di
lavoro»), cosi' come un aiuto non causale potrebbe  essere  idoneo  a
favorire la prostituzione (come nel  caso  del  terzo  che  riabiliti
l'utenza   telefonica   cellulare   della   prostituta,    rendendola
rintracciabile dai clienti).
    1.5.- Tali ultime considerazioni inducono la Corte  rimettente  a
prospettare -  limitatamente  alla  fattispecie  del  favoreggiamento
della prostituzione - anche la violazione del principio di  legalita'
enunciato dall'art. 25,  secondo  comma,  Cost.,  nelle  declinazioni
della tassativita' e della determinatezza.
    Il problema non si porrebbe  in  rapporto  alla  fattispecie  del
reclutamento,  in  quanto  la  formulazione  della   relativa   norma
incriminatrice esigerebbe soltanto di "attualizzare"  la  nozione  di
«reclutamento», connessa storicamente alla  volonta'  legislativa  di
eliminare lo sfruttamento della prostituzione esercitata nelle  «case
chiuse».
    Per  converso,  la  configurazione  del   favoreggiamento   della
prostituzione come reato a forma libera («chiunque in qualsiasi  modo
favorisca [...] la prostituzione altrui»), senza  che  sia  in  alcun
modo definita la nozione di favoreggiamento, diversamente  da  quanto
e' avvenuto per i reati di favoreggiamento personale e  reale  (artt.
378 e 379 cod. pen.) - scelta motivata dall'intento di  garantire  il
piu' ampio spazio  di  tutela  al  bene  protetto  -  produrrebbe  la
paradossale conseguenza di rendere  necessaria  una  selezione  delle
condotte penalmente rilevanti non in ragione della  loro  conformita'
alla  fattispecie  astratta,  ma  in  rapporto  alla  loro   concreta
capacita' di offendere l'interesse protetto. Il che  equivarrebbe  al
riconoscimento dell'inadeguatezza  costituzionale  della  costruzione
della fattispecie.
    Tale inadeguatezza si apprezzerebbe con riguardo non  tanto  alla
formula normativa «favorisca [...] la prostituzione  altrui»,  quanto
piuttosto  al  «raddoppio  d'indeterminatezza»   di   tale   generica
previsione   conseguente   all'utilizzazione   dell'espressione   «in
qualsiasi modo», a  fronte  della  quale  «la  sanzione  penale  pare
davvero non conoscere limiti al suo spazio operativo».
    Infruttuoso, per quanto detto, sarebbe il tentativo  di  superare
il  difetto  di  determinatezza  della  fattispecie  a  mezzo   della
distinzione,   concettualmente   scorretta,    tra    ausilio    alla
prostituzione  e  ausilio   alla   prostituta.   Ove   tale   opzione
interpretativa fosse recepita, si produrrebbe, peraltro,  una  «ancor
piu' inaccettabile» violazione del principio di uguaglianza,  di  cui
all'art.  3  Cost.,   poiche'   condotte   «di   pacifica   idoneita'
ausiliativa»  verrebbero  arbitrariamente  sottratte  alla   sanzione
penale, diversamente da altre di pari efficacia.
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo  che  le  questioni  siano   dichiarate   inammissibili   o
infondate.
    Ad avviso dell'interveniente, il giudice a quo avrebbe  sollevato
le questioni al solo scopo di ottenere un avallo  interpretativo.  La
Corte rimettente non avrebbe, in particolare,  esperito  il  doveroso
tentativo di fornire un'interpretazione costituzionalmente  orientata
della norma censurata, verificando se gli stessi argomenti utilizzati
per sollevare la questione possano essere "specularmente"  utilizzati
per escludere dall'area di incidenza del precetto talune  fattispecie
concrete.
    Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.
    L'ordinanza di rimessione risulterebbe, infatti, inficiata da  un
errore di prospettiva, quanto all'individuazione del  bene  giuridico
protetto, che il giudice rimettente riferisce all'intera legge n.  75
del 1958. Dall'esame della giurisprudenza di legittimita' emergerebbe
come, in realta', la ratio di tutela delle  previsioni  in  questione
resti complessa, non esaurendosi nella sola protezione della liberta'
di determinazione della persona nella sfera  sessuale,  e  come  alle
diverse fattispecie contemplate dalla citata legge, e dal suo art.  3
in  particolare,  siano  sottesi  beni  giuridici   non   esattamente
sovrapponibili. Il giudice a quo non avrebbe considerato, in  specie,
che  il  citato  art.  3,  nell'incriminare  le  cosiddette  condotte
parallele alla  prostituzione,  ha  inteso  proteggere  la  "dignita'
obiettiva" della persona che si prostituisce, rinvenendo in  cio'  la
sua «ratio primaria».
    La stessa sentenza della Corte di cassazione n. 49643  del  2015,
richiamata dal rimettente, ha ritenuto, d'altro canto, manifestamente
infondate le questioni di legittimita'  costituzionale  dell'art.  3,
primo comma, numero 8), della legge n. 75 del  1958,  in  riferimento
agli artt. 2, 13, 19, 21, 25 e 27 Cost., escludendo che  il  concetto
di  «agevolazione»,   nel   quale   si   risolve   la   condotta   di
favoreggiamento della prostituzione, violi i principi  di  legalita',
determinatezza  e  offensivita',  come  pure  che   la   disposizione
incriminatrice contrasti con il principio di laicita' dello Stato.
    3.- Si e' costituito G. T., imputato nel giudizio a quo, instando
per l'accoglimento delle questioni.
    3.1.- La  parte  osserva  come,  alla  luce  della  piu'  recente
giurisprudenza di legittimita', sia indubbio che  il  bene  giuridico
tutelato  dalle  disposizioni  della  legge  n.  75  del  1958   vada
identificato - conformemente a quanto assume la  Corte  rimettente  -
nella liberta' di autodeterminazione sessuale,  liberta'  ascrivibile
al novero dei diritti fondamentali  della  persona  umana,  in  forza
dell'art. 2 Cost. Dovrebbe considerarsi, quindi, penalmente rilevante
qualsiasi condotta che  leda  tale  diritto,  inducendo  la  donna  a
disporre in maniera non volontaria della propria sessualita'.
    Come ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione, la  donna
che  decida  liberamente  e  spontaneamente  di  offrire  prestazioni
sessuali a pagamento opera una  scelta  legittima,  stante  la  piena
liceita'  giuridica  della   prostituzione.   Nell'odierno   contesto
sociale, ben lontano da quello in cui e' maturata la legge n. 75  del
1958, si assisterebbe non di rado all'effettuazione di libere  scelte
in tale direzione, dando luogo al fenomeno delle escort.
    In simile situazione, la frizione tra le norme censurate e l'art.
2  Cost.  risulterebbe  evidente,  posto  che  le  prime  incriminano
condotte di terzi inidonee a incidere sulle scelte dalla donna,  gia'
operate  in  modo  autonomo,  e  che   si   risolvono,   quindi,   in
comportamenti meramente strumentali - e, anzi, di ausilio -  rispetto
all'estrinsecazione della liberta' sessuale dell'interessata.
    3.2.- Come rilevato nell'ordinanza di rimessione, il  diritto  in
questione potrebbe essere inquadrato anche nell'ambito della liberta'
di iniziativa economica privata,  tutelata  dall'art.  41  Cost.,  in
quanto la donna  assumerebbe  il  ruolo  di  «imprenditore  in  forma
individuale del sesso».
    A tale conclusione sarebbero giunte, del resto, tanto la Corte di
cassazione, che ha ravvisato nell'esercizio del meretricio, frutto di
una scelta non condizionata da forme di coazione o  di  sfruttamento,
un'attivita' del tutto libera  e  fonte  di  redditivita'  tassabile;
quanto la Corte di giustizia dell'Unione europea, secondo la quale la
libera scelta di disporre in forma imprenditoriale del proprio corpo,
non solo e' lecita, ma  e'  altresi'  qualificabile  come  «attivita'
economic[a] svolt[a] in qualita' di lavoro autonomo»  (e'  citata  la
sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e altri).
    Risulterebbe,   quindi,   anche   per   questo    verso    palese
l'incostituzionalita' delle norme denunciate, mediante  le  quali  il
legislatore avrebbe  inibito  a  livello  penale  forme  di  sostegno
all'iniziativa economica in discorso.
    3.3.- Parimente leso sarebbe il principio di  offensivita',  alla
luce del quale potrebbero assumere rilevanza penale solo le  condotte
idonee  a  ledere  o  a  porre  in   pericolo   il   bene   protetto,
rappresentato, nel caso della legge n. 75 del 1958, dalla liberta' di
autodeterminazione  sessuale  della  persona:  attitudine   che   non
avrebbero le condotte di reclutamento e  di  favoreggiamento  che  si
collochino in un contesto nel quale la volonta' della donna  e'  gia'
maturata.
    Le condotte in questione non potrebbero essere, inoltre, tradotte
esegeticamente in un «primo passo  verso  lo  sfruttamento  economico
della prostituzione», cosi' come si afferma nella sentenza  di  primo
grado. In questo modo, infatti, da un lato  verrebbe  presupposta  la
futura interazione causale tra la volonta' della donna,  inizialmente
libera, e la condotta  dell'agente;  dall'altro,  si  opererebbe  una
eccessiva anticipazione della reazione penale rispetto  all'effettiva
lesione o messa in pericolo del bene giuridico. Cio', ferma  restando
la configurabilita' delle autonome fattispecie dell'induzione e dello
sfruttamento   della   prostituzione    allorche'    ne    sussistano
concretamente i presupposti.
    3.4.- La Corte rimettente avrebbe, per altro  verso,  tentato  di
fornire  una  lettura  costituzionalmente   orientata   delle   norme
censurate,   giungendo   -   condivisilmente    -    a    constatarne
l'impossibilita'.
    Del tutto condivisibili risulterebbero, in specie, le conclusioni
del  giudice  a  quo  riguardo  all'impossibilita'  di  avallare   la
distinzione, operata dalla giurisprudenza,  tra  condotte  penalmente
rilevanti, e non, a seconda del carattere causale dell'intervento del
terzo rispetto all'atto di prostituzione, posto che, nel  caso  delle
escort, la causalita' dell'intervento si traduce nel  rispetto  della
volonta' della «sex worker». Cosi'  come  inaccettabile  risulterebbe
l'ulteriore distinzione tra  favoreggiamento  della  prostituzione  e
favoreggiamento della prostituta: distinzione assolutamente oscura  -
non potendosi favorire l'una senza favorire  l'altra  -  e  priva  di
agganci nella generica previsione normativa.
    3.5.-  In  questa   prospettiva,   quella   del   favoreggiamento
resterebbe  una  figura  criminosa  indefinita,  la  cui  descrizione
contrasterebbe con i principi di tassativita' e determinatezza.
    Il legislatore avrebbe consegnato all'interprete una «fattispecie
onnivora», dai contorni vaghi e privi  di  capacita'  discretiva  tra
condotte agevolatrici in grado, o non in grado, di ledere o porre  in
pericolo  il  bene  tutelato,  rimettendo,  cosi',  all'arbitrio  del
giudice l'individuazione delle condotte incriminate.
    L'irragionevole  parificazione   quoad   poenam   di   situazioni
oggettivamente e soggettivamente diverse  si  tradurrebbe,  al  tempo
stesso, in una palese violazione dell'art. 3 Cost.
    3.6.- La parte costituita sottolinea,  da  ultimo,  come  i  piu'
recenti sviluppi giurisprudenziali e legislativi siano orientati  nel
senso di una sempre crescente tutela  dei  diritti  di  liberta',  al
punto  da  riconoscere  spazi  di  esplicazione  del   principio   di
autodeterminazione della persona  persino  con  riferimento  al  bene
supremo della vita (sono citate, al riguardo, la sentenza della Corte
di cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748, e  la
legge 22 dicembre 2017, n. 219, recante «Norme in materia di consenso
informato e di disposizioni anticipate di trattamento»).
    Ancor    piu'    pertinenti    all'odierno    thema    decidendum
risulterebbero, peraltro, altre espansioni dei  diritti  di  liberta'
individuali, sempre ricollegabili  all'art.  2  Cost.,  quali  quelle
connesse al progressivo riconoscimento della liberta'  di  scelta  in
relazione all'identita' sessuale e  all'omosessualita',  recentemente
sfociato nella legge sulle «unioni civili».  Non  si  comprenderebbe,
quindi, perche' ad analoghi approdi non debba  pervenirsi  anche  con
riguardo alla prostituzione volontaria.
    4.- Si e' costituito anche M. V., altro imputato nel  giudizio  a
quo, chiedendo del pari l'accoglimento delle questioni.
    4.1.- La parte osserva che l'obiettivo della legge n. 75 del 1958
era di tutelare delle donne che esercitavano la  prostituzione  nelle
cosiddette case chiuse. Nel contesto sociale dell'epoca, la donna non
poteva essere considerata totalmente  libera  di  autodeterminarsi  e
poteva, quindi, ritenersi o presumersi sfruttata.
    Nei sessant'anni trascorsi dall'entrata  in  vigore  della  legge
molte cose sarebbero cambiate sul piano della parita' dei diritti fra
uomo e donna. Ma sarebbe profondamente  cambiato  anche  il  fenomeno
della prostituzione. Quest'ultima non  e'  piu'  esercitata  soltanto
dalla donna, ma si e' andata espandendo anche al genere maschile e  a
nuove  figure,  "ibride"  dal  punto  di  vista  sessuale,  quali   i
cosiddetti transgender. Inoltre, dagli anni '70 dello  scorso  secolo
si e' iniziato a parlare non piu' di prostitute, ma di «sex  workers»
(ossia  di  lavoratori  del  sesso):  fenomeno  che  e'  sfociato  in
documenti strutturati, quale la «Dichiarazione dei diritti  dei/delle
sex  workers  in  Europa»,  firmata   a   Bruxelles   nel   2005   da
rappresentanti di organizzazioni aderenti a trenta Paesi.
