Corte d'Appello Venezia Sez. lavoro, Sent., 16-11-2023
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D'APPELLO DI VENEZIA
- sezione lavoro -
composta dai seguenti magistrati:
Luigi PERINA - Presidente
Annalisa MULTARI - Consigliere
Silvia BURELLI - Consigliere relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa promossa con ricorso in appello da
M.S. SRL in persona del legale rappresentante pro tempore sig.ra E.M., con sede in C. del M. (T.) Via degli A. n. 10, P. IVA n. (...), rappresentata e difesa giusta procura in atti dagli avv.ti Ugo Saggese (C.F. (...) - P.E.C. avvugosagg@pec.it) e Silvia Perin (C.F. (...) - P.E.C. silviaperin@pec.ordineavvocatitreviso.it) e con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultima in Vedelago (TV), Largo Giovanni Paolo II n. 19/e
Parte appellante
Contro
P.F. (c.f. (...)), rappresentata e difesa dall'avv. Luca Azzari (c.f. (...)) del Foro di Treviso, giusta separata procura alle liti depositata all'interno del fascicolo telematico del ricorso ex art. 414 c.p.c. iscritto al r.g. n. 998/2019 del Tribunale di Treviso, valida anche per la presente fase di giudizio, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Montebelluna (TV), al corso Giuseppe Mazzini n. 84
Parte appellata
OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 493/2021 del Tribunale di Treviso -sezione lavoro
IN PUNTO: sanzione disciplinare
Svolgimento del processo
1.Con la sopra indicata sentenza il giudice di primo grado:
- ha dichiarato l'illegittimità della trattenuta operata dall'ex datore di lavoro M.S. srl sulla retribuzione dell'ex dipendente P.F. relativa al mese di marzo 2018, pari all'importo di Euro 3.982,37, a titolo di indennità di mancato preavviso delle dimissioni rassegnate dalla F. il 15.3.2018;
- per l'effetto ha condannato la società convenuta al pagamento, in favore della ricorrente, dell'importo di Euro 3.982,37 illegittimamente trattenuto, nonché al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso pari ad Euro 3.982,37, oltre a rivalutazione monetaria ed interessi sulla somma rivalutata dalla data di maturazione del diritto al saldo effettivo ex art. 429 c.p.c.;
- ha respinto la domanda di risarcimento danni da mobbing formulata dalla F.;
- ha respinto le domande riconvenzionali della società aventi ad oggetto il pagamento, da parte della F., del differenziale negativo risultante dal cedolino di marzo 2018 a seguito della trattenuta di cui sopra e il risarcimento danni per violazione dell'obbligo di fedeltà.
In particolare, il giudice ha ricostruito la vicenda in fatto, rilevando che P.F. era stata assunta il 1.6.2017 come impiegata contabile di 4 livello CCNL Metalmeccanica privata, la cui declaratoria contempla: "Lavoratori che, in base a precise istruzioni e seguendo le procedure operative relative al sistema contabile adottato nell'ambito dello specifico campo di competenza, rilevano, riscontrano, ordinano, anche sumoduli o secondo schemi preordinati, dati anche diversi, elaborando situazioni riepilogative o semplici computi o rendiconti e se del caso effettuano imputazioni di conto".
Dopo 6 mesi dall'assunzione in tale livello, la società ha contestato alla lavoratrice di aver erroneamente comunicato alla società medesima, senza consultare il commercialista, di non poter utilizzare il credito Iva del secondo trimestre 2017, pari ad Euro 111.898,77, in quanto la liquidazione del mese di giugno 2017 evidenziava un debito che avrebbe pregiudicato l'utilizzo del credito trimestrale. Tuttavia, secondo la contestazione della società, tale informazione non corrispondeva al vero e ciò aveva determinato "un notevole aggravamento della già precaria situazione finanziaria aziendale in considerazione che a tutt'oggi non abbiamo ancora potuto utilizzare detto credito".
A seguito di tale contestazione, la società ha comminato alla lavoratrice la multa di 3 ore di retribuzione e, con la medesima lettera, ha comunicato alla lavoratrice che le sarebbero stati trattenuti dai successivi cedolini paga i danni, quantificati nell'importo di Euro 3.944,00, pari al costo del ricorso al credito che la società aveva dovuto porre in essere a seguito del mancato utilizzo del citato credito IVA imputabile al comportamento negligente della F..
