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martedì 1 luglio 2014

Cassazione: Privacy, è illegittima la pubblicazione di una foto ritraente una persona nel momento in cui viene arrestata, ove tale foto, per le sue caratteristiche intrinseche, sia tale da violare la dignità dell'interessato



  Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 6 giugno 2014, n. 12834

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 3 dicembre 1998 sul quotidiano "Alto Adige" (oggi "Trentino") veniva pubblicato con ampio risalto un articolo di cronaca che dedicava due pagine all'applicazione a [(Lpd)], all'epoca capo tecnico idraulico presso il [(Lpd)], e ad altre tre persone, della misura degli arresti domiciliari all'interno di una inchiesta penale per truffa aggravata ai danni dello Stato, nella quale si contestava al [(Lpd)] che nella sua qualità avrebbe consentito agli altri arrestati, titolari di alcune concessioni di estrazione di limo dal fiume Adige, l'estrazione di materiali inerti in misura di gran lunga superiore a quanto previsto dalle concessioni e di qualità differente (consentendo l'estrazione di ghiaia anziché di limo) creando anche rischi di danno ambientale. La pubblicazione dell'articolo era corredata da un richiamo ad esso con un trafiletto sulla prima pagina e dalla pubblicazione delle foto formato tessera delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale.
Gli arresti domiciliari al [(Lpd)] venivano revocati pochi giorni dopo, in data 16 dicembre 1998, ma questa notizia sul quotidiano non veniva riportata (mentre veniva pubblicata sul quotidiano concorrente), ed il [(Lpd)] veniva poi assolto con formula piena, sia in primo che in secondo grado; l'assoluzione perché il fatto non sussiste veniva confermata anche in Cassazione, ma il quotidiano "Alto Adige" pubblicava solo, a distanza di anni, la notizia dell'assoluzione in appello del ricorrente confinata nella 29° pagina.
Il [(Lpd)] nel 2003, conclusasi definitivamente la vicenda penale con l'accertamento della sua piena estraneità ai fatti, citava in giudizio per diffamazione sia la [(Lpd)], Società [(Lpd)] proprietaria del quotidiano "Alto Adige", che il Ministero dell'Interno, assumendo di ritenersi diffamato per il modo con il quale erano state trattate le notizie concernenti l'inchiesta giudiziaria che lo aveva coinvolto: mentre era stato evidenziato al massimo il suo arresto, e gli era stato anche attribuito all'interno dell'ufficio un ruolo chiave che non aveva mai ricoperto, non era stata neppure diffusa la notizia della revoca della misura restrittiva, né era stata ristabilita la sua onorabilità dando notizia della sua assoluzione con formula piena fin dal primo grado ma soltanto, a distanza di anni, era stata pubblicata la notizia della sua assoluzione in appello, con un breve occhiello in 29° pagina, e per di più con una formula secondo il ricorrente atta a creare l'equivoco che l'assoluzione fosse giunta solo in appello: l'occhiello era titolato "Assolto in appello".
Inoltre, il [(Lpd)] si riteneva ulteriormente ed autonomamente danneggiato nella sua immagine per aver il quotidiano indicato diffuso al momento dell'arresto non una sua qualsiasi fotografia, ma la foto segnaletica scattatagli dalla polizia al momento dell'arresto, e da questa illegittimamente messa a disposizione della stampa. La domanda di risarcimento danni per diffamazione era rivolta anche contro il Ministero dell'Interno perché anch'esso ritenuto responsabile, per violazione del diritto al ritratto e della privacy, per aver diffuso indiscrezioni sulla inchiesta giudiziaria e per aver consegnato alla stampa una foto segnaletica dell'indagato.
La domanda del ricorrente volta al risarcimento dei danni veniva rigettata sia in primo grado che in appello.
In particolare, la Corte d'Appello di Trento riteneva che il giornale, nel pubblicare le notizie relative ad una presunta truffa a danni dello Stato che vedeva coinvolti il [(Lpd)] ed altri pubblici funzionari, e quindi un fatto grave che riguardava la tutela ambientale verificatosi nel territorio di diffusione del quotidiano stesso, si fosse mantenuto nei limiti della pertinenza e della continenza, e che si fosse astenuto dal divulgare notizie false.