    Attualmente, la prostituzione non  rappresenterebbe,  dunque,  un
fenomeno unitario, dovendosi individuare, al suo interno, almeno  tre
«raggruppamenti generali»: la  prostituzione  «per  costrizione»,  la
prostituzione  «per  necessita'»  e  la  prostituzione  «consapevole,
volontaria e professionale», frutto di libera scelta del soggetto che
decide di vendere il proprio corpo e le proprie abilita' sessuali per
denaro. Per lo piu', si tratta di  una  prostituzione  "di  lusso"  o
agiata, esercitata nel chiuso «di private e talora sontuose  dimore»,
proprie o del cliente, il quale versa un corrispettivo molto elevato.
    E' in quest'ultimo raggruppamento  che  si  colloca  il  fenomeno
delle escort: termine che identifica  l'accompagnatore  a  pagamento,
disponibile  ad  avere  rapporti  sessuali  con  il  cliente.  Figura
totalmente inesistente all'epoca dell'emanazione della  legge  n.  75
del 1958.
    Sotto diverso profilo, va considerato che, nel nostro ordinamento
- come univocamente affermato dalla Corte di cassazione, sia  civile,
sia penale - la prostituzione - di la' dagli apprezzamenti di  ordine
morale, dei quali il giudice,  quale  "osservatore  laico",  dovrebbe
peraltro disinteressarsi - costituisce  una  attivita'  assolutamente
lecita e non sanzionabile da parte dell'ordinamento. Lo stesso  Stato
italiano, tramite la sua giurisdizione tributaria, ha  d'altra  parte
richiesto alle prostitute di "pagare le tasse", sul  presupposto  che
la prostituzione costituisca «una prestazione di servizi  retribuita,
che  rientra  nella  nozione  di  attivita'  economiche»  (Corte   di
cassazione, sezione  quinta  civile,  sentenza  13  maggio  2011,  n.
10578).
    Si assisterebbe, dunque, a una «"schizofrenia"  giurisdizionale»:
il giudice tributario pretende di tassare il reddito da meretricio al
pari di quello delle altre attivita' lavorative autonome, in vista di
un gettito fiscale; il giudice penale, invece, punisce chi,  mediante
condotte  meramente  agevolatrici,  come  il  semplice  reclutamento,
facilita la produzione di detto reddito e del relativo gettito.
    4.2.- Cio' posto, l'art. 3, primo comma, numero 4),  della  legge
n. 75 del 1958, nella parte in  cui  punisce  il  reclutamento  della
prostituzione, verrebbe a porsi in palese contrasto  con  il  diritto
soggettivo alla liberta' sessuale, garantito dall'art. 2 Cost.
    Che la liberta'  sessuale  costituisca  un  diritto  fondamentale
della persona sarebbe pacifico, essendo stato affermato  dalla  Corte
costituzionale con la sentenza n. 561 del 1987.  Essa  e'  garantita,
altresi', da norme sovranazionali, quali  gli  artt.  8  e  14  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
    La liberta' sessuale puo' essere intesa, d'altro  canto,  in  due
accezioni: in senso negativo, come diritto della persona a non essere
sottoposta ad atti sessuali senza il  suo  libero  consenso  (diritto
tutelato dal codice penale negli artt. 609-bis e seguenti); in  senso
positivo, come diritto del soggetto a porre in essere, anche a  scopo
di lucro, una qualsiasi pratica sessuale in  modo  autodeterminato  e
non lesivo di interessi altrui, valendosi, se del caso, dell'aiuto  o
dell'intermediazione di  terzi,  pure  remunerandoli.  E  proprio  in
questa seconda accezione, di liberta' positiva, si inquadrerebbe oggi
la prostituzione libera e volontaria delle escort e  quel  che  ruota
attorno a tale fenomeno.
    Alla luce di tali considerazioni, tutte le  condotte  agevolative
della prostituzione dovrebbero essere  considerate  come  non  lesive
della  libera  scelta  della  prostituta  di   offrire   la   propria
sessualita' in cambio di denaro. Il reclutatore - che, in  base  alla
piu' recente interpretazione, e' colui  che  si  attiva  al  fine  di
collocare la prostituta nella disponibilita' di chi intende avvalersi
dell'attivita' di meretricio - si limita, infatti, a creare  maggiori
possibilita' lavorative al libero professionista della prostituzione,
senza incidere sul processo decisionale di quest'ultimo.
    L'attuale quadro normativo sarebbe inficiato, per converso, dalla
seguente antinomia: una liberta' dichiarata a parole, ma  scoraggiata
e ostacolata «nei fatti e nel diritto», e  trattata  quindi  in  modo
deteriore rispetto a quella di qualsiasi altro libero professionista,
che, a differenza  della  escort,  puo'  lecitamente  valersi  di  un
procuratore d'affari.
    4.3.- In quest'ottica, l'art. 3, primo comma,  numero  4),  della
legge n. 75 del 1958 si rivelerebbe lesivo anche  della  liberta'  di
iniziativa economica privata, garantita dall'art. 41 Cost.
    La  punibilita'  del  reclutatore  discriminerebbe,  infatti,  la
prostituzione volontaria rispetto ad altre forme di lavoro  autonomo,
le quali possono avvalersi di strumenti organizzativi e pubblicitari,
idonei ad  agevolare  i  contatti  professionali,  senza  ostacoli  o
deterrenti. La  prostituta,  al  contrario,  pur  potendo  esercitare
liberamente la propria attivita' retribuita e produttiva  di  redditi
tassabili, non puo' valersi di chi la  "ingaggi",  la  segnali  o  la
pubblicizzi,  perche',  cosi'  facendo,  lo  renderebbe  perseguibile
penalmente.
    Togliendo alle escort professioniste la  possibilita'  di  essere
"ingaggiate", come loro ambiscono per l'esercizio  del  loro  lavoro,
non si farebbe altro  che  spingerle  a  cadere  vittime  delle  reti
criminali della prostituzione  "da  strada",  realizzando  cosi'  una
paradossale eterogenesi dei fini del legislatore.
    4.4.- L'attuale previsione sanzionatoria del reclutamento ai fini
di prostituzione si porrebbe in contrasto anche con il  principio  di
offensivita'.
    Superando l'originaria impostazione, in base alla quale la  legge
n. 75 del 1958  doveva  ritenersi  posta  a  tutela  della  moralita'
pubblica  e  del  buon  costume,  la  Corte  di  cassazione   avrebbe
individuato - in particolare, con la sentenza n. 16207 del 2014 -  il
bene protetto nella sola liberta' di autodeterminazione del  soggetto
protetto.
    In  questa  prospettiva,   la   fattispecie   sanzionatoria   del
reclutamento  non  tutelerebbe  alcun  bene  giuridico,  giacche'  la
condotta del reclutatore non inciderebbe causalmente sulla scelta del
soggetto di fare mercimonio della propria sessualita', limitandosi  a
facilitare l'attuazione di tale libera scelta.
    Al  riguardo,  sarebbe  significativa  la  circostanza  che,  nel
giudizio  a  quo,  il  giudice  di  primo  grado,   pur   respingendo
l'eccezione di illegittimita' costituzionale formulata dai difensori,
abbia negato alle escort il risarcimento del  danno  chiesto  con  la
costituzione di parte  civile,  rilevando  come  nessuna  conseguenza
negativa sulla loro sfera psichica, emotiva o privata fosse  derivata
dai fatti oggetto di giudizio. Anzi, dall'istruttoria  dibattimentale
era emerso chiaramente come fossero le stesse escort a chiedere  agli
imputati  di  essere  ingaggiate,   manifestandosi   entusiaste   per
l'«irripetibile opportunita' lavorativa» loro offerta, foriera  anche
di vantaggi indiretti.
    4.5.- La formulazione testuale dell'art. 3, primo  comma,  numero
4), della legge n.  75  del  1958  apparirebbe,  infine,  lesiva  dei
principi di tassativita' e determinatezza.
    La disposizione non consentirebbe, infatti,  di  individuare  con
sufficiente precisione le condotte penalmente sanzionate, avvalendosi
di  una  «fraseologia  tanto  enfatica  quanto  generica»  («chiunque
recluti una persona al fine di farle esercitare la prostituzione»).
    In questo modo, il legislatore sarebbe venuto meno all'obbligo di
delineare con precisione la fattispecie di reato, cosi' da delimitare
l'ambito di discrezionalita' dell'autorita' giudiziaria e da  offrire
alla conoscenza preventiva dei consociati un quadro normativo certo e
ben definito, idoneo ad orientare consapevolmente le loro azioni.  In
presenza di una norma incriminatrice  cosi'  vaga,  come  quella  sul
reclutamento, l'ermeneutica del giudice degenererebbe in una  vietata
attivita' creativa di diritto, in spregio delle garanzie di legalita'
dei cittadini.
    Anche il legislatore avrebbe avvertito, d'altra parte, l'esigenza
di modificare la legge n. 75 del 1958, senza tuttavia intervenire con
una riforma  organica.  Di  recente,  infatti,  il  decreto-legge  20
febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in  materia  di  sicurezza
delle citta'), convertito, con  modificazioni,  in  legge  18  aprile
2017, n. 48, avrebbe indirettamente operato una netta distinzione tra
la "prostituzione da strada", che  nella  quasi  totalita'  dei  casi
avviene mediante  costrizione,  e  quella  volontaria  esercitata  in
appartamenti,   sulla   quale   il   decreto   nulla   ha   disposto.
L'assimilazione  dei  due  fenomeni,  divenuta  ormai  intollerabile,
permarrebbe, tuttavia, nel trattamento delle fattispecie  agevolative
della prostituzione.
    5.- Sono intervenute nel giudizio di legittimita'  costituzionale
l'Associazione Rete per la Parita', l'Associazione  Donne  in  quota,
l'Associazione  Coordinamento  italiano  della  Lobby  Europea  delle
Donne/Lef-Italia, l'Associazione  Salute  Donna,  l'Associazione  UDI
(Unione Donne in  Italia),  l'Associazione  Resistenza  Femminista  e
l'Associazione  IROKO  ONLUS,  nonche'  -   con   distinto   atto   -
l'Associazione Differenza Donna Onlus, le quali tutte  hanno  chiesto
che le questioni siano dichiarate infondate.
    6.- Il Presidente del Consiglio dei ministri  ha  depositato  una
memoria,  insistendo  affinche'   le   questioni   siano   dichiarate
inammissibili, ovvero infondate nel merito.
    Al  profilo  di  inammissibilita'  gia'  dedotto   nell'atto   di
intervento, connesso al fatto che il giudice a quo avrebbe  richiesto
un avallo interpretativo e  omesso  di  tentare  una  interpretazione
costituzionalmente  orientata,  l'Avvocatura  generale  dello   Stato
aggiunge quello collegato alla discrezionalita'  del  legislatore  in
materia di individuazione dei fatti da  sottoporre  a  pena  e  delle
sanzioni loro  applicabili:  discrezionalita'  il  cui  esercizio  e'
suscettibile di sindacato in sede di legittimita' costituzionale solo
ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio.
    Nel merito, quanto alla denunciata violazione dell'art. 2  Cost.,
la difesa dello Stato rileva come  la  giurisprudenza  piu'  recente,
tanto di legittimita' (Corte di  cassazione,  sezione  terza  penale,
sentenza 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593), quanto di  merito
(Corte di appello di Milano, sentenza 7 maggio 2018-16  luglio  2018,
n. 3176) - al pari, peraltro, della stessa Corte costituzionale, gia'
nella sentenza n. 44 del 1964 - rinvengano il bene giuridico protetto
dalla legge n. 75 del 1958 anche nella dignita' delle persone che  si
prostituiscono,  per  difenderle  contro   lo   sfruttamento   e   la
strumentalizzazione da parte di terzi. In un ordinamento  democratico
e pluralista la liberta' di disporre della  propria  sessualita'  non
potrebbe spingersi, in effetti,  sino  al  punto  di  incidere  sulla
stessa dignita' della persona umana.  Ne'  sarebbe  condivisibile  la
distinzione tra la dignita' in  senso  oggettivo  -  intesa  come  un
qualcosa di  esterno  alla  volonta'  del  soggetto  e  derivante  da
parametri  di  tipo  sociale  e   morale   desumibili   dall'opinione
collettiva o dalle norme di cultura di una  certa  societa'  -  e  la
dignita' in senso soggettivo, in base  alla  quale  ciascuna  persona
capace di autodeterminarsi avrebbe un  "suo"  concetto  di  dignita',
diverso  da  soggetto  a  soggetto.  Alla  luce  della  posizione  di
preminenza  che  la  dignita'  assume  fra  i  beni  protetti   dalla
Costituzione, sarebbe piu' corretto ritenere  che  si  tratti  di  un
«valore oggettivo e inderogabile da preservare».
    Insussistente sarebbe anche la denunciata violazione dell'art. 41
Cost., poiche' la liberta' del singolo di perseguire il  profitto  e'
tutelata solo a condizione che non comprometta altri  valori  che  la
Costituzione considera  preminenti,  tra  i  quali  anzitutto  -  per
l'appunto - quello della dignita' umana.
    Come rilevato, d'altro canto, dalla citata sentenza  della  Corte
d'appello di Milano in rapporto a una fattispecie concreta analoga  a
quella oggetto del giudizio principale, una volta individuato il bene
giuridico protetto nella dignita' della persona  umana,  non  sarebbe
ravvisabile alcuna  violazione  del  principio  di  offensivita'  "in
astratto", inteso,  cioe',  come  precetto  rivolto  al  legislatore,
impegnandolo a costruire fattispecie che implichino la lesione  o  la
messa in pericolo dell'interesse protetto. Le norme incriminatrici in
questione perseguono, infatti, lo scopo di impedire  che  le  persone
dedite  alla  prostituzione  vengano  strumentalizzate,  reclutate  e
indotte, comunque sia, alla loro attivita'.
    7.-  Anche  G.  T.  ha  depositato  memoria,   insistendo   nelle
conclusioni formulate in sede di costituzione.
