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lunedì 23 ottobre 2023

Tribunale 2023-Sempre con riguardo al risarcimento del danno da demansionamento Cass. SU n. 4063/10 ha affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritto del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, pure in mancanza di intenti discriminatori o persecutori idonei a qualificarlo come mobbing, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente, nonché all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore.

 

Tribunale Roma Sez. lavoro, Sent., 05-10-2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI ROMA

sez. II^ lavoro

Il Giudice del lavoro, dr. Luca Redavid, ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, nella pubblica udienza del 13/09/23 la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta in materia di lavoro al n. 15386 del R.g. dell'anno 2020 promossa da:

M.D.F.

rappresentato e difeso dall'avv. A.Gessini - M. Pecorella in virtù di procura allegata al ricorso introduttivo del giudizio ed elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore;

RICORRENTE

Contro

XXXXXSRL

XXXXX SRL quale società incorporante A. SRL in persona del l.r.p.t.

rappresentato e difeso dall'avv. A. Vitale - M. D. Priamo in virtù di procura allegata alla memoria di costituzione ed elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore;

RESISTENTE

________________________________________

Fatto Diritto P.Q.M. 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI ROMA

sez. II^ lavoro

Il Giudice del lavoro, dr. Luca Redavid, ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, nella pubblica udienza del 13/09/23 la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta in materia di lavoro al n. 15386 del R.g. dell'anno 2020 promossa da:

M.D.F.

rappresentato e difeso dall'avv. A.Gessini - M. Pecorella in virtù di procura allegata al ricorso introduttivo del giudizio ed elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore;

RICORRENTE

Contro

XXXXXSRL

XXXXX SRL quale società incorporante A. SRL in persona del l.r.p.t.

rappresentato e difeso dall'avv. A. Vitale - M. D. Priamo in virtù di procura allegata alla memoria di costituzione ed elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore;

RESISTENTE


Svolgimento del processo


Con ricorso depositato in data 28/05/20 il ricorrente indicato in epigrafe ha adìto il Tribunale di Roma - GL e, concludendo, ha chiesto sulla base delle specifiche allegazioni svolte in ricorso: "- accertare e dichiarare nei riguardi del sig. M.D.F. l'inadempimento alla normativa in tema di affidamento di mansioni eccessivamente gravose rispetto alla patologia di cui è affetto e in tema di sorveglianza sanitaria, con specifico riferimento al D.Lgs. n. 81 del 2008, da parte di A. S.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, e di XXXXXS.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4;

-accertare e dichiarare che il suddetto inadempimento ha determinato un aggravamento della salute del sig. M.D.F. nonché l'accelerazione del decorso della sua patologia e, per gli effetti, condannare, ciascuna per il proprio periodo di competenza, A. S.r.l.,C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, e XXXXXS.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, a risarcire al sig. M.D.F. il danno biologico nella misura di Euro 122.054,63, con rivalutazione monetaria ex art. 429 c.p.c., ovvero nella misura maggiore o minore ritenuta di giustizia, nonché il danno morale in via equitativa;

- accertare e dichiarare altresì il demansionamento del sig. M.D.F. dal mese di aprile del 2014 al mese di ottobre del 2019, ovvero nel periodo maggiore o minore ritenuto di giustizia e, per gli effetti, condannare A. S.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, e XXXXXS.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, ciascuna per il proprio periodo di competenza, a risarcirgli il danno non patrimoniale nella misura di Euro 80.463,70, ovvero in quella maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia;

- porre le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno a carico delle Società convenute in proporzione al proprio periodo di competenza, ovvero per A. S.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., dal 1.4.2014 al 31.12.2018, pari all'86%, mentre per la XXXXXS.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., dal 1.1.2019 al 14.10.2019, pari al 14%;

- accertare e dichiarare altresì il mancato versamento da parte della XXXXXS.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, delle ferie e dei permessi accantonati e mai pagati sino al 31.8.2019, nonché il rateo ferie, permessi, 13^ e 14^ maturati nel mese di Settembre 2019, e per gli effetti condannare la XXXXXS.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, al pagamento dell'importo di Euro 1.383,47, ovvero di quello maggiore o minore che sarà ritenuto di giustizia;

- accertare e dichiarare l'omessa valutazione ai fini della quantificazione del T.F.R. dei due elementi E. e EPE e, per gli effetti, condannare A. S.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, e XXXXXS.r.l., C.F. (...), in persona del r.l.p.t. sig. E.B., con sede legale in (36078) V. (V.), via S. D. n. 4, al pagamento dell'importo di Euro 1.710,46 ognuna per il proprio periodo di competenza, ovvero al pagamento della somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, con vittoria delle spese, diritti e onorari del presente giudizio da distrarsi in favore dei sottoscritti avvocati che si dichiarano antistatari." Si sono costituite in giudizio le società convenute indicate in epigrafe, contestando quanto e adverso dedotto sulla base delle allegazioni svolte nella memoria di costituzione ed ha concluso chiedendo:

"IN VIA PRINCIPALE

- respingere le domande di cui al ricorso in quanto inammissibili e/o infondate in fatto ed in diritto per i motivi esposti in memoria e, per l'effetto, mandare assolte le resistenti da qualsivoglia addebito; IN VIA SUBORDINATA

- nella denegata e non creduta ipotesi di accoglimento, anche parziale delle domande risarcitorie avverse, accertare l'incidenza sul quantum della quota di malattia professionale a carico dell'INAIL e il concorso di colpa del sig. D.F., con conseguente riduzione al minimo dell'eventuale condanna;

IN O.C.

- con il favore delle spese e dei compensi professionali di giudizio, oltre al rimborso forfettario del 15% CPA ed IVA come per legge."

La causa è stata istruita con documenti e testimoni, sono state espletate CTU contabile e CTU medico - legale e la causa ed è stata discussa e decisa sulle conclusioni delle parti in atti mediante lettura del dispositivo all'udienza in data 13/09/23.


Motivi della decisione


Il ricorso è fondato e deve essere accolto sulla base delle ragioni di fatto e di diritto di seguito esposte ai sensi dell'art. 132 c.p.c..

Innanzitutto " Incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c., che derogano al principio del necessario consenso del contraente ceduto ex art. 1406 c.c., fornire la prova dell'esistenza dei relativi requisiti di operatività" ( Cass. n. 11247/16 - anche Cass. n. 3500/16 )

Nella specie parte ricorrente ha dedotto che:

" il ricorrente ha lavorato alle dipendenze della S.r.l. R. dal 1.8.1993 al 1.8.1996 (periodo nel quale gli è stata attribuita la qualifica di capo cuoco di partita ai sensi del c.c.n.l. Pubblici Servizi); successivamente dal 1.8.1996 al 31.12.2001 alle dipendenze della S.p.a. L.R.; dal 1.1.2002 al 31.3.2014 per la S.p.a. C.G.I. e, infine, a far data dal 1.4.2014 per la XXXXXS.r.l., C.F. (...), con sede in (VI) V., Via S. D. n. 4 (doc.3).

5)Come accennato, la XXXXXS.r.l. con contratto del 31.3.2014 (doc.4) ha assunto il ricorrente quale capo cuoco livello 2 del C.C.N.L. Turismo Pubblici Esercizi con sede di lavoro la mensa aziendale della E.T. S.p.a. in R., Via A. n. 203, rimasta tale sino alla cessazione del rapporto.

6)Con comunicazione del 20.12.2018 la XXXXXS.r.l. ha comunicato al ricorrente che "per nostri motivi puramente tecnici e di ordine interno dal 1.1.2019 XXXXXcambierà il proprio codice fiscale e partita iva ((...)) in un nuovo codice fiscale e partita iva ((...))" (doc.5). Nella medesima comunicazione la XXXXXS.r.l. ha poi precisato "Teniamo a confermarle che null'altro cambierà nella Società così come nulla si modificherà per la Sua posizione sia normativa che retributiva". Tuttavia, la Società in termini generici e difficilmente comprensibili per una persona comune in calce alla citata comunicazione ha minimizzato "che il giorno 17.12.2018 si sono riuniti, in merito a quanto sopra da noi dichiarato, presso la sede F.C. Nazionale in R. le seguenti parti: XXXXXS.r.l., rappresentata con giusta delega da A.B., F.C.N. rappresentata da E.C., F.C. rappresentata da M.D. nonché U. rappresentata da A.V., che hanno sottoscritto un verbale dove "le parti si danno reciprocamente atto di aver concluso con esito positivo ed esperito in ogni suo aspetto la procedura di cui all'art. 47 della L. n. 428 del 29 dicembre 1990 e s.m.i. così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18".

7)In effetti, in data 17.12.2018 è stato siglato il citato verbale di esame congiunto con il quale, in breve, (doc.6):

-XXXXXS.r.l. ha inteso razionalizzare la propria attività scorporando "le attività collaterali minoritarie" e nell'ambito "del processo di trasferimento di ramo di azienda" si è ridenominata A. S.r.l., mantenendo il medesimo codice fiscale ((...)) (doc.7); - il citato trasferimento di ramo di azienda ha coinvolto n. 137 unità, tra cui il ricorrente, a far data dal 1.1.2019; - i 137 rapporti sono proseguiti con XXXXXS.r.l., C.F. (...) (doc.8), società costituita il 24.7.2018 e controllata al 100% da A. S.r.l., "senza soluzione di continuità e con il mantenimento delle medesime sedi lavorative".

8)Dunque, contrariamente a quanto comunicato ai lavoratori con la citata lettera del 20.12.2018, non è stato posto in essere un semplice cambiamento di codice fiscale ma un trasferimento di azienda illegittimo che ha mal celato una interposizione fittizia di manodopera e che, invero, il ricorrente ha impugnato mediante raccomanda a.r. al fine di denunziarne la evidente nullità. Non si è trattato - si ripete - di un genuino trasferimento di azienda ma di una mossa con cui l'originario datore di lavoro del ricorrente ha modificato la propria denominazione in A. S.r.l. e il nuovo datore di lavoro, Società neo costituita ad hoc, di proprietà al 100% della stessa A. S.r.l., ne ha acquisito l'esatta denominazione precedente, evidentemente al solo scopo di ingenerare confusione nei lavoratori e di estrometterli in malo modo e progressivamente con l'intento di salvaguardare la capogruppo A. S.r.l. E. che ha riguardato anche l'esponente…..".

Dunque il ricorrente è stato assunto a decorrere dal 31/03/14 da XXXXXsrl con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con orario full time ed inquadramento nel livello II previsto dal CCNL sopra citato quale capo cuoco, la cui declaratoria prevede tale inquadramento per "i lavoratori che svolgono mansioni che comportano sia iniziativa che autonomia operativa nell'ambito ed in applicazione delle direttive generali ricevute, con funzioni di coordinamento e controllo o ispettive di impianti, reparti e uffici, per le quali è richiesta una particolare competenza professionale".