Rigettava poi la domanda nei confronti del Ministero dell'Interno, ritenendo che ai fini della configurabilità di una responsabilità del Ministero per fatto illecito del pubblico dipendente avrebbe dovuto essere individuato il soggetto che aveva divulgato le notizie e consegnato la foto alla stampa.
In relazione in particolare alla pubblicazione della foto, la corte territoriale non riteneva accertato che la foto che corredava l'articolo fosse una foto segnaletica, affermando che verosimilmente potesse trattarsi di una foto tessera, e comunque ribadiva che mancasse la prova della consegna della foto al giornale da parte di un appartenente alla Polizia di Stato. Ribadiva poi che, ai sensi dell'art. 97 della l. n. 633 del 1941, la riproduzione sul giornale della foto di un pubblico funzionario, al momento della pubblicazione stessa pesantemente coinvolto in una grave indagine penale e a corredo dell'articolo che informava sullo stato dell'inchiesta, si doveva ritenere legittima perché giustificata da un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti e dei loro protagonisti.
[(Lpd)] propone ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 279 del 2007, depositata dalla Corte d'Appello di Trento il 12 novembre 2007, articolato in cinque motivi, nei confronti di [(Lpd)] e del Ministero degli Interni.
I controricorrenti resistono con controricorso.
Le parti costituite non hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 595 c.p. per aver la corte di merito erroneamente ritenuto, nella pubblicazione dell'articolo da parte del quotidiano "Alto Adige", la sussistenza della scriminante del diritto di cronaca pur in difetto del requisito della pertinenza. Il ricorrente contesta quanto sembra affermare la corte d'appello, ovvero che possa sussistere l'interesse alla divulgazione della notizia di cronaca in relazione alla misura cautelare applicata ad un pubblico ufficiale all'interno di una inchiesta penale di ampio rilievo nel territorio e che non si dia pari risalto non sussistendo uguale interesse alla notizia della revoca della misura cautelare né dell'assoluzione dell'indagato, altro che con una notizia tardiva a fuorviante.
Il motivo va rigettato.
Ritenuti superabili alcuni rilievi di inammissibilità in ordine al quesito, che non interroga in maniera del tutto adeguata la Corte sul requisito della pertinenza e sui limiti del diritto di cronaca, va detto che in ordine alla sussistenza del requisito della pertinenza la corte d'appello dà ampia e convincente motivazione. Essa richiama appunto la gravità dell'inchiesta, la sua ampia risonanza nell'ambito territoriale di diffusione del quotidiano e la gravità dei fatti in quel momento ascritti al [(Lpd)], mostrando di aver correttamente effettuato un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.), bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della cronaca all'interesse dell'opinione pubblica alla conoscenza del fatto stesso.
Il rilievo del ricorrente non tocca in effetti direttamente l'esistenza del requisito della pertinenza nella pubblicazione della notizia: egli critica piuttosto che alle società editrici possa essere consentito divulgare notizie obiettivamente atte a gettare il discredito sulle persone cui si riferiscono, appellandosi alla scriminante del diritto di cronaca, e che alle stesse società non sia per converso imposto di seguire e riferire gli esiti dell'inchiesta dandone notizia con pari risalto quando da essa derivi come nella specie il pieno scagionamento dell'indagato.
La pubblicazione della notizia della conclusione di una inchiesta con proscioglimento dell'indagato, o di revoca della misura cautelare, se deve essere inserita nel quotidiano che ha dato la notizia dell'incriminazione o della misura a tutela dell'onore della persona già da esso citata in quanto il diritto della comunità ad essere informata lo consentiva, non si colloca all'interno del requisito della pertinenza della diffusione della notizia di cronaca, ma della tutela del diritto all'onore della persona, ed essendo stata la prima diffusione della notizia lecita, non deve avere necessariamente risalto pari alla notizia pubblicata come nei casi in cui la notizia divulgata sia falsa o sottratta all'applicabilità della scriminante del diritto di cronaca. In quei casi infatti, il ripristino della verità con risalto pari alla notizia falsa costituisce misura riparatoria dell'onore leso.
Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia sempre la violazione dell'art. 595 c.p. ed in particolare l'insussistenza della scriminante del diritto di cronaca per difetto del requisito della continenza, riprendendo considerazioni già svolte in appello sulla eccessiva enfasi scandalistica che aveva accompagnato l'esposizione della notizia. Contesta la corretta applicazione da parte della corte di merito della scriminante, avendo ritenuto essa utilizzabili nella specie anche frasi ad effetto idonee a fomentare l'indignazione della collettività rispetto a determinate condotte. Richiama anche, sotto il profilo della violazione della continenza il fatto che la pubblicazione della notizia sia stata accompagnata dalla pubblicazione della foto segnaletica, e che non si sia dato pari risalto alla piena assoluzione dell'indagato.
Richiamando le osservazioni già svolte in merito al fatto che, laddove la pubblicazione di una notizia su una inchiesta penale a carico di qualcuno sia consentita, la pubblicazione della notizia della sua completa assoluzione non debba necessariamente avere pari risalto, il motivo è inammissibile in quanto è del tutto carente sotto il profilo della autosufficienza, perché non riporta alcuna delle espressioni incriminate, che si allega essere eccessivamente denigratorie nella loro formulazione.
Con il terzo motivo di ricorso il [(Lpd)] si duole della violazione ancora una volta dell'art. 595 c.p. sotto il profilo della insussistenza della scriminante del diritto di cronaca per difetto del requisito della verità, anche putativa della notizia.
Anche questo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, in quanto la prima parte del motivo è scarsamente comprensibile, riportando varie considerazioni su passi degli articoli pubblicati che il ricorrente non cita testualmente pretendendo poi di dimostrare la non veridicità dei fatti ivi riportati e la non conformità delle notizie riportate rispetto al provvedimento giudiziario cautelare, anch'esso non riportato nel suo dato testuale, con un'opera di interpretazione e ricostruzione assolutamente personale e svincolata dai dati obiettivi in cui la Corte non può seguire il ricorrente.
All'interno del motivo si lamenta poi che il titolo con il quale si dava la notizia della assoluzione del [(Lpd)] in appello "Assolto in appello" fosse di per sé falso e diffamatorio, in quanto faceva falsamente comprendere al lettore che il [(Lpd)] solo in appello fosse stato assolto, avendo invece goduto di una assoluzione piena, sempre confermata fin dalla conclusione del giudizio di primo grado.
Il punto del quesito di diritto dedicato a questa censura è del tutto inidoneo ad esprimerla adeguatamente: "Può dirsi vera la notizia corredata anche solo da un titolo falso?".
Sempre all'interno del terzo motivo il ricorrente lamenta la falsità diffamatoria, contenuta nella notizia in breve pubblicata il 6 ottobre 2001, con cui si menzionava a suo carico l'esistenza di una mai contestata accusa di concussione, in quanto l'accusa a suo carico era di corruzione. Qui si vorrebbe che fosse compiuto un nuovo accertamento in fatto, precluso a questa Corte ed infatti il controricorrente replica esclusivamente in fatto, riportando passi dell'inchiesta penale in cui a un certo punto la concussione era una delle possibili imputazioni.
Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2043 e 2049 c.c., nonché degli artt. 28 e 97 Cost. lamentando anche il difetto di motivazione laddove la corte d'appello ha escluso la responsabilità del Ministero per fatto del suo dipendente che avrebbe trasmesso alla stampa indiscrezioni sull'inchiesta penale in corso essendo questo rimasto non identificato.
Il quesito di diritto che il [(Lpd)] sottopone alla Corte è il seguente: "Sussiste la responsabilità vicaria dell'amministrazione qualora il dipendente pubblico materiale autore dell'illecito doloso sia rimasto ignoto, anche laddove il fatto illecito sia perfettamente inquadrabile in una prassi latu sensu diffamatoria e anche laddove l'amministrazione non abbia dimostrato motivazioni unicamente personali del materiale autore?"
