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venerdì 17 gennaio 2014

Consiglio di Stato: E' legittimo il diniego del rimborso delle spese di patrocinio legale, ex art. 18 del D.L. n. 67/1997, in favore di un agente della Polizia di Stato imputato in un processo penale





IMPIEGO PUBBLICO   -   SPESE GIUDIZIALI CIVILI
Cons. Stato Sez. III, Sent., 10-12-2013, n. 5919



Fatto - Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4700 del 2011, proposto da:
Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
-
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA - BARI: sezione III n. 374/2011, resa tra le parti, concernente il rimborso delle spese legali relative alla difesa nel procedimento penale.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di (Lpd);
Viste le memorie difensive;
Vista l'ordinanza di questa Sezione n. 3866/2013;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 novembre 2013 il Cons. Hadrian Simonetti, uditi per le parti l'Avvocato Terracciano e l'Avvocato dello Stato Meloncelli;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. (Lpd), assistente della Polizia di Stato, ha presentato, il 13.2.2006, istanza di rimborso delle spese legali, quantificate in Euro 127.332,00, relativamente al processo penale cui era stato sottoposto per i reati di rapina, detenzione illegale di armi, omicidio aggravato; procedimento originato, molti anni prima, dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia e conclusosi, dopo un'iniziale condanna in primo grado, con la sentenza di assoluzione pronunciata in grado di appello dalla Corte di Assise di Appello, "per non aver commesso il fatto".
2. La domanda è stata respinta sul presupposto che i fatti a lui contestati nel procedimento penale non trovassero la loro causa nell'adempimento di un dovere di servizio, da compiere nelle funzioni di ufficiale di P.S. o P.G.
In sintesi, il Ministero dell'Interno - ricordato come il procedimento penale fosse stato originato dalle accuse provenienti da un collaboratore di giustizia, (Lpd), che aveva indicato il -. ed un suo collega di Reparto, (Lpd), quali autori in concorso della rapina commessa ai danni di una gioielleria di (Lpd) il 19.3.1987 nel corso della quale era deceduto un avventore, peraltro anch'egli agente della Polizia - ha respinto l'istanza sulla base del parere contrario espresso dall'Avvocatura dello Stato che, richiamata la giurisprudenza formatasi sul punto e riconosciuta la peculiarità della fattispecie in esame, ha valutato che la vicenda in cui fu coinvolto il richiedente fosse soltanto occasionata dall'essere stato aggregato alla Questura di (Lpd), nonché dal rapporto di amicizia tra il P. ed un collega, dati entrambi insufficienti.
3. Proposto ricorso avverso tale diniego, deducendo la violazione dell'art. 18 D.L. n. 67 del 1997 e l'eccesso di potere sotto vari profili, il Tar lo ha accolto sul rilievo che vi fossero invece tutte le condizioni richieste dall'invocato art. 18 e che, in particolare, il collegamento dei fatti processuali con i compiti istituzionali e l'attività di servizio andasse inteso in senso ampio, avendo riguardo anche ad un criterio "di tipo soggettivo ed indiretto".
4. Il Ministero ha proposto il presente appello, nei confronti della sentenza del Tar Puglia 374/2011, deducendo l'assenza di una connessione diretta tra i fatti di reato oggetto del procedimento e l'attività di servizio del P.; ciò sul presupposto che la disposizione dell'art. 18 del D.L. n. 67 del 1997 debba essere interpretata restrittivamente, stante la sua natura eccezionale.
4.1. Si è costituita la parte privata replicando con articolata memoria difensiva e sottolineando come proprio l'appartenenza del P. alla PS sarebbe stato il motivo determinante che avrebbe indotto il collaboratore di giustizia (Lpd), in seguito accusato per questo di calunnia, ad incolpare il P..
4.2. Respinta la domanda cautelare, in punto di periculum in mora, rinviata la discussione nel merito per la necessità che le parti chiarissero se il sopravvenuto parere di congruità dell'Avvocatura distrettuale dello Stato, depositato in atti dalla difesa appellata, fosse o meno espressione di un accordo sulla cessazione della materia del contendere, all'udienza pubblica del 7.11.2013, in vista della quale le difese hanno depositato ulteriori memorie, la causa è passata in decisione.
5. Osserva il Collegio preliminarmente come, diversamente da quanto supposto dalla difesa di parte appellata (v. nota del 6.5.2013), all'esito dei chiarimenti richiesti con la ricordata ordinanza n. 3866/2013, è emerso come la nota ministeriale del 16.4.2013, cui era allegato il parere di congruità dell'Avvocatura distrettuale di (Lpd), sia stata adottata in esecuzione della sentenza di primo grado che, come ricordato, aveva accolto l'originario ricorso proposto dal P., nei confronti del provvedimento di diniego emesso nei suoi confronti, e che all'esito della fase cautelare non era stata sospesa nei suoi effetti - senza quindi che tale nota del mese di aprile, quantunque all'apparenza non priva di qualche ambiguità, possa costituire il segno o la prova di un accordo transattivo che l'Amministrazione dell'Interno ha, comunque, in questa sede, espressamente escluso sia mai intercorso tra le parti, ribadendo anzi il proprio interesse alla definizione, nel merito, del presente giudizio di appello (v. la successiva nota 8.8.2013).
