Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 23 aprile 2014, n. 25774
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza resa in data 19 aprile 2012, confermata dalla Corte d'appello di Reggio Calabria il 16 maggio 2013, il Tribunale di Palmi condannava S. Daniele alla pena di giustizia per il delitto di sostituzione di persona, poiché al fine di procurarsi un vantaggio o comunque di recare danno a C. Natale, si attribuiva la sua identità, pubblicando sul sito www.(Lpd).com la sua immagine, associata al nominativo "(Lpd)", utilizzando il profilo creato e così inducendo in errore coloro che comunicavano con lui attraverso la "chat".
2. Contro la sentenza propone ricorso per cassazione l'imputato, con atto del proprio difensore, avv. (Lpd) (Lpd), affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce violazione dell'art. 606, lett. e), c.p.p., in relazione all'art. 494 c.p., con riferimento all'elemento soggettivo del reato richiesto dalla norma penale nella forma del dolo specifico, caratterizzato dal fine di recare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno. A giudizio del ricorrente tale forma di dolo deve escludersi nella mera pubblicazione di un profilo su Internet, non del tutto riferibile alla persona offesa, della quale viene solo utilizzata una fotografia e non anche il nome.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell'art. 606, lett. e), in relazione all'art. 192 c.p.p., con riferimento alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, la quale riferisce circostanze generiche ed in parte incongruenti, che dovevano condurre ad escludere la sua attendibilità, considerata altresì la costituzione di parte civile.
3. Con il terzo motivo si deduce violazione dell'art. 606, lett. d) ed e), in relazione all'art. 495, comma 2, c.p.p., con riferimento alla mancata escussione, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., della teste B., alla quale la parte civile aveva fatto riferimento come la persona che lo avrebbe informato dell'esistenza del falso profilo su Internet. Il ricorrente censura la valutazione di non necessarietà della prova richiesta, come non adeguatamente motivata e violativa del diritto alla controprova.
4. Con memoria del 9 aprile 2013, la parte civile C. Natale chiede dichiararsi l'inammissibilità del ricorso, poiché nello stesso sono denunciati esclusivamente vizi di merito. In subordine se ne chiede il rigetto, per infondatezza delle doglianze.
4.1. Con riferimento al primo motivo, si sottolinea che il dolo è evidenziato, nella sentenza di primo grado, nel fine di arrecare un danno all'immagine ed alla dignità della vittima.
4.2. Quanto all'attendibilità della persona offesa, si richiama la motivazione della sentenza impugnata, che si ritiene congrua ed immune da illogicità di sorta e pertanto sottratta ad ogni sindacato di legittimità.
4.3. In ordine, infine, alla mancata assunzione di prova decisiva, si ribadisce la superfluità dei mezzi istruttori richiesti, atteso che la responsabilità dell'imputato è stata provata attraverso le indagini sull'utenza telefonica e sul personal computer del S.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso va rigettato.
1.1. Il primo motivo, riguardante la mancata verificazione del dolo specifico da parte della Corte territoriale, è inammissibile, poiché proposto per la prima volta in sede di legittimità, in contrasto con l'orientamento costante di questa Corte (Sez. 3, n. 21920 del 16 maggio 2012, Hajmohamed, Rv. 252773) secondo cui la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello costituisce causa di inammissibilità originaria dell'impugnazione. Il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è delineato dall'art. 609, comma 1, c.p.p., il quale ribadisce in forma esplicita un principio già enucleabile dal sistema, e cioè la commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti. Detti motivi - contrassegnati dall'inderogabile "indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto" che sorreggono ogni atto d'impugnazione (artt. 581, comma 1, lett. e), e 591, comma 1, lett. d), c.p.p.) - sono funzionali alla delimitazione dell'oggetto della decisione impugnata ed all'indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione.
La disposizione in esame deve infatti essere letta in correlazione con quella dell'art. 606, comma 3, nella parte in cui prevede la non deducibilità in cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello. Il combinato disposto delle due norme impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e, come rileva la più recente dottrina, costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello: in questo caso, infatti, è facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto dedotto con il ricorso, proprio perché mai investito della verifica giurisdizionale.
1.2. La doglianza è comunque anche infondata.
L'art. 494 c.p. punisce chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all'altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici.
Oggetto della tutela penale è l'interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali; siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d'un determinato destinatario, il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome.
In questa prospettiva, è evidente la configurazione, nel caso concreto, di tutti gli elementi costitutivi della contestata fattispecie delittuosa.
1.3. Nella specie, il ricorrente ha creato un profilo sul social network (Lpd) denominato "(Lpd)", riproducente l'effige della persona offesa, con una descrizione tutt'altro che lusinghiera (ad esempio nelle informazioni personali era riportata la dicitura "Mangio solo cibo spazzatura e bevo birra... quando mi ubriaco vado su di giri") e con tale falsa identità usufruiva dei servizi del sito, consistenti essenzialmente nella possibilità di comunicazione in rete con gli altri iscritti (indotti in errore sulla sua identità) e di condivisione di contenuti (tra cui la stessa foto ritraente il C.).