Così ricostruita la vicenda, il giudice ha ritenuto:
- che non è configurabile una situazione di mobbing, per l'esiguità del periodo lavorativo di riferimento e per la genericità delle allegazioni della F. in relazione agli asseriti comportamenti vessatori del datore di lavoro, rigettando la relativa domanda risarcitoria;
- che, tuttavia, l'addebito disciplinare è pretestuoso in rapporto alle mansioni della lavoratrice, in quanto, in base alla declaratoria del CCNL, emerge che ella aveva compiti di mera imputazione dei dati contabili e non le si poteva richiedere di valutare l'utilizzabilità del credito Iva. Sicchè un eventuale errore di "interpretazione" di quei dati non è disciplinarmente rilevante e, tenuto conto che non è stato allegato che la società abbia perso il credito Iva, manifesta "uno sviamento della contestazione dalla sua finalità tipica di esercizio del potere disciplinare, sì che l'infondatezza degli addebiti ne fa emergere il carattere di strumento funzionale a provocare le dimissioni del lavoratore". In base a tali considerazioni, il giudice ha ritenuto sussistente la giusta causa delle dimissioni della lavoratrice, in particolare a fronte della prospettata trattenuta stipendiale, a titolo di danni, di circa Euro 4.000,00. Pertanto, ha condannato la società convenuta alla restituzione, in favore della ricorrente, dell'importo di Euro 3.982,37 illegittimamente trattenuto in busta paga a titolo di indennità di mancato preavviso, nonché al pagamento, in favore della ricorrente medesima, dell'indennità sostitutiva del preavviso pari ad Euro 3.982,37, oltre a rivalutazione monetaria ed interessi sulla somma rivalutata dalla data di maturazione del diritto al saldo effettivo ex art. 429 c.p.c.;
- che le allegazioni della società sui danni cagionati dalla lavoratrice per violazione dell'obbligo di fedeltà (diffusione non autorizzata di dati) sono generiche, con conseguente infondatezza della pretesa risarcitoria.
2. Per la riforma della sentenza ha proposto appello M.S. srl sulla base di 3 motivi di appello.
2.1. Con il primo motivo di appello l'appellante ha lamentato l'erroneità della sentenza nella parte in cui il giudice ha individuato quale giusta causa di dimissioni non l'asserito mobbing (comunque riconosciuto non sussistente in concreto), ma il procedimento disciplinare, violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
2.2. Con il secondo motivo di appello l'appellante ha sostenuto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il giudice, adducendo un clima di tensione in azienda per ragioni finanziarie (tensione non provata), ha ritenuto pretestuoso il procedimento disciplinare, senza apprezzare le difficoltà della lavoratrice a conciliare lavoro e famiglia (come, nella prospettazione dell'appellante, sarebbe dimostrato dalle numerose assenze e congedi). Ha sottolineato che il procedimento disciplinare non poteva costituire, di per sé, giusta causa di dimissioni, giusta causa esclusa anche dal lasso temporale intercorso tra la conclusione del procedimento disciplinare (20.2.2018) e le dimissioni (15.3.2018). Inoltre, la società ha sostenuto che la contestazione non era pretestuosa anche perché era stato chiesto di provare che la F. non aveva consultato il commercialista prima di dare all'ufficio aziendale la comunicazione errata in merito al credito Iva.
2.3. Con il terzo motivo la società ha eccepito l'errata quantificazione da parte del giudice dell'importo della trattenuta da restituire alla lavoratrice: la società ha evidenziato di aver scomputato, dagli importi a credito della lavoratrice relativi al mese di marzo 2018, l'indennità di mancato preavviso pari ad Euro 3.982,37, ma, a seguito di tale trattenuta, la busta paga si è chiusa con importo negativo: Euro -1.851,94, importo non restituito dalla F. alla società, nonostante le richieste. Sicchè, la società ha sostenuto, in via subordinata, che l'importo da restituire alla lavoratrice sarebbe pari ad Euro 2.130,43 (3.982,37 - 1851,94).