    7.1.- La parte costituita contesta la  fondatezza  dell'eccezione
di inammissibilita' per omessa  sperimentazione  dell'interpretazione
conforme, formulata dall'Avvocatura dello Stato,  rilevando  come,  a
partire dalla sentenza n. 221 del 2015, la Corte costituzionale abbia
"depotenziato" il relativo  onere,  reputando  sufficiente,  ai  fini
dell'ammissibilita' della questione,  che  il  giudice  a  quo  abbia
consapevolmente escluso la possibilita' di pervenire  a  una  lettura
della norma costituzionalmente adeguata.
    Peraltro, anche ad ammettere che la Corte  rimettente  non  abbia
preso in considerazione in modo espresso una simile eventualita',  si
tratterebbe di una mancanza «del tutto formale». Il "diritto vivente"
in materia di  reclutamento  e  favoreggiamento  della  prostituzione
sarebbe,  infatti,   «graniticamente   fermo»   nell'escludere   ogni
rilevanza al consenso della persona offesa, ossia alla libera  scelta
della persona che si prostituisce. A fronte di  una  posizione  cosi'
consolidata,    espressa    dalla    totalita'     delle     pronunce
giurisprudenziali sia di legittimita',  sia  di  merito,  l'eventuale
interpretazione evolutiva e costituzionalmente conforme del giudice a
quo avrebbe avuto «un impatto episodico ed effimero»,  portando  poi,
verosimilmente, «ad una condanna finale dell'imputato».
    7.2.- Nel merito, la medesima  parte  costituita  rileva  come  -
contrariamente a quanto sostiene la difesa dello Stato - la  sentenza
n. 35776 del 2004 della Corte di cassazione abbia segnato una  svolta
nella  giurisprudenza  in  tema  di   individuazione   dell'interesse
protetto dalle disposizioni penali della legge n. 75 del 1958, con lo
spostamento dell'asse della  tutela  da  beni  giuridici  statali,  o
comunque sia pubblicistici e collettivi, quale la moralita' pubblica,
a beni individuali della persona, quale la dignita' e la liberta'  di
autodeterminazione in  materia  sessuale.  Nella  cornice  di  questo
indirizzo, seguito anche da pronunce successive - come la sentenza n.
49643 del 2015 - il riferimento alla «dignita'» non  potrebbe  essere
inteso che in senso soggettivo, proprio perche' tale  concetto  viene
accostato a quello di «liberta'» della persona che si prostituisce.
    E' ben vero, per altro verso, che la citata sentenza n. 49643 del
2015  ha  ritenuto   manifestamente   infondate   le   eccezioni   di
incostituzionalita'  della  fattispecie  del  favoreggiamento   della
prostituzione. Le argomentazioni al riguardo addotte dalla Cassazione
non sarebbero, tuttavia, affatto persuasive.
    Insuscettibile di avallo sarebbe, in specie,  l'affermazione  per
cui il principio di determinatezza non potrebbe  dirsi  violato  solo
perche' «la norma penale manchi di definizioni precise che  delineino
preventivamente i confini dell'illecito», potendosi a cio' facilmente
rimediare tramite una interpretazione  costituzionalmente  orientata,
cosi' come sarebbe avvenuto in  rapporto  alla  fattispecie  che  qui
interessa.  Il  ragionamento  sarebbe  chiaramente   scorretto,   non
potendosi legittimare la  mancanza  di  definizioni  precise  in  una
disposizione penale rinviando alla giurisprudenza per  delinearne  le
fattezze a mezzo  di  interpretazioni  costituzionalmente  orientate.
D'altronde, le interpretazioni  «offensivizzanti»  prospettate  dalla
giurisprudenza  negli  ultimi  anni  (quale   quella   basata   sulla
distinzione tra aiuto alla prostituzione e aiuto alla prostituta) non
avrebbero  affatto  risolto  i   problemi   indotti   dalla   «immane
incertezza» della norma incriminatrice, ma avrebbero anzi accresciuto
la confusione, tanto che su molti casi specifici si  riscontrerebbero
contrasti interpretativi, con diverso trattamento di fatti analoghi o
addirittura identici.
    Sotto  altro  profilo,  la  citata  pronuncia  della   Corte   di
cassazione - pur individuando correttamente il  bene  protetto  nella
liberta' di autodeterminazione della prostituta - avrebbe escluso  la
violazione del principio di offensivita' sulla base di  un  artificio
argomentativo: quello per  cui  l'agevolazione  della  prostituzione,
anche nel caso di prostitute "per libera scelta",  costituirebbe  «il
primo  passo  verso  lo  sfruttamento  economico  del   corpo   della
prostituta». Soluzione che implicherebbe una «esagerata anticipazione
della tutela» penale a uno stadio  ancora  precedente  a  quello  del
semplice  pericolo  per  il  bene  tutelato.  Lo  sfruttamento  della
prostituta "per libera scelta" - se mai dovesse verificarsi in futuro
-  non  sarebbe  certamente  legato  da  un  rapporto  giuridicamente
rilevante con una condotta di «semplice e innocua agevolazione».
    7.3.-  Una  particolare  attenzione  meriterebbe  l'affermazione,
contenuta nell'atto di intervento del Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, stando alla quale la legge n. 75 del 1958 proteggerebbe  la
«dignita' oggettiva» della persona che si prostituisce.
    L'individuazione  in  tale  valore  del   bene   protetto   dalle
incriminazioni di settore - repentinamente operata, in effetti, dalle
«ultimissime»  decisioni  giurisprudenziali  -  rappresenterebbe   un
tentativo  per  eludere  le  conseguenze  del  rilevato   spostamento
dell'asse della tutela dalla moralita' pubblica al bene  privatistico
della liberta' di autodeterminazione: impostazione che  non  potrebbe
non imporre la dichiarazione di incostituzionalita' delle fattispecie
del   reclutamento   e   del   favoreggiamento,   ovvero   la    loro
reinterpretazione  nel  senso  di  dare  rilievo,  come  fattore   di
esclusione la punibilita', al  consenso  dell'avente  diritto  (nella
specie, la prostituta per libera scelta). Surrogando, come  obiettivo
di tutela, la liberta' di autodeterminazione della prostituta con  la
dignita' oggettiva della stessa, si ottiene, infatti, il risultato di
escludere  la  disponibilita'  del  bene  protetto   in   capo   alla
prostituta,  cosi'  da  legittimare   la   repressione   penale   del
reclutamento e del favoreggiamento anche nei confronti di  prostitute
per libera scelta.
    La  concezione  della  dignita'  maggiormente  rispondente   alle
esigenze costituzionali  sarebbe,  tuttavia,  quella  soggettiva.  Il
diritto penale,  se  usato  per  tutelare  una  dignita'  "oggettiva"
imposta  al  singolo   dall'alto,   contro   la   sua   liberta'   di
autodeterminazione, si  trasformerebbe,  infatti,  in  uno  strumento
oppressivo e autoritario. In realta',  dietro  a  pretese  concezioni
oggettive e invalicabili  della  dignita'  umana  si  nasconderebbero
intenti  moralistici,  che  sfociano  in  un  "paternalismo   morale"
inaccettabile come giustificazione di una norma incriminatrice.
    8.- Pure M. V. ha depositato  memoria,  insistendo  affinche'  le
questioni siano accolte.
    8.1.- La parte osserva  che  la  legge  n.  75  del  1958,  nella
temperie storica dell'epoca, ha riconosciuto bensi' la liberta' della
donna di fare commercio del proprio  corpo,  ma  «con  molte  riserve
etico-religiose»: dunque, ha  inteso  scoraggiare  l'esercizio  della
prostituzione punendo non solo - com'era giusto - lo sfruttamento, ma
anche le condotte di semplice aiuto.
    Oggi, sessant'anni dopo, molte donne eserciterebbero  l'attivita'
di escort volontariamente e senza costrizione  alcuna,  come  vere  e
proprie libere  professioniste:  sarebbe  giusto,  pertanto,  che  il
suddetto scoraggiamento - dovuto a pregiudizi morali -  cessi  e  che
sia consentito anche a loro avere «un proprio  staff  organizzativo».
Del resto, anche le modelle, le  spogliarelliste  e  alcune  attrici,
come le "porno dive", in qualche modo  fanno  commercio  del  proprio
corpo, senza che chi ne agevola le attivita' venga punito.
    La  parte  reputa,  altresi',  particolarmente  significativa  la
decisione recentemente assunta dalla Corte costituzionale  in  ordine
alla fattispecie dell'aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del  2018),
nella quale si riconosce che  il  malato  che  versi  in  determinate
condizioni ha il diritto di decidere come morire  e  anche  di  farsi
aiutare in cio': dovendosi, al riguardo, tener  conto  di  specifiche
situazioni, inimmaginabili all'epoca in cui la  norma  incriminatrice
dell'istigazione o aiuto al  suicidio  fu  introdotta.  Ma,  se  deve
ritenersi legittimo lasciare alla liberta' individuale la  scelta  di
disporre della propria  vita  in  modo  estremo  e  irreversibile,  a
maggior ragione dovrebbe riconoscersi la possibilita' di disporre  in
modo transitorio del proprio corpo, destinandolo al piacere  sessuale
altrui per un corrispettivo.
    8.2.- Anche M. V. contesta, poi, la fondatezza dell'eccezione  di
inammissibilita'   delle   questioni   per   omessa   sperimentazione
dell'interpretazione conforme, formulata dall'Avvocatura dello Stato.
    L'interpretazione conforme non sarebbe,  infatti,  possibile,  in
quanto si risolverebbe nella disapplicazione del testo normativo.  Il
giudice a quo e' inoltre esonerato dal tentativo  di  interpretazione
conforme in presenza di un diritto vivente  di  segno  contrario:  e,
nella  specie,  il  diritto  vivente  formatosi  sul  favoreggiamento
avrebbe tentato di adeguare tale figura di reato alle mutate esigenze
di tutela, ma elaborando distinzioni  inutilizzabili  perche'  troppo
incerte e inadatte a dare attuazione al  principio  di  offensivita',
oltre  che  a  risolvere  i  problemi   di   indeterminatezza   della
fattispecie.
    Quanto al merito delle difese del Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, la parte privata ribadisce, in particolare, che la Corte di
giustizia, nella sentenza 20 novembre 2001, causa  C-268/99,  Jany  e
altri, ha dato mostra di considerare la prostituzione «un lavoro come
un altro», inquadrabile nella  categoria  delle  libere  professioni,
tanto da garantire a chi lo esercita il diritto di  poterlo  svolgere
in ogni Paese europeo in base al principio della libera  circolazione
dei lavoratori.
    Conseguentemente, sarebbe mutato anche il concetto di «dignita'».
Il diritto  penale  potrebbe  tutelare  la  dignita'  solo  in  senso
soggettivo, e non oggettivo,  non  potendosi  sottoporre  a  pena  un
comportamento  solo  perche'   considerato   poco   dignitoso   dalla
maggioranza della popolazione, ovvero in base alla "morale di Stato",
a meno di voler far «rivivere il tramontato  Stato  etico  d'infausta
memoria».
    9.- Hanno depositato memoria anche  l'Associazione  Rete  per  la
Parita', l'Associazione Donne in quota, l'Associazione  Coordinamento
italiano della Lobby Europea delle  Donne/Lef-Italia,  l'Associazione
Salute  Donna,  l'Associazione  UDI   (Unione   Donne   in   Italia),
l'Associazione Resistenza Femminista e  l'Associazione  IROKO  ONLUS,
eccependo l'inammissibilita' delle  questioni,  in  quanto  intese  a
chiedere  un  intervento  che  rientra  nella  discrezionalita'   del
legislatore, e sviluppando ulteriormente,  nel  merito,  le  critiche
all'impianto argomentativo dell'ordinanza di rimessione formulate con
l'atto di intervento.
    10.- Con ordinanza pronunciata all'udienza pubblica del  5  marzo
2019  questa  Corte  ha  dichiarato,  peraltro,   inammissibili   gli
interventi ad opponendum delle Associazioni  ora  indicate  e  quello
dell'Associazione Differenza Donna Onlus.

                       Considerato in diritto

    1.-  La  Corte  d'appello  di  Bari  dubita  della   legittimita'
costituzionale dell'art. 3, primo comma, numeri 4),  prima  parte,  e
8),  della  legge  20  febbraio  1958,  n.   75   (Abolizione   della
regolamentazione della prostituzione e lotta contro  lo  sfruttamento
della prostituzione altrui),  «nella  parte  in  cui  configura  come
illecito  penale  il  reclutamento  ed   il   favoreggiamento   della
prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata».
    La Corte rimettente muove dal rilievo che, nell'attuale  contesto
storico, la prostituzione non e' un fenomeno unitario.  Accanto  alla
prostituzione "coattiva"  e  a  quella  "per  bisogno",  vi  sarebbe,
infatti, una prostituzione per scelta totalmente libera e volontaria,
la quale troverebbe  espressione  paradigmatica  nella  figura  della
escort   (intendendosi   per   tale   l'accompagnatrice   retribuita,
disponibile anche a prestazioni sessuali):  figura  ignota  all'epoca
dell'approvazione della legge n. 75 del 1958.
    Su tale premessa, la Corte  pugliese  assume  che  la  scelta  di
offrire prestazioni sessuali verso  corrispettivo  costituirebbe  una
forma  di  estrinsecazione  della  liberta'   di   autodeterminazione
sessuale, garantita dall'art.  2  della  Costituzione  quale  diritto
inviolabile  della  persona   umana.   Tale   liberta',   di   natura
intrinsecamente   "relazionale",    risulterebbe    compromessa    da
disposizioni che sanzionino penalmente attivita' di terzi che - senza
incidere sull'autodeterminazione della persona che si prostituisce  -
si limitino a mettere in contatto quest'ultima con  i  clienti  (come
nel caso del reclutamento) o a rendere piu' comodo l'esercizio  della
sua attivita' (come nell'ipotesi del favoreggiamento).