Con il quinto motivo di ricorso il [(Lpd)] denuncia la violazione dell'art. 10 c.c., degli artt. 96 e 97 della l. n. 633 del 1941, degli artt. 2,19 e 137 del t.u. sulla privacy, nonché degli artt. 6 e 8 del codice deontologico dei giornalisti e dell'art. 8 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo nonché l'omessa e/o insufficiente motivazione sul punto della illegittima pubblicazione e divulgazione della foto segnaletica del ricorrente e di indiscrezioni riguardanti lo stesso.
Sostiene che la corte d'appello abbia erroneamente ritenuto non trattarsi di una foto segnaletica, ma più probabilmente di una foto tessera, pur avendo egli provveduto a depositare fin dal giudizio di primo grado la foto segnaletica ufficiale scattatagli in questura, identica a quella pubblicata. Sottolinea che l'art. 8 del codice giornalistico vieta ai giornalisti di produrre foto segnaletiche senza il consenso dell'interessato salvo circostanziate eccezioni.
Sostiene che anche sulle mansioni da lui svolte all'interno dell'ufficio tecnico del Comune la corte d'appello travisava i fatti, non avendo egli alcun potere decisionale all'epoca dei fatti.
Il Ministero dell'Interno nel controricorso contesta la fondatezza del quarto e del quinto motivo, gli unici che concernano la sua posizione, osservando, quanto al quarto, che la responsabilità aggiuntiva dello Stato per fatto illecito del suo dipendente è configurabile solo se questi è identificato - mentre nel caso di specie non si è mai individuato chi sarebbe stato il funzionario della Polizia di Stato responsabile del disvelamento alla stampa di indiscrezioni sulle vicende giudiziarie del [(Lpd)] - e inoltre che, anche se questi fosse stato individuato, poiché l'attività di divulgazione di notizie ai giornalisti è certamente estranea ai fini istituzionali della polizia, trattandosi di condotta contra legem, in ogni caso l'accadimento si collocherebbe al di fuori del rapporto di immedesimazione organica e della possibile responsabilità del Ministero.
Sul quinto motivo il Ministero controricorrente osserva che la stessa sussistenza del presupposto di fatto su cui esso si fonda - l'avvenuta pubblicazione della foto segnaletica - è stata smentita dall'accertamento di fatto motivatamente esposto dai giudici di merito.
La [(Lpd)] nel suo controricorso sottolinea numerosi profili di inammissibilità dei vari motivi di ricorso, e conclude chiedendo la condanna del ricorrente ex art. 385, quarto comma, c.p.c.
Il quarto motivo di ricorso deve ritenersi infondato perché il dictum della sentenza impugnata è conforme all'orientamento di questa Corte di legittimità secondo il quale l'affermazione della responsabilità aquiliana degli enti pubblici per il fatto di funzionari e dipendenti presuppone che sia stata accertata e dichiarata la responsabilità, ai sensi dell'art. 2043 c.c., di (almeno) una delle persone fisiche poste in rapporto giuridicamente rilevante con l'ente stesso (amministratori, funzionari o dipendenti), le quali, per la posizione di "protezione" rispettivamente rivestita, siano in condizione di adottare le misure preventive necessarie ad evitare la consumazione dell'illecito (in questo senso, da ultimo, Cass. n. 22585 del 2013). Nel caso di specie, infatti, in cui tra l'altro è oggetto di contestazione e non è stato accertato se la fotografia riportata sul quotidiano fosse la foto segnaletica scattata dalle forze dell'ordine al momento dell'arresto del ricorrente o meno, non è stato individuato chi in concreto avrebbe messo la fotografia per cui si discute a disposizione della stampa - diversamente da quanto verificatosi nel caso Sciacca contro Italia (del quale si è occupata la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, IV sezione, decisione 11 gennaio 2005), in cui nel corso della conferenza stampa congiunta tenuta da magistrati inquirenti e Guardia di finanza, i relatori non si limitarono ad informare la stampa su una vicenda concernente l'organizzazione di falsi corsi di formazione ma misero a disposizione dei giornalisti intervenuti anche le fotografie ritraenti gli insegnanti ritenuti responsabili (la Cedu in quel caso ravvisò una violazione dell'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo per l'assenza, nell'ordinamento italiano, di una base legale che regoli la trasmissione alla stampa, da parte della guardia di finanza, della fotografia di persona agli arresti domiciliari). La fattispecie esaminata dalla Corte dei diritti dell'uomo evidenzia che non necessariamente la messa a disposizione della stampa di fotografie o di particolari su una vicenda giudiziaria in corso costituisce iniziativa isolata del singolo agente, eseguita per fini contrari o comunque estranei ai suoi doveri istituzionali, come tale al di fuori del rapporto organico escludendo in ogni caso la responsabilità della amministrazione per il fatto del suo dipendente, come sostenuto dal Ministero. La finalità per la quale le fotografie, o le informazioni, vengono trasmesse alla stampa, è da verificare caso per caso e se effettuata in esecuzione di precise direttive può fondare la responsabilità dell'ente, ma comunque presuppone l'individuazione del soggetto che ha trasmesso le informazioni.