3. Si è costituita in giudizio P.F. ed ha chiesto il rigetto dell'appello, difendendo la correttezza della sentenza impugnata.
Ha sostenuto che le dimissioni per giusta causa non devono essere ulteriormente motivate, sicchè la giusta causa ben poteva essere individuata in sede giudiziale.
Ha ribadito che la giusta causa andava ravvisata nella comunicazione del datore di lavoro, a seguito della conclusione del procedimento disciplinare, che le avrebbe trattenuto Euro 3.944,00 a titolo di danni asseritamente subiti, importo pari a tre stipendi della lavoratrice medesima, come del resto allegato sin dal ricorso di primo grado.
Ha, altresì, sostenuto che le dimissioni non sono tardive rispetto alla conclusione del procedimento disciplinare, essendo intervenute dopo soli 23 giorni e va apprezzato il fatto che, in quel periodo, la lavoratrice era in malattia, sicché ha rinviato la decisione di dimettersi al termine della malattia, quando avrebbe dovuto rientrare al lavoro.
La lavoratrice ha, infine, contestato la fondatezza del terzo motivo di appello sostenendo che trattasi di una "domanda nuova" e che la liquidazione delle differenze retributive del lavoratore avviene al lordo e non al netto degli oneri fiscali e contributivi.
4. La causa è stata discussa all'udienza del 12.10.2023 - udienza nel corso della quale le parti hanno concordemente dichiarato che il terzo motivo di appello è "superato" dalla circostanza che nel precetto "la lavoratrice ha tenuto conto del credito aziendale derivante dall'importo negativo dell'ultima busta paga" (v. verbale di udienza) - ed è stata decisa come da dispositivo in atti.
Motivi della decisione
5. Preliminarmente il Collegio prende atto delle dichiarazioni delle parti all'udienza di discussione del 12.10.2023, da cui consegue la cessazione della materia del contendere in ordine al terzo motivo di appello.
Ed invero, l'interesse della società alla decisione sul terzo motivo di appello - relativo alla rideterminazione dell'importo della trattenuta per indennità di mancato preavviso da restituire alla lavoratrice in considerazione del differenziale negativo emergente dall'ultimo prospetto paga - è venuto meno a seguito della pacifica circostanza che nel precetto notificato alla società la lavoratrice ha tenuto conto di tale questione e la sentenza è stata quindi correttamente (sotto il profilo matematico dell'importo in discorso) eseguita.
5.1. Sempre preliminarmente il Collegio rileva che non è devoluta la questione del risarcimento per l'asserito mobbing (domanda formulata in primo grado dalla lavoratrice) né quella del risarcimento per l'asserita violazione dell'obbligo di fedeltà da parte della F. (domanda formulata in primo grado dalla società).
6. Il primo e il secondo motivo di appello sono suscettibili di essere congiuntamente trattati, in quanto connessi e relativi alla sussistenza di una giusta causa di dimissioni.
6.1. Essi risultano infondati, per quanto segue.
La lavoratrice ha indicato la giusta causa delle dimissioni nel "mobbing" (v. comunicazione all'Ispettorato in atti), "qualificando" in tali termini i fatti allegati nel ricorso introduttivo del giudizio. In particolare, nel ricorso di primo grado la lavoratrice ha descritto una serie di condotte del datore di lavoro ritenute vessatorie (tra le quali anche il procedimento e la sanzione disciplinare di cui si discorre) e ha indicato quale episodio decisivo ai fini della decisione di dimettersi proprio la comunicazione della società in merito non solo all'applicazione della sanzione disciplinare (multa di 3 ore) ma, altresì, dell'applicazione di una trattenuta stipendiale a titolo di danni pari a quasi Euro 4.000,00, corrispondenti a circa tre mensilità di stipendio della lavoratrice.
Sicchè, ancorchè nella complessiva situazione allegata non si sia ravvisato sussistere il mobbing (la sentenza non è impugnata sul punto), la vicenda disciplinare e la conseguente decisione della società di trattenere competenze stipendiali pari a tre volte la retribuzione mensile della lavoratrice ben poteva essere valutata ai fini della configurabilità o meno della giusta causa di dimissioni.