Parte ricorrente ha lamentato di essere stato adibito sin dall'inizio a mansioni inferiori quale cuoco capo partita e magazziniere rientranti nel livello IV previsto dal CCNL per " i lavoratori che, in condizioni di autonomia esecutiva, anche preposti a gruppi operativi, svolgono mansioni specifiche di natura amministrativa, tecnico-pratica o di vendita e relative operazioni complementari, che richiedono il possesso di conoscenze specialistiche comunque acquisite" e di non essere stato sottoposto ad alcuna visita medica preassuntiva al fine di verificare lo stato di salute del ricorrente, il quale risulta affetto nel 2016 da artrite psoriasica ( cfr. relazione clinica di cui al doc. n. 10 di parte ricorrente), che ha comportato l'accertamento da parte di INPS di un'invalidità civile pari al 75 a luglio 2016 ( cfr. verbale di visita del 17/10/16), e l'idoneità alle mansioni svolte, né di essere stato sottoposto ad alcuna vista medica di controllo né successivamente al rientro dai periodi di malattia né periodicamente, una volta l'anno, come previsto dall'art. 41, comma 2 lettera b) D.Lgs. n. 81 del 2008, soprattutto per i lavoratori che, come il ricorrente, svolgono "operazioni di trasporto o di sostegno di un carico ad opera di uno o più lavoratori, comprese azioni di sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un carico che, per le loro caratteristiche o in conseguenza delle condizioni ergonomiche sfavorevoli, comportano rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari" (art. 167 D.Lgs. n. 81 del 2018); e tale ultima circostanza non è contestata tra le parti ed è anche documentalmente asseverata dalla comunicazione mail della società del 27/07/17 in atti sino a quando, a causa dell'aggravamento delle condizioni di salute documentate in atti ( cfr. doc. n. 14-15-16 di parte ricorrente), è stato sottoposto a visita medica aziendale in 18/10/17 che ha ritenuto il ricorrente idoneo alle mansioni di capo-cuoco, addetto al taglio della carne, addetto alla cella frigorifera senza prescrizioni o limitazioni; successivamente con comunicazione del 6/11/17 sono state assegnate al ricorrente le seguenti mansioni: "Gestione e controllo fornitori e arrivo merci"; Controllo porzionature in distribuzione; Schede lavorazione prodotti; Controllo scorte di magazzino; Gestione HACCP; Gestione ordini in collaborazione con il sig. F.G.; Sostituzione del sig. F.G. in caso di assenza"; dall'istruttoria orale e documentale svolta è risultato, inoltre, che nonostante l'assegnazione di tali mansioni il ricorrente ha continuato a svolgere anche le mansioni precedentemente svolte di cuoco e magazziniere e che, a seguito di ricorso per accertamento tecnico preventivo, il Tribunale di Velletri ha emesso in data 7/5/18 il decreto di omologa delle risultanze della CTU medico-legale che ha accertato la sussistenza del requisito sanitario previsto dall'art. 3 c.3 L. n. 104 del 1992 ( handicap grave) a decorrere dal 2016; ed anche in data 25/03/19 il medico aziendale, all'esito di una visita di idoneità al lavoro specifico di capo - cuoco, addetto al taglio della carne e cella frigorifera, ha ritenuto il ricorrente idoneo a tali mansioni senza prescrizioni o limitazioni ma l'A. competente, all'esito del ricorso amministrativo proposto ai sensi dell'art. 41 D.Lgs. n. 81 del 2008 , ha ritenuto in data 3/07/19 il ricorrente, con qualifica di cuoco, non idoneo alla mansione; successivamente, all'esito di una nuova visita medica aziendale svolta in data 1/08/19 il medico aziendale, sempre con riferimento alle mansioni di cuoco addetto al taglio della carne ed alla cella frigorifera, ha stavolta ritenuto il ricorrente permanentemente non idoneo alla mansione di cuoco ed idoneo ad altre mansioni con prescrizioni e limitazioni, come quella di non adibire il ricorrente a mansioni che determinino sollevamento e spostamento di pesi superiori a 10 kg, di evitare la stazione eretta, l'entrata nella cella frigorifera ed i movimenti ripetitivi degli arti superiori e tale valutazione è stata confermata dall'A. competente in data 30/09/19.

A fronte di tali risultanze parte ricorrente ha anche condivisibilmente dedotto che "nel corso della istruttoria è emerso chiaramente che il sig. D.F. abbia continuativamente svolto, tra le altre, anche mansioni di movimentazioni carichi che evidentemente hanno nuociuto alla sua salute, tanto è vero che anche la controparte ne conferma il progressivo peggioramento fisico al cap. 34 e al cap. 35 della memoria difensiva: "Nel corso dell'anno 2015 il sig. D.F. iniziava ad assentarsi dal lavoro per malattia per un totale di 55 giorni, senza mai comunicare le ragioni della propria assenza e sempre svolgendo regolarmente le sue mansioni quando presente in appalto. Ad anno 2016 inoltrato, su specifica richiesta del sig. D., il quale aveva manifestato alcune difficoltà ad eseguire alcune mansioni affidategli sia al Direttore d'Appalto, sig. S.C., che al Direttore di Zona, dott. A.B., l'Amministratore delegato di A. Srl, dott. E.B., durante plurimi incontri svoltisi a Roma, contattava personalmente il sig. D.F., il quale si trovava in uno stato di estrema prostrazione per le sue condizioni di salute e la possibile incidenza delle stesse sulla sua capacità lavorativa".

Dunque il datore di lavoro era perfettamente a conoscenza almeno dal 2015 (così come nel 2016 e 2017, cfr. cap.40) delle condizioni di salute del ricorrente e nonostante ciò non sono mai state disposte visite mediche aziendali, non solo opportune, ma anche obbligatorie per legge. Sul punto non sembra il caso di aggiungere altro, se non forse la ulteriore candida ammissione contenuta al cap. 41 della memoria: "Nel corso del triennio 2015-2017 il sig. D.F. non è mai stato sottoposto a visita medica di controllo, in quanto i periodi di malattia non sono mai stati superiori a 60 gg. consecutivi"………. Da un lato le controparti cercano di sminuire la gravità della propria condotta omissiva deducendo che dal 2014 il ricorrente non avrebbe svolto mansioni operative (cap 18 di pag 7) e che la sua giornata si svolgeva per lo più all'interno del suo ufficio (cap. 24 di pag. 8), dall'altro al successivo cap. 26 viene dedotto che "Per prassi diffusa nel campo della ristorazione, è sempre il capo cuoco (leggi D.F.) a ricevere le merci dai fornitori, ma in E.R. queste mansioni non sono mai state svolte individualmente dal sig. D.F., in quanto il lavoro veniva eseguito insieme al sig. C.".

Ciò sta visibilmente a significare che, sebbene insieme al collega, fosse anche il sig. D.F. a disimpegnare tali mansioni pesanti e non corrispondenti al suo inquadramento…………il Tribunale di Velletri, con sentenza n. 860 del 21.7.2022 (doc.41), ascoltati i testimoni M.V. e R.D.N., e sulla scorta della Ctu del dott. C.M. (doc.42), seppur negando un aggravamento della artrite psoriasica per una asserita violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, ha riconosciuto che l'attività lavorativa svolta "semmai, nell'arco compreso tra il 2016 e il 2018 (ritiene) che possa aver contribuito ad accentuare la sintomatologia algo-disfunzionale a carico dell'apparato locomotore determinata dalla preesistente patologia artrosica a carattere degenerativo". Interessante sottolineare come i testi ascoltati "hanno dato pieno riscontro alle allegazioni di cui al ricorso introduttivo, in particolare che il ricorrente aveva un doppio ruolo il primo era quello di responsabile dell'HACCP - ossia della movimentazione manuale della merce consegnata quotidianamente dai fornitori - che trasportava utilizzando del c.d. transpallet su cui scaricava isingoli colli che poi smistava, utilizzando carrelli verticali detti roller, presso il magazzino, ovvero in cucina ovvero nei frigoriferi, percorrendo più volte un tratto di circa 50 metri spingendo i carrelli; il secondo ruolo era quello di capo - cuoco per il quale era costretto a mantenere la stazione eretta per tutto il turno di lavoro controllando e dirigendo l'attività dei cuochi svolta lungo tutta la linea e, se necessario, dando loro ausilio nelle fasi della cottura del cibo utilizzando da solo pentolini che arrivavano a pesare anche 10-15 Kg" (cfr. Trib. Velletri cit, pagg. 4 e 5).

Dunque, seppur in relazione a patologia diversa dalla artrite psoriasica, ma pur sempre dedotta dal ricorrente nel presente giudizio (cfr. doc. 35), il Tribunale di Velletri ha riconosciuto l'aggravamento della salute del sig. D.F. a causa delle mansioni gravose svolte" Ed anche i testimoni di parte ricorrente escussi hanno confermato l'assunto attoreo relativo alla gravosità delle mansioni svolte non corrispondenti all'inquadramento posseduto atteso che il teste V. ha dichiarato: - "da quando è andato in pensione il magazziniere, il ricorrente ha svolto anche mansioni di magazziniere e le ha svolte sino al 2018 da solo e successivamente le ha continuate a svolgere con l'aiuto di altro personale", percorrendo "una certa distanza tra il magazzino e il posto dove i trasportatori lasciavano la merce che veniva portata dal ricorrente";

- "Il ricorrente ogni giorno alzava e trasportava 2/3 quintali di frutta, pentoloni di gnocchetti cotti… ognuno dei quali conteneva 350 litri di acqua", così come i prodotti congelati che "pesavano parecchi quintali"; - "il ricorrente prelevava la merce dalle pedane e le sistemava sui roller e poi le portava nelle celle frigorifere"; - "il ricorrente prendeva anche i prodotti dalle celle frigorifere e li lasciava di fuori e poi noi cuochi andavamo a prendere i carrelli. A volte il ricorrente trasportava direttamente i prodotti in cucina con il carrello".

Anche il teste di parte ricorrente D.N. ha confermato i capp. 1-2-3-4 del ricorso, dichiarando che sin dalla assunzione del 2014 e per tutto il rapporto il ricorrente ha svolto anche le mansioni di magazziniere in quanto la cucina ne era sprovvista dal 2006; che la mattina il ricorrente prelevava la merce che i trasportatori lasciavano fuori dalla cucina per poi sistemarla nel magazzino e/o smistarla tra cucina e celle frigorifere a -19°/-21 a seconda del menù della settimana e del giorno; che si trattava di mansioni che doveva portare a termine con una certa urgenza per evitare che i cibi si deteriorassero rimanendo più del dovuto al di fuori delle celle frigorifere; che il ricorrente trasportava la merce per distanze considerevoli, anche 300 passi, e che i pesi delle derrate alimentari erano piuttosto significativi. Sul capitolo n. 4 ha ancora precisato che dalla strada al magazzino "il ricorrente percorreva circa 20 metri trasportando il materiale con transpallet manuale, poi smistava il materiale e utilizzando il montacarichi portava i prodotti al piano di sopra dove c'era la cucina".

Sui cap. 5) 6) e 7) il teste ha dichiarato: "il ricorrente giornalmente scaricava da solo la frutta e due volte alla settimana si occupava di scaricare anche il secco e il congelato. La frutta da scaricare giornalmente pesava circa 3 quintali: il secco e il congelato intorno ai 4 quintali circa. Il ricorrente scaricava i prodotti da solo".

Sui cap. 12) 13) e 14) il teste ha dichiarato: "considerato il mio rapporto di amicizia con il ricorrente posso dire che a causa delle sue patologie non è più venuto a correre insieme a me né ha più frequentato le sale da ballo come in precedenza".

Sul cap. 15) il teste ha dichiarato: "preciso che il ricorrente ha svolto le attività che ho prima riferito anche nel periodo tra il 2017 e la data di licenziamento".

Sul cap. 16) il teste ha dichiarato: "conosco il Sig. G.F.. Ricordo che era responsabile della preparazione dei primi e affiancava il ricorrente nella predisposizione dei menu settimanali".

Sul cap. 17) il teste ha dichiarato: "confermo quanto mi si legge", ossia l'articolazione della cucina e "Anche io lavoravo in cucina e facevo il gastronomo".

Sul cap. 18) il teste ha dichiarato "confermo quanto mi si legge, ossia vero che il capo cuoco è tenuto a svolgere le seguenti mansioni: predisporre gli ordini per i fornitori, ideare nuove ricette, preparare il menù in modo tale che giornalmente rientri nel valore dei buoni pasto; decidere le ferie degli addetti alla cucina e, in linea generale, organizzare e dirigere il lavoro della cucina stessa".

Sul cap. 19) il teste ha dichiarato: "confermo quanto mi si legge nel senso che il ricorrente si occupava delle attività indicate nel capitolo", ossia che nella mensa E. il cuoco capo partita svolge le seguenti mansioni: preleva la merce che i trasportatori lasciano fuori dalla cucina per poi sistemarla nel magazzino e/o smistarla tra cucina e celle frigorifere a -19°/-21 , a seconda del menù della settimana e del giorno; alza e trasporta 2/3 quintali di frutta; cibi cotti tra cui 4 quintali di gnocchi in pentoloni di 70 Kg ciascuno; scolapasta carichi di pasta e, in linea generale, circa 100 kg di condimenti al giorno, nonché interi prosciutti crudi interamente da solo; due volte alla settimana trasporta la carne bianca; tutti i venerdì mattina i formaggi, la pasta, il sugo e i barattoli di pelati; due volte alla settimana la mozzarella.

