Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 6 giugno 2014, n. 12834
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 3 dicembre 1998 sul quotidiano "Alto Adige" (oggi "Trentino") veniva
pubblicato con ampio risalto un articolo di cronaca che dedicava due pagine
all'applicazione a [(Lpd)], all'epoca capo tecnico idraulico presso il
[(Lpd)], e ad altre tre persone, della misura degli arresti domiciliari
all'interno di una inchiesta penale per truffa aggravata ai danni dello
Stato, nella quale si contestava al [(Lpd)] che nella sua qualità avrebbe
consentito agli altri arrestati, titolari di alcune concessioni di
estrazione di limo dal fiume Adige, l'estrazione di materiali inerti in
misura di gran lunga superiore a quanto previsto dalle concessioni e di
qualità differente (consentendo l'estrazione di ghiaia anziché di limo)
creando anche rischi di danno ambientale. La pubblicazione dell'articolo era
corredata da un richiamo ad esso con un trafiletto sulla prima pagina e
dalla pubblicazione delle foto formato tessera delle persone sottoposte a
misura restrittiva della libertà personale.
Gli arresti domiciliari al [(Lpd)] venivano revocati pochi giorni dopo, in
data 16 dicembre 1998, ma questa notizia sul quotidiano non veniva riportata
(mentre veniva pubblicata sul quotidiano concorrente), ed il [(Lpd)] veniva
poi assolto con formula piena, sia in primo che in secondo grado;
l'assoluzione perché il fatto non sussiste veniva confermata anche in
Cassazione, ma il quotidiano "Alto Adige" pubblicava solo, a distanza di
anni, la notizia dell'assoluzione in appello del ricorrente confinata nella
29° pagina.
Il [(Lpd)] nel 2003, conclusasi definitivamente la vicenda penale con
l'accertamento della sua piena estraneità ai fatti, citava in giudizio per
diffamazione sia la [(Lpd)], Società [(Lpd)] proprietaria del quotidiano
"Alto Adige", che il Ministero dell'Interno, assumendo di ritenersi
diffamato per il modo con il quale erano state trattate le notizie
concernenti l'inchiesta giudiziaria che lo aveva coinvolto: mentre era stato
evidenziato al massimo il suo arresto, e gli era stato anche attribuito
all'interno dell'ufficio un ruolo chiave che non aveva mai ricoperto, non
era stata neppure diffusa la notizia della revoca della misura restrittiva,
né era stata ristabilita la sua onorabilità dando notizia della sua
assoluzione con formula piena fin dal primo grado ma soltanto, a distanza di
anni, era stata pubblicata la notizia della sua assoluzione in appello, con
un breve occhiello in 29° pagina, e per di più con una formula secondo il
ricorrente atta a creare l'equivoco che l'assoluzione fosse giunta solo in
appello: l'occhiello era titolato "Assolto in appello".
Inoltre, il [(Lpd)] si riteneva ulteriormente ed autonomamente danneggiato
nella sua immagine per aver il quotidiano indicato diffuso al momento
dell'arresto non una sua qualsiasi fotografia, ma la foto segnaletica
scattatagli dalla polizia al momento dell'arresto, e da questa
illegittimamente messa a disposizione della stampa. La domanda di
risarcimento danni per diffamazione era rivolta anche contro il Ministero
dell'Interno perché anch'esso ritenuto responsabile, per violazione del
diritto al ritratto e della privacy, per aver diffuso indiscrezioni sulla
inchiesta giudiziaria e per aver consegnato alla stampa una foto segnaletica
dell'indagato.
La domanda del ricorrente volta al risarcimento dei danni veniva rigettata
sia in primo grado che in appello.
In particolare, la Corte d'Appello di Trento riteneva che il giornale, nel
pubblicare le notizie relative ad una presunta truffa a danni dello Stato
che vedeva coinvolti il [(Lpd)] ed altri pubblici funzionari, e quindi un
fatto grave che riguardava la tutela ambientale verificatosi nel territorio
di diffusione del quotidiano stesso, si fosse mantenuto nei limiti della
pertinenza e della continenza, e che si fosse astenuto dal divulgare notizie
false.