    Risulterebbe con cio' violata anche  la  liberta'  di  iniziativa
economica privata,  tutelata  dall'art.  41  Cost.,  della  quale  il
volontario   esercizio   della   prostituzione   costituirebbe   pure
espressione, in quanto attivita' normalmente professionale  svolta  a
fine di profitto. Precludendo, con la minaccia della pena,  forme  di
supporto  all'iniziativa,   quali   quelle   dell'intermediazione   e
dell'agevolazione,  le  norme  denunciate  priverebbero   l'attivita'
economica in questione della possibilita' di svilupparsi al  pari  di
ogni altra iniziativa imprenditoriale.
    Le norme censurate si porrebbero in  contrasto,  ancora,  con  il
principio di necessaria  offensivita'  del  reato,  desumibile  dagli
artt. 13, 25, secondo comma, e 27 Cost. Secondo la giurisprudenza  di
legittimita'  piu'  recente,  infatti,   il   bene   protetto   dalle
disposizioni penali della legge n. 75 del 1958 andrebbe identificato,
non gia' nel valore "paternalistico"  e  anacronistico  della  morale
pubblica   e   del   buon   costume,   ma   proprio   nella    libera
autodeterminazione della  persona  che  si  prostituisce.  In  questa
prospettiva,   tuttavia,   le   condotte   di   reclutamento   e   di
favoreggiamento   della    prostituzione    liberamente    esercitata
risulterebbero  del  tutto  inoffensive:  il   "reclutatore"   e   il
"favoreggiatore"  si  limiterebbero,   infatti,   ad   agevolare   la
realizzazione della scelta dell'interessata,  producendo,  cosi',  un
vantaggio e non un danno per lo stesso interesse tutelato.
    Una  conclusiva  questione  investe  la  sola   fattispecie   del
favoreggiamento, che la Corte rimettente  denuncia  come  lesiva  dei
principi  di  tassativita'  e  determinatezza  dell'illecito  penale,
ricavabili dall'art. 25, secondo comma, Cost. La formula  descrittiva
della condotta incriminata - «chiunque, in qualsiasi modo,  favorisca
[...] la prostituzione altrui» -  risulterebbe,  infatti,  totalmente
generica, rimettendo al giudice  il  compito  di  individuare,  nella
infinita  gamma  dei  comportamenti  riconducibili  alla  fattispecie
astratta, quelli lesivi dell'interesse protetto.
    I  criteri  elaborati  dalla  giurisprudenza   allo   scopo   non
sarebbero, d'altra parte, affatto  valsi  a  colmare  la  carenza  di
precisione  del  precetto,  ma  avrebbero  anzi  generato   ulteriori
incertezze.  Il  discorso  varrebbe,  in  modo  particolare,  per  la
distinzione giurisprudenziale tra favoreggiamento della prostituzione
(punibile) e favoreggiamento della persona dedita alla  prostituzione
(non punibile): distinzione da ritenere concettualmente  scorretta  e
che finirebbe per  generare  disparita'  di  trattamento  lesive  del
principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
    2.- In via preliminare, va rilevato che non possono essere  prese
in esame le deduzioni svolte dalla parte costituita M. V.,  intese  a
dimostrare che anche la norma incriminatrice del reclutamento ai fini
dell'esercizio della prostituzione, di cui all'art. 3,  primo  comma,
numero 4), prima parte, della legge n. 75 del 1958,  e'  carente  sul
piano della tassativita' e della determinatezza.
    L'ordinanza di rimessione e', infatti, univoca  nel  limitare  la
censura di violazione dei principi di tassativita'  e  determinatezza
alla sola ipotesi del favoreggiamento, escludendo  espressamente  che
analogo problema di  costituzionalita'  si  ponga  in  rapporto  alla
fattispecie del reclutamento (la cui descrizione normativa esigerebbe
soltanto di "attualizzare" la  nozione  di  «reclutamento»,  connessa
storicamente alla volonta' legislativa di eliminare  lo  sfruttamento
della prostituzione esercitata nelle «case chiuse»).
    Vale, dunque, il principio,  costantemente  affermato  da  questa
Corte, per cui l'oggetto del giudizio di legittimita'  costituzionale
in via incidentale e'  limitato  alle  disposizioni  e  ai  parametri
indicati nelle ordinanze di rimessione: con la  conseguenza  che  non
possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o  profili
di costituzionalita' dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non  fatti
propri dal  giudice  a  quo,  sia  volti  ad  ampliare  o  modificare
successivamente il contenuto delle  stesse  ordinanze  (ex  plurimis,
sentenze n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018 e n. 29 del 2017).
    3.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' delle questioni sotto due distinti profili.
    3.1.- Secondo la difesa dello Stato, il  giudice  a  quo  avrebbe
omesso,   anzitutto,   di   esperire   il   doveroso   tentativo   di
interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate,
sollevando  le  questioni  al  solo  scopo  di  ottenere  un   avallo
interpretativo.
    L'eccezione e' infondata.
    L'ipotetica interpretazione adeguatrice cui  allude  l'Avvocatura
dello  Stato,  senza  peraltro  specificarne  i  contenuti,  dovrebbe
evidentemente consistere  nel  ritenere  che  il  reclutamento  e  il
favoreggiamento della prostituzione restino, gia' ora, esenti da pena
allorche' la persona reclutata o favorita abbia liberamente scelto di
prostituirsi. Cio', o perche' si tratterebbe di condotte non conformi
alla  fattispecie   legale,   ovvero,   eventualmente,   in   ragione
dell'operativita' della scriminante del consenso dell'avente  diritto
(art. 50 del codice penale).
    Entrambe le  soluzioni  ermeneutiche  si  pongono,  tuttavia,  in
frontale contrasto con  il  diritto  vivente.  La  giurisprudenza  di
legittimita' non ha mai dubitato, infatti, che le  incriminazioni  in
esame   trovino   applicazione   a   prescindere   dall'atteggiamento
psicologico della persona che si prostituisce  e  dal  suo  eventuale
pieno consenso al compimento degli  atti  di  meretricio  (in  questo
senso, espressamente, da ultimo, Corte di cassazione,  sezione  terza
penale, sentenze 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593 e 19 luglio
2017-7 febbraio 2018, n. 5768). Conclusione che appare, peraltro,  in
linea non  soltanto  con  l'indifferenziato  tenore  letterale  delle
previsioni punitive,  ma  anche  -  come  si  avra'  presto  modo  di
verificare - con la logica stessa del modello di intervento  adottato
dalla legge n. 75 del 1958.
    Non si puo', pertanto, rimproverare alla Corte rimettente di  non
essersi espressamente interrogata sulla praticabilita' di alternative
ermeneutiche, che risulterebbero chiaramente eccentriche rispetto  al
modo in cui le disposizioni censurate "vivono" da  sessant'anni.  Per
costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, in presenza  di  un
orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo, se pure
e' libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa esegesi,
ha,  alternativamente,  la  facolta'  di  assumere  l'interpretazione
censurata in termini di «diritto vivente» e di  richiederne  su  tale
presupposto  il  controllo  di   compatibilita'   con   i   parametri
costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 39 del 2018, n. 259 del 2017
e n. 200 del 2016; ordinanza n. 201 del 2015). Cio', senza che gli si
possa addebitare di non  aver  seguito  altra  interpretazione,  piu'
aderente ai parametri stessi, sussistendo tale onere solo in  assenza
di un contrario diritto vivente (tra le altre, sentenze  n.  122  del
2017 e n. 11 del 2015): nell'ipotesi considerata, infatti, «la  norma
vive  ormai  nell'ordinamento  in  modo   cosi'   radicato   che   e'
difficilmente   ipotizzabile   una   modifica   del   sistema   senza
l'intervento del legislatore o [della] Corte» (tra le altre, sentenza
n. 191 del 2016; in senso analogo, ordinanza n. 207 del 2018).
    3.2.-   L'altra   eccezione   di   inammissibilita',    formulata
dell'Avvocatura  dello  Stato  nella  memoria,  fa  leva   sull'ampia
discrezionalita' che, secondo la costante  giurisprudenza  di  questa
Corte, compete al legislatore in tema  di  individuazione  dei  fatti
punibili.
    Essa  attiene,  peraltro,  piu'  propriamente  al  merito   delle
questioni.
    4.- Quanto al merito, l'approccio al thema  decidendum  non  puo'
prescindere da una preliminare ricognizione del  quadro  normativo  e
giurisprudenziale di riferimento.
    4.1.- Il fenomeno della prostituzione - vocabolo che designa,  in
via di prima approssimazione, l'effettuazione di prestazioni sessuali
verso corrispettivo, di  norma  in  modo  abituale  e  indiscriminato
(senza,  cioe',  una  previa  limitazione  a  specifici  partner)   -
rappresenta un tema  fra  i  piu'  problematici  per  il  legislatore
penale.  Il  problema  non  riguarda,  ovviamente,  la  prostituzione
"forzata" o la tratta a fini di sfruttamento sessuale: ipotesi  nelle
quali e' l'esigenza di tutela  della  persona  a  reclamare  in  modo
evidente e indiscutibile l'intervento punitivo. Ma quando  si  tratti
della prostituzione volontaria, l'analisi  storico-comparatistica  e'
quanto mai restia a esprimere delle costanti, offrendo, nei  tempi  e
nei luoghi, una amplissima gamma di risposte differenziate circa l'an
e il quomodo dell'impiego della sanzione penale.
    Al fondo della  varieta'  di  soluzioni  normative,  si  colloca,
peraltro, la preliminare opzione tra due visioni alternative.
    In base alla prima, la prostituzione andrebbe riguardata come una
scelta   attinente   all'autodeterminazione   in   materia   sessuale
dell'individuo,  che  da'  luogo  a  un'attivita'  economica  legale.
L'ordinamento    dovrebbe,    quindi,    lasciare    gli    individui
tendenzialmente liberi di praticare la prostituzione, di  fruire  del
servizio sessuale e di agevolarlo. Si tratterebbe,  semmai,  solo  di
regolare opportunamente l'esercizio dell'attivita', onde  far  fronte
ai "pericoli" in essa insiti, analogamente a quanto avviene per tutte
le  attivita'   economiche   che   comportino   "rischi   consentiti"
dall'ordinamento (cosiddetto modello regolamentarista).
    Nella  seconda  prospettiva,  per  converso,   la   prostituzione
costituirebbe  un  fenomeno  da  contrastare,  anche  penalmente,  in
ragione delle sue ricadute negative sul piano individuale e  sociale.
Tali ricadute si  apprezzerebbero  su  una  pluralita'  di  versanti:
quello dei diritti  fondamentali  dei  soggetti  vulnerabili;  quello
della dignita' umana (intesa in una accezione oggettiva,  ossia  come
principio  che  si  impone  a  prescindere  dalla  volonta'  e  dalle
convinzioni del singolo individuo); quello della salute,  individuale
e collettiva (non soltanto in rapporto al pericolo di  diffusione  di
malattie  trasmissibili  sessualmente,  ma  anche  in  relazione   ai
maggiori rischi di dipendenza da droga e  alcol,  nonche'  di  traumi
fisici e psicologici, depressione e disturbi mentali, cui e'  esposta
la persona che si prostituisce); quello, infine, dell'ordine pubblico
(tenuto  conto  delle  attivita'  illecite  che   frequentemente   si
associano alla prostituzione, quali, ad esempio, oltre alla tratta di
persone, il traffico di stupefacenti e il crimine organizzato).
    In  quest'ottica,  la  prostituzione   viene   quindi   collocata
nell'ambito di una  disciplina  "di  sfavore"  variamente  calibrata,
secondo chi si decida di punire: entrambe  le  parti  del  mercimonio
sessuale (persona dedita alla  prostituzione  e  cliente:  cosiddetto
modello proibizionista, adottato, ad esempio, negli Stati Uniti,  con
alcune eccezioni); ovvero una sola di esse (la quale nelle  soluzioni
piu'  recenti  si  identifica   nel   cliente:   cosiddetto   modello
neo-proibizionista); ovvero, ancora, soltanto le cosiddette  condotte
parallele alla prostituzione, ossia i  comportamenti  dei  terzi  che
entrano in relazione con questa, inducendo la  persona  a  esercitare
tale attivita', ovvero  favorendola  o  traendone  utili  (cosiddetto
modello abolizionista).
    4.2.- La disciplina italiana della materia anteriore  alla  legge
n. 75 del 1958 si ispirava  al  modello,  di  origine  francese,  del
cosiddetto   regolamentarismo   classico   (per   distinguerlo    dal
regolamentarismo contemporaneo, di cui si dira' piu' avanti),  basato
sul sistema delle «case di tolleranza» (maisons de tolerance).
    L'idea  di  fondo  ad  esso  sottesa  e'  che  la   prostituzione
rappresenti un "male necessario", non eliminabile, ma suscettibile  e
meritevole di essere regolato a fini di tutela dell'ordine pubblico e
della salute (idea riflessa anche nel riferimento alla  «tolleranza»,
che compare  nel  nomen  delle  case  di  prostituzione).  In  questo
modello, la prostituzione viene quindi  concepita  come  un'attivita'
sottoposta a controllo di polizia,  subordinata  al  rilascio  di  un
permesso alla singola prostituta e di una licenza per l'esercizio  di
gruppo, che deve avvenire in appositi edifici rispondenti a una serie
di requisiti.
    Nel  nostro   ordinamento,   la   relativa   regolamentazione   -
particolarmente rigida e capillare - era racchiusa  nel  testo  unico
delle leggi di pubblica sicurezza (artt. 190  e  seguenti  del  regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante «Approvazione del testo unico
delle leggi di pubblica sicurezza») e nel relativo regolamento (artt.
345 e seguenti del regio decreto  6  maggio  1940,  n.  635,  recante
«Approvazione del regolamento per l'esecuzione  del  testo  unico  18
giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza»). L'esercizio
abituale  della  prostituzione  era  consentito   solo   nei   locali
dichiarati  di  meretricio  dall'autorita'  di  pubblica   sicurezza,
controllati  dal  punto  di  vista  sanitario,   aventi   particolari
caratteristiche (una sola uscita, persiane sempre chiuse), soggetti a
specifici orari di apertura e sui quali lo Stato riscuoteva  regolari
imposte; fuori dalle case di prostituzione, l'attivita' poteva essere
esercitata solo in sede non fissa, costituendo reato il meretricio in
luogo chiuso non preventivamente  autorizzato;  le  prostitute  erano
schedate in un apposito registro, munite di un libretto  personale  e
sottoposte a visite mediche obbligatorie.