Il teste ha altresì dichiarato : "Vedevo personalmente il ricorrente la mattina occuparsi di scaricare la merce. Detta attività durava circa due-tre ore", nonché "preciso che il Sig. C. alle ore 9,30, alla chiusura della cassa del Bar, scendeva in magazzino e aiutava il ricorrente a sistemare la merce che rimaneva. Penso che il Sig. C. svolgeva detta attività per circa un'ora ma non sono sicuro".

Deve, quindi, ritenersi che nel periodo dedotto parte ricorrente è stato adibito a mansioni gravose rispetto alle sue condizioni di salute e qualitativamente inferiori e non coerenti con l'inquadramento posseduto nel livello II previsto dal CCNL applicabile al rapporto di lavoro la cui declaratoria è stata in precedenza riferita.

Come dedotto in ricorso " il ricorrente, nonostante il formale inquadramento di capo cuoco, è stato sino al licenziamento continuativamente adibito anche a mansioni di cuoco e comunque gravose, comportanti - tra le altre - patologie da sovraccarico biomeccanico (cfr. visita medica aziendale del 1.8.2019 incentrata sulle seguenti mansioni "CUOCO-ADDETTO TAGLIO CARNE-CELLA FRIGORIFERA" fattori dirischio "MMC, MOVIMENTI RIPETITIVI ARTI SUPERIORI, PATOLOGIE DA SOVRACCARICO BIOMECCANICO, POLVERI LAVORAZIONE, POSIZIONI INCONGRUE E/O VIZIATE, STRESS TERMICO" (cfr. doc.28);

- non è mai stato sottoposto ad adeguate visite sanitarie, né in fase pre-assuntiva, né nel corso del rapporto di lavoro, sebbene la tipologia del lavoro lo imponesse e si assentasse sovente per problemi di salute;

- l'aver disimpegnato le mansioni di cuoco, o comunque mansioni particolarmente gravose, ha peggiorato le sue condizioni di salute altresì accelerando il naturale decorso della malattia.

Tale grave condotta omissiva del datore di lavoro ha patentemente violato la normativa in materia di sicurezza del lavoro come poc'anzi tratteggiata, con specifico riguardo alla sorveglianza sanitaria, ossia a quell'insieme di atti finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all'ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionale e alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.

Ai sensi dell'art. 41 D.Lgs. n. 81 del 2008, la sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico competente nei casi previsti dalla normativa vigente e qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.

Essa deve necessariamente comprendere le visite mediche preventive intese a constatare l'assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica (art. 41 cit., comma 2, lettera a); visite periodiche, di norma una volta l'anno, per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica (art. 41 cit., comma 2, lettera b); visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l'idoneità alla mansione specifica (lettera d); visita medica precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni consecutivi, al fine di verificare l'idoneità alla mansione (lettera e-ter). Invero, gli obblighi del datore di lavoro afferiscono principalmente alla prevenzione, nel senso che deve apprestare tutte le misure necessarie ad evitare ogni tipo di infortunio, l'insorgere di malattie professionali ovvero il loro aggravamento, atteso che secondo la giurisprudenza di legittimità "sussiste il nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso anche quando non si possa stabilire il momento preciso dell'insorgenza della malattia in quanto, a tal fine, è sufficiente che la condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza" (cfr. Cass. pen. Sez. IV Sent., 22/03/2012, n. 24997).

Ai sensi degli artt. 167-170 D.Lgs. n. 81 del 2008, devono essere sottoposti a sorveglianza sanitaria, a cura e spese del datore di lavoro, i lavoratori - tra gli altri - addetti a movimentazione manuale di carichi che comportano rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari. Ai fini del presente articolo debbono essere considerate le operazioni di trasporto o di sostegno di un carico ad opera di uno o più lavoratori, comprese azioni del sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un carico (art. 167 cit.), ed evidentemente risulta una tipica misura di tutela l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio e l'adibizione ad altra mansione (art. 15 D.Lgs. n. 81 del 2008)………………… E a nulla rileva che lui fosse a conoscenza della propria patologia almeno dal 2016, infatti per costante giurisprudenza il nesso causale non viene meno neppure nelle ipotesi in cui si possa ravvisare - e non è certo questo il caso - il mero concorso colposo del lavoratore (Cass. n. 1523/1993; Cass. n. 11351/1993; Cass. n. 6000/1998; Cass. n. 2432/1999; Cass. n. 4658/1999; Cass. n. 5024/2002; Cass. n. 3213/2004), atteso che la condotta del datore di lavoro deve anche necessariamente impedire quei comportamenti dei lavoratori stessi che possano rendere inutili o insufficienti le apprestate cautele tecniche (Cass n. 1428/1989). Ancor più quando il datore di lavoro è a conoscenza della salute precaria del lavoratore proprio come nella fattispecie, caratterizzata da frequenti assenze per malattia (cfr. doc.3) che non possono non rappresentare un campanello di allarme per l'imprenditore.

Infatti, quando l'espletamento delle mansioni sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l'aggravamento di una preesistente malattia, il datore può essere considerato immune dalla responsabilità di non aver adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del dipendente solo allorquando dimostri di non essere stato, senza colpa, a conoscenza dello stato di salute di quest'ultimo e dell'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 07/11/2007, n. 23162)."

Ed anche nella CTU medico-legale espletata ai fini dell'accertamento del cd. danno biologico il CTU ha osservato: "prima della data di assunzione dell'1/4/2014, il periziato si è sottoposto ad accertamenti specialistico-strumentali che documentavano: - nel gennaio-febbraio 2011 a livello delle ginocchia una sofferenza (condropatia) di media rilevanza;

- nel gennaio 2014 a livello della spalla (non è specificato il lato) manifestazioni artrosiche e tendinosiche del sovraspinato.

Dopo la data di assunzione il periziato si è sottoposto:

- nel dicembre 2015 ad accertamento specialistico-strumentale a livello della colonna lombare che ha messo in evidenza protrusioni multiple (L3-L4 e L4-L5) con stenosi bilaterale severa a livello L5-S1; quota fluida intraarticolare di significato infiammatorio per cui iniziava ozonoterapia con miglioramento della sintomatologia;

- nel maggio 2016 ad una ecografia articolare che mostrava a livello dei polsi una sinovite proliferativa, a livello delle mani una sinovite essudativa, a livello dei gomiti una epicondilite, a livello delle ginocchia, caviglie e piedi sempre una sinovite proliferativa;

- sempre nel maggio 2016 ad una RMN articolazioni sacroiliache che documentava una sofferenza edemigena a livello della sincondrosi sacroiliaca di destra e fenomeni distrofici a livello della sinfisi pubica, come per osteite addensante; in data 31 maggio 2016 a visita dalla Dott.ssa A. che evidenziava "dolore a carico dei gomiti bilateralmente, scrosci articolari a carico delle ginocchia bilateralmente, dolore tumefazione dei polsi bilateralmente e delle interfalangee prossimali bilateralmente, tumefazione a carico del I dito piede sinistro. Psoriasi palmare e del dorso del piede…"; in tale occasione veniva posta diagnosi di artrite psoriasica con componente periferica e assiale e prescritta terapia con prednisone. Il Sanitario attestava: "Le patologie di cui è affetto la paziente determinano riduzione della deambulazione e limitazione funzionale nei movimenti di presa e nei movimenti fini delle piccole articolazioni delle mani con difficoltà nello svolgimento delle normali attività quotidiane…";

- nel febbraio del 2017 a nuova RM della colonna lombare;

- nel maggio 2017 a visita psichiatrica dal Prof. G.A. con riscontro di sindrome ansioso-depressiva endoreattiva persistente ("sintomatologia caratterizzata da insonnia, marcate manifestazioni d'ansia libera e somatizzata, sentimenti di insicurezza, irritabilità, elaborazioni di riferimento, depressione del tono dell'umore. Tale sintomatologia è insorta in relazione a difficoltà manifestatesi nell'ambito del lavoro ed è sostenuta dall'incertezza per il suo futuro lavorativo…");

- sempre nel maggio 2017 a visita c/o l'ambulatorio di chirurgia vertebrale del P.C.;

- etc. (vedi documentazione sanitaria riportata).

4. Dalla memoria di costituzione della XXXXXSrl si legge: "…10. All'atto dell'assunzione in A. Srl nessuna patologia e/o limitazione fisica e/o inidoneità a determinate, specifiche, mansioni, ovvero problematica di alcun genere del sig. D.F. veniva segnalata dalla Compass alla A. Srl né, tantomeno, dichiarata dal lavoratore…".

5. La prima visita di idoneità al lavoro specifico è datata 18/10/2017: non risultano effettuate visite in epoca antecedente. A tale proposito nella memoria di costituzione della XXXXXSrl è scritto: "Il sig. D.F. non veniva sottoposto a visita medica preassuntiva, in quanto le sue attività normalmente svolte non rientravano nello specifico in nessuna casistica di sorveglianza sanitaria, non avendo contatto con sostanze chimiche, movimentazione carichi, posture particolari o movimenti continuativi".

Ebbene, quanto sopra affermato non trova alcuna conferma nel referto della suddetta visita di idoneità a firma del Dott. P.S. che riporta: "…mansione di capo cuoco-addetto taglio carne-cella frigorifera. Fattori di rischio: MMC, polveri lavorazione, posizione incongrue e/o viziate, patologie da sovraccarico biomeccanico, stress termico, movimenti ripetuti arti superiori…": dimostrativa di una attività lavorativa con fattori di rischio a carattere "usurante"; tuttavia il periziato era stato giudicato "idoneo" senza "nessuna" prescrizione e/o limitazione…….

Ebbene, in riferimento alla MMC il rischio definito nel DVR come "accettabile" sarebbe stato opportuno che fosse valutato in relazione alle condizioni cliniche del

periziato! Solo in data 06/11/2017 la XXXXXSrl comunicava al ricorrente il cambiamento delle mansioni senza alcuna motivazione (pur essendo stato giudicato idoneo alla visita dell'ottobre 2017): "lemansioni da Lei svolte saranno le seguenti: -Gestione controllo fornitori e arrivo merci; -Controllo porzionature in distribuzione; -Schede lavorazione prodotti; -Controllo scorte di magazzino; - Gestione HACCP; -Gestione ordini in collaborazione con il Sig. F.G.; - Sostituzione del sig. F.G. in caso di assenza. Le comunichiamo inoltre che tale mutamento non comporterà alcuna modifica delle condizioni economiche e normative attualmente applicate, essendo le nuove mansioni equivalenti alle precedenti sia dal punto di vista del contenuto professionale che da quello della retribuzione…". Ed in data 26 ottobre 2020 il responsabile del servizio di prevenzione e protezione della XXXXXSrl, sig. M.L. confermava:

"…le attività svolte da D.F.M. sono state: -cuoco con ruoli organizzativi; -Gestione del personale interno (organizzazione del lavoro); - Gestione del sistema HACCP (attività documentali); - Gestione delle scorte a magazzino (attività documentali); -Controllo quantità/qualità merci in arrivo per HACCP (attività documentali). In caso di assenza di personale operativo, saltuariamente" (?) "svolgeva attività presso la cucina. Le attività normalmente svolte non rientrano nello specifico in nessuna casistica di sorveglianza sanitaria non avendo contatto con sostanze chimiche, movimentazione carichi, posture particolari o movimenti continuativi. In particolare, la sua funzione di cuoco e team del sistema di autocontrollo HACCP, presuppongono una gestione lavorativa "di ufficio" con predisposizione di documenti, compilazione e controllo delle fasi di lavoro secondo il sistema di autocontrollo HACCP. Le verifiche ispettive interne effettuate secondo le norme ISO 9001, 150 45001 non hanno mai segnalato incongruenze in merito la mansione…".

La visita di idoneità al lavoro del 25/03/2019 (e quindi dopo il cambio delle

mansioni avvenuto nel 2017) da parte del medico competente si concludeva con il giudizio di "I." senza prescrizioni e/o limitazioni. E contrariamente a quanto affermato dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione della XXXXXSrl, tra i fattori di rischio si legge: "MMC, polveri lavorazione, posizioni incongrue e/o viziate, patologie da sovraccarico biomeccanico, stress termico, movimenti ripetitivi arti superiori".