1.4. Il dolo specifico del delitto di cui all'art. 494 c.p., consiste nel fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale o non, oppure di recare ad altri un danno (Sez. 5, n. 13296 del 28 gennaio 2013, Marino, Rv. 255344) e sul punto le decisioni di merito danno conto della sussistenza di entrambi i profili: dei vantaggi ritraibili dall'attribuzione di una diversa identità, che il ricorrente utilizzava per poter intrattenere rapporti con altre persone (essenzialmente ragazze) o per soddisfacimento di una propria vanità (vantaggio non patrimoniale); della idoneità della condotta a ledere l'immagine e la dignità del C. (come dimostrato dall'aggressione verbale dello sconosciuto, che lo accusò di aver insultato la propria fidanzata, minacciando di denunciarlo nonché dalle rimostranze della conoscente, che lo aveva accusato di non essere una persona seria).
1.3. Con riferimento al fenomeno della comunicazione a mezzo Internet, questa Corte ha recentemente ritenuto sussistere il delitto di sostituzione di persona nella condotta di colui che crei ed utilizzi un "account" ed una casella di posta elettronica, servendosi dei dati anagrafici di un diverso soggetto, inconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'inadempimento delle obbligazioni conseguenti all'avvenuto acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete (Sez. 3, n. 12479 del 15 dicembre 2011 - dep. 3 aprile 2012, Armellini, Rv. 252227), nonché nella condotta di chi inserisca nel sito di una "chat line" a tema erotico il recapito telefonico di altra persona associato ad un "nickname" di fantasia, qualora abbia agito al fine di arrecare danno alla medesima, giacché in tal modo gli utilizzatori del servizio vengono tratti in inganno sulla disponibilità della persona associata allo pseudonimo a ricevere comunicazioni a sfondo sessuale (Sez. 5, n. 18826 del 28 novembre 2012 - dep. 29 aprile 2013, Celotti, Rv. 255086).
1.4. Più aderente alla fattispecie oggetto di questo giudizio è però quella esaminata da una decisione meno recente di questa Sezione (Sez. 5, n. 46674 dell'8 novembre 2007, Adinolfi, Rv. 238504), della condotta la condotta di colui che crei ed utilizzi un "account" di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della rete "Internet" nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese (nella specie a seguito dell'iniziativa dell'imputato, la persona offesa si ritrovò a ricevere telefonate da uomini che le chiedevano incontri a scopo sessuale).
In questa fattispecie, come in quella, infatti, la descrizione di un profilo poco lusinghiero, come sopra ricordato, consente di riconoscere, oltre all'intento di conseguire un vantaggio non patrimoniale, quello di recare un danno all'altrui reputazione, intesa come l'immagine di sé presso gli altri.
2. Il secondo motivo è inammissibile.
2.1. Con riferimento alla doglianza di illogicità e contraddittorietà delle motivazioni in ordine all'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, vanno ricordati i principi espressi sul tema da questa Corte.
Il Tribunale di Palmi si è adeguato alla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte anche da sole come prova della responsabilità dell'imputato, purché siano sottoposte ad un attento controllo circa la loro attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che richiedono la presenza di riscontri esterni; fermo restando che, nel caso in cui la persona offesa si sia anche costituita parte civile - e sia, perciò, portatrice di pretese economiche - il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. Un., n. 41461 del 19 luglio 2012, Bell'Arte, Rv. 253214). Detto controllo avviene peraltro nell'ambito di una valutazione di fatto che non può essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24 settembre 2013, Terrusa, Rv. 257241).
2.2. La Corte territoriale ha poi confermato la valutazione del Tribunale in ordine all'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, definendole "coerenti, costanti nel tempo immuni da contraddizioni e scevre da malanimo o risentimento" e idonee a fondare un giudizio di responsabilità dell'imputato, evidenziando che comunque tale giudizio si fonda su molti altri elementi, derivanti dall'attività investigativa della Polizia postale, che ha consentito di associare al profilo del sito (Lpd) la famiglia dell'imputato, attraverso l'individuazione dell'indirizzo IP del computer che aveva creato l'account e, nell'ambito del nucleo familiare corrispondente all'utenza telefonica, di risalire all'odierno imputato, grazie all'analisi dell'hard disk del suo computer portatile.