    In tale cornice, la tutela penale aveva un  ambito  sensibilmente
piu' ristretto rispetto all'attuale. La materia era disciplinata  nel
Titolo XI del Libro II del codice penale, dedicato ai «delitti contro
la moralita' pubblica e il  buon  costume».  Esclusa  la  punibilita'
della prostituzione in se', nel codice  Rocco  esistevano  ovviamente
fattispecie incriminatrici contro la  prostituzione  forzata:  ma  le
"condotte  parallele"   alla   prostituzione   volontaria   -   quali
l'istigazione, il favoreggiamento e lo  sfruttamento  -  costituivano
reato  solo   in   presenza   di   particolari   condizioni,   legate
segnatamente,  quanto  alle  prime   due   ipotesi   (istigazione   e
favoreggiamento), alla  qualita'  dei  soggetti  passivi  (minorenni,
persone  in  stato  di  infermita'  o  deficienza  psichica,  stretti
congiunti dell'autore del fatto: artt. 531 e 532 cod. pen.) e, quanto
alla terza (sfruttamento), alla circostanza che fosse posto in essere
un vero e proprio "sistema di vita" di  tipo  parassitario  in  danno
della persona dedita alla prostituzione (cosi' venendo ordinariamente
inteso dalla giurisprudenza il concetto di farsi «mantenere»  da  una
prostituta, evocato dall'art. 534 cod. pen.).
    Un  simile  regime  si   era   rivelato,   peraltro,   largamente
insoddisfacente.  Pur  riconoscendo  una  parvenza  di   legittimita'
all'operato delle donne che si prostituivano, esso non si  proponeva,
in ultima analisi, di tutelarle. Dietro la patina di  tolleranza,  si
celava, in effetti, una legislazione orientata alla "ghettizzazione":
confinate all'interno delle «case chiuse», schedate  e  sottoposte  a
trattamenti  sanitari  obbligatori,  le   prostitute   si   trovavano
costrette, di fatto, ad esercitare la loro attivita' in condizioni di
avvilimento e degrado, nonche' in situazione  di  sfruttamento  e  di
sottomissione al tenutario della "casa".
    4.3.- Nel frattempo, si  era  peraltro  fatto  strada  in  ambito
europeo un nuovo modello di disciplina della prostituzione, originato
da un movimento sorto in Gran Bretagna: il cosiddetto abolizionismo.
    Il suo postulato di partenza e' che la prostituzione  costituisca
una attivita' lesiva della dignita' delle persone che la  esercitano,
le quali non avrebbero verosimilmente operato una  simile  scelta  in
diverse e piu' favorevoli condizioni economiche e sociali.  Lo  Stato
non dovrebbe, pertanto, regolare tale attivita': meno che  mai,  poi,
prevedendo misure, quali le case di prostituzione e gli  obblighi  di
visita medica, che si  risolvano,  di  fatto,  in  limitazioni  della
liberta' personale del soggetto che si prostituisce.
    Nel lungo termine, la prostituzione andrebbe piuttosto eliminata.
A questo risultato  non  si  dovrebbe  giungere,  pero',  punendo  la
persona dedita alla prostituzione, perche' in tal modo  si  finirebbe
per colpire due volte quelle che sono in realta' vittime del  sistema
sociale; e neppure punendo il cliente, perche' cosi' si scaricherebbe
sul semplice fruitore della  prestazione  una  responsabilita'  della
quale dovrebbe farsi carico lo  Stato.  L'obiettivo  dovrebbe  essere
conseguito invece, da un  lato,  rimovendo  le  cause  sociali  della
prostituzione; dall'altro, reprimendo  severamente  le  attivita'  ad
essa collegate - quali l'induzione, il lenocinio, lo  sfruttamento  o
anche il semplice favoreggiamento (le "condotte parallele")  -  cosi'
da non consentire alla prostituzione di svilupparsi e di proliferare.
Idee,  queste,  che  hanno  trovato  una  significativa   eco   nella
Convenzione per la repressione della  tratta  degli  esseri  umani  e
dello  sfruttamento  della  prostituzione,  adottata   dall'Assemblea
generale delle Nazioni Unite il 2 dicembre 1949 e aperta alla firma a
Lake Success-New York il  21  marzo  1950,  alla  quale  l'Italia  ha
aderito il 18 gennaio 1980, depositando il relativo  strumento  sulla
base dell'autorizzazione rilasciata con legge 23  novembre  1966,  n.
1173.
    Nel nostro Paese,  l'adeguamento  ai  principi  abolizionisti  ha
avuto luogo con la legge n. 75 del 1958 (cosiddetta legge Merlin, dal
nome della proponente): legge il cui titolo recita significativamente
«Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro
lo sfruttamento della prostituzione altrui».
    La  riforma  muta  radicalmente  la   prospettiva   del   modello
preesistente. Di la' dalle motivazioni di  ordine  piu'  propriamente
etico e morale (delle quali pure i lavori parlamentari  recano  ampia
traccia), si ritiene  fondamentalmente,  in  linea  con  i  ricordati
principi abolizionisti, che la scelta di esercitare la  prostituzione
trovi normalmente la sua matrice in una condizione di vulnerabilita',
legata a cause individuali e sociali  (quali  «la  distruzione  della
vita di famiglia, l'insufficienza dell'educazione,  il  bisogno»,  «i
rischi  speciali  inerenti  a  certe  professioni»   o   il   «quadro
ambientale» di moralita' degradata). La persona che vende prestazioni
sessuali e', dunque, potenzialmente una vittima e l'aggressore e'  la
societa' nel suo complesso. Di qui la  necessita'  che  lo  Stato  si
astenga dal rendersi compartecipe dell'"industria del  sesso":  «allo
Stato, che ha gli stessi doveri  verso  tutti  i  cittadini,  non  e'
lecito di sacrificare una parte della popolazione, la piu'  debole  e
la piu' miserabile, agli uomini che  vogliono  abusarne»  (in  questi
termini la relazione del senatore Boggiano Pico del 21  gennaio  1955
alla prima commissione permanente del Senato della Repubblica).
    Viene  evocata  -  correlativamente   -   anche   l'esigenza   di
salvaguardia della dignita' umana (alla quale fa riferimento pure  il
preambolo della citata Convenzione delle Nazioni Unite). La pregressa
disciplina della materia viene considerata contrastante,  in  specie,
con  i  principi  di  «pari  dignita'  sociale»   e   di   promozione
dell'eguaglianza  sostanziale  dei  cittadini  in  vista  del  «pieno
sviluppo della persona umana» (art.  3  Cost.),  con  il  limite  del
«rispetto  della  persona  umana»  nella  previsione  di  trattamenti
sanitari obbligatori (art. 32 Cost.),  nonche'  con  i  limiti  della
liberta'  e  della  dignita'  umana  cui  e'  soggetta   l'iniziativa
economica privata (art. 41 Cost.) (in questo senso la relazione  alla
proposta  di  legge  presentata  dall'onorevole  Tozzi  Condivi  alla
Presidenza della Camera dei deputati il 6 aprile 1956,  ove  pure  si
ribadisce come le persone «cadute nella prostituzione» non  lo  siano
«quasi mai per  loro  decisa  e  libera  volonta'»,  essendo  «invece
trascinate a quella vita per condizioni di vita famigliare,  sociale,
affettiva»). Nella  medesima  relazione,  la  nuova  normativa  viene
presentata come un  provvedimento  che  mira  «non  a  sopprimere  la
prostituzione ma soltanto  a  sopprimere  la  regolamentazione  della
prostituzione»,  impedendo  «che  nello  Stato  possa  esistere   una
prostituzione autorizzata e regolamentata»  e  che  «ci  siano  degli
esseri umani che vivano sfruttando legalmente il vizio e la miseria».
    A questi fini, la legge vieta, quindi,  l'esercizio  di  case  di
prostituzione e dispone la chiusura di quelle esistenti (artt. 1 e  2
della legge n. 75  del  1958).  Fa  espresso  divieto,  altresi',  di
qualsiasi forma  di  registrazione  delle  donne  che  esercitano  la
prostituzione, escludendo che le stesse possano  essere  obbligate  a
presentarsi periodicamente alle autorita'  di  pubblica  sicurezza  o
alle autorita' sanitarie (art. 7). Prevede, al tempo  stesso,  misure
di rieducazione e reinserimento sociale delle donne che escono  dalle
case di prostituzione (artt. 8 e 9).
    Sul piano penalistico, rimane ferma la non punibilita' tanto  del
soggetto che si prostituisce  -  a  meno  che  i  suoi  comportamenti
integrino gli estremi della nuova contravvenzione  di  adescamento  o
invito al libertinaggio, di cui all'art. 5 della legge n. 75 del 1958
(contravvenzione  poi  depenalizzata  dal  decreto   legislativo   30
dicembre 1999, n. 507, recante «Depenalizzazione dei reati  minori  e
riforma del sistema sanzionatorio, ai  sensi  dell'articolo  1  della
legge 25 giugno 1999, n. 205») - quanto del cliente che si  limiti  a
fruire della prestazione  sessuale  (la  cui  punibilita'  sara'  poi
prevista nella sola ipotesi della  prostituzione  minorile  dall'art.
600-bis cod. pen., aggiunto  dalla  legge  3  agosto  1998,  n.  269,
recante «Norme contro  lo  sfruttamento  della  prostituzione,  della
pornografia, del turismo sessuale in danno  di  minori,  quali  nuove
forme di riduzione in schiavitu'»).
    Le politiche abolizioniste  rivelano,  peraltro,  chiaramente  il
loro obiettivo ultimo con  la  criminalizzazione  "a  tappeto"  delle
"condotte parallele" alla prostituzione. Quest'ultima e' configurata,
bensi', come un'attivita' in se' lecita: e  pero'  le  si  fa  "terra
bruciata" attorno,  vietando,  sotto  minaccia  di  sanzione  penale,
qualsiasi interazione di terzi con essa, sia sul piano materiale  (in
termini di promozione, agevolazione o sfruttamento),  sia  sul  piano
morale (in termini di induzione).
    Le disposizioni di cui agli artt. da 531 a 536 cod. pen.  vengono
sostituite, in questa chiave, da quelle dell'art. 3 della legge n. 75
del 1958, il quale, nei suoi otto numeri, reca un fitto  e  policromo
elenco di condotte incriminate,  tutte  punite  con  l'energica  pena
della reclusione da due a sei anni, oltre la  multa  (attualmente  da
euro 258 a euro 10.329).
    Nella lista dei comportamenti incriminati figurano anche  le  due
fattispecie  che   formano   oggetto   degli   odierni   quesiti   di
costituzionalita': il reclutamento di «una persona al fine  di  farle
esercitare la prostituzione» (art. 3, primo comma,  numero  4,  prima
parte) e il favoreggiamento, «in qualsiasi modo», della prostituzione
altrui (art. 3, primo comma, numero 8, prima parte).
    Per  «reclutamento»  si  intende,  in  sostanza,  l'ingaggio  per
l'esercizio della prostituzione: e cio' indipendentemente  dal  fatto
che la persona ingaggiata sia gia' dedita a tale attivita' o  fino  a
quel momento  estranea  ad  essa.  Al  lume  della  corrente  esegesi
giurisprudenziale, il reclutamento si realizza, in specie,  allorche'
l'agente  si  attivi  al  fine  di   collocare   la   persona   nella
disponibilita'   del   soggetto   che   intende   trarre    vantaggio
dall'attivita'  di  meretricio.  Per  l'integrazione  del  reato  e',
quindi,  sufficiente  un'attivita'  di  ricerca  della   persona   da
ingaggiare   e   di   persuasione   della   medesima,   mediante   la
rappresentazione  dei  vantaggi  realizzabili,  a   recarsi   in   un
determinato luogo e a  rimanervi  per  un  certo  tempo  al  fine  di
esaudire  le  richieste  di  prestazioni  sessuali  dei  clienti  (ex
plurimis, tra le piu' recenti, Corte  di  cassazione,  sezione  terza
penale, sentenze 20  ottobre  2016-28  marzo  2017,  n.  15217  e  12
novembre 2014-27 marzo 2015, n. 12999).
    Il favoreggiamento (previsto dal numero  8  in  alternativa  allo
sfruttamento) rappresenta, a sua volta, una fattispecie  residuale  e
"di chiusura", finalizzata a reprimere tutti quei comportamenti  atti
a creare condizioni favorevoli per  l'esercizio  della  prostituzione
che sarebbero potuti sfuggire altrimenti  all'incriminazione,  stante
la tecnica casistica utilizzata per descrivere le fattispecie di  cui
ai numeri precedenti. La lata formulazione della disposizione fa  si'
che essa si presti a reprimere le piu' svariate condotte che  valgono
a rendere piu' facile, comodo, sicuro  o  lucroso  l'esercizio  della
prostituzione altrui.
    4.4.- L'esperienza piu' recente ha visto, peraltro, emergere,  in
ambito europeo, ulteriori modelli di disciplina della  prostituzione,
ai quali non e' inopportuno far cenno in questa sede, ai fini di  una
visione comparata del fenomeno.
    Essi muovono  dal  riscontro  delle  criticita'  manifestate  dal
modello abolizionista nel  conseguimento  degli  obiettivi  prefissi:
essendosi rilevato che, se, per un verso,  nei  Paesi  che  lo  hanno
adottato la prostituzione non ha affatto registrato una significativa
flessione; per un altro verso, esso avrebbe finito per perpetuare  la
condizione di debolezza sociale della persona che si  prostituisce  e
per esporla a maggiori rischi, sul piano dell'incolumita' personale e
della salute.