Rigettava poi la domanda nei confronti del Ministero dell'Interno, ritenendo
che ai fini della configurabilità di una responsabilità del Ministero per
fatto illecito del pubblico dipendente avrebbe dovuto essere individuato il
soggetto che aveva divulgato le notizie e consegnato la foto alla stampa.
In relazione in particolare alla pubblicazione della foto, la corte
territoriale non riteneva accertato che la foto che corredava l'articolo
fosse una foto segnaletica, affermando che verosimilmente potesse trattarsi
di una foto tessera, e comunque ribadiva che mancasse la prova della
consegna della foto al giornale da parte di un appartenente alla Polizia di
Stato. Ribadiva poi che, ai sensi dell'art. 97 della l. n. 633 del 1941, la
riproduzione sul giornale della foto di un pubblico funzionario, al momento
della pubblicazione stessa pesantemente coinvolto in una grave indagine
penale e a corredo dell'articolo che informava sullo stato dell'inchiesta,
si doveva ritenere legittima perché giustificata da un interesse pubblico
alla conoscenza dei fatti e dei loro protagonisti.
[(Lpd)] propone ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 279 del 2007,
depositata dalla Corte d'Appello di Trento il 12 novembre 2007, articolato
in cinque motivi, nei confronti di [(Lpd)] e del Ministero degli Interni.
I controricorrenti resistono con controricorso.
Le parti costituite non hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la violazione
dell'art. 595 c.p. per aver la corte di merito erroneamente ritenuto, nella
pubblicazione dell'articolo da parte del quotidiano "Alto Adige", la
sussistenza della scriminante del diritto di cronaca pur in difetto del
requisito della pertinenza. Il ricorrente contesta quanto sembra affermare
la corte d'appello, ovvero che possa sussistere l'interesse alla
divulgazione della notizia di cronaca in relazione alla misura cautelare
applicata ad un pubblico ufficiale all'interno di una inchiesta penale di
ampio rilievo nel territorio e che non si dia pari risalto non sussistendo
uguale interesse alla notizia della revoca della misura cautelare né
dell'assoluzione dell'indagato, altro che con una notizia tardiva a
fuorviante.
Il motivo va rigettato.
Ritenuti superabili alcuni rilievi di inammissibilità in ordine al quesito,
che non interroga in maniera del tutto adeguata la Corte sul requisito della
pertinenza e sui limiti del diritto di cronaca, va detto che in ordine alla
sussistenza del requisito della pertinenza la corte d'appello dà ampia e
convincente motivazione. Essa richiama appunto la gravità dell'inchiesta, la
sua ampia risonanza nell'ambito territoriale di diffusione del quotidiano e
la gravità dei fatti in quel momento ascritti al [(Lpd)], mostrando di aver
correttamente effettuato un bilanciamento dell'interesse individuale alla
reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero,
costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.), bilanciamento ravvisabile
nella pertinenza della cronaca all'interesse dell'opinione pubblica alla
conoscenza del fatto stesso.
Il rilievo del ricorrente non tocca in effetti direttamente l'esistenza del
requisito della pertinenza nella pubblicazione della notizia: egli critica
piuttosto che alle società editrici possa essere consentito divulgare
notizie obiettivamente atte a gettare il discredito sulle persone cui si
riferiscono, appellandosi alla scriminante del diritto di cronaca, e che
alle stesse società non sia per converso imposto di seguire e riferire gli
esiti dell'inchiesta dandone notizia con pari risalto quando da essa derivi
come nella specie il pieno scagionamento dell'indagato.
La pubblicazione della notizia della conclusione di una inchiesta con
proscioglimento dell'indagato, o di revoca della misura cautelare, se deve
essere inserita nel quotidiano che ha dato la notizia dell'incriminazione o
della misura a tutela dell'onore della persona già da esso citata in quanto
il diritto della comunità ad essere informata lo consentiva, non si colloca
all'interno del requisito della pertinenza della diffusione della notizia di
cronaca, ma della tutela del diritto all'onore della persona, ed essendo
stata la prima diffusione della notizia lecita, non deve avere
necessariamente risalto pari alla notizia pubblicata come nei casi in cui la
notizia divulgata sia falsa o sottratta all'applicabilità della scriminante
del diritto di cronaca. In quei casi infatti, il ripristino della verità con
risalto pari alla notizia falsa costituisce misura riparatoria dell'onore
leso.
Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia sempre la
violazione dell'art. 595 c.p. ed in particolare l'insussistenza della
scriminante del diritto di cronaca per difetto del requisito della
continenza, riprendendo considerazioni già svolte in appello sulla eccessiva
enfasi scandalistica che aveva accompagnato l'esposizione della notizia.
Contesta la corretta applicazione da parte della corte di merito della
scriminante, avendo ritenuto essa utilizzabili nella specie anche frasi ad
effetto idonee a fomentare l'indignazione della collettività rispetto a
determinate condotte. Richiama anche, sotto il profilo della violazione
della continenza il fatto che la pubblicazione della notizia sia stata
accompagnata dalla pubblicazione della foto segnaletica, e che non si sia
dato pari risalto alla piena assoluzione dell'indagato.
Richiamando le osservazioni già svolte in merito al fatto che, laddove la
pubblicazione di una notizia su una inchiesta penale a carico di qualcuno
sia consentita, la pubblicazione della notizia della sua completa
assoluzione non debba necessariamente avere pari risalto, il motivo è
inammissibile in quanto è del tutto carente sotto il profilo della
autosufficienza, perché non riporta alcuna delle espressioni incriminate,
che si allega essere eccessivamente denigratorie nella loro formulazione.
Con il terzo motivo di ricorso il [(Lpd)] si duole della violazione ancora
una volta dell'art. 595 c.p. sotto il profilo della insussistenza della
scriminante del diritto di cronaca per difetto del requisito della verità,
anche putativa della notizia.
Anche questo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, in
quanto la prima parte del motivo è scarsamente comprensibile, riportando
varie considerazioni su passi degli articoli pubblicati che il ricorrente
non cita testualmente pretendendo poi di dimostrare la non veridicità dei
fatti ivi riportati e la non conformità delle notizie riportate rispetto al
provvedimento giudiziario cautelare, anch'esso non riportato nel suo dato
testuale, con un'opera di interpretazione e ricostruzione assolutamente
personale e svincolata dai dati obiettivi in cui la Corte non può seguire il
ricorrente.
All'interno del motivo si lamenta poi che il titolo con il quale si dava la
notizia della assoluzione del [(Lpd)] in appello "Assolto in appello" fosse
di per sé falso e diffamatorio, in quanto faceva falsamente comprendere al
lettore che il [(Lpd)] solo in appello fosse stato assolto, avendo invece
goduto di una assoluzione piena, sempre confermata fin dalla conclusione del
giudizio di primo grado.
Il punto del quesito di diritto dedicato a questa censura è del tutto
inidoneo ad esprimerla adeguatamente: "Può dirsi vera la notizia corredata
anche solo da un titolo falso?".
Sempre all'interno del terzo motivo il ricorrente lamenta la falsità
diffamatoria, contenuta nella notizia in breve pubblicata il 6 ottobre 2001,
con cui si menzionava a suo carico l'esistenza di una mai contestata accusa
di concussione, in quanto l'accusa a suo carico era di corruzione. Qui si
vorrebbe che fosse compiuto un nuovo accertamento in fatto, precluso a
questa Corte ed infatti il controricorrente replica esclusivamente in fatto,
riportando passi dell'inchiesta penale in cui a un certo punto la
concussione era una delle possibili imputazioni.
Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione degli
artt. 2043 e 2049 c.c., nonché degli artt. 28 e 97 Cost. lamentando anche il
difetto di motivazione laddove la corte d'appello ha escluso la
responsabilità del Ministero per fatto del suo dipendente che avrebbe
trasmesso alla stampa indiscrezioni sull'inchiesta penale in corso essendo
questo rimasto non identificato.
Il quesito di diritto che il [(Lpd)] sottopone alla Corte è il seguente:
"Sussiste la responsabilità vicaria dell'amministrazione qualora il
dipendente pubblico materiale autore dell'illecito doloso sia rimasto
ignoto, anche laddove il fatto illecito sia perfettamente inquadrabile in
una prassi latu sensu diffamatoria e anche laddove l'amministrazione non
abbia dimostrato motivazioni unicamente personali del materiale autore?"
Con il quinto motivo di ricorso il [(Lpd)] denuncia la violazione dell'art.