A distanza di 4 mesi e cioè in data 02/07/2019 i Sanitari del Dipartimento di Prevenzione A.R. 2 - U.O.C. Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro giudicavano il periziato non idoneo alla mansione.

In data 01/08/2019 veniva sottoposto a visita di idoneità dal medico competente Dott. P. S., che mutava il giudizio precedentemente espresso, giudicando il periziato "non idoneo permanentemente alla mansione di cuoco". Il Sanitario dichiarava inoltre: "idoneo ad altre mansioni con le seguenti prescrizioni/limitazioni: non adibire a mansioni che determinino sollevamento e spostamento di pesi superiore a 10 kg. evitare la prolungata stazione eretta, l'entrata in cella frigorifera, i movimenti ripetitivi arti superiori…". In data 30/09/2019 la A.R. 2 esprimeva il seguente giudizio "il Sig. D.F.M., dipendente

XXXXXS.r.l, con qualifica di controllo merci ed altro, è idoneo alla mansione e si conferma il giudizio del medico competente. Si ricorda che non è più idoneo alla mansione di cuoco pertanto non può sostituire il collega cuoco se assente".

E’ in atti un prospetto di periodi di malattia concessi al periziato (non si conosce la diagnosi), per un totale di 357 giorni: dal gennaio 2015 all'ottobre 2019.

Con raccomandata del 21/11/2019 la XXXXXcomunicava al D.F.

che "…il Suo rapporto di lavoro è da considerarsi cessato al 14.10.19…"

Si deve osservare, poi, che il ricorrente ha invocato il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale indicato in ricorso e subìto in conseguenza dell'aggravarsi delle sue condizioni di salute in in violazione della normativa prevista dall'art. 2087 c.c. e dal D.Lgs. n. 81 del 1980, e ciò sulla base della prospettazione di una responsabilità contrattuale della parte convenuta, con conseguente applicabilità del regime in materia di onere della prova previsto in via generale in caso di inadempimento delle obbligazioni dagli artt. 1218 e ss. c.c..: secondo la tesi attorea, infatti, la parte convenuta non avrebbe adempiuto al generale obbligo contrattuale di tutelare la personalità fisica del dipendente previsto dall'art. 2087 c.c., non avendo posto in essere le misure protettive necessarie a prevenire l'evento dannoso quale quello occorso al ricorrente.

A tal proposito la Cassazione ( n. 9166/17) ha affermato che: " ai sensi dell'art. 10, co. 1, del D.P.R. n. 1124 del 1965, nella formulazione tuttora vigente: "L'assicurazione a norma del presente decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro". La norma è applicabile anche agli eventidi malattia professionale in ragione del generale rinvio contenuto nell'art. 131 dello stesso Testo Unico. Dal disposto chiaramente si ricava che, ex lege, per tutti i danni coperti dall'assicurazione obbligatoria il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere civilmente. L. in positivo la regola è che l'esonero del datore di lavoro sussiste solo nei limiti in cui il danno sia indennizzabile. La stessa Corte costituzionale, nella pur progressiva espansione delle tutele del lavoratore, ha illustrato che "l'istituto dell'esonero, ... , è strettamente inserito nel vigente sistema previdenziale-assicurativo, come uno degli aspetti del complesso rapporto tra oggetto dell'assicurazione, erogazione dei contributi, prestazioni assicurative. E. costituisce una garanzia per la quale nell'ambito dei rischi coperti da assicurazione, ed in relazione ai quali il datore di lavoro eroga contributi - egli non è tenuto al risarcimento del danno ... L'esonero opera pertanto all'interno e nell'ambito dell'oggetto dell'assicurazione, cosi come delimitata dai suoi presupposti soggettivi ed oggettivi. Laddove la copertura assicurativa non interviene per mancanza di quei presupposti, non opera l'esonero: e pur trovando il danno origine dalla prestazione di lavoro, la responsabilità è disciplinata dal codice civile, senza i limiti posti dall'art. 10 del T.U. del 1965. Come è stato affermato in sintesi in dottrina, se non si fa luogo alla prestazione previdenziale, non vi è assicurazione: mancando l'assicurazione, cade l'esonero" (Corte cost. n. 356 del 1991; v. poi Corte cost. n. 405 del 1999; principi ribaditi anche da questa Corte: Cass. n. 1114 del 2002; Cass. n. 16250 del 2003; Cass. n. 8386 del 2006; Cass. n. 10834 del 2010). Ne consegue che ove l'assicurazione obbligatoria, notoriamente selettiva, non operi, per ragioni soggettive od oggettive, di esonero del datore di lavoro non è dato parlare. In tali casi vigono per il debitore le regole generali del diritto comune per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale. Per comodità espositiva tali tipologie di danni possano sinteticamente definirsi, come convenzionalmente accade, "danni complementari", nel senso di danni non coperti dall'assicurazione obbligatoria. 8. Se l'esonero opera esclusivamente in relazione alle conseguenze dannose derivanti da infortuni o malattie professionali che rientrano nell'ambito dell'assicurazione obbligatoria è indispensabile individuare quali siano gli eventi indennizzabili secondo le regole vigenti tempo per tempo. Vuole dirsi che, per come è strutturata la disciplina, all'ampliamento ovvero al restringimento dei limiti soggettivi ed oggettivi dell'assicurazione obbligatoria corrisponde una dilatazione o un ridimensionamento della responsabilità del datore di lavoro. Tale fenomeno si è reso particolarmente evidente proprio in relazione al danno biologico, originariamente non coperto dall'INAIL, per cui costituiva danno complementare sottratto alla regola dell'esonero ed il datore di lavoro poteva sempre essere chiamato a rispondere con azione diretta del lavoratore danneggiato, secondo i comuni presupposti della responsabilità civile (cfr. Corte cost. n. 87 del 1991); successivamente l'art. 13 del D.Lgs. 28 febbraio 2000, n. 38, ha esteso la tutela INAIL al danno biologico definito come "la lesione all'integrità psico-fisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona", al cui ristoro vengono destinate "prestazioni ... determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato" e secondo una tabella di calcolo dell'indennizzo che sia "comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali". In sintesi la nuova disciplina -applicabile alla fattispecie che ci occupa- così delimita i danni coperti dall'assicurazione obbligatoria: le menomazioni permanenti comprese tra il 6% ed il 15%, danno luogo ad un indennizzo in somma capitale, rapportato al grado della menomazione; le menomazioni pari o superiori al 16%, danno luogo ad una rendita ripartita in due quote: la prima quota è determinata in base al grado della menomazione, cioè al danno biologico subito dall'infortunato, la seconda tiene conto delle conseguenze di natura patrimoniale della lesione. Per i danni di natura biologica inferiori al 6% o temporanei non vi è copertura assicurativa.