Ed invero, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, la lavoratrice non ha riferito la giusta causa di dimissioni al procedimento disciplinare e alla sanzione disciplinare tout court, in ragione della loro mera illegittimità, ma ha allegato un quid pluris consistente nella pretestuosità dell'esercizio del potere disciplinare e nell'abnormità dell'ammontare della preannunciata trattenuta a titolo di danno rispetto ai suoi livelli retributivi dell'epoca, circostanze ritenute preclusive della possibilità di prosecuzione, anche temporanea, del rapporto di lavoro.
6.2. Il Collegio ritiene che nella fattispecie la giusta causa di dimissioni si configuri.
Innanzitutto, correttamente il primo giudice ha ritenuto la sanzione disciplinare infondata e pretestuosa.
P.F. è stata assunta con qualifica di impiegata e mansioni di contabile di quarto livello del CCNL per i dipendenti delle industrie metalmeccaniche private, la cui declaratoria contempla: "Lavoratori che, in base a precise istruzioni e seguendo le procedure operative relative al sistema contabile adottato nell'ambito dello specifico campo di competenza, rilevano, riscontrano, o ordinano, anche su moduli o secondo schemi preordinati, dati anche diversi, elaborando situazioni riepilogative ho semplici computi o rendiconti e se del caso effettuano imputazioni di conto".
Non è contestato che P.F. abbia svolto mansioni coerenti con tale declaratoria contrattuale e, dunque, come accertato dal primo giudice, di mera imputazione dei dati (rilievo, imputazione e ordinazione in schemi predefiniti) in base a precise istruzioni e seguendo procedure operative predeterminate.
Esula da tali mansioni l'effettuazione di giudizi valutativi implicanti il possesso di elevate conoscenze specialistiche, quali quelle necessarie per determinare i presupposti giuridici di utilizzabilità del credito Iva, secondo l'id quod plerumque accidit proprie di un dottore commercialista, come del resto implicitamente ammette la stessa società nella formulazione dell'addebito disciplinare, laddove puntualizza che la condotta contestata sarebbe stata individuata dalla società "dopo un incontro con il ns. commercialista" e sarebbe stata tenuta dalla lavoratrice "senza nemmeno consultarlo".
Né è plausibile che, stante la complessità della questione, l'ufficio amministrativo della società (pacificamente diretto da E.M., legale rappresentante dell'impresa, e dunque verosimilmente abituata a confrontarsi con il commercialista della società sulle questioni fiscali, come del resto emerge dalla stessa formulazione dell'addebito) abbia chiesto alla F., impiegata di IV livello assunta da sei mesi, di effettuare la predetta valutazione contabile e giuridica sull'utilizzabilità del credito Iva e che, in ogni caso, si sia rimessa alle valutazioni della stessa F., senza chiedere conferma al commercialista.
La società, a fronte delle contestazioni della F. sulla pretestuosità dell'addebito disciplinare non ha svolto specifiche allegazioni sulla sussistenza dell'addebito e sulla sua imputabilità alla F., ma si è diffusa sulle, a suo dire, numerose assenze dal lavoro della F. che denoterebbero, a suo dire, scarsa capacità di conciliare la vita privata con la vita lavorativa. Trattasi di difese del tutto inconferenti rispetto all'oggetto del giudizio che rafforzano la presunzione di pretestuosità della condotta della società.
Del resto, sulla prova dell'addebito la società aveva formulato in primo grado solo il cap. 6: "Vero che il 31.01.2018 il dott. C., commercialista dell'azienda, informava la sig.ra E.M. e la sig.ra S.M. di non essere stato interpellato dalla sig.ra F.P. sulla opportunità o meno di utilizzare un credito IVA e di non aver rilasciato alcuna informazione sul punto", capitolo che, anche se confermato, non prova che rientrasse nelle mansioni della F. valutare, da sola o con il commercialista, siffatte complesse questioni fiscali. Anzi, la stessa formulazione del capitolo conferma la presunzione che, in realtà, i rapporti con il commercialista erano intrattenuti da altri, ed in particolare da E.M..