10 c.c., degli artt. 96 e 97 della l. n. 633 del 1941, degli artt. 2,19 e
137 del t.u. sulla privacy, nonché degli artt. 6 e 8 del codice deontologico
dei giornalisti e dell'art. 8 della Convenzione europea sui diritti
dell'uomo nonché l'omessa e/o insufficiente motivazione sul punto della
illegittima pubblicazione e divulgazione della foto segnaletica del
ricorrente e di indiscrezioni riguardanti lo stesso.
Sostiene che la corte d'appello abbia erroneamente ritenuto non trattarsi di
una foto segnaletica, ma più probabilmente di una foto tessera, pur avendo
egli provveduto a depositare fin dal giudizio di primo grado la foto
segnaletica ufficiale scattatagli in questura, identica a quella pubblicata.
Sottolinea che l'art. 8 del codice giornalistico vieta ai giornalisti di
produrre foto segnaletiche senza il consenso dell'interessato salvo
circostanziate eccezioni.
Sostiene che anche sulle mansioni da lui svolte all'interno dell'ufficio
tecnico del Comune la corte d'appello travisava i fatti, non avendo egli
alcun potere decisionale all'epoca dei fatti.
Il Ministero dell'Interno nel controricorso contesta la fondatezza del
quarto e del quinto motivo, gli unici che concernano la sua posizione,
osservando, quanto al quarto, che la responsabilità aggiuntiva dello Stato
per fatto illecito del suo dipendente è configurabile solo se questi è
identificato - mentre nel caso di specie non si è mai individuato chi
sarebbe stato il funzionario della Polizia di Stato responsabile del
disvelamento alla stampa di indiscrezioni sulle vicende giudiziarie del
[(Lpd)] - e inoltre che, anche se questi fosse stato individuato, poiché
l'attività di divulgazione di notizie ai giornalisti è certamente estranea
ai fini istituzionali della polizia, trattandosi di condotta contra legem,
in ogni caso l'accadimento si collocherebbe al di fuori del rapporto di
immedesimazione organica e della possibile responsabilità del Ministero.
Sul quinto motivo il Ministero controricorrente osserva che la stessa
sussistenza del presupposto di fatto su cui esso si fonda - l'avvenuta
pubblicazione della foto segnaletica - è stata smentita dall'accertamento di
fatto motivatamente esposto dai giudici di merito.
La [(Lpd)] nel suo controricorso sottolinea numerosi profili di
inammissibilità dei vari motivi di ricorso, e conclude chiedendo la condanna
del ricorrente ex art. 385, quarto comma, c.p.c.
Il quarto motivo di ricorso deve ritenersi infondato perché il dictum della
sentenza impugnata è conforme all'orientamento di questa Corte di
legittimità secondo il quale l'affermazione della responsabilità aquiliana
degli enti pubblici per il fatto di funzionari e dipendenti presuppone che
sia stata accertata e dichiarata la responsabilità, ai sensi dell'art. 2043
c.c., di (almeno) una delle persone fisiche poste in rapporto giuridicamente
rilevante con l'ente stesso (amministratori, funzionari o dipendenti), le
quali, per la posizione di "protezione" rispettivamente rivestita, siano in
condizione di adottare le misure preventive necessarie ad evitare la
consumazione dell'illecito (in questo senso, da ultimo, Cass. n. 22585 del
2013). Nel caso di specie, infatti, in cui tra l'altro è oggetto di
contestazione e non è stato accertato se la fotografia riportata sul
quotidiano fosse la foto segnaletica scattata dalle forze dell'ordine al
momento dell'arresto del ricorrente o meno, non è stato individuato chi in
concreto avrebbe messo la fotografia per cui si discute a disposizione della
stampa - diversamente da quanto verificatosi nel caso Sciacca contro Italia
(del quale si è occupata la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, IV sezione,
decisione 11 gennaio 2005), in cui nel corso della conferenza stampa
congiunta tenuta da magistrati inquirenti e Guardia di finanza, i relatori
non si limitarono ad informare la stampa su una vicenda concernente
l'organizzazione di falsi corsi di formazione ma misero a disposizione dei
giornalisti intervenuti anche le fotografie ritraenti gli insegnanti
ritenuti responsabili (la Cedu in quel caso ravvisò una violazione dell'art.