L'INAIL è esclusivo debitore limitatamente alle prestazioni di tipo indennitario predeterminate in base alla legge. Tutto ciò che non è riconducibile a menomazioni che, per natura o grado, non costituiscono danno biologico -inteso secondo il D.Lgs. n. 38 del 2000- superiore al 6% ovvero danno patrimoniale pari o superiore al 16% non è coperto dall'assicurazione obbligatoria e, quindi, è escluso dalla disciplina dell'esonero. 9.Tuttavia anche per gli eventi ed i danni riconducibili all'assicurazione obbligatoria i commi successivi al primo dell'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965 prevedono un meccanismo in relazione al quale permane la responsabilità del datore di lavoro. Il secondo comma dell'articolo citato stabilisce che l'esonero viene meno "a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l'infortunio è derivato". In seguito a plurimi interventi della Corte costituzionale, stante l'autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale, non è più necessaria una condanna penale perché operi il meccanismo per il quale viene meno la salvaguardia dell'esonero; è sufficiente che in sede civile venga accertato "che i fatti da cui deriva l'infortunio costituiscano reato sotto il profilo dell'elemento soggettivo ed oggettivo" (Corte cost. n. 102 del 1981). Nel caso, dunque, di responsabilità penale del datore di lavoro, "non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell'indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all'infortunato o ai suoi aventi diritto" (comma 6); ma, "per la parte che eccede le indennità liquidate", il risarcimento "è dovuto" dal datore di lavoro (comma 7). Di qui la nozione di "danno differenziale", rettamente inteso come quella parte di risarcimento che eccede l'importo dell'indennizzo dovuto in base all'assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro ove il fatto costituisca reato perseguibile d'ufficio. E. è quello che rientra nel tipo già considerato dall'assicurazione obbligatoria, ma che, in ragione del carattere indennitario di questa, può presentare delle differenze dei valori monetari rispetto al danno civilistico, primariamente sia per la diversa valutazione del grado di inabilità in sede INAIL in confronto al diritto comune (dove il grado di invalidità permanente viene determinato con criteri non imposti dalla legge ma elaborati dalla scienza medico legale), sia per il diverso valore del punto di inabilità. Parallelamente l'art. 11 dello stesso decreto consente all'INAIL di agire in regresso nei confronti del datore di lavoro penalmente responsabile"per le somme pagate a titolo di indennità". L'INAIL ha inoltre azione surrogatoria contro soggetti diversi responsabili del fatto da cui è derivato l'infortunio (art. 1916 c.c.) e può agire contro l'assicuratore della responsabilità civile da circolazione stradale, se l'infortunio deriva dal fatto che dà luogo a responsabilità da circolazione stradale (art. 28 L. n. 990 del 1969). Pertanto l'esonero cade nell'ipotesi in cui l'infortunio o la malattia professionale sia conseguenza di una condotta datoriale integrante gli estremi di una fattispecie di reato perseguibile d'ufficio ed il datore si trova esposto sia all'azione di regresso dell'istituto assicuratore per le somme versate all'assicurato sia all'azione di risarcimento da parte del lavoratore, seppur limitatamente al ristoro del danno differenziale. 10. Dal punto di vista del lavoratore danneggiato da infortunio sul lavoro o da malattia professionale si presenta un primo e più immediato ambito di tutela da far valere nei confronti dell'INAIL, caratterizzato dall'irrilevanza della componente soggettiva, in quanto l'indennizzo viene erogato a prescindere da ogni valutazione di responsabilità, e dall'automaticità delle prestazioni, le quali spettano anche se il datore di lavoro non sia adempiente ai suoi obblighi assicurativi; inoltre, dal punto di vista quantitativo, le prestazioni assicurative, svincolate dalla personalizzazione del danno, sono erogate sulla base di criteri predeterminati stabiliti dalla legge. Con tale tutela può concorrere, pur restando autonoma, quella azionabile nei confronti del datore di lavoro che resta civilmente responsabile per i danni che abbiamo definito complementari e differenziali, basati su diversi presupposti e condizioni, ma che hanno la caratteristica di non essere quantitativamente determinabili a priori; essi prefigurano un ammontare composito potenzialmente più esteso rispetto a quello conseguibile con la mera garanzia assicurativa, sicché quest'ultima non necessariamente lo contiene. I confini posti al concorso di tutele sono quelli fissati, ad un estremo, dal divieto di occulte duplicazioni o indebite locupletazioni risarcitorie in favore del danneggiato, ma, all'estremo opposto, dalla necessità di garantire al lavoratore l'integrale risarcimento, tanto più quando vengano coinvolti beni primari della persona, in particolare il nucleo irriducibile del diritto fondamentale alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana (Corte cost. n. 309 del 1999). 11. Il precipitato logico del descritto assetto normativo ha indotto questa Corte ad escludere "che le prestazioni eventualmente erogate dall'INAIL esauriscano di per sé e a priori il ristoro del danno patito dal lavoratore infortunato od ammalato" (Cass. n. 777 del 2015; successive conformi: Cass. n. 13689 del 2015; Cass. n. 3074 del 2016; in precedenza v. Cass. n. 18469 del 2012; Cass. n. 5437 del 2011;tutte in motivazione). Esaminando l'art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000 si è rilevato "che la prospettiva della norma non è quella di fissare in via generale ed omnicomprensiva gli aspetti risarcitori del danno biologico, ma solo quella di definire i meri aspetti indennitari agli specifici ed unici fini dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali. Infatti,l'erogazione effettuata dall'INAIL è strutturata in termini di mero indennizzo, indennizzo che, a differenza del risarcimento, è svincolato dalla sussistenza di un illecito (contrattuale od aquiliano) e, di conseguenza, può essere disposto anche a prescindere dall'elemento soggettivo di chi ha realizzato la condotta dannosa e da una sua responsabilità". Si è tenuto presente "che, anche riguardo al consolidamento degli effetti patrimoniali in capo all'avente diritto, l'indennizzo INAIL si struttura in modo diverso da un risarcimento del danno, dal momento che la rendita cessa con la morte del lavoratore (e non passa nell'asse ereditario), mentre il diritto al risarcimento, una volta consolidatosi, entra a far parte del patrimonio dell'avente diritto e si trasferisce agli eredi". Si è trovata la conferma delle notevoli divergenze strutturali tra l'indennizzo erogato dall'INAIL e il risarcimento del danno biologico nella considerazione che "mentre quest'ultimo trova titolo nell'art. 32 Cost., l'indennizzo INAIL è invece collegato all'art. 38 Cost., e risponde alla funzione sociale di garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore". Dalla "differenza strutturale e funzionale tra l'erogazione INAIL ex art. 13 cit. e il risarcimento del danno biologico" ne è conseguita la preclusione "a ritenere che le somme eventualmente a tale titolo versate dall'istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato od ammalato, nel senso che esse devono semplicemente detrarsi dal totale del risarcimento spettante al lavoratore", anche perché ritenere il contrario significherebbe attribuire al lavoratore "un trattamento deteriore - quanto al danno biologico - del lavoratore danneggiato rispetto al danneggiato non lavoratore", con dubbi di legittimità costituzionale. Tale esigenza di detrazione è confermata da altre recenti pronunce della Corte che hanno chiarito alcuni criteri che presiedono allo scomputo. Così Cass. n. 20807 del 2016, in continuità con Cass. n. 13222 del 2015, ha affermato il principio secondo cui: "in tema di liquidazione del danno biologico cd. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall'ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell'art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato, volta all'indennizzo del danno patrimoniale". Nell'ambito di un giudizio di surrogazione per i danni derivanti da circolazione stradale si è altresì affermato che "quando la vittima di un illecito aquiliano abbia percepito anche l'indennizzo da parte dell'INAIL, per calcolare il danno biologico permanente differenziale è necessario: (a) determinare il grado di invalidità permanente patito dalla vittima e monetizzarlo, secondo i criteri della responsabilità civile, ivi inclusa la personalizzazione o "danno morale" che dir si voglia, attesa la natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale; (b) sottrarre dall'importo sub (a) non il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il valore capitale della quota di rendita che ristora il danno biologico" (Cass. n. 17407 del 2016, in cui si è altresì precisato che "per quanto riguarda il risarcimento del danno biologico temporaneo, esso in nessun caso potrà essere ridotto per effetto dell'intervento dell'assicuratore sociale, dal momento che l'Inali non indennizza questo tipo di pregiudizio"). 12. In definitiva, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore il risarcimento dei danni connessi all'espletamento dell'attività lavorativa, il giudice adito, una volta accertato l'inadempimento, innanzitutto dovrà verificare se, in relazione all'evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal D.P.R. n. 1124 del 1965 (sul punto v., da ultimo, Cass. n. 23146 del 2016; per l'assunto secondo cui per le malattie non tabellate i fattori di rischio comprendono anche quelle situazioni di dannosità che, seppure ricorrenti anche per attività non lavorative, costituiscono un rischio specifico cd. improprio v. Cass. n. 3227 del 2011; entrambe in motivazione). In tal caso potrà procedere alla verifica di applicabilità dell'art. 10 del decreto citato nell'intero del suo articolato meccanismo, anche ex officio ed indipendentemente da una richiesta di parte in quanto si tratta dell'applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto (in tal senso, circa i criteri di liquidazione del danno differenziale, v. Cass. n. 20807/2016 cit.). Prima individuando i danni richiesti dal lavoratore che non siano riconducibili alla copertura assicurativa e che abbiamo definito, per comodità di sintesi, complementari; per essi non opera l'esonero del datore di lavoro di cui al primo comma dell'art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965 e quindi gli stessi andranno risarciti secondo le comuni regole della responsabilità civile, anche in punto di presunzione di colpa. Indi, ove siano dedotte infatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d'ufficio, attuato il giudizio di sussunzione e di qualificazione giuridica che compete al giudice, questi potrà accertare in via incidentale autonoma la sussistenza dell'illecito penale e, in caso di esito positivo circa tale accertamento, procedere alla determinazione dell'eventuale danno differenziale, secondo le regole dettate dai successivi commi dell'art. 10 più volte citato. Valuterà, cioè, il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, e da esso detrarrà quanto indennizzabile dall'INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale (come già sancito da Cass. n. 20807/2016 cit.). Reputa il Collegio che anche tale operazione di scomputo vada effettuata ex officio ed anche se l'INAIL non abbia tri concreto provveduto all'indennizzo, come accaduto nella fattispecie che ci occupa. Depone per tale soluzione il tenore letterale dell'art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965 cit. compatibile anche col caso del difetto di un già intervenuto indennizzo. Infatti, i commi 6, 7 ed 8 della disposizione parlano di indennità o rendita "liquidata a norma" del decreto. Dunque non dicono "che è stata liquidata", né "pagata", ma parlano di mera "liquidazione", che è operazione contabile astratta che qualsiasi interprete può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Di contro l'art. 11 dello stesso decreto n. 1124/65, in materia di regresso, usa la ben diversa espressione di "somme pagate", certamente presupponendo il reale ed effettivo pagamento degli importi. Quindi, l'indennizzo può essere anche un termine di raffronto solo virtuale, cioè astrattamente liquidabile secondo un puro criterio tabellare. Altrimenti ragionando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare né al dipendente (perché il risarcimento al lavoratore, anche in casi di responsabilità penale, è dovuto solo per l'eccedenza), né all'INAIL (che può agire in regresso solo per le somme versate e, quindi, senza indennizzo non vi sarebbe regresso). Inoltre la mancata liquidazione dell'indennizzo potrebbe essere dovuta allo stesso comportamento del lavoratore, che, ad esempio, non ha denunciato l'infortunio o la malattia ovvero ha lasciato prescrivere l'azione; detta condotta non può determinare una maggiore esposizione del datore ed il lavoratore non può incidere, con una sua scelta, sull'esonero parziale da responsabilità civile inderogabilmente prescritto dall'art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965.

13. Alla stregua delle considerazioni che precedono, in relazione ai motivi del ricorso principale innanzi esposti al paragrafo n. 6, la sentenza della Corte territoriale deve essere cassata in parte qua. Erra, prima di tutto, detta sentenza laddove, a fronte di una pronuncia di primo grado che aveva condannato la società a risarcire, senza decurtazioni, il danno biologico e morale per patologia contratta in violazione dell'art. 2087 c.c., accoglie il gravame della società secondo cui, in seguito alla riforma di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000 che ha assorbito le lesioni all'integrità psico-fisica nell'ambito della copertura assicurativa obbligatoria, "ogni pretesa in tal senso non può che essere oramai indirizzata nei confronti dell'INAIL", configurando, così, un "difetto di legittimazione passiva" del datore di lavoro, anche per il danno morale ritenuto "necessariamente una componente del danno biologico". Per quanto detto, le prestazioni dovute dall'INAIL a titolo di indennizzo in seguito all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 38 del 2000 non sono a priori integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno in capo al soggetto infortunato o ammalato; il datore di lavoro, anche ove ricorra una ipotesi in cui è operante l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, resta debitore e titolare dal lato passivo dell'obbligazione di risarcire i danni complementari e differenziali. Non può neanche essere condiviso il rilievo della Corte di Appello per il quale "nel ricorso introduttivo non vi è alcuno specifico riferimento ad eventuali profili di sui quali fondare l'azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro". In tale rilievo si scorge l'adesione a rigorose opinioni dottrinali, seguite anche da giurisprudenza di merito, secondo cui la domanda di danno differenziale, ai fini dell'accoglimento, dovrebbe contenere una puntuale e formale qualificazione dei fatti in termini di illiceità penale nonché la specifica deduzione del preteso quantum in termini differenziali rispetto all'indennizzo INAIL, liquidato o liquidabile. Si ribadisce invece che, ai fini dell'accertamento del danno differenziale, è sufficiente che siano dedotte in fatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d'ufficio, sottolineando che anche la violazione delle regole di cui all'art. 2087 c.c., norma di cautela avente carattere generale, è idonea a concretare la responsabilità penale (Corte cost. n. 74 del 1981; Cass. n. 1579 del 2000). Spetterà poi al giudice il compito di qualificare giuridicamentei fatti e sussumerli nell'alveo della fattispecie penalistica, accertando autonomamente ed in via incidentale la sussistenza del reato.

Inoltre la richiesta del lavoratore di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti dall'inadempimento datoriale, è idonea a fondare un petitum rispetto al quale il giudice dovrà applicare il meccanismo legale previsto dall'art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965 anche ex officio, pur dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all'indennizzo, atteso che, rappresentando il differenziale normalmente un minus rispetto al danno integrale preteso, non può essere considerata incompleta al punto da essere rigettata una domanda in cui si richieda l'intero danno. In proposito opportuno rammentare la giurisprudenza di questa Corte che, in materia di azioni di risarcimento del danno, pone in rilievo non la qualificazione formale ma la natura e le caratteristiche del pregiudizio stesso (v. Cass. n. 12236 del 2012, secondo cui ciò che conta è che il pregiudizio sia stato prospettato o addirittura sia insito nelle caratteristiche della fattispecie di cui costituisca conseguenza naturale, a prescindere da quale sia stata la sua qualificazione formale). Inoltre è stato affermato più volte che la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale è una domanda di carattere onnicomprensivo e che l'unitarietà del diritto al risarcimento e la normale non frazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta; ne consegue che, laddove nell'atto introduttivo siano indicate specifiche voci di danno, a tale specificazione deve darsi valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà di escludere dal petitum le voci non menzionate (Cass. n. 22514 del 2014; Cass. n. 23147 del 2013; Cass. n. 3718 del 2012; Cass. n. 17879 del 2011; Cass. n. 26505 del 2009; Cass. n. 22884 del 2007; Cass. n. 10441 del 2007; Cass. n. 3936 del 2007; Cass. n. 11761 del 2006)".

Peraltro deve rammentarsi che se la responsabilità del datore di lavoro per l'inadempimento dell'obbligo di sicurezza previsto dall'art. 2087 c.c. ha natura contrattuale, derivando tale qualificazione in base alla considerazione che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell'art. 1374 c.c. dalla suddetta norma e che la responsabilità contrattuale è configurabile tutte le volte che risulti fondata sull'inadempimento di un'obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato ( cfr. Cass. n. 12445/06) e se sul datore di lavoro grava l'obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall'art. 2087 c.c. ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, sulla base dell'allegata responsabilità contrattuale derivante dall'inadempimento dell'obbligo di adottare tutte le misura necessarie a tutelare l'integrità psico - fisica del lavoratore non discende una fattispecie di responsabilità oggettiva fondata sul mero riscontro del danno, in tesi cd. biologico, quale evento legato con nesso di causalità all'espletamento della prestazione lavorativa ma occorre pur sempre l'elemento della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza: la necessità della colpa, che accomuna la responsabilità contrattuale con quella aquiliana, deve essere poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall'art. 1218 c.c. e , quindi, grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all'integrità psico-fisica sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa ( cfr. Cass. n. 4184/06).

In altri termini, il carattere contrattuale dell'illecito e l'operatività della presunzione di colpa stabilita dall'art. 1218 c.c. non escludono che la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. in tanto possa essere affermata in quanto sussista una lesione del bene tutelato che derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento, imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche. Ne consegue che la verificazione del sinistro non è di per sé sufficiente per far scattare a carico dell'imprenditore l'onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l'evento, atteso che la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre la previa dimostrazione, da parte dell'attore, che vi è stata omissione nel predisporre le misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall'esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno, e non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione, venendo altrimenti a configurarsi un'ipotesi di responsabilità oggettiva che la norma non prevede.