Per quanto concerne il quinto motivo di ricorso va premesso che non può ritenersi, diversamente da quanto sostenuto dal Ministero dell'Interno, che la sentenza impugnata contenga un accertamento in fatto volto ad escludere che la foto del [(Lpd)] pubblicata sul quotidiano della controricorrente [(Lpd)], sia una foto segnaletica. Qualora un tale accertamento in fatto vi fosse, e fosse stata esclusa dalla Corte d'appello la possibilità di identificare la foto pubblicata dal giornale come foto segnaletica, a questa Corte sarebbe effettivamente precluso l'esame della questione della liceità o meno della pubblicazione di una foto segnaletica dell'interessato perché non è suo compito sostituirsi al giudice di merito e rinnovare la valutazione in fatto sul punto.
Esaminando quanto affermato sul punto dalla corte d'appello però, essa si limita a dire che probabilmente la foto diffusa dal quotidiano Alto Adige era una semplice foto tessera del [(Lpd)], con ciò non effettuando un accertamento in fatto preclusivo dell'intervento di questa Corte.
Il motivo è pertanto ammissibile.
Si deve allora ripartire dal punto di fatto obiettivo ed accertato - la pubblicazione sul quotidiano "Alto Adige", a corredo di un ampio articolo giornalistico che parla del suo arresto, di una fotografia del geom. [(Lpd)] in formato tessera, ovvero di una fotografia frontale che ritrae il viso e le spalle del [(Lpd)] di formato coincidente per dimensioni e per tipologia non solo con le foto tessera per documenti, ma anche con le foto segnaletiche scattate dalla polizia in occasione di un arresto, ma priva di numeri identificativi per verificare se la valutazione della corte d'appello sulla legittimità di tale pubblicazione sia o meno conforme alle norme di legge applicabili.
Il quesito che il ricorrente sottopone alla Corte è il seguente: "È legittima la diffusione e la pubblicazione di una foto segnaletica di persona arrestata, senza che ricorra alcun rilevante interesse pubblico o comprovato motivo di giustizia o di polizia?
È legittima la diffusione di indiscrezioni su un procedimento penale da parte degli organi di pubblica sicurezza?"
Alla seconda parte del quesito si è già risposto all'interno dell'esame del quarto motivo di ricorso, si può quindi centrare l'indagine sulla questione della legittimità o meno della diffusione delle foto a corredo dell'articolo.
Il ricorrente nel quesito dà per scontato che si tratti di foto segnaletiche, tuttavia come si è già detto, deve ritenersi che la corte di merito non abbia compiuto un accertamento in fatto sul punto, né in senso affermativo né negativo, e naturalmente questo accertamento non può essere compiuto dal giudice di legittimità.