8 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo per l'assenza,
nell'ordinamento italiano, di una base legale che regoli la trasmissione
alla stampa, da parte della guardia di finanza, della fotografia di persona
agli arresti domiciliari). La fattispecie esaminata dalla Corte dei diritti
dell'uomo evidenzia che non necessariamente la messa a disposizione della
stampa di fotografie o di particolari su una vicenda giudiziaria in corso
costituisce iniziativa isolata del singolo agente, eseguita per fini
contrari o comunque estranei ai suoi doveri istituzionali, come tale al di
fuori del rapporto organico escludendo in ogni caso la responsabilità della
amministrazione per il fatto del suo dipendente, come sostenuto dal
Ministero. La finalità per la quale le fotografie, o le informazioni,
vengono trasmesse alla stampa, è da verificare caso per caso e se effettuata
in esecuzione di precise direttive può fondare la responsabilità dell'ente,
ma comunque presuppone l'individuazione del soggetto che ha trasmesso le
informazioni.
Per quanto concerne il quinto motivo di ricorso va premesso che non può
ritenersi, diversamente da quanto sostenuto dal Ministero dell'Interno, che
la sentenza impugnata contenga un accertamento in fatto volto ad escludere
che la foto del [(Lpd)] pubblicata sul quotidiano della controricorrente
[(Lpd)], sia una foto segnaletica. Qualora un tale accertamento in fatto vi
fosse, e fosse stata esclusa dalla Corte d'appello la possibilità di
identificare la foto pubblicata dal giornale come foto segnaletica, a questa
Corte sarebbe effettivamente precluso l'esame della questione della liceità
o meno della pubblicazione di una foto segnaletica dell'interessato perché
non è suo compito sostituirsi al giudice di merito e rinnovare la
valutazione in fatto sul punto.
Esaminando quanto affermato sul punto dalla corte d'appello però, essa si
limita a dire che probabilmente la foto diffusa dal quotidiano Alto Adige
era una semplice foto tessera del [(Lpd)], con ciò non effettuando un
accertamento in fatto preclusivo dell'intervento di questa Corte.
Il motivo è pertanto ammissibile.
Si deve allora ripartire dal punto di fatto obiettivo ed accertato - la
pubblicazione sul quotidiano "Alto Adige", a corredo di un ampio articolo
giornalistico che parla del suo arresto, di una fotografia del geom. [(Lpd)]
in formato tessera, ovvero di una fotografia frontale che ritrae il viso e
le spalle del [(Lpd)] di formato coincidente per dimensioni e per tipologia
non solo con le foto tessera per documenti, ma anche con le foto
segnaletiche scattate dalla polizia in occasione di un arresto, ma priva di
numeri identificativi per verificare se la valutazione della corte d'appello
sulla legittimità di tale pubblicazione sia o meno conforme alle norme di
legge applicabili.
Il quesito che il ricorrente sottopone alla Corte è il seguente: "È
legittima la diffusione e la pubblicazione di una foto segnaletica di
persona arrestata, senza che ricorra alcun rilevante interesse pubblico o
comprovato motivo di giustizia o di polizia?
È legittima la diffusione di indiscrezioni su un procedimento penale da
parte degli organi di pubblica sicurezza?"
Alla seconda parte del quesito si è già risposto all'interno dell'esame del
quarto motivo di ricorso, si può quindi centrare l'indagine sulla questione
della legittimità o meno della diffusione delle foto a corredo
dell'articolo.
Il ricorrente nel quesito dà per scontato che si tratti di foto
segnaletiche, tuttavia come si è già detto, deve ritenersi che la corte di
merito non abbia compiuto un accertamento in fatto sul punto, né in senso
affermativo né negativo, e naturalmente questo accertamento non può essere
compiuto dal giudice di legittimità.
Si tratta quindi di verificare se la valutazione della liceità della
pubblicazione di foto siffatte (come si è già detto, foto frontali degli
arrestati, formato tessera, prive di riferimenti identificativi numerici) da
parte del quotidiano "Alto Adige" sia stata compiuta da parte della Corte
territoriale nel rispetto della normativa di riferimento ovvero se essa
presenti profili di violazione di legge o il lamentato vizio di omessa
motivazione.