    Le soluzioni  per  far  fronte  a  tali  criticita'  sono  state,
peraltro, ricercate in due direzioni contrapposte.
    Da un lato, si  e'  infatti  ritenuto  che  occorra  superare  le
ambiguita' dell'abolizionismo in direzione "liberale",  considerando,
cioe', la prostituzione volontaria come un'attivita' economica lecita
a tutti gli effetti, assimilabile alle  altre  fonti  di  guadagno  e
generatrice di ordinari  diritti  economici  e  sociali  (nonche'  di
doveri fiscali) in capo a coloro che la esercitano. L'attenzione  del
legislatore si dovrebbe focalizzare, in quest'ottica,  essenzialmente
sulle cosiddette procedure di riduzione del danno, intese a  limitare
le conseguenze negative che la vendita di prestazioni  sessuali  puo'
comportare. Questo approccio  e'  fondamentalmente  alla  base  delle
legislazioni "neo-regolamentariste", di vario taglio, messe in  campo
a partire dagli anni '90 dello scorso secolo in Paesi quali l'Olanda,
la Germania, l'Austria e la Svizzera.
    In   senso   diametralmente   opposto,   si    addebita    invece
all'abolizionismo di "non fare abbastanza" per  tutelare  la  persona
che si prostituisce dalla condotta vessatoria degli  altri  soggetti,
fra i quali rientrerebbe lo stesso cliente. Andrebbe  percio'  eretto
un argine piu' robusto contro l'approfittamento di una condizione  di
vulnerabilita',   che   caratterizzerebbe   le   persone    che    si
prostituiscono.
    E' sulla scia di questo filone critico  dell'"abolizionismo"  che
si sviluppano le recenti politiche "neo-proibizioniste"  adottate  da
alcuni Paesi europei: politiche che hanno trovato, in  certa  misura,
appoggio anche da parte delle  istituzioni  dell'Unione  europea.  In
base  ad  esse,  il  legislatore  penale  dovrebbe  intervenire   per
proteggere il soggetto debole (anche) da  colui  che,  attraverso  la
"domanda" del servizio sessuale, ne alimenta lo  sfruttamento:  ossia
il cliente.
    Nella versione piu' "temperata" di tale modello, il "consumatore"
viene punito solo quando acquisti servizi sessuali da una persona che
sia vittima di prostituzione forzata (e' la  soluzione  adottata  nel
Regno Unito con il Policing and  Crime  Act  del  2009).  Una  simile
tecnica  d'intervento  trova  eco  nella  direttiva  2011/36/UE   del
Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011, concernente «la
prevenzione e la repressione  della  tratta  di  esseri  umani  e  la
protezione delle vittime», la quale invita specificamente  gli  Stati
membri a impegnarsi per ridurre la "domanda" che  e'  alla  base  del
traffico  di  esseri  umani,  anche  valutando  la  possibilita'   di
prevedere come reato  l'utilizzo  di  servizi  che  sono  oggetto  di
sfruttamento, qualora l'agente sia a conoscenza  che  la  persona  e'
vittima di tratta (art. 18, paragrafo 4).
    Nella versione piu'  ricorrente  e  radicale,  per  converso,  si
sceglie di punire il cliente sic et simpliciter, ossia a  prescindere
dalle caratteristiche della persona che offre i  servizi  sessuali  e
dalla condizione  di  soggiogamento  o  di  necessita'  in  cui  essa
eventualmente si trovi. Si tratta del cosiddetto  "modello  nordico",
essendo stata una simile strategia adottata anzitutto  dalla  Svezia,
sul finire degli anni '90, e poi seguita  da  altri  Paesi  del  Nord
Europa, ai quali  si  e'  peraltro  recentemente  aggiunta  anche  la
Francia.
    Il ricorso a un simile modello e'  visto,  altresi',  con  favore
nella Risoluzione del Parlamento europeo del  26  febbraio  2014,  su
«sfruttamento sessuale e prostituzione, e  loro  conseguenze  per  la
parita' di genere» (2013/2103 - INI, punto 29).
    4.5.- E' di sicuro interesse, agli odierni  fini,  rilevare  come
tanto le soluzioni legislative ispirate al  modello  "abolizionista",
quanto quelle ispirate al modello "neo-proibizionista" nella versione
piu' radicale - che espande ulteriormente, tramite la  punizione  del
cliente, il perimetro della "terra  bruciata"  attorno  all'attivita'
della persona  dedita  alla  prostituzione  -  siano  state  ritenute
costituzionalmente compatibili dai Tribunali costituzionali di  altri
Paesi europei, in relazione a censure in buona misura  sovrapponibili
a quelle oggi rimesse all'esame di questa Corte.
    Riguardo  alle  soluzioni  del  primo  tipo,  si  e'  pronunciato
segnatamente in tal senso il Tribunale costituzionale del  Portogallo
(Paese  la  cui  legislazione   rispecchia   anch'essa   il   modello
"abolizionista"), il quale,  con  la  sentenza  n.  641/2016  del  21
novembre 2016,  ha  negato  che  possa  ritenersi  costituzionalmente
illegittima la norma incriminatrice del cosiddetto lenocinio semplice
(art. 169, comma 1, del codice penale  portoghese,  come  novellato),
costituito dal fatto di chi, «professionalmente o comunque a fine  di
lucro, fomenta, favorisce o facilita l'esercizio della  prostituzione
da parte di altra persona».
    Quanto al secondo modello, il Consiglio  costituzionale  francese
ha parimente escluso, con la recente decisione n. 2018-761 QPC del 1°
febbraio 2019, la denunciata incostituzionalita' dell'art. 611-1  del
codice penale francese, aggiunto  dalla  legge  13  aprile  2016,  n.
2016-444, che sottopone a pena (pecuniaria) il cliente della  persona
che si prostituisce, a  prescindere  dal  carattere  forzato,  o  no,
dell'attivita' di quest'ultima.
    5.- Scendendo, quindi, sulla scorta di tale  excursus,  all'esame
delle censure di illegittimita' costituzionale formulate dalla  Corte
rimettente, l'attenzione va  portata  anzitutto  su  quella  riferita
all'art. 2 Cost.
    Nel denunciare la violazione di tale parametro, la Corte pugliese
muove dal rilievo che l'attuale contesto storico  -  ben  diverso  da
quello, postbellico, nel quale la legge n. 75 del 1958 fu concepita -
si caratterizzerebbe per la presenza di una prostituzione  totalmente
libera e volontaria, non dovuta, cioe', ne' a coazione altrui, ne'  a
uno stato di bisogno della persona che la esercita: una prostituzione
tendenzialmente "di elite" e rivolta a clienti  facoltosi,  incarnata
emblematicamente    dalla    figura    della    cosiddetta     escort
(accompagnatrice  retribuita,   disponibile   anche   a   prestazioni
sessuali). Ed  e'  alla  luce  di  tale  nuova  realta'  sociale  che
andrebbe, dunque, verificata  la  legittimita'  costituzionale  delle
soluzioni adottate dal legislatore del 1958.
    Secondo il giudice a quo, la scelta di prostituirsi, ove libera e
volontaria,  rappresenterebbe,   in   effetti,   una   modalita'   di
espressione  della   «liberta'   di   autodeterminazione   sessuale»,
qualificabile come diritto inviolabile della persona umana  garantito
dall'art. 2 Cost. Da cio'  l'asserita  necessita'  costituzionale  di
rimuovere ogni ostacolo alla piena realizzazione della scelta stessa:
ostacolo che verrebbe, per converso, frapposto da disposizioni  quali
quelle censurate, che reprimono condotte di terzi intese a promuovere
e ad agevolare l'attivita' della prostituta, in accordo  con  i  suoi
stessi desiderata.
    Si tratta di conclusione  che,  se  fondata,  avrebbe  una  forza
espansiva che va chiaramente oltre le fattispecie del reclutamento  e
del favoreggiamento.  Nella  medesima  logica,  sarebbero  destinate,
infatti, a cadere anche tutte le altre previsioni punitive  dell'art.
3 della legge n. 75 del  1958  che  colpiscono  forme  specifiche  di
"cooperazione" alla prostituzione altrui, non importa se  remunerate.
Risulterebbe  posta,  anzi,  in  dubbio  -  contrariamente  a  quanto
mostrano di ritenere la Corte rimettente  e  le  parti  costituite  -
persino   la    legittimita'    costituzionale    dell'incriminazione
dell'induzione alla prostituzione (numeri 5 e  6  dell'art.  3  della
legge n. 75 del 1958), ove scevra da  violenza,  minaccia  o  inganno
(modalita' di condotta che, nell'architettura della legge n.  75  del
1958, integrano una circostanza aggravante speciale: art.  4,  numero
1). Non si comprenderebbe infatti - in quella logica - perche'  debba
essere sottoposta a pena  la  persuasione  ad  effettuare  una  certa
opzione, anziche' un'altra, nell'ambito del ventaglio delle possibili
modalita' alternative di esercizio di un  diritto  inviolabile  della
persona.
    5.1.- La tesi del giudice a quo non puo' essere condivisa.
    L'art. 2 Cost. impegna la Repubblica  italiana  a  riconoscere  e
garantire i «diritti inviolabili dell'uomo», sia  come  singolo,  sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita' e richiede
l'adempimento  dei  doveri  inderogabili  di  solidarieta'  politica,
economica e sociale. La previsione si presenta strettamente  connessa
a quella del successivo art.  3,  secondo  comma,  che,  al  fine  di
rendere effettivi tali diritti,  impegna  altresi'  la  Repubblica  a
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che  impediscono
«il pieno sviluppo della persona umana».
    L'art. 2 Cost. collega, dunque, i diritti inviolabili  al  valore
della persona e al principio di solidarieta'. I diritti  di  liberta'
sono riconosciuti, cioe', dalla Costituzione in relazione alla tutela
e allo sviluppo del valore della persona e tale valore fa riferimento
non all'individuo isolato, ma a una persona  titolare  di  diritti  e
doveri  e,   come   tale,   inserita   in   relazioni   sociali.   Il
costituzionalismo contemporaneo e', del resto, ispirato all'idea  che
l'ordinamento non deve limitarsi a garantire i diritti costituzionali
ma deve adoprarsi  per  il  loro  sviluppo.  Di  qui  una  concezione
dell'individuo come persona  cui  spetta  una  "liberta'  di"  e  non
soltanto una "liberta' da".
    E' vero che con la sentenza n. 561  del  1987  -  richiamata  dal
giudice a quo a sostegno della sua tesi - questa  Corte  ha  ritenuto
che il catalogo dei diritti inviolabili  evocati  dall'art.  2  Cost.
includa la «liberta' sessuale».  Si  e'  rilevato,  infatti,  che  la
sessualita' rappresenta «uno degli  essenziali  modi  di  espressione
della persona umana», con la conseguenza che «il diritto di  disporne
liberamente e' senza dubbio un diritto soggettivo  assoluto,  che  va
ricompreso tra le posizioni soggettive  direttamente  tutelate  dalla
Costituzione ed inquadrato tra i diritti  inviolabili  della  persona
umana che l'art. 2 Cost. impone di garantire». Ma  l'affermazione  e'
stata resa in rapporto  a  una  fattispecie  nella  quale  veniva  in
rilievo il profilo negativo di tale liberta',  ossia  il  diritto  ad
opporsi  a  "intrusioni"  altrui  non  volute  nella  propria   sfera
sessuale, e con riguardo alle pretese risarcitorie  scaturenti  dalla
violazione di tale diritto. Si  lamentava,  infatti,  nell'occasione,
che la disciplina sul trattamento pensionistico di guerra  escludesse
la risarcibilita' dei danni non patrimoniali patiti dalle vittime  di
violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici.
    E' indubbio, peraltro, che l'asserto dianzi riprodotto  ben  puo'
ritenersi riferibile anche al  profilo  positivo  della  liberta'  in
questione, il quale implica che ciascun individuo possa  fare  libero
uso della  sessualita'  come  mezzo  di  esplicazione  della  propria
personalita', s'intende, nel limite del rispetto dei diritti e  delle
liberta' altrui.
    5.2.- Se e' il collegamento  con  lo  sviluppo  della  persona  a
qualificare  la  garanzia  apprestata  dall'art.  2  Cost.,  non   e'
possibile ritenere che la prostituzione  volontaria  partecipi  della
natura di diritto inviolabile - il cui esercizio dovrebbe  essere,  a
questa  stregua,   non   solo   non   ostacolato,   ma   addirittura,
all'occorrenza, agevolato dalla Repubblica  -  sulla  base  del  mero
rilievo che essa coinvolge la sfera sessuale di chi la esercita.
    Non  puo'  essere  certamente  condiviso  l'assunto  del  giudice
rimettente,   stando   al   quale   la    prostituzione    volontaria
rappresenterebbe una «modalita' autoaffermativa della persona  umana,
che percepisce il proprio se' in termini di erogazione della  propria
corporeita' e genitalita' (e del piacere ad essa  connesso)  verso  o
contro la dazione di diversa utilita'».
    L'offerta  di  prestazioni  sessuali  verso   corrispettivo   non
rappresenta affatto uno strumento  di  tutela  e  di  sviluppo  della
persona umana, ma  costituisce  -  molto  piu'  semplicemente  -  una
particolare   forma   di   attivita'   economica.   La    sessualita'
dell'individuo non e'  altro,  in  questo  caso,  che  un  mezzo  per
conseguire un profitto: una "prestazione di  servizio"  inserita  nel
quadro di uno scambio sinallagmatico. E come «prestazione di  servizi
retribuita»,  rientrante  nel  novero  delle  «attivita'  economiche»
svolte in qualita' di lavoro autonomo, la prostituzione e'  stata  in
effetti qualificata tanto dalla Corte di  giustizia  delle  Comunita'
europee nella sentenza 20  novembre  2001,  causa  C-268/99,  Jany  e
altri,  citata  dalle  parti  costituite;  quanto  dalla   Corte   di
cassazione, nelle pronunce - richiamate sia dal giudice  a  quo,  sia
dalle stesse parti costituite - che hanno ritenuto assoggettabili  ad
imposta i proventi di tale attivita' (Corte  di  cassazione,  sezione
quinta civile, sentenze 4 novembre 2016, n. 22413; 27 luglio 2016, n.