Si tratta quindi di verificare se la valutazione della liceità della pubblicazione di foto siffatte (come si è già detto, foto frontali degli arrestati, formato tessera, prive di riferimenti identificativi numerici) da parte del quotidiano "Alto Adige" sia stata compiuta da parte della Corte territoriale nel rispetto della normativa di riferimento ovvero se essa presenti profili di violazione di legge o il lamentato vizio di omessa motivazione.
Deve ritenersi inammissibile la censura sotto il profilo del vizio di motivazione perché, nei termini in cui il ricorrente lo ritiene sussistente, egli non lamenta in effetti un vizio di motivazione ma che la corte d'appello, con la sua motivazione senz'altro sbrigativa sul punto sia arrivata alla conclusione - errata in fatto ad avviso del ricorrente - che non si tratti di foto segnaletiche, da cui fa discendere la legittimità della loro pubblicazione. Si è già detto che non si rinviene nella sentenza un tale accertamento in fatto, né tanto meno è compito di questa Corte effettuare un tale accertamento.
Deve invece ritenersi che la corte territoriale sia comunque incorsa, in riferimento alla pubblicazione delle fotografie a corredo di un articolo di cronaca che riferisce lo stato di una inchiesta penale, nella quale il giorno della pubblicazione dell'articolo coincide con quello dell'arresto degli indagati, in un vizio di violazione di legge, perché ai fini di verificare la legittimità o meno di tale pubblicazione, individua un unico parametro normativo di riferimento, che è quanto meno insufficiente. Essa infatti individua i limiti normativi alla pubblicazione e diffusione della immagine altrui esclusivamente nella normativa sul diritto di autore ed in particolare negli artt. 96 e 97 e quindi conclude nel senso della legittimità della pubblicazione sussistendo il collegamento tra la pubblicazione della notizia corredata dalle immagini dei soggetti coinvolti e un fatto di interesse pubblico quale può essere il coinvolgimento in un procedimento penale.
In realtà diversi e più ristretti sono i parametri di legittimità della pubblicazione delle fotografie, che la corte territoriale avrebbe dovuto prendere in considerazione.
Tale pubblicazione è infatti regolamentata in primo luogo dalle norme della l. 8 luglio 1996, n. 675 (pro tempore applicabile perché i fatti denunciati sono del dicembre 1998), sostanzialmente riprodotte successivamente nel d.lgs. n. 196 del 2003 (Codice della privacy), come integrate dalle norme contenute nel Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica.
Le principali norme di riferimento sono quindi l'art. 12, lett. e), della l. n. 675 del 1996 e l'art. 20 della medesima legge, che prevede che la comunicazione e la diffusione di dati personali è ammessa "d) nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità, nei limiti del diritto di cronaca posti a tutela della riservatezza ed in particolare dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico e nel rispetto del codice di deontologia di cui all'articolo 25" e l'articolo 25 della medesima legge.
L'art. 25, nel prevedere che si possa prescindere dal consenso dell'interessato e dall'autorizzazione del Garante nel trattamento dei dati a fini giornalistici, pur sempre nei limiti del diritto di cronaca e del parametro dell'essenzialità della informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, prevede poi la necessità dell'adozione, da parte del Consiglio dell'ordine dei Giornalisti, di un codice deontologico che stabilisca particolari misure e accorgimenti a garanzia degli interessati.
Per quanto riguarda il trattamento dei dati personali che sia effettuato nell'esercizio della professione di giornalista, quindi, sia la l. n. 675 del 1996 che poi il codice sulla privacy (artt. 136 e 137) esentano i giornalisti dal consenso dell'interessato, ma tengono comunque fermo il limite del diritto di cronaca, e quello non del semplice interesse ma della essenzialità dell'informazione rispetto a dati di interesse pubblico.
I limiti alla legittimità della pubblicazione delle notizie ed in particolare delle fotografie dettati dalla legge citata, e successivamente dal codice della privacy vanno integrati, per il richiamo contenuto prima nella l. n. 675 del 1996 e poi nel Codice sulla privacy, con le disposizioni contenute nel Codice deontologico dei giornalisti (pubblicato in G.U. 3 agosto 1988, n. 179), che li ha implementati e dettagliati, in considerazione, in particolare, del fatto che la diffusione dell'immagine di una persona effettuata sui quotidiani o sui periodici a mezzo di fotografie ha in ogni caso maggiore potenza lesiva della sua dignità rispetto alla diffusione del nome della persona associato al racconto della vicenda che la coinvolge.