Deve ritenersi inammissibile la censura sotto il profilo del vizio di
motivazione perché, nei termini in cui il ricorrente lo ritiene sussistente,
egli non lamenta in effetti un vizio di motivazione ma che la corte
d'appello, con la sua motivazione senz'altro sbrigativa sul punto sia
arrivata alla conclusione - errata in fatto ad avviso del ricorrente - che
non si tratti di foto segnaletiche, da cui fa discendere la legittimità
della loro pubblicazione. Si è già detto che non si rinviene nella sentenza
un tale accertamento in fatto, né tanto meno è compito di questa Corte
effettuare un tale accertamento.
Deve invece ritenersi che la corte territoriale sia comunque incorsa, in
riferimento alla pubblicazione delle fotografie a corredo di un articolo di
cronaca che riferisce lo stato di una inchiesta penale, nella quale il
giorno della pubblicazione dell'articolo coincide con quello dell'arresto
degli indagati, in un vizio di violazione di legge, perché ai fini di
verificare la legittimità o meno di tale pubblicazione, individua un unico
parametro normativo di riferimento, che è quanto meno insufficiente. Essa
infatti individua i limiti normativi alla pubblicazione e diffusione della
immagine altrui esclusivamente nella normativa sul diritto di autore ed in
particolare negli artt. 96 e 97 e quindi conclude nel senso della
legittimità della pubblicazione sussistendo il collegamento tra la
pubblicazione della notizia corredata dalle immagini dei soggetti coinvolti
e un fatto di interesse pubblico quale può essere il coinvolgimento in un
procedimento penale.
In realtà diversi e più ristretti sono i parametri di legittimità della
pubblicazione delle fotografie, che la corte territoriale avrebbe dovuto
prendere in considerazione.
Tale pubblicazione è infatti regolamentata in primo luogo dalle norme della
l. 8 luglio 1996, n. 675 (pro tempore applicabile perché i fatti denunciati
sono del dicembre 1998), sostanzialmente riprodotte successivamente nel
d.lgs. n. 196 del 2003 (Codice della privacy), come integrate dalle norme
contenute nel Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali
nell'esercizio dell'attività giornalistica.
Le principali norme di riferimento sono quindi l'art. 12, lett. e), della l.
n. 675 del 1996 e l'art. 20 della medesima legge, che prevede che la
comunicazione e la diffusione di dati personali è ammessa "d) nell'esercizio
della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle
relative finalità, nei limiti del diritto di cronaca posti a tutela della
riservatezza ed in particolare dell'essenzialità dell'informazione riguardo
a fatti di interesse pubblico e nel rispetto del codice di deontologia di
cui all'articolo 25" e l'articolo 25 della medesima legge.
L'art. 25, nel prevedere che si possa prescindere dal consenso
dell'interessato e dall'autorizzazione del Garante nel trattamento dei dati
a fini giornalistici, pur sempre nei limiti del diritto di cronaca e del
parametro dell'essenzialità della informazione riguardo a fatti di interesse
pubblico, prevede poi la necessità dell'adozione, da parte del Consiglio
dell'ordine dei Giornalisti, di un codice deontologico che stabilisca
particolari misure e accorgimenti a garanzia degli interessati.
Per quanto riguarda il trattamento dei dati personali che sia effettuato
nell'esercizio della professione di giornalista, quindi, sia la l. n. 675
del 1996 che poi il codice sulla privacy (artt. 136 e 137) esentano i
giornalisti dal consenso dell'interessato, ma tengono comunque fermo il
limite del diritto di cronaca, e quello non del semplice interesse ma della
essenzialità dell'informazione rispetto a dati di interesse pubblico.
I limiti alla legittimità della pubblicazione delle notizie ed in
particolare delle fotografie dettati dalla legge citata, e successivamente
dal codice della privacy vanno integrati, per il richiamo contenuto prima
nella l. n. 675 del 1996 e poi nel Codice sulla privacy, con le disposizioni
contenute nel Codice deontologico dei giornalisti (pubblicato in G.U. 3
agosto 1988, n. 179), che li ha implementati e dettagliati, in
considerazione, in particolare, del fatto che la diffusione dell'immagine di
una persona effettuata sui quotidiani o sui periodici a mezzo di fotografie
ha in ogni caso maggiore potenza lesiva della sua dignità rispetto alla
diffusione del nome della persona associato al racconto della vicenda che la
coinvolge.