15596; 13 maggio 2011, n. 10578; 1° ottobre 2010, n. 20528).  Ammesso
pure che vi siano persone che considerano personalmente  gratificante
esercitare la prostituzione, questo  non  cambia  la  sostanza  delle
cose.
    Al riguardo, non gioverebbe obiettare che un diritto fondamentale
resta tale anche  se  esercitato  dietro  corrispettivo.  L'argomento
prova troppo:  ragionando  in  questi  termini,  qualsiasi  attivita'
imprenditoriale o di lavoro autonomo verrebbe a costituire un diritto
inviolabile della persona, nella misura in cui  richiede  l'esercizio
di una qualche liberta' costituzionalmente garantita.
    Lo stesso giudice a quo mostra, del resto, di essere  consapevole
di tutto cio' nel momento in cui evoca come parametro congiunto dello
scrutinio  di  costituzionalita'  l'art.  41  Cost.,  in  materia  di
liberta' di iniziativa economica privata.
    I rilievi che  precedono  appaiono  tanto  piu'  validi,  d'altro
canto, in rapporto a  questioni  di  costituzionalita'  quali  quelle
odierne,  nella  cui  cornice  la  tutela  della   persona   che   si
prostituisce   e'   solo   indiretta,    mirando    l'incidente    di
costituzionalita' a salvaguardare, in prima battuta - e soprattutto -
i terzi che si intromettono nell'attivita'  di  tale  persona  o  che
cooperano con essa. Paradigmatico, in proposito, il modo  in  cui  la
Corte rimettente -  pur  nell'ambito  della  denuncia  di  violazione
dell'art. 2 Cost. - configura la condotta  di  reclutamento  ai  fini
dell'esercizio della prostituzione,  osservando  come  la  stessa  si
collochi all'interno del «libero incontro sul mercato del  sesso  tra
domanda  e  offerta»:  dunque,  una  attivita'   di   intermediazione
pertinente a un contesto tipicamente "commerciale".
    La questione e', in conclusione,  infondata,  essendo  l'invocato
art. 2 Cost. un parametro non conferente rispetto  all'(intromissione
di terzi nell')esercizio dell'attivita' di prostituzione.
    6.- Pertinente risulta, invece, alla luce di quanto si e'  detto,
il riferimento all'art. 41 Cost.: parametro, del resto, espressamente
richiamato (con i suoi divieti) nell'ambito  dei  lavori  preparatori
della legge n. 75 del 1958, ove pure si affermo' che lo  scopo  della
legge  era  di   mettere   fine   al   coinvolgimento   dello   Stato
nell'"industria del meretricio".
    Quel che lamenta il giudice a quo, d'altra parte, e' che le norme
incriminatrici censurate, inibendo con  la  minaccia  della  pena  la
collaborazione  di  terzi,  impediscano  alla  persona  dedita   alla
prostituzione di svolgere la propria attivita' in  modo  organizzato,
ed eventualmente anche nella forma di una vera e propria impresa.
    6.1.- Anche tale questione e', tuttavia, infondata.
    In  base  all'art.  41,  secondo  comma,  Cost.  la  liberta'  di
iniziativa economica e' tutelata a  condizione  che  non  comprometta
altri valori che la Costituzione considera preminenti: essa non puo',
infatti, svolgersi «in contrasto con l'utilita' sociale o in modo  da
recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana».
    Nella specie, la  compressione  delle  possibilita'  di  sviluppo
dell'attivita' di prostituzione che deriva dalle norme  censurate  e'
strumentale al perseguimento di obiettivi che involgono i valori  ora
indicati. Tali obiettivi si  identificano  segnatamente,  anche  alla
luce delle ricordate indicazioni dei lavori preparatori  della  legge
n. 75 del 1958, nella tutela dei diritti fondamentali  delle  persone
vulnerabili e della dignita' umana.
    E', in effetti, inconfutabile  che,  anche  nell'attuale  momento
storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e  proprie  forme
di prostituzione forzata, la scelta di "vendere sesso" trova alla sua
radice,  nella  larghissima  maggioranza  dei   casi,   fattori   che
condizionano   e   limitano   la   liberta'   di   autodeterminazione
dell'individuo, riducendo, talora drasticamente, il  ventaglio  delle
sue opzioni esistenziali. Puo' trattarsi non soltanto di  fattori  di
ordine economico,  ma  anche  di  situazioni  di  disagio  sul  piano
affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire
la naturale riluttanza verso una "scelta di  vita"  quale  quella  di
offrire prestazioni sessuali contro mercede.
    Ne' giova obiettare  che,  in  tale  prospettiva,  la  disciplina
censurata si paleserebbe -  nella  sua  assolutezza  -  eccedente  lo
scopo, vietando ogni cooperazione anche con  quelle  persone  che  si
prostituiscano per effetto di scelte pienamente libere e consapevoli:
fenomenologia che, per quanto ridotta possa essere la  sua  incidenza
percentuale, meriterebbe, comunque sia, un trattamento differenziato.
    Al riguardo, occorre considerare che, in questa materia, la linea
di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo
sono si presenta fluida gia' sul piano teorico - risultando, percio',
non agevolmente traducibile sul piano normativo in formule astratte -
e, correlativamente, di problematica verifica sul piano  processuale,
tramite un accertamento ex post affidato alla giurisdizione penale.
    A cio' si affiancano, peraltro, anche  preoccupazioni  di  tutela
delle stesse persone che si prostituiscono - in ipotesi - per effetto
di una scelta (almeno inizialmente) libera  e  consapevole.  Cio'  in
considerazione dei pericoli  cui  esse  si  espongono  nell'esercizio
della loro attivita':  pericoli  connessi  al  loro  ingresso  in  un
circuito dal quale sara' poi difficile uscire volontariamente, stante
la facilita' con  la  quale  possono  divenire  oggetto  di  indebite
pressioni e ricatti, nonche' ai rischi per l'integrita' fisica  e  la
salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si
trovano isolate a contatto  con  il  cliente  (pericoli  di  violenza
fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di  contagio
conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo).
    Riguardo,  poi,  alla  concorrente  finalita'  di  tutela   della
dignita' umana, e' incontestabile che, nella cornice della previsione
dell'art. 41, secondo comma, Cost., il concetto  di  «dignita'»  vada
inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo,  della  "dignita'
soggettiva", quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo
lavoratore. E', dunque, il legislatore che - facendosi interprete del
comune sentimento sociale in un determinato momento storico - ravvisa
nella prostituzione, anche volontaria, una attivita'  che  degrada  e
svilisce l'individuo, in quanto riduce la  sfera  piu'  intima  della
corporeita' a livello di merce a disposizione del cliente.
    Valutazioni  tutte,  quelle  dianzi  indicate,  che  spiegano   e
giustificano,  dunque,  sul  piano  costituzionale,  la  scelta   del
legislatore italiano - per nulla  isolata,  come  si  e'  visto,  nel
panorama internazionale - di inibire, con  le  norme  denunciate,  la
possibilita' che l'esercizio della  prostituzione  formi  oggetto  di
attivita' imprenditoriale.
    6.2.- Il fatto stesso che il  legislatore  -  in  accordo  con  i
postulati del modello abolizionista - identifichi nella  persona  che
si prostituisce il "soggetto debole" del rapporto  spiega,  altresi',
la  scelta  di  non   intervenire   penalmente   nei   confronti   di
quest'ultima, ma solo nei confronti dei terzi che "interagiscano" con
la prostituzione altrui.
    Come rilevato anche dal Tribunale costituzionale  del  Portogallo
nella decisione in precedenza richiamata, non vi e' alcuna insanabile
contraddizione nella dissociazione del giudizio  sulla  condotta-base
della prostituta da quello sulla condotta del terzo che ne agevola  -
o sfrutta o istiga - l'attivita'.
    Non si tratta di ipotesi isolata.
    Allo stesso modo, infatti, questa  Corte  ha  escluso  che  possa
ritenersi censurabile  sul  piano  costituzionale  la  disparita'  di
trattamento tra il consumatore di sostanze  stupefacenti  e  chi  gli
fornisce la sostanza: il primo resta immune da pena (incorrendo  solo
in sanzioni amministrative: art. 75 del d.P.R.  9  ottobre  1990,  n.
309, recante il «Testo unico delle leggi  in  materia  di  disciplina
degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, prevenzione,  cura  e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza»); il  secondo
va, invece, incontro a severe sanzioni criminali (art. 73 del  d.P.R.
n. 309 del 1990) (sentenza n. 296 del 1996).
    Giova sottolineare, per altro verso,  che  e'  ben  vero  che  il
vigente ordinamento non vieta, di  per  se',  l'offerta  di  sesso  a
pagamento,  ma  cio'  non  significa  che  essa  si  configuri   come
espressione di un diritto costituzionalmente tutelato. Significativo,
in tal senso, e' che il  patto  avente  ad  oggetto  lo  scambio  tra
prestazioni sessuali  e  utilita'  economica  venga  tradizionalmente
configurato come contratto  nullo  per  illiceita'  della  causa,  in
quanto contrario ai boni mores (art. 1343 del codice civile), il  cui
unico effetto giuridicamente rilevante e' la soluti retentio, vale  a
dire il diritto della persona che si prostituisce  di  trattenere  le
somme ricevute dal cliente (art. 2035 cod.  civ.),  senza,  tuttavia,
che ella possa agire giudizialmente nel  caso  di  mancato  pagamento
spontaneo (Corte di cassazione, sezione seconda penale,  sentenza  17
gennaio 2001-5 marzo 2001, n. 9348; vedi, anche, Corte di cassazione,
sezione quinta civile, sentenza 27 luglio 2016, n. 15596).
    La circostanza -  sulla  quale  insistono  tanto  l'ordinanza  di
rimessione, quanto le parti costituite -  che  la  giurisprudenza  di
legittimita' consideri ormai tassabili i proventi della prostituzione
e', poi, ben poco significativa. Attualmente, infatti,  l'ordinamento
tributario  assoggetta,  in  via  generale,  a  imposizione  anche  i
proventi derivanti da fatti,  atti  o  attivita'  qualificabili  come
illecito civile,  amministrativo  o  penale,  ove  non  sottoposti  a
sequestro o confisca  penale  (art.  14,  comma  4,  della  legge  24
dicembre 1993, n. 537,  recante  «Interventi  correttivi  di  finanza
pubblica»). Anche per questo aspetto, dunque,  non  vi  e'  nulla  di
contraddittorio  fra  l'assoggettamento  a   imposta   dei   proventi
dell'attivita' di meretricio e il  fatto  che  la  legge,  pur  senza
sanzionarla  direttamente,  adotti  misure  indirette,  di  carattere
penale,  intese  ad  arginare  lo  sviluppo  dell'attivita'  tassata,
colpendo i terzi che vi cooperano.
    Nessun argomento a sostegno della denunciata violazione dell'art.
41 Cost. puo' essere ricavato, infine, dalla sentenza della Corte  di
giustizia  20  novembre  2011,  causa   C-268/99,   Jany   e   altri,
precedentemente  richiamata.  Essa   ha   qualificato,   bensi',   la
prostituzione  come  attivita'  economica  svolta  in   qualita'   di
lavoratore  autonomo:  ma  cio'  al  solo  fine  di   escludere   che
l'esercizio  di  tale   attivita'   possa   essere   considerato   un
comportamento abbastanza grave da legittimare restrizioni all'accesso
o al soggiorno, nel territorio di uno Stato membro, di  un  cittadino
di altro Stato membro, nel caso in cui il primo Stato  (nella  specie
l'Olanda,  Paese  la  cui  legislazione  e'   ispirata   al   modello
"regolamentarista") non  abbia  adottato  misure  repressive  ove  il
medesimo comportamento sia posto in essere da un proprio cittadino.
    7.- Nelle considerazioni dianzi svolte e'  insita  l'infondatezza
anche dell'ulteriore questione riferita al  principio  di  necessaria
offensivita' del reato.
    7.1.-   Per   costante   giurisprudenza    di    questa    Corte,
l'individuazione dei fatti punibili,  cosi'  come  la  determinazione
della pena per ciascuno di essi, costituisce  materia  affidata  alla
discrezionalita' del legislatore. Gli apprezzamenti  in  ordine  alla
"meritevolezza" e al "bisogno di pena"  -  dunque,  sull'opportunita'
del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa  -
sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici (sentenze n.  95
del 2019 e n. 394 del 2006). Le scelte legislative  in  materia  sono
pertanto  censurabili,  in  sede   di   sindacato   di   legittimita'
costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta  irragionevolezza
o nell'arbitrio (ex plurimis, sentenze n. 95 del 2019, n. 273 e n. 47
del 2010; ordinanze n. 249 e n. 71 del 2007; nonche', con particolare
riguardo al trattamento sanzionatorio, sentenze n. 179 del  2017,  n.
236 e n. 148 del 2016).
    Tali affermazioni appaiono tanto piu' valide  in  rapporto  a  un
fenomeno come  quello  della  prostituzione,  il  quale,  per  quanto
rilevato in apertura di discorso, si presta a  un'ampia  varieta'  di
differenti valutazioni e strategie d'intervento.