Ne consegue che il lavoratore che lamenti di aver subito a causa dell'attività lavorativa svolta un danno alla salute ha l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso di causalità tra l'uno e l'altro e solo quando tali circostanze siano provate incombe al datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno ( Cass. n. 3650/06).

Nella fattispecie, le risultanze probatorie consentono di ritenere provata sia la nocività dell'ambiente di lavoro sia il nesso di causalità tra la lesione dell'integrità psico - fisica lamentata e l'espletamento della prestazione lavorativa sia l'omissione colpevole del datore di lavoro relativa alla mancata adozione ed osservanza di misure organizzative atte a prevenire eventi del tipo di quello occorso al ricorrente.

Risulta quindi provata l'esclusiva responsabilità ex art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro l'adozione di tutte le misure necessarie alla tutela dell'integrità fisica del lavoratore, la nocività dell'ambiente di lavoro conseguente alla violazione della normativa antinfortunistica ex D.Lgs. n. 81 del 2008 per non aver predisposto adeguate misure di prevenzione e protezione dal rischio ed il nesso causale fra questi elementi con l'occasione di lavoro e l'aggravarsi delle condizioni di salute patito dal ricorrente ed il conseguente danno alla salute.

Dalle risultanze dell'istruttoria può ritenersi, cioè, probatoriamente confermato un comportamento negligente del datore di lavoro convenuto e la mancata adozione di misure di precauzione e sicurezza idonee ad evitare il danno lamentato in violazione di regole cautelari specifiche e generiche che hanno costituito causa di tale danno sulla base del principio della condicio sine qua non espresso in sede penale negli artt. 40 e 41 c.p. in materia di nesso di causalità attesa la prova circa la nocività dell'ambiente di lavoro ove il ricorrente operava ed atteso che il fatto illecito lamentato appare ricollegabile ad un comportamento inadempiente del datore di lavoro nella predisposizione di mezzi di protezione e sicurezza durante l'espletamento delle sue mansioni, avendo il datore di lavoro, sulla base della giurisprudenza prima citata, l'onere di provare di aver adottato tutte le cautele imposte da regole tecniche e scientifiche o di comune prudenza o diligenza necessarie per evitare il verificarsi del fatto dannoso e di aver impedito o vigilato affinchè l'attività effettuata dal ricorrente non venisse effettuata senza la precauzioni dovute.

Da tali considerazioni discende, cioè, che è possibile addebitare alla parte convenuta l'omessa predisposizione di misure cautelari idonee a prevenire il rischio di patologie quale quelle occorse al ricorrente atteso che la giurisprudenza di legittimità è costante nell'affermare che l'art. 2087 cod. civ. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato (Cass. n. 6018/2000, n. 1579/2000), ed atteso che, quanto all'onere della prova, al lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute a causa dell'attività lavorativa svolta incombe l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso causale fra questi due elementi ma quando il lavoratore abbia provato tali circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. n. 16881/2006, n. 7328/2004, n. 12467/2003), e la prova incombente sul dipendente nella fattispecie è stata soddisfatta.

Né ai fini del risarcimento del danno assume rilievo esimente l'eventuale responsabilità concorrente del lavoratore atteso che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni o malattie sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio o malattia occorsa al lavoratore sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente. (v. Cass. n. 4656 del 25.2.2011, n. 19494 del 10.9.2009, n. 9689 del 23.4.2009, n. 4980 dell'8.3.2006, n. 5920 del 24.3.2004). E Cass. n. 8988/00 ha ribadito il principio che "la vittima di un infortunio sul lavoro può ritenersi responsabile esclusiva dell'accaduto solo in un caso: quando il lavoratore abbia tenuto "un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute", trattandosi di "rischio elettivo" che presuppone la contemporanea presenza di tre elementi: a) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa, escludendosi in tale ipotesi il nesso eziologico tra la condotta datoriale e l'infortunio. Secondo la giurisprudenza della Cassazione (cfr. ex multis Cass. n.30679 del 2019, Cass. 2 marzo 1984 n. 1478, 29 luglio 1986 n. 4860, 7 marzo 1987 n. 2417, 6 luglio 1990 n. 7101, 17 novembre 1993 n. 11351, 15 aprile 1996 n. 3510, 13 ottobre 2000 n. 13690, 12 gennaio 2002 n. 326), la responsabilità civile dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure di sicurezza generiche e specifiche che, in relazione alla concreta pericolosità del lavoro, siano idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore è esclusa solo in caso di dolo di quest'ultimo o nel caso di rischio elettivo, cosicché l'eventuale colpa del lavoratore, dovuta ad imprudenza, negligenza od imperizia, non elimina quella del datore di lavoro e non è sufficiente ad interrompere il nesso di causalità, spettando al datore di lavoro provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, e nel caso in specie il comportamento del ricorrente non può evidentemente ritenersi abnorme né eccentrico rispetto al rischio lavorativo.

Nè si ravvisa neanche alcuna corresponsabilità del ricorrente nella causazione del danno ai sensi dell'art. 1227 c.c. se si tiene in considerazione sempre quanto affermato dalla Cassazione n. 8988/00: "Nel caso di infortunio sul lavoro, deve escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 1, quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l'ordine, nell'esecuzione puntuale del quale si sia verificato l'infortunio; od ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi; ricorrendo tali ipotesi, l'eventuale condotta imprudente della vittima degrada a mera occasione dell'infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante".

Ora l'accertamento della responsabilità del datore di lavoro per i fatti da cui è derivato il danno alla salute oggetto di causa determina la permanenza in capo allo stesso della responsabilità civile ai sensi dell'art. 10 D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 - a norma del quale, in caso di responsabilità penale del datore di lavoro, non opera l'esonero da responsabilità civile di quest'ultimo per la parte di risarcimento eventualmente eccedente l'indennità assicurativa - e, quindi, dell'obbligo a risarcire il lavoratore del danno cd. "differenziale" come definito da Cass. n.9166/17 già citata, alla quale si espresso rinvio, e che comprende vari profili di danno patrimoniale e non patrimoniale non indennizzati da INAIL secondo i criteri individuati in tale sentenza.

Inoltre l'integrazione di una ipotesi di dequalificazione qualitativa violativa, nel rapporto di lavoro privato, della norma di cui all'art. 2103 c.c.. che, nella formulazione introdotta dall'art. 13 L. n. 300 del 1970 e prima delle rilevanti modifiche apportate dal D.Lgs. n. 81 del 2015 ( in vigore dal 25/06/15 e che risultano parzialmente applicabili ratione temporis attesa la data di inizio della condotta datoriale lamentata ) pone, nel rapporto di lavoro privato, due limiti inderogabili al potere del datore di lavoro di modificare unilateralmente l'oggetto dell'obbligazione di lavorare, come concordato al momento dell'assunzione (c.d. ius variandi); il primo limite è quello della irriducibilità del trattamento retributivo, il secondo è quello attinente al divieto di una variazione in peius delle mansioni del lavoratore, essendo legittime solo le modifiche attributive di mansioni equivalenti a quelle di assunzione o alle ultime effettivamente svolte (variazione c.d. in orizzontale) oppure l'adibizione allo svolgimento di mansioni superiori (variazione c.d. in verticale).

Il rispetto di tali due limiti inderogabili, quali condizioni di legittimità dell'esercizio del potere datoriale di variazione delle mansioni, sottende alla tutela di due beni giuridici; invero, il limite della irriducibilità del trattamento retributivo è volto a tutelare specificamente il patrimonio in senso economico del lavoratore, il secondo limite mira alla salvaguardia del livello di professionalità acquisita dal lavoratore, con conseguente legittimità delle sole variazioni che attribuiscano al lavoratore mansioni che consentano, nel loro espletamento, l'utilizzazione del bagaglio professionale e di esperienza lavorativa acquisito ed il conseguente perfezionamento ed accrescimento del corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisiti nella fase pregressa del rapporto. La norma, pertanto, tutela il diritto del lavoratore a conservare e migliorare la competenza e la professionalità maturata e sotto tale profilo, vieta non soltanto l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori (c.d. dequalificazione qualitativa o demansionamento tout court) ma, altresì, la sottrazione al lavoratore di parte delle mansioni svolte in precedenza, nella misura in cui tale modificazione quantitativa importi una sottoutilizzazione delle capacità acquisite ed un consequenziale impoverimento della sua professionalità (c.d. dequalificazione quantitativa o per sottrazione). Su tale ultimo aspetto, la giurisprudenza di legittimità, con orientamento consolidato, ha affermato il seguente principio: "allorquando venga dal lavoratore denunziata la violazione dell'art. 2103 cod. civ. allegando di aver sofferto una dequalificazione professionale, il giudice deve stabilire se le mansioni dallo stesso svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l'ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale - per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale - da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguenziale impoverimento della sua professionalità" (Cass. n. 10284del 04/08/2000, conf., e plurimis, Cass. n. 6856/2001).

Tale principio è applicabile anche nella presente controversia, atteso che il ricorrente, pur nella incontestata invarianza del trattamento economico e dell'inquadramento posseduto, ha subito nel periodo dedotto in ricorso una dequalificazione professionale di tipo qualitativo tale da importare, in suo danno, un inevitabile abbassamento del livello globale delle sue prestazioni lavorative con una sottoutilizzazione delle capacità acquisite in precedenza ed impoverimento della professionalità e capacità acquisite nonché impeditiva di un ulteriore arricchimento della sua professionalità.

Come ha ripetutamente precisato la giurisprudenza della Cassazione, dall'art.2103 c.c. - norma che sancisce il diritto (contrattuale) del lavoratore nel rapporto di lavoro privato all'effettivo svolgimento della propria prestazione professionale, con mansioni inerenti alla qualifica attribuita con l'assunzione o successivamente acquisita, e comunque, in ogni caso, equivalenti alle ultime che abbia effettivamente svolte - discende che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre l'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute e di adempimento in forma specifica, anche l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale (e plurimis Cass. n.8904/03).

Sempre con riguardo al risarcimento del danno da demansionamento Cass. SU n. 4063/10 ha affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritto del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, pure in mancanza di intenti discriminatori o persecutori idonei a qualificarlo come mobbing, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente, nonché all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore.

Ancora relativamente al danno conseguente al demansionamento si rileva che esso può assumere aspetti diversi, potendo consistere sia nel danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero dal pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno; sia in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o, più in generale, alla salute, ovvero all'immagine ed alla vita di relazione. Sotto l'ultimo degli aspetti considerati, in particolare, viene in considerazione una specie particolare di danno, cd. esistenziale, derivante dalla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione (sent. citata, Cass. n.14199/2001, 15868/2002).

La Cassazione ha, infatti, precisato che: "il demansionamento professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore; esso, infatti, non solo viola lo specifico divieto di cui all'art.2103 c.c., ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione - che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato - va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nella ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale" (Cass. 14443/00).

Secondo quanto puntualmente affermato nella sentenza della Cassazione n. 10/2002 "l'affermazione diun valore superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11agosto 1998n. 7905, 4 febbraio 1997n. 1026, 18aprile 1996n. 3686, e 13agosto 1991n. 8835). Prova, viceversa, che, secondo le ricordate pronunce, rimane necessaria per quanto riguarda l'eventuale danno materiale, il pregiudizio economico cioè subito dal lavoratore anche in termini di guadagno non conseguito per effetto della perdita di concreti vantaggi necessariamente legati allo svolgimento delle mansioni negate".

In ogni caso, la prova del danno conseguente alla violazione dell'art.2103 c.c., proprio per il fatto che, a prescindere dai danni specificamente materiali (come ad esempio la perdita di uno specifico emolumento connesso alle mansioni spettanti, perdita di concrete possibilità di carriera ecc.), le lesioni correlate al ricordato fondamentale diritto di esplicazione della personalità del lavoratore hanno carattere di danno immateriale, ben può essere data anche per presunzioni laddove siano offerti e provati elementi di fatto da cui possa ragionevolmente inferirsi che tali lesioni si siano effettivamente verificate.