È opportuno a questo proposito ricordare, come affermato da questa Corte di
legittimità (v. Cass. n. 17408 del 2012), che il Codice deontologico dei
giornalisti, di cui la legge del 1996 prescriveva la necessità, che è stato
adottato nel 1998 e che viene espressamente richiamato dal successivo Codice
della privacy, costituendo parte integrante dei suddetti testi normativi, è
stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ed ha forza e valore di fonte
normativa ("in tema di tutela della riservatezza, l'esonero (art. 137 d.lgs.
n. 196 del 2003), per il trattamento dei dati sensibili nell'esercizio della
professione di giornalista, dall'autorizzazione del Garante e dal consenso
dell'interessato, non può prescindere dal rispetto, oltre che del diritto di
cronaca e dell'essenzialità dell'informazione, anche dei principi stabiliti
dal codice deontologico delle attività giornalistiche, cui deve riconoscersi
natura fonte normativa": Cass. pen. n. 16145 del 2008).
Le regole deontologiche in esso contenute quindi non sono soltanto regole di
comportamento per i giornalisti professionisti dettate dall'Ordine di
appartenenza, la cui violazione li esponga esclusivamente a possibili
sanzioni disciplinari da parte del Consiglio dell'Ordine, ma sono regole di
condotta aventi efficacia generale la cui violazione, per quanto qui
interessa, può essere fonte di responsabilità civile in capo al giornalista
o alla sua testata.
In particolare, l'articolo 8 del codice deontologico, rubricato "Tutela
della dignità della persona", è volto in maniera specifica ad evitare che
l'esercizio del diritto di cronaca si traduca in una lesione della dignità
dei soggetti coinvolti. Esso, ponendo una particolare attenzione ai limiti
dell'utilizzo consentito dell'immagine altrui, prevede:
"8. Tutela della dignità della persona
1. Salva l'essenzialità dell'informazione, il giornalista non fornisce
notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di
cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di
violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o
dell'immagine.
2. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di
giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e
foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato.
3. Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi,
salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi".
Alla luce di queste norme, la legittimità della pubblicazione di una
immagine ritraente una persona su un quotidiano senza o contro il consenso
dell'interessato è indagine che va condotta caso per caso nel rispetto sia
dei parametri del diritto di cronaca e dell'essenzialità della diffusione
della notizia sia dei parametri specifici fissati dal su riportato articolo
8 a presidio della tutela della dignità umana (in particolare dal primo
comma di esso qualora non sia stato accertato, come nella fattispecie in
esame, che si tratti di immagine di persona ritratta in "stato di
detenzione").
È valutazione che in ogni caso va condotta con maggior rigore rispetto alla
valutazione relativa alla semplice pubblicazione della notizia per la
maggior potenzialità lesiva e la maggiore diffusività dell'immagine stessa.
Nell'apprezzare la liceità del trattamento delle fotografie pubblicate, la
Corte d'Appello di Trento non avrebbe dovuto fermarsi alla considerazione
dei parametri fissati, nel 1941, dalla legge sul diritto di autore, ma
avrebbe dovuto prendere in considerazione tutti i parametri normativi di
riferimento: l'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, gli
artt. 20 e 25 della l. n. 675 del 1996 e in particolare, quanto alla
pubblicazione delle immagini a scopo giornalistico, l'art. 8, primo comma,
del codice deontologico, tutte fonti normative rilevanti, in quanto sia gli
uni che l'altro hanno questo valore, l'ultimo richiamato come fonte
normativa autorizzata dalla legge. Non avrebbe dovuto cioè fermarsi, come ha
fatto, alla sussistenza di un interesse pubblico alla pubblicazione delle
foto di un pubblico funzionario in quel momento coinvolto in un procedimento
penale.