Inoltre, come emerge dalla sentenza impugnata, la società non ha specificamente allegato e provato né di aver perso il credito Iva di cui si discorre, né l'effettiva necessità di "ricorrere al credito" per un importo pari a quello dell'intero credito d'imposta medesimo, a causa dell'asserito errore di valutazione sulla sua utilizzabilità (comunque, per quanto precede, non imputabile alla F.). In definitiva, la società non ha provato di aver effettivamente subito l'asserito danno di Euro 3.944,00.
Per quanto precede, risulta del tutto infondato e pretestuoso anche il preannunciato esercizio da parte del datore di lavoro del potere di operare una trattenuta rateale, sino a concorrenza dell'asserito danno, sulla retribuzione della lavoratrice dei mesi successivi.
Non è, infine, specificamente contestato che il predetto importo preteso dalla società a titolo di danno è sostanzialmente equivalente a 3 mensilità di retribuzione della lavoratrice, che, quindi, risulta dell'ordine di grandezza di poco più di mille Euro al mese.
6.3. Tenuto conto di tutto quanto precede, il Collegio ritiene che sussista la giusta causa di dimissioni della lavoratrice, che si è vista pretestuosamente sanzionare disciplinarmente per un comportamento manifestamente inesigibile e, vieppiù, si è vista preannunciare l'applicazione di una trattenuta stipendiale pari a 3 mesi del suo (non elevato) stipendio, con tutte le presumibili conseguenti difficoltà a far fronte alle esigenze di vita, anche della figlia minore.
6.4. Infine, la sussistenza della giusta causa di dimissioni nel caso concreto non è elisa dalla circostanza che le dimissioni sono state rassegnate circa 23 giorni dopo la comunicazione conclusiva del procedimento disciplinare (in cui, oltre a disporre l'applicazione della sanzione disciplinare, la società ha preannunciato l'applicazione della trattenuta a titolo di danno per l'importo di circa Euro 4.000,00).
Ed invero, da un lato, quando è stata ricevuta tale comunicazione pacificamente la F. era assente per malattia, quindi il rapporto di lavoro era legittimamente sospeso, laddove le dimissioni sono state pacificamente rassegnate alla ripresa dell'attività lavorativa. Dall'altro lato, trattasi di un lasso temporale che rappresenta un congruo spatium deliberandi, attesa la gravità delle conseguenze (perdita dell'occupazione) da parte di una lavoratrice con una figlia minore.
7. In definitiva, per quanto precede, che assorbe ogni ulteriore questione, il Collegio dà atto della cessazione della materia del contendere in ordine al terzo motivo di impugnazione (quantificazione della trattenuta stipendiale da restituire alla F.) e rigetta nel resto l'appello, ritenendo sussistente la giusta causa di dimissioni della lavoratrice.
8. Quanto alle spese di lite del grado, per il principio della soccombenza (quantomeno prevalente in capo a parte appellante, stante l'intervenuta cessazione della materia del contendere solo sul terzo motivo), esse devono essere poste a carico di parte appellante. Sicchè la società M.S. srl deve essere condannata alla rifusione in favore di P.F. delle spese di lite del grado, nella misura liquidata in dispositivo, facendo applicazione dei criteri di cui al D.M. n. 55 del 2014 e ss. mod. in un importo pari ai medi dello scaglione di riferimento per valore della causa, oltre al 15% per rimborso spese forfetario, IVA e CPA come per legge, tenuto conto dello svolgimento anche della fase inibitoria.
9. Considerato che l'appello non è stato integralmente rigettato, essendo intervenuta la cessazione della materia del contendere in ordine al terzo motivo di appello, non sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato in capo all'appellante ex art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe, rigettata e/o assorbita ogni diversa istanza, eccezione e domanda, così provvede:
1) dato atto della cessata materia del contendere in ordine al terzo motivo di impugnazione, rigetta nel resto l'appello;
2) condanna parte appellante alla refusione delle spese di lite del grado in favore della parte appellata che liquida in complessivi Euro 1.923,00 oltre rimborso forfettario Iva e Cpa come per legge.
Così deciso in Venezia, il 12 ottobre 2023.
Depositata in Cancelleria il 16 novembre 2023.
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