    Per quel che attiene, poi, piu' specificamente, alla  limitazione
della  discrezionalita'  legislativa  che   deriva,   comunque   sia,
dall'esigenza di rispetto del principio di offensivita', questa Corte
ha da  tempo  chiarito  come  tale  principio  «operi  su  due  piani
distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il  quale
e' tenuto a limitare la repressione penale a fatti  che,  nella  loro
configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni  o
interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta  offensivita'
"in astratto"). Dall'altro, come criterio  interpretativo-applicativo
per   il   giudice   comune,   il   quale,   nella   verifica   della
riconducibilita' della  singola  fattispecie  concreta  al  paradigma
punitivo  astratto,  dovra'  evitare  che  ricadano  in  quest'ultimo
comportamenti  privi  di  qualsiasi  attitudine  lesiva   (cosiddetta
offensivita' "in concreto") (sentenze n. 225 del  2008,  n.  265  del
2005, n. 519 e n.  263  del  2000).  Quanto  al  primo  versante,  il
principio di offensivita'  "in  astratto"  non  implica  che  l'unico
modulo di intervento  costituzionalmente  legittimo  sia  quello  del
reato  di  danno.  Rientra,  infatti,  nella   discrezionalita'   del
legislatore l'opzione  per  forme  di  tutela  anticipata,  le  quali
colpiscano  l'aggressione  ai  valori  protetti  nello  stadio  della
semplice   esposizione   a   pericolo,   nonche',   correlativamente,
l'individuazione   della   soglia   di   pericolosita'   alla   quale
riconnettere  la  risposta  punitiva  (sentenza  n.  225  del  2008):
prospettiva nella quale non e' precluso, in linea  di  principio,  il
ricorso al modello del reato di pericolo presunto  (sentenze  n.  133
del 1992, n. 333 del 1991  e  n.  62  del  1986).  In  tale  ipotesi,
tuttavia,  affinche'  il  principio  in  questione  possa   ritenersi
rispettato,   occorrera'   "che   la   valutazione   legislativa   di
pericolosita'  del  fatto  incriminato  non  risulti  irrazionale   e
arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit"  (sentenza  n.
225 del 2008; analogamente, sentenza n. 333 del 1991)»  (sentenza  n.
109 del 2016).
    7.2.- Nel caso in esame, si registrano significative oscillazioni
della giurisprudenza di legittimita' in ordine all'individuazione del
bene giuridico protetto dalle disposizioni penali della legge  n.  75
del 1958.
    Per lungo tempo, essa  ha  infatti  individuato  l'oggetto  della
tutela - conformemente all'originaria impostazione del codice  penale
- nel  buon  costume  e  nella  moralita'  pubblica  (dunque,  in  un
interesse "metaindividuale" e indisponibile). Nel 2004 tale indirizzo
e'  stato  oggetto  di  revisione,  essendosi  affermato,  in  alcune
pronunce,  che  la  legge  in  questione   mirerebbe,   in   realta',
principalmente  a  salvaguardare  la  dignita'  e  la   liberta'   di
determinazione  della  persona  che   si   prostituisce   (Corte   di
cassazione, sezione terza penale, 8 giugno 2004-2 settembre 2004,  n.
35776;  abbina  pariteticamente  tale  interesse   individuale   alla
protezione della moralita' pubblica e  del  buon  costume,  Corte  di
cassazione, sezione terza penale, 9 novembre 2004-21 gennaio 2005, n.
1716).  Ed  e'  proprio  valorizzando  il  riferimento  alla   libera
autodeterminazione della persona nella sfera  sessuale,  operato  dal
nuovo indirizzo  giurisprudenziale  (peraltro  in  combinazione  alla
dignita'), che la  Corte  rimettente  nega  che  le  norme  censurate
possano ritenersi rispettose del principio  di  offensivita':  se  la
persona  ha  liberamente  scelto  di  prostituirsi,  chi  l'aiuta   a
realizzare la sua scelta recherebbe un vantaggio,  e  non  un  danno,
allo stesso interesse tutelato.
    Successivamente, peraltro, la giurisprudenza di  legittimita'  ha
conosciuto una ulteriore evoluzione. Secondo le piu' recenti pronunce
in materia, infatti, il bene protetto dalla legge n. 75 del 1958  non
sarebbe ne' la morale  pubblica,  ne'  la  libera  autodeterminazione
sessuale della persona che esercita il meretricio, la quale, se fosse
conculcata contro la sua volonta', darebbe luogo a ben diversi reati.
La tutela si focalizzerebbe, invece, soltanto  sulla  dignita'  della
persona esplicata attraverso lo svolgimento dell'attivita'  sessuale,
che non potrebbe  costituire  materia  di  contrattazioni  (Corte  di
cassazione, sezione terza penale, sentenze 17 novembre 2017-30  marzo
2018, n. 14593 e 19 luglio 2017-7 febbraio 2018, n. 5768).
    Questa  nuova  correzione  di  rotta  e'  criticata  dalle  parti
costituite, le quali ravvisano in essa un mero espediente per evitare
di   dover   riconoscere   l'illegittimita'   costituzionale    delle
disposizioni censurate. Il richiamo al concetto  di  dignita'  -  che
nella cornice del piu' recente orientamento  assume  chiaramente  una
valenza oggettiva - maschererebbe, nella sostanza,  una  riesumazione
della vecchia prospettiva della tutela della morale dominante: valore
insuscettibile - in assunto - di assurgere  a  oggetto  della  tutela
penale,  ostandovi  il  principio  di  laicita'  dello   Stato,   che
impedirebbe di assoggettare a pena determinate condotte solo  perche'
considerate dai piu' eticamente scorrette.
    7.3.- Al riguardo,  e'  peraltro  dirimente  il  rilievo  che  le
incriminazioni oggetto dell'odierno scrutinio si  rivelano,  comunque
sia, conciliabili con il principio di offensivita' "in astratto"  ove
riguardate nell'ottica della protezione dei diritti fondamentali  dei
soggetti  vulnerabili  e  delle  stesse  persone  che  esercitano  la
prostituzione per scelta, nei termini gia' illustrati:  ottica  nella
quale  esse  risultano   rispettose   dei   canoni   indicati   dalla
giurisprudenza di questa Corte, appena sopra ricordati.
    Quanto precede non significa, peraltro - come appare  evidente  -
che l'incriminazione delle "condotte  parallele"  alla  prostituzione
rappresenti  una  soluzione  costituzionalmente  imposta  e  che   il
legislatore  non  possa,  nella  sua  discrezionalita',  decidere  di
fronteggiare i pericoli insiti nel fenomeno della  prostituzione  con
una strategia diversa. Quella in esame  rientra,  semplicemente,  nel
ventaglio  delle  possibili  opzioni  di  politica   criminale,   non
contrastanti con la Costituzione.
    In rapporto alla disciplina vigente, resta d'altra  parte  ferma,
in ogni caso, l'operativita' del principio di offensivita' nella  sua
proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di
escludere la configurabilita' del reato in presenza di condotte  che,
in rapporto alle specifiche circostanze,  si  rivelino  concretamente
prive di ogni potenzialita' lesiva.
    8.- Infondata e'  anche  l'ultima  questione,  con  la  quale  si
denuncia il difetto  di  determinatezza  e  tassativita'  della  sola
fattispecie del favoreggiamento.
    Questa Corte ha gia' avuto modo di dichiarare non fondata analoga
questione, sollevata all'indomani dell'entrata in vigore della  legge
n.  75  del  1958,  anche  con  riguardo   alla   fattispecie   dello
sfruttamento (sentenza n. 44  del  1964,  ribadita  dalla  successiva
ordinanza n. 98 del 1964). La conclusione va qui confermata.
    Per costante giurisprudenza di questa Corte, «l'inclusione  nella
formula  descrittiva  dell'illecito  di  espressioni   sommarie,   di
vocaboli  polisensi,  ovvero  di   clausole   generali   o   concetti
"elastici", non  comporta  un  vulnus  del  parametro  costituzionale
evocato, quando la  descrizione  complessiva  del  fatto  incriminato
consenta  comunque  al  giudice  -  avuto  riguardo  alle   finalita'
perseguite   dall'incriminazione   ed   al   piu'   ampio    contesto
ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il significato di
tale elemento mediante un'operazione interpretativa  non  esorbitante
dall'ordinario  compito  a  lui   affidato:   quando   cioe'   quella
descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della
fattispecie  concreta  alla  fattispecie  astratta,  sorretto  da  un
fondamento ermeneutico controllabile; e,  correlativamente,  permetta
al destinatario della norma di avere una percezione  sufficientemente
chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza  n.  25
del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del 2014,  n.  282  del
2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004).
    Nella specie, la descrizione del  fatto  incriminato,  nella  sua
"asciuttezza" -  «chiunque  in  qualsiasi  modo  favorisca  [...]  la
prostituzione altrui» - fa perno, comunque sia, su un concetto, quale
quello di favoreggiamento, di ampio e  sperimentato  uso  nell'ambito
del diritto penale, e  che  compare  (sia  pure  senza  l'inciso  «in
qualsiasi modo»)  anche  in  rapporto  al  delitto  di  prostituzione
minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.).
    Per questo verso, la disposizione incriminatrice non  e'  affatto
piu' indeterminata di quanto lo  sia  la  generale  disposizione  sul
concorso di  persone  nel  reato  (art.  110  cod.  pen.),  costruita
anch'essa come clausola sintetica («[q]uando piu' persone  concorrono
nel medesimo reato»). Il favoreggiamento, del resto, non e' altro che
una forma di concorso materiale nella prostituzione altrui  (pur  con
la particolarita'  che,  per  le  ragioni  gia'  poste  in  evidenza,
nell'occasione e' punito solo il  compartecipe  e  non  l'autore  del
fatto).
    Contrariamente a  quanto  ritiene  la  Corte  rimettente,  nessun
argomento a sostegno della tesi  dell'indeterminatezza  del  precetto
puo' essere  ricavato  dall'indirizzo  giurisprudenziale  secondo  il
quale, ai fini della punibilita', la condotta di favoreggiamento deve
essersi risolta in un aiuto  alla  prostituzione,  e  non  gia'  alla
persona dedita ad essa (per tutte, Corte di cassazione, sezione terza
penale, sentenze 4 febbraio 2014-17  febbraio  2014,  n.  7338  e  22
maggio 2012-21 settembre 2012, n. 36595). L'affermazione e', infatti,
sintonica al testo della norma censurata -  il  quale  esige  che  la
condotta incriminata favorisca l'attivita', e non la persona  che  la
esercita - e mira proprio ad evitare indebite dilatazioni della sfera
applicativa della figura criminosa.  L'esistenza,  poi,  di  dubbi  o
contrasti  riguardo  alla  concreta  applicazione  del  principio  in
rapporto a determinate fattispecie non vale, di per se', a dimostrare
il difetto di precisione del precetto, trattandosi di  evenienza  che
rientra nella fisiologia dell'ermeneutica giudiziale.
    Cade, con cio', anche la censura di violazione dell'art. 3 Cost.,
sotto il profilo dell'ingiustificata  disparita'  di  trattamento  di
situazioni in assunto analoghe.
    9.- Alla luce delle considerazioni che  precedono,  le  questioni
vanno dichiarate, pertanto,  non  fondate  in  relazione  a  tutti  i
parametri evocati.
     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8),  della  legge
20 febbraio 1958, n.  75  (Abolizione  della  regolamentazione  della
prostituzione e lotta  contro  lo  sfruttamento  della  prostituzione
altrui), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13,  25,  secondo
comma, 27 e 41 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Bari  con
l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2019.

                                F.to:
                    Giorgio LATTANZI, Presidente
                      Franco MODUGNO, Redattore
                     Roberto MILANA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2019.

                   Il Direttore della Cancelleria
                        F.to: Roberto MILANA


                                                            Allegato:
                         ordinanza letta all'udienza del 5 marzo 2019

                              ORDINANZA

    Rilevato che nel giudizio di legittimita' costituzionale promosso
dalla Corte di Appello di Bari con  ordinanza  del  6  febbraio  2018
(r.o.  n.  71  del  2018),  hanno  depositato  un  unitario  atto  di
intervento l'Associazione Rete per la Parita',  l'Associazione  Donne
in quota, l'Associazione Coordinamento italiano della  Lobby  Europea
delle Donne/Lef-Italia, l'Associazione Salute  Donna,  l'Associazione
UDI (Unione Donne in Italia), l'Associazione Resistenza Femminista  e
l'Associazione  IROKO  ONLUS;  ha,  altresi',  depositato   atto   di
intervento l'Associazione Differenza Donna Onlus;
    che  le  suindicate  associazioni   hanno   depositato   memoria,
rispettivamente, il 12 e il 13 febbraio 2019.
    Considerato che le associazioni intervenienti  non  rivestono  la
qualita' di parti del giudizio principale;
    che, secondo la  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  la
partecipazione  al  giudizio  di   legittimita'   costituzionale   e'
circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre  che  al
Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale,
al Presidente della  Giunta  regionale  (artt.  3  e  4  delle  Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale);
    che a tale disciplina e' possibile derogare  -  senza  venire  in
contrasto   con   il   carattere   incidentale   del   giudizio    di
costituzionalita' - soltanto a favore di  soggetti  terzi  che  siano
titolari di un  interesse  qualificato,  immediatamente  inerente  al
rapporto  sostanziale  dedotto  in  giudizio  e   non   semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2019, n. 217 e  n.  180  del
2018, ordinanze allegate alle sentenze n. 194 del  2018,  n.  29  del
2017, n. 286 e n. 243 del 2016);
    che il presente giudizio - che ha  ad  oggetto  l'art.  3,  primo
comma, numero 4), prima parte, e numero 8), della legge  20  febbraio
1958, n. 75, «nella parte in cui configura come  illecito  penale  il
reclutamento    ed    il    favoreggiamento    della    prostituzione
volontariamente e consapevolmente esercitata» - non  e'  destinato  a
produrre, nei confronti  delle  associazioni  intervenienti,  effetti
immediati, neppure indiretti;
    che,  pertanto,  esse  non  sono  legittimate  a  partecipare  al
giudizio dinanzi a questa Corte.

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibili gli interventi dell'Associazione Rete  per
la  Parita',  dell'Associazione  Donne  in  quota,  dell'Associazione
Coordinamento italiano della Lobby  Europea  delle  Donne/Lef-Italia,
dell'Associazione Salute Donna, dell'Associazione UDI  (Unione  Donne
in     Italia),     dell'Associazione     Resistenza      Femminista,
dell'Associazione IROKO ONLUS e  dell'Associazione  Differenza  Donna
Onlus.

                 F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente

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