È opportuno a questo proposito ricordare, come affermato da questa Corte di legittimità (v. Cass. n. 17408 del 2012), che il Codice deontologico dei giornalisti, di cui la legge del 1996 prescriveva la necessità, che è stato adottato nel 1998 e che viene espressamente richiamato dal successivo Codice della privacy, costituendo parte integrante dei suddetti testi normativi, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ed ha forza e valore di fonte normativa ("in tema di tutela della riservatezza, l'esonero (art. 137 d.lgs. n. 196 del 2003), per il trattamento dei dati sensibili nell'esercizio della professione di giornalista, dall'autorizzazione del Garante e dal consenso dell'interessato, non può prescindere dal rispetto, oltre che del diritto di cronaca e dell'essenzialità dell'informazione, anche dei principi stabiliti dal codice deontologico delle attività giornalistiche, cui deve riconoscersi natura fonte normativa": Cass. pen. n. 16145 del 2008).
Le regole deontologiche in esso contenute quindi non sono soltanto regole di comportamento per i giornalisti professionisti dettate dall'Ordine di appartenenza, la cui violazione li esponga esclusivamente a possibili sanzioni disciplinari da parte del Consiglio dell'Ordine, ma sono regole di condotta aventi efficacia generale la cui violazione, per quanto qui interessa, può essere fonte di responsabilità civile in capo al giornalista o alla sua testata.
In particolare, l'articolo 8 del codice deontologico, rubricato "Tutela della dignità della persona", è volto in maniera specifica ad evitare che l'esercizio del diritto di cronaca si traduca in una lesione della dignità dei soggetti coinvolti. Esso, ponendo una particolare attenzione ai limiti dell'utilizzo consentito dell'immagine altrui, prevede:
"8. Tutela della dignità della persona
1. Salva l'essenzialità dell'informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell'immagine.
2. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato.
3. Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi".
Alla luce di queste norme, la legittimità della pubblicazione di una immagine ritraente una persona su un quotidiano senza o contro il consenso dell'interessato è indagine che va condotta caso per caso nel rispetto sia dei parametri del diritto di cronaca e dell'essenzialità della diffusione della notizia sia dei parametri specifici fissati dal su riportato articolo 8 a presidio della tutela della dignità umana (in particolare dal primo comma di esso qualora non sia stato accertato, come nella fattispecie in esame, che si tratti di immagine di persona ritratta in "stato di detenzione").
È valutazione che in ogni caso va condotta con maggior rigore rispetto alla valutazione relativa alla semplice pubblicazione della notizia per la maggior potenzialità lesiva e la maggiore diffusività dell'immagine stessa.
Nell'apprezzare la liceità del trattamento delle fotografie pubblicate, la Corte d'Appello di Trento non avrebbe dovuto fermarsi alla considerazione dei parametri fissati, nel 1941, dalla legge sul diritto di autore, ma avrebbe dovuto prendere in considerazione tutti i parametri normativi di riferimento: l'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, gli artt. 20 e 25 della l. n. 675 del 1996 e in particolare, quanto alla pubblicazione delle immagini a scopo giornalistico, l'art. 8, primo comma, del codice deontologico, tutte fonti normative rilevanti, in quanto sia gli uni che l'altro hanno questo valore, l'ultimo richiamato come fonte normativa autorizzata dalla legge. Non avrebbe dovuto cioè fermarsi, come ha fatto, alla sussistenza di un interesse pubblico alla pubblicazione delle foto di un pubblico funzionario in quel momento coinvolto in un procedimento penale.