Avrebbe dovuto valutare se la pubblicazione delle immagini fosse essenziale
ai fini dell'informazione (per la nozione di essenzialità della informazione
nella giurisprudenza di questa Corte v. da ultimo Cass. n. 17408 del 2012) e
inoltre considerare se tali immagini, per le loro caratteristiche
intrinseche, fossero da considerare lesive della dignità della persona,
valutazione imposta a chi pubblica prima e a chi giudica, poi, dall'art. 8
primo comma del codice deontologico in considerazione della particolare
potenzialità offensiva connessa alla enfatizzazione che è tipica dello
stesso strumento visivo (ed alla idoneità della immagine una volta
pubblicata ad essere riprodotta anche a distanza di tempo sui più svariati
mezzi di comunicazione, scissa dall'articolo di cronaca che ne poteva
giustificare in origine la pubblicazione e sottratta al controllo del
soggetto ritratto), il cui uso nell'attività giornalistica è per questo
circondato da particolari cautele.
Ciò a prescindere dal fatto che si trattasse o meno di foto segnaletiche
scattate dalle forze dell'ordine allo scopo di identificare una persona al
momento del suo arresto e di inserirne l'immagine negli schedari di polizia,
la cui pubblicazione è di regola vietata dall'art. 8, comma 2 del codice
deontologico dei giornalisti, e la cui illegittima pubblicazione è stata
anche sanzionata da alcuni provvedimenti del Garante della Privacy (in
particolare, v. provvedimento del Garante del 19 marzo 2003) perché in
contrasto con la dignità della persona umana, che va tutelata in ogni
situazione, specie, si aggiunga, quando la persona si trovi in una
situazione di momentanea inferiorità che la rende particolarmente esposta e
vulnerabile, allo scopo di evitare che la legittima ed anzi tutelata anche a
livello costituzionale attività di diffusione delle notizie sia effettuata
con modalità gratuitamente umilianti nei confronti dei soggetti coinvolti.
La foto segnaletica nasce infatti con una finalità precisa (identificare un
soggetto nello schedario di polizia) e per questo deve rispettare certi
requisiti standard per cui, per la posizione forzata fatta assumere al
soggetto ritratto, per il fatto che reca delle indicazioni numeriche in
sovrimpressione atte ad identificare la persona ritratta, inequivocabilmente
sottoposta a misura restrittiva della libertà, per il contesto di luogo e di
fatto in cui è scattata, essa ritrae una persona contro la sua volontà in
una situazione obiettivamente umiliante in cui questa non può opporsi né
allo scatto della foto né ad altre pratiche identificative per altri versi
mortificanti (prelievo impronte digitali).
Sia che si trattasse di foto segnaletiche (in questo caso "sbianchettate"
ovvero con eliminazione dei numeri in sovrimpressione, sulla legittimità
della cui pubblicazione in quanto non equiparabili alle immagini di persone
ritratte in stato di detenzione, v. da ultimo Cass. n. 194 del 2014) o di
semplici foto formato tessera degli arrestati, la sentenza di merito va
cassata e la causa va rinviata alla Corte d'Appello di Trento che deciderà
in diversa composizione anche sulle spese attenendosi al seguente principio
di diritto:
"In materia di tutela dell'immagine, la pubblicazione su un quotidiano della
foto di una persona in coincidenza cronologica con il suo arresto deve
rispettare, ai fini della sua legittimità, non soltanto i limiti della
essenzialità per illustrare il contenuto della notizia e del legittimo
esercizio del diritto di cronaca (fissati dagli artt. 20 e 25 della l. n.
675 del 1996 applicabile pro tempore alla fattispecie in esame e riprodotti
nell'art. 137 del codice della privacy) ma anche le particolari cautele
imposte a tutela della dignità della persona ritratta dall'art. 8, primo
comma, del codice deontologico dei giornalisti, che costituisce fonte
normativa integrativa; l'indagine sul rispetto dei suddetti limiti nella
pubblicazione della foto va condotta con maggior rigore rispetto a quella
relativa alla semplice pubblicazione della notizia, tenuto conto della
particolare potenzialità lesiva della dignità della persona connessa alla
enfatizzazione tipica dello strumento visivo, e della maggiore idoneità di
esso ad una diffusione decontestualizzata e insuscettibile di controllo da
parte della persona ritratta".
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi quattro motivi di ricorso, accoglie il quinto e
rinvia anche per le spese alla Corte d'Appello di Trento in diversa
composizione.
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