Non può poi trascurarsi di considerare che, secondo quanto ampiamente esposto nella sentenza della Cassazione n. 8827/03, " nel vigente ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona". Ne consegue che l'art. 2059 c.c., dettato in un epoca in cui vi era solo l'art. 185 c.p. che consentiva il risarcimento del danno morale, deve essere inteso in senso costituzionalmente orientato e cioè volto a consentire ed anzi ad imporre la tutela del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti. In conclusione, secondo l'autorevole insegnamento del S.C., "il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale".

Prima di esaminare la questione delle conseguenze pregiudizievoli di tale accertata illegittima dequalificazione, occorre anche premettere che si condividono i principi affermati dalle Sezioni Unite di Cassazione nella sentenza n. 6572/2006 che, aderendo alla prospettiva della irrisarcibilità del cd. danno - evento, salvo che in tema di danno da reato ex art. 185 c.p., configura anche il c.d. danno da demansionamento (in tutte le sue possibili voci ed esplicazioni) in termini di cd. danno - conseguenza, debitamente da allegare e provare da parte di chi ne invoca il risarcimento. Infatti, diversamente opinando, si darebbe di fatto ingresso nel nostro sistema ai c.d. punitive damages, in contrasto con la funzione propria del risarcimento che è quella di ristorare danni empiricamente verificatisi e, dunque, effettivamente subiti dal danneggiato in connessione causale con un comportamento inadempiente o illecito del danneggiante.

Pertanto, accanto alla lesione di una situazione giuridica soggettiva meritevole di protezione alla stregua delle coordinate positive del sistema giuridico (c.d. danno evento), è onere dell'attore, per poter accedere alla tutela risarcitoria, allegare e provare le conseguenze pregiudizievoli, patrimoniali e non, che da quella lesione ingiusta (sine iure, cioè non facultizzata o imposta da alcuna norma dell'ordinamento giuridico) eziologicamente derivate siano nella sfera patrimoniale e/o personale del danneggiato (c.d. danno - conseguenza).

In materia di responsabilità contrattuale, la risarcibilità delle conseguenze pregiudizievoli dell'illecito contrattuale, ossia del danno - conseguenza, trova conferma nell'art. 1223 c.c. che, disciplinando la causalità giuridica, sancisce il risarcimento delle conseguenze immediate e dirette dell'inadempimento (id est, del danno evento di cui si occupa l'art. 1218 c.c. nell'ottica della causalità naturale tra il comportamento del debitore e la violazione dell'obbligo ex contractu).

Pertanto, in applicazione di tali principi, accertato il danno - evento sub specie di violazione dell'obbligo gravante sul datore, occorre esaminare le conseguenze pregiudizievoli che da tale inadempimento siano derivate nella sfera patrimoniale, e non, del ricorrente.

Nella fattispecie il ricorrente ha chiesto il risarcimento del danno cd. biologico e del danno non patrimoniale cd. professionale cagionato dall'illegittima condotta datoriale.

In ordine al risarcimento da demansionamento le Sezioni Unite della Cassazione ( n. 6572/06) sono intervenute affermando importanti princìpi: "La questione è la seguente: se, in caso di demansionamento o di dequalificazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello cd. esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in re ipsa al demansionamento, oppure sia subordinato all'assolvimento, da parte del lavoratore, all'onere di provare l'esistenza del pregiudizio. Invero entrambi gli indirizzi convergono nel ritenere che la potenzialità nociva del comportamento datoriale può influire su una pluralità di aspetti (patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione) e concordano sulla risarcibilità anche del danno non patrimoniale, ammettendo il ricorso alla liquidazione equitativa, ma divergono o presentano una inconciliabile diversità di accenti e di sfumature quanto al regime della prova. Sono ascrivibili al primo indirizzo le pronunce di cui a Cass. n. 13299 del 16 dicembre 1992, n. 11727 del 18 ottobre 1999, n. 14443 del 6 novembre 2000, 13580 del 2 novembre 2001, n. 15868 del 12 novembre 2002, n. 8271 del 29 aprile 2004, n. 10157 del 26 maggio 2004, le quali, ancorché con motivazioni diversamente articolate alla stregua delle pronunzie oggetto di esame, hanno ritenuto che "In materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto, l'ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntiviacquisiti al giudizio e relativialla natura, all'entitàe alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto". Sono ascrivibili al diverso indirizzo che richiede la prova del danno Cass. n. 7905 dell'11 agosto 1998, n. 2561 del 19 marzo 1999, n. 8904 del 4 giugno 2003, n. 16792 del 18 novembre 2003, n. 10361 del 28 maggio 2004, le quali enunciano il seguente principio "Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico) subitoa causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una vantazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 cod. civ.". Con dette pronunzie si sono generalmente confermate le sentenze di merito che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno per essere stata la dequalificazione fatta genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, per non essere stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale subiti, e per non essere stati forniti elementi comprovanti una lesione di natura patrimoniale, non riparata dall'adempimento dell'obbligazione retributiva, ovvero una lesione di natura non patrimoniale.

Le sezioni unite ritengono di aderire a quest'ultimo indirizzo. 1. La tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza è quella che prospetta la responsabilità datoriale come di natura contrattuale. Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione), mentre nel secondo deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. (tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce, nell'ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali. In entrambi i casi, giacché l'illecito consiste nella violazione dell'obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art. 1218 cod. civ., con conseguente esonero dall'onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessione con l'art. 1223 c.c.. Vi è da aggiungere che l'ampia locuzione usata dall'art. 2087 cod. civ. (tutela della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) assicura il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per superare le limitazioni imposte dall'art. 2059 cod. civ. (sulla evoluzione di detta tematica vedi Corte Costituzionale n. 233/2003 e l'indirizzo inaugurato da Cass. n. 7283 del 12 maggio 2003), verificare se l'interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del codice civile. 2. Dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'alto illegittimo. L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma. Non può infatti non valere" anche in questo caso, la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano "conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte Costituzionale n. 372 del 1994). D'altra parte - mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta - ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l'attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento.

3. È noto poi che dall'inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all'integrità psico-fisica o danno biologico, danno all'immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cd. esistenziale, che possono anche coesistere l'una con l'altra. Prima di scendere all'esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causadelle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare resistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cass. sez. un. 3 febbraio 1998 n. 1099). 4. Passando ora all'esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.

Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell'interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché - fermo l'inadempimento - l'interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell'impegno assunto di svolgere l'attività che gli viene richiesta dal datore.

5. Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacché questo, che non può prescindere dall'accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accettabile, secondo la definizione legislativa di cui alla L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 3, sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003).

6. Quanto al danno non patrimoniale all'identità professionale sul luogo di lavoro, all'immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 Cost. (cd. danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l'orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto. Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore (propria del ed danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso. Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l'interessato sull'oggetto e sul modo di operare dell'asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell'atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all'immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare - al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili inrelazione alla lesione dell'indennità psicofisica - necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita. Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell'isolamento, della forzata inoperosità, dell'assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l'inadempimento del datore, ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l'equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l'interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l'inadempimento, ma non c'è pregiudizio e quindi non c'è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalia Corte Costituzionale con la sentenza n. 378 del 1994 per cui "È sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 cod. civ., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato".

6. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente. Mentre il danno biologico non può prescindere dall'accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo "i concreti" cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti - se è vero che la stessa categoria del "danno esistenziale" si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso - all'onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l'ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 cod. civ. venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravita, conoscibilità all'interno ed all'esterno delluogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. D'altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell'arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi. ……………………….. dovendosi affermare il seguente principio, cui si atterrà il giudice del rinvio: in tema di demansionamento e di dequalificazione, ilriconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, cheasseritamele ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non puòprescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sullecaratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato allaesistenza di una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intenderecome ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed ulteriore, ma oggettivamente accertabile)provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri,inducendolo scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondoesterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dallo ordinamento, assumendo peraltroprecipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti(caratteristiche, durata, gravita, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operatadequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventualireazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale,effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe inuna lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalireal fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozionigenerali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove." ( la sottolineatura è dello scrivente).

Successivamente è intervenuta la fondamentale sentenza delle SU della Cassazione n. 26972/08 ( ed altre) che, ricostruendo sistematicamente la figura del danno non patrimoniale, ha affermato il principio per il quale " il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale.

Quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato, spetta alla vittima il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, ivi compreso il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva causata dal reato. Tale pregiudizio può essere permanente o temporaneo (circostanze delle quali occorre tenere conto in sede di liquidazione, ma irrilevanti ai fini della risarcibilità), e può sussistere sia da solo, sia unitamente ad altri tipi di pregiudizi non patrimoniali (ad es., derivanti da lesioni personali o dalla morte di un congiunto): in quest'ultimo caso, però, di esso il giudice dovrà tenere conto nella personalizzazione del danno biologico o di quello causato dall'evento luttuoso, mentre non ne è consentita una autonoma liquidazione".

E, dopo tale arresto è da rammentare, in ordine alla fattispecie de qua, Cass. n. 10864/09 secondo cui "nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.), il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un "vulnus" ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati "ex ante" da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che, in controversia in tema di demansionamento, accertato il nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato depressivo del lavoratore, aveva riconosciuto il danno biologico e il danno morale nell'ambito del danno non patrimoniale, applicando correttamente - al di là delle singole espressioni utilizzate - il sistema bipolare introdotto nel sistema ordinamentale in materia risarcitoria e, quindi, fondando la liquidazione dei danni di cui erano risultati provati l'esistenza e il collegamento causale con l'illegittima condotta datoriale).

Ed ancora Cass. n. 20980/09 ha affermato che "in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno e del relativo nesso causale con l'asserito demansionamento, ferma la necessità di evitare, trattandosi di danno non patrimoniale, ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale accomunate dalla medesima fonte causale" : " ……. una volta affermato che il demansionamento sussiste e si è protratto nel tempo, rimane il problema della prova dell'esistenza di un danno risarcibile e del nesso causale. 10. La Corte di Appello ha liquidato un danno da demansionamento, del quale ha debitamente illustrato le caratteristiche, quale lesione di un diritto fondamentale dell'individuo e quindi risarcibile anche sotto il profilo non patrimoniale, ed ha nel contempo affermato che tale danno è risarcibile "ex se". Tale affermazione non può essere condivisa: Cass. 19.12.2008 n. 29832 afferma che in tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione all'integrità psico fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. Nella specie, la Corte di Appello liquida il danno da demansionamento, inteso non come danno esistenziale ma come lesione della professionalità e della dignità del lavoratore, dando per scontato che i presupposti in fatto sussistano, laddove era necessario un accertamento in fatto circa l'esistenza di un pregiudizio e del nesso causale. Il danno non patrimoniale è risarcibile nei casi previsti dalla legge, vale a dire in caso di fatto-reato, di lesione per la quale la norma positiva prevede il risarcimento del danno, ed infine in caso di lesione di diritti fondamentali (è il caso di specie): Cass. SU 11.11.2008 n. 26972. Ma rimane il problema della prova dell'esistenza del danno e del nesso causale, prova che non può essere presupposta. Non è ammissibile la categoria del "danno esistenziale" (ibidem) ed il danno non patrimoniale, nella cui categoria viene ricondotto il danno biologico, deve essere derivato da una lesione di un diritto costituzionalmente riconosciuto, deve essere grave e non futile (ancora Cass. n. 26972.08). In altri termini, il giudice, in caso di accertato demansionamento, deve procedere alla liquidazione del danno sulla base di una ricostruzione in fatto della vicenda, dell'accertamento anche presuntivo in dell'esistenza di un danno risarcibile e del nesso di causalità (Cass. 26.6.2006 n. 14729). Poiché la sentenza impugnata non motiva in ordine a quanto precede, limitandosi a formulare affermazioni di principio e ravvisando il danno "in re ipsa", essa va cassata "in parte qua" ed il processo va rimesso ad altra Corte di Appello la quale procederà a nuovo esame della fattispecie, attenendosi al seguente principio: "accertato un demansionamentoprofessionale, la liquidazione del danno alla professionalità richiesto dal lavoratore non può prescinderedalla dimostrazione in fatto dell'esistenza del danno e del nesso causale tra di esso e il demansionamento; vatenuto conto che trattasi di danno non patrimoniale, onde va evitata ogni duplicazione con altre voci didanno non patrimoniale che abbiano la stessa fonte causale"…….. Con l'avvertenza che, nell'ambito del danno non patrimoniale, va evitata ogni duplicazione ingiustificata di voci o tipi di danno: che il danno biologico sia da ricondurre a danno non patrimoniale appare ormai acquisito, stante Cass. SU n. 26972 cit.".