6. Ciò posto, l'art. 18 del D.L. n. 67 del 1997 invocato dall'originario ricorrente, dispone che "Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato".
6.1. Si tratta - si è osservato - di una forma di tutela che si giustifica nel fatto, e sul presupposto, che il dipendente pubblico, che viene convenuto in giudizio in tale sua veste, non è portatore di un interesse suo proprio ma della pubblica amministrazione per la quale ha agito.
Di conseguenza, nella misura in cui il dipendente sia portatore di un interesse altruistico, a beneficio della collettività di cui l'amministrazione è espressione, ovvero "al servizio esclusivo della Nazione", per riprendere l'impegnativa formula dell'art. 98 Cost., si pone l'esigenza che la P.A. (e per essa la comunità degli amministrati) tenga indenne il dipendente stesso per le spese legali che dovrebbe sostenere o che ha realmente sostenuto ogni qualvolta è chiamato a rispondere del suo operato pubblico in sede penale, civile ed amministrativa.
In una logica più privatistica del rapporto, si è fatto anche richiamo al modello del mandato di diritto civile e alla previsione di cui all'art. 1720 c.c. - secondo cui "il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni..... dal giorno in cui sono state fatte, e deve pagargli il compenso che gli spetta. Il mandante deve, inoltre, risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell'incarico" - per affermare l'esistenza di un principio generale, immanente nel sistema, e di un limite, non meno generale, dato dal fatto che il mandatario abbia pur sempre agito in vantaggio e non in danno del mandante (v. Cons. St., V, n. 6113/2009).
6.2. La tutela legale, sia in generale che nell'ipotesi specifica dell'art. 18 D.L. n. 67 del 1997 che si riferisce ai soli dipendenti di amministrazioni statali, postula una serie di condizioni, ossia che:
-1) il giudizio (in questo caso, penale) sia promosso nei confronti del (e non dal) dipendente pubblico;
-2) il soggetto abbia la qualifica di dipendente pubblico (nel caso in esame, di dipendente dell'amministrazione dello Stato);
-3) vi sia una connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali;
-4) una sentenza o un provvedimento ne abbia escluso la responsabilità;
-5) le spese siano state ritenute congrue dall'Avvocatura dello Stato.
6.3. Nella vicenda in esame si controverte essenzialmente in ordine alla effettiva esistenza della terza condizione, concernente il requisito oggettivo della connessione dei fatti con l'attività di servizio, condizione che l'Amministrazione ha escluso ricorresse nel caso di specie, sin dal preavviso di rigetto del 17.11.2006.
6.4. Come in parte si è già ricordato, il P. fu coinvolto nel procedimento penale a seguito delle dichiarazioni rese all'Autorità giudiziaria dal (sedicente) collaboratore di giustizia D., il quale lo accusò di avere commesso, in complicità con un altro agente di P.S., (Lpd), anche egli a quel tempo in servizio presso la Questura di (Lpd), la rapina avvenuta il 19.3.1987 ai danni della gioielleria Merenda di (Lpd), nel corso della quale uno dei (due) rapinatori aveva ucciso con un'arma da sparo un avventore, casualmente entrato all'interno del locale, risultato essere peraltro un agente di Polizia in quel momento fuori dal servizio.
Di tali reati in concorso - la rapina, l'omicidio, la detenzione illegale di armi da fuoco - il P. fu accusato e tratto in arresto non nell'immediatezza dei fatti ma a distanza già di alcuni anni, nel 1993, e sottoposto a custodia cautelare in carcere per ben 709 giorni, quindi condannato in primo grado a 23 anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e, solamente in appello, e solamente a distanza di nove anni dalle accuse inizialmente mosse nei suoi confronti, il P. è stato assolto per non avere commesso il fatto.
6.5. In disparte eventuali profili risarcitori legati all'ingiusta detenzione cautelare e alla durata all'apparenza non ragionevole del processo penale, da far valere in altra sede e con altri mezzi di tutela, qui si tratta di valutare se via sia o meno una connessione diretta tra i fatti giudiziari a suo tempo contestati al P. e l'espletamento del servizio da questi svolto in tale epoca. Muovendo dalla preliminare constatazione che i reati contestati al P. erano di tipo comune, cioè non commessi, neppure in ipotesi, nella veste di agente di P.S., e che la tesi della sua difesa è sempre stata nel senso di escludere in radice la sua partecipazione a tali fatti, affermando anzi la totale estraneità.