Avrebbe dovuto valutare se la pubblicazione delle immagini fosse essenziale ai fini dell'informazione (per la nozione di essenzialità della informazione nella giurisprudenza di questa Corte v. da ultimo Cass. n. 17408 del 2012) e inoltre considerare se tali immagini, per le loro caratteristiche intrinseche, fossero da considerare lesive della dignità della persona, valutazione imposta a chi pubblica prima e a chi giudica, poi, dall'art. 8 primo comma del codice deontologico in considerazione della particolare potenzialità offensiva connessa alla enfatizzazione che è tipica dello stesso strumento visivo (ed alla idoneità della immagine una volta pubblicata ad essere riprodotta anche a distanza di tempo sui più svariati mezzi di comunicazione, scissa dall'articolo di cronaca che ne poteva giustificare in origine la pubblicazione e sottratta al controllo del soggetto ritratto), il cui uso nell'attività giornalistica è per questo circondato da particolari cautele.
Ciò a prescindere dal fatto che si trattasse o meno di foto segnaletiche scattate dalle forze dell'ordine allo scopo di identificare una persona al momento del suo arresto e di inserirne l'immagine negli schedari di polizia, la cui pubblicazione è di regola vietata dall'art. 8, comma 2 del codice deontologico dei giornalisti, e la cui illegittima pubblicazione è stata anche sanzionata da alcuni provvedimenti del Garante della Privacy (in particolare, v. provvedimento del Garante del 19 marzo 2003) perché in contrasto con la dignità della persona umana, che va tutelata in ogni situazione, specie, si aggiunga, quando la persona si trovi in una situazione di momentanea inferiorità che la rende particolarmente esposta e vulnerabile, allo scopo di evitare che la legittima ed anzi tutelata anche a livello costituzionale attività di diffusione delle notizie sia effettuata con modalità gratuitamente umilianti nei confronti dei soggetti coinvolti. La foto segnaletica nasce infatti con una finalità precisa (identificare un soggetto nello schedario di polizia) e per questo deve rispettare certi requisiti standard per cui, per la posizione forzata fatta assumere al soggetto ritratto, per il fatto che reca delle indicazioni numeriche in sovrimpressione atte ad identificare la persona ritratta, inequivocabilmente sottoposta a misura restrittiva della libertà, per il contesto di luogo e di fatto in cui è scattata, essa ritrae una persona contro la sua volontà in una situazione obiettivamente umiliante in cui questa non può opporsi né allo scatto della foto né ad altre pratiche identificative per altri versi mortificanti (prelievo impronte digitali).
Sia che si trattasse di foto segnaletiche (in questo caso "sbianchettate" ovvero con eliminazione dei numeri in sovrimpressione, sulla legittimità della cui pubblicazione in quanto non equiparabili alle immagini di persone ritratte in stato di detenzione, v. da ultimo Cass. n. 194 del 2014) o di semplici foto formato tessera degli arrestati, la sentenza di merito va cassata e la causa va rinviata alla Corte d'Appello di Trento che deciderà in diversa composizione anche sulle spese attenendosi al seguente principio di diritto:
"In materia di tutela dell'immagine, la pubblicazione su un quotidiano della foto di una persona in coincidenza cronologica con il suo arresto deve rispettare, ai fini della sua legittimità, non soltanto i limiti della essenzialità per illustrare il contenuto della notizia e del legittimo esercizio del diritto di cronaca (fissati dagli artt. 20 e 25 della l. n. 675 del 1996 applicabile pro tempore alla fattispecie in esame e riprodotti nell'art. 137 del codice della privacy) ma anche le particolari cautele imposte a tutela della dignità della persona ritratta dall'art. 8, primo comma, del codice deontologico dei giornalisti, che costituisce fonte normativa integrativa; l'indagine sul rispetto dei suddetti limiti nella pubblicazione della foto va condotta con maggior rigore rispetto a quella relativa alla semplice pubblicazione della notizia, tenuto conto della particolare potenzialità lesiva della dignità della persona connessa alla enfatizzazione tipica dello strumento visivo, e della maggiore idoneità di esso ad una diffusione decontestualizzata e insuscettibile di controllo da parte della persona ritratta".
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi quattro motivi di ricorso, accoglie il quinto e rinvia anche per le spese alla Corte d'Appello di Trento in diversa composizione.

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