La sentenza di primo grado (la cui motivazione, trattandosi di c.d. "doppia conforme", ben può integrare, come è noto, quella della sentenza d'appello; Sez. 1, n. 8868 del 26 giugno 2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 5606 del 10 gennaio 2007, Conversa, Rv. 236181) sottolinea l'inconferenza di qualsiasi questione sull'attendibilità della persona offesa, dal momento che la circostanza dell'inserimento di un profilo a suo nome emerge obiettivamente e pacificamente da tutto il compendio probatorio acquisito in atti.
3. Il terzo motivo di ricorso, riguardante il diniego di rinnovazione dell'istruttoria, per mancanza di una adeguata motivazione e violazione del diritto alla controprova, è infondato.
3.1. In sede di appello l'imputato aveva richiesto l'escussione delle sorelle B., al fine di verificare l'attendibilità della persona offesa C., la quale aveva dichiarato di aver appreso dell'esistenza del falso profilo sul sito www.(Lpd).com da una delle due: la donna gli aveva riferito di aver avuto uno spiacevole colloquio in chat con la persona che si celava dietro la sua immagine. La prova era considerata dall'istante una prova "nuova", poiché il nominativo delle B. era emerso solamente nel dibattimento di primo grado; inoltre era stata chiesta una nuova escussione della persona offesa, al fine di approfondire la reale verificazione di un profilo di danno, necessario ai fini della sussistenza del reato.
3.2. Il motivo di doglianza deve ritenersi non accoglibile, costituendo ius receptum, nell'elaborazione giurisprudenziale di questa Suprema Corte, il principio secondo cui la mancata assunzione di una prova decisiva può costituire motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 606, lett. d), c.p.p. solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse secondo il disposto dell'art. 603, comma secondo, c.p.p.; negli altri casi, la decisione istruttoria è ricorribile, ai sensi dell'art. 606, lett. e), c.p.p., sotto il solo profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione come risultante dal testo del provvedimento impugnato e sempre che la prova negata, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da poter determinare una diversa conclusione del processo (Sez. 5, n. 34643 dell'8 maggio 2008, De Carlo, Rv. 240995; Sez. 2, n. 44313 dell'11 novembre 2005, Picone, Rv. 232772).
3.3. La prima evenienza deve essere esclusa, poiché la prova "nuova", che il giudice di appello, in presenza di istanza di parte, è tenuto ad ammettere, con il solo limite costituito dalle ipotesi di richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti (Sez. 1, n. 39663 del 7 ottobre 2010, Cascarino, Rv. 248437) è solo quella "sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado" e non nel corso di questo, cioè quella con carattere di novità, rinvenibile laddove essa sopraggiunga autonomamente, senza alcuno svolgimento di attività, o quando venga reperita dopo l'espletamento di un'opera di ricerca, la quale dia i suoi risultati in un momento posteriore alla decisione (Sez. 3, n. 11530 del 29 gennaio 2013, A.E., Rv. 254991). In proposito il ricorso si limita a richiamare la deposizione in dibattimento della parte civile, indicando poi nella rubrica del motivo - impropriamente - la lett. d) dell'art. 606 c.p.p.
3.4. Nel caso di specie deve però escludersi anche la seconda ipotesi.
Proprio in ragione del carattere eccezionale della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello, infatti, il mancato accoglimento della richiesta in tanto può essere censurato in sede di legittimità, in quanto risulti dimostrata la oggettiva necessità dell'adempimento in questione e, dunque, l'erroneità di quanto esplicitamente o implicitamente ritenuto dal giudice di merito circa la possibilità di "decidere allo stato degli atti", come previsto dall'art. 603 c.p.p., comma 1; ne discende che il ricorrente deve dimostrare l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede di appello (Sez. 6, n. 1256 del 28 novembre 2013 - dep. 14 gennaio 2014, Cozzetto, Rv. 258236).
Il ricorrente non ha fornito tale dimostrazione, avendo la Corte d'appello congruamente ed esaustivamente argomentato, sulla base di una valutazione in fatto non censurabile in sede di legittimità, nel senso della manifesta superfluità dei temi oggetto della richiesta di rinnovazione istruttoria formulata dalla difesa, per la completezza dell'apparato probatorio e le inequivoche ed oggettive risultanze processuali; tale motivazione non può ritenersi di mero stile, laddove si consideri la decisività degli accertamenti operati dalla Polizia postale e la genericità delle richieste istruttorie.
3.5. Per concludere sul punto va ricordato che recentemente si è osservato che mentre la rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dare conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti, nel caso di rigetto la relativa motivazione può essere anche implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 5, n. 15320 del 10 dicembre 2009, Pacini, Rv. 246859; Sez. 3, n. 24294 del 7 aprile 2010, D. S. B., Rv. 247872; Sez. 6, n. 30774 del 16 luglio 2013, Trecca, Rv. 257741).
4. In conclusione il ricorso dell'imputato va rigettato, con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in Euro 2000,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in Euro 2000,00, oltre accessori di legge.
Depositata il 16 giugno 2014.
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