6.6. Esclusa quindi una connessione di tipo diretto, la prospettazione della difesa appellata, accolta dal Giudice di primo grado, è che il P. sia stato accusato di fatti da lui non commessi - la rapina nella gioielleria trasmodata in omicidio - in ragione della sua appartenenza alla Polizia di Stato e al fine specifico di colpire, attraverso un suo agente, il buon nome dell'Istituzione.
6.7. Si sostiene, in particolare, che il (sedicente) collaboratore di giustizia D. conoscesse l'agente della P.S. (Lpd) e conoscesse il rapporto di colleganza e di amicizia che legava costui al P. e che, con l'intenzione di "accreditarsi" agli occhi degli inquirenti e di riceverne un qualche beneficio premiale, abbia accusato della rapina e dell'omicidio il (Lpd) ed il P., pur sapendoli entrambi innocenti: il (Lpd) per via di una conoscenza diretta; il P. perché legato al (Lpd) e quindi, su tale presupposto, "verosimile" complice della rapina.
6.8. Stando a questa stessa prospettazione, osserva il Collegio come il coinvolgimento del P. nella vicenda penale finirebbe per essere imputabile, per un verso, al suo status soggettivo di poliziotto e, per altro verso, al legale amicale con il (Lpd).
Ebbene, sia il secondo, che attiene più propriamente alla vita di relazione che allo svolgimento della professione, che il primo elemento non sono sufficienti a fondare la pretesa al rimborso delle spese legali, richiedendosi in giurisprudenza un nesso di strumentalità diretto tra l'adempimento del dovere ed il compimento dell'atto o delle condotta, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non ponendo in essere quel determinato atto o quella determinata condotta (v., tra le tante pronunce in tal senso, Cons. St., IV, n. 1190/2013; III, n. 332/2003; Tar Trentino Alto Adige, Bolzano, n. 101/2007; Tar Liguria, n. 882/2002).
6.9. In questo senso, laddove attribuisce espressa rilevanza anche ad un criterio di collegamento - vi si legge, in motivazione - "di tipo soggettivo ed indiretto", la sentenza del Giudice di primo grado non può essere condivisa, perché dilata eccessivamente lo spazio di applicazione della tutela legale, ben oltre i confini segnati dall'art. 18 D.L. n. 67 del 1997.
6.10. Né può supplire, al carattere indiretto e soggettivo del collegamento, l'assunto della difesa di parte appellata, secondo cui accusando il (Lpd) ed il P. il "pentito" avrebbe inteso screditare l'intera Polizia.
6.10.1. Infatti, anche a prescindere dalla sua dubbia rilevanza ai fini della concreta decisione, tale assunto, per quanto possa apparire suggestivo, costituisce, in assenza di elementi di riscontro che sarebbe stato onere della parte richiedente fornire, nulla più di una congettura, che non trova conferma negli atti e nei documenti prodotti nel presente giudizio.
6.10.2. Sempre restando sul piano delle mere congetture, si potrebbe non meno ipotizzare che il D. fosse mosso unicamente dall'obiettivo di conseguire dei vantaggi premiali e che abbia scelto di accusare il (Lpd) - e non altri - perché costui era già ritenuto dedito alla commissione di reati contro il patrimonio (la circostanza si apprende dalla stessa sentenza di assoluzione, v. p. 65); ed abbia poi esteso, peraltro non subito, l'accusa anche nei confronti del P. essenzialmente perché costui era ritenuto particolarmente vicino al (Lpd), di cui si poteva anche supporre che il P. conoscesse l'inclinazione a delinquere.
6.10.3. O anche che - come sembra potersi cogliere sempre nella motivazione della sentenza di assoluzione (v. p. 71) - il D. fosse stato indotto a rendere tali dichiarazioni accusatorie da una quarta persona, il (Lpd), di professione Carabiniere, con cui intratteneva da tempo rapporti di vario genere e che poteva avere motivi di inimicizia nei confronti del (Lpd) il quale, all'epoca dei fatti, era fidanzato con la stessa persona cui in precedenza era stato legato sentimentalmente il (Lpd).
6.11. Tutto questo per sottolineare come la lettura univoca della vicenda proposta dalla difesa di parte appellata - nel senso che il P. sarebbe stato coinvolto nella vicenda penale unicamente a causa dell'attività di poliziotto da lui svolta a (Lpd) e al fine di screditare l'Istituzione al cui servizio lavorava - non solo non trova adeguata conferma negli atti di causa ma parrebbe messa in forte dubbio da alcuni elementi che vanno, invece, in una diversa direzione.
7. In conclusione, per tutte le ragioni sin qui evidenziate, l'appello, con cui è stata dedotta l'erronea applicazione dell'art. 18 D.L. n. 67 del 1997 da parte del Giudice di primo grado, è fondato e va accolto. Con la conseguenza che, in riforma della sentenza impugnata, va respinto l'originario ricorso.
8. Vi sono giustificati motivi, legati alla particolarità del caso di specie, per compensare le spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza),
definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Vittorio Stelo, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Hadrian Simonetti, Consigliere, Estensore
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere


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