Più recentemente Cass. n. 12253/15 ha affermato che "L'assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Innanzi tutto l'inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (tra le altre v. Cass. n. 11045 del 2004; Cass. n. 14199 del 2009). Invero la violazione dell'art. 2103 c.c., può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro. Inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerosedisposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti. Infatti questa Corte, a Sezioni unite (sent. nn. 26972, 26973, 26974, 26975 dell'11 novembre 2008), dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli1 obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che l'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista. Lo stesso Collegio dedica adeguato rilievo alla dignità personale del lavoratore che, in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost., costruisce come diritto inviolabile; descrive quale lesione di tale diritto proprio "i pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa". Dunque dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli competono; la lesione di tale posizione giuridica soggettiva ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell'uomo con se stesso. Quanto alla liquidazione di tali danni, la non patrimonialità - per non avere il bene persona un prezzo - del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l'unica fonte di convincimento del giudice (ancora Cass. SS.UU. n. 26972/2008 Cit.). 7.2.- Chiarita l'astratta potenzialità lesiva dell'assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si è precisato che la produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale: dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza di un danno, il quale non è immancabilmente ravvisabile solo in ragione della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo (Cass. SS.UU. n. 6572 del 2006). Fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi denuncia di aver subito il pregiudizio, compete tuttavia al giudice di merito non solo ogni accertamento e valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e la individuazione della specie del danno, ma anche la sua liquidazione - in ipotesi anche equitativa - sindacabile, in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione (in tal senso, v. Cass. n. 14199 del 2001; altresì: Cass. n. 9138 del 2011, Cass. n. 2352 del 2010, Cass. n. 10864 del 2009, Cass. n. 5333 del 2003; Cass. n. 10268 del 2002; Cass. n. 18599 del 2001, Cass. n. 104 del 1999). I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, debbono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata (v. Cass. n. 12408 del 2011), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento (v. Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.; Cass. n. 7740 del 2007; Cass. n. 13546 del 2006). Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si esclude che l'esercizio del potere equitativo del giudice di merito possa di per sè essere soggetto a controllo in sede di legittimità, se non in presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (cfr. Cass. n. 12918 del 2010; Cass. n. 1529 del 2010; conforme, più di recente, Cass. n. 18778 del 2014). In particolare, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione ealle altre circostanze del caso concreto (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19778 del 2014; Cass. n. 4652 del 2009; Cass. n. 28274 del 2008; Cass. SS.UU.. n. 6572/2006 cit.). 7.3.- Nella specie la sentenza impugnata, seppur sinteticamente, indica gli elementi di fatto in base ai quali ha ritenuto accertato un danno alla professionalità, avuto riguardo alle modalità del demansionamento ed al suo perdurare nel tempo. Invero il divario rispetto ai compiti in precedenza assolti dalla U., sconfinante nella totale erosione delle funzioni, unitamente alla durata della dequalificazione, con un depauperamento che si aggrava vieppiù con il decorso del tempo, rendono plausibile il convincimento espresso dal giudice del merito circa l'esistenza di un danno inferto alla professionalità della lavoratrice, atteso che la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti ha impedito alla stessa di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze, con pregiudizi - per dirla con le parole di SS.UU. n. 26972/2008 citata - "attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore". La Corte di Appello ha poi liquidato il danno medesimo stimando equo commisurarlo alla metà delle retribuzioni dovute per il periodo del demansionamento. Già questa Corte ha giudicato non privo di concretezza il ricorso in via parametrica alla retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del danno da violazione dell'art. 2103 c.c., posto che, indubbiamente, non può negarsi che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni sicché essa costituisce, in linea di massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell'art. 36 Cost.) anche del contenuto professionale della prestazione; l'entità della retribuzione ben può, dunque, essere assunta, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall'annientamento delle prestazioni proprie della qualifica (Cass. n. 9228 del 2001; cfr. pure Cass. n. 7967 del 2002 e Cass. n. 835 del 2001). In definitiva si tratta di un percorso motivazionale che, senza discostarsi da dati di comune esperienza e non palesando radicale contraddittorietà delle argomentazioni, sorregge a sufficienza l'esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa, idoneo a precludere la cassazione della sentenza impugnata sulla base delle censure che parte ricorrente muove".

Ciò premesso, ai fini dell'accertamento del cd. danno biologico cd. differenziale è stata espletata CTU medico - legale ed il CTU, all'esito di esaustiva analisi della documentazione prodotta, ha concluso affermando:

"le patologie da cui la parte ricorrente risulta affetta sono le seguenti:

Artrosi del rachide lombare con discopatie multiple (da L2 a S1). Tale situazione è riportata nella relazione del Policlinico Universitario Campus Bio Medico del 31/5/2016 a seguito di accertamento strumentale - RM- del dicembre 2015. Il periziato ha effettuato terapia con ozono che si è conclusa con un "lieve miglioramento della sintomatologia articolare".

In sede di visita peritale l'obiettività è dimostrativa di un "danno" permanente, a moderato impegno funzionale che può essere valutato con una percentuale del 10%(dieci).

Artrosi dei cingoli scapolo-omerali e tendinosi del sovraspinato con piccola lesione parcellare iscritta nello spessore del tendine inserzionale (strumentalmente accertata nel 2014). In sede di visita peritale l'obiettività è dimostrativa di un "danno" permanente, a modesto impegno funzionale che può essere valutato con una percentuale del 5% (cinque).

- Non è possibile valutare la durata della invalidità temporanea in quanto non esisteuna documentazione che consenta di collegare le patologie al periodo della malattia: è in atti un estratto di prognosi concesse al D.F. dal gennaio 2015 all'ottobre 2019 di cui non si conosce la diagnosi.

- Il grado di invalidità permanente, con la relativa decorrenza, ai fini del danno biologico è da considerarsicomplessivamente nella misura del 15%(quindici): con decorrenza da novembre 2019.

- Le patologie sopra accertate possono ritenersi, secondo un criterio medico eziologico, causalmente connesse con le vicende lavorative denunciate.

Per quanto si riferisce alla condropatia femoro-rotulea, trattasi di situazione patologica probabilisticamente favorita dalla artrite psoriasica: l'ecografia articolare del 31.05.2016 riportava: "ginocchia.- Sinoviteproliferativa delle ginocchia bilateralmente comparto laterale. Nel febbraio del 2022 il pz è stato sottoposto ad intervento di protesi monocompartimentale ginocchio sinistro.

In sede di visita peritale la motilità del ginocchio sinistro è risultata nella norma.

Tale condizione non è valutabile."

Inoltre il CTU ha accertato che il valore attuale dell'indennizzo in capitale spettante al ricorrente ex art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000 secondo le tabelle dei coefficienti INAIL applicabili è pari ad Euro 25.686,80. Essendo il danno biologico accertato (15%) inferiore al 16% e non spettando, quindi, la rendita ma solo l'indennizzo in capitale, quest'ultimo non ha un duplice contenuto in quanto destinato a compensare sia il danno biologico sia il danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno; ne consegue che in sede di liquidazione del danno biologico cd. differenziale il Giudice deve operare un computo per poste omogenee sicché dall'ammontare complessivo del danno biologico va detratto il valore capitale dell'indennizzo destinata a ristorare, in forza del D.Lgs. n. 38 del 2000 art. 13, il danno biologico stesso (ex multis, Cass. civ., n. 13222/2015 e Cass. civ., n. 25618/2018; Cass. sezione lav. n. 27669/17; Cass. sez. lav. n. 20807/16).

Tale danno deve essere liquidato equitativamente sulla base di un parametro monetario (cd. liquidazione a punto) ricavabile attraverso coefficienti moltiplicatori interagenti tra loro (età dell'infortunato, capacità biologica di reazione del soggetto al pregiudizio psicofisico subito in relazione alla sua specificità ed all'età stessa, durata media della vita), che viene a fondarsi inizialmente sul grado di invalidità minimo (1%) ed il valore economico ad esso attribuibile. Tale importo è comprensivo degli interessi a titolo di danno da lucro cessante ex art. 2056 c.c. (ottenuti mediante ricorso al noto deflattore ISTAT per l'anno di riferimento) per il mancato godimento della somma equivalente al danno subito.

Il danno biologico deve essere, quindi, liquidato attraverso l'opportuno adattamento del valore monetario base del punto di invalidità, secondo le tabelle in uso presso questo Tribunale, in funzione aritmeticamente decrescente rispetto all'età del danneggiato ed in funzione geometricamente crescente rispetto all'entità dei postumi permanenti che, nel caso di specie, sono stati accertati nella misura pari al 15 % di invalidità.

Sulla base delle tabelle in uso presso questo Tribunale e considerata l'età del ricorrente ( 55 anni) ne discende che allo stesso spetterebbe il risarcimento del danno cd. biologico accertato ( 15%) pari alla somma di Euro 30.171,85 dalla quale deve essere detratta, sulla base dei principi affermati dalla Cassazione prima ricordati, il valore attualizzato dell'indennizzo in capitale liquidabile dall'INAIL pari alla somma di Euro 25.686,80; ne consegue che il risarcimento riconoscibile per il danno biologico cd. differenziale ammonta ad Euro 4485,05.

In relazione al danno morale soggettivo si osserva che non può trascurarsi di considerare che, secondo quanto ampiamente esposto già nella sentenza della Cassazione n. 8827/03, nel vigente ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.

Ne consegue che l'art. 2059 c.c., dettato in un epoca in cui vi era solo l'art. 185 c.p. che consentiva il risarcimento del danno morale, deve essere inteso in senso costituzionalmente orientato, e cioè volto a consentire ed anzi ad imporre la tutela del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti.

In conclusione, secondo l'autorevole insegnamento del S.C., "il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale" ( cfr. anche Cass. n. 8828/03 e soprattutto Cass. SU n. 26972/08 già citata circa la riconducibilità di tale componente di danno alla figura del cd. danno biologico).

Ne consegue che il danno non patrimoniale non può più essere identificato soltanto con il danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento dell'animo transeunte determinati da fatto illecito costituente reato, ma deve essere inteso come categoria ampia comprensiva di ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p.

Pur in considerazione degli ultimi importanti arresti giurisprudenziali delle SU della Cassazione relativi alla riconducibilità sistematica del danno morale soggettivo o del danno cd. esistenziale o di altre voci di danno non patrimoniale alla figura generale del cd. danno biologico non patrimoniale, ciò non preclude al Giudice, sempre in un'ottica di liquidazione equitativa, di personalizzare il quantum già riconosciuto a titolo di risarcimento del danno biologico in considerazione del danno morale soggettivo subìto in conseguenza dell'illegittimo comportamento datoriale.

Ritiene, allora, il Giudice che il danno morale soggettivo subìto dal ricorrente in conseguenza delle patologie accertate, sulla base degli elementi di intensità e di durata nel tempo rappresentati dal CTU ed emergenti dalla documentazione medica prodotta in atti, possa essere liquidato in una percentuale del danno biologico differenziale liquidato, e cioè nella misura equitativamente determinata pari al 30% dello stesso e pari, quindi, alla somma di Euro 1495,00. Ne deriva che il risarcimento riconoscibile ammonta alla somma complessiva di Euro 5980,05, di cui Euro 5142,84 a carico di XXXXX SRL quale incorporante A. SRL ed Euro 837,21 a carico di XXXXXSRL, sulla base della durata del rapporto di lavoro intercorso con tali società, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal novembre 2019, epoca della stabilizzazione dei postumi permanenti accertata in CTU, al soddisfo.

Debbono applicarsi al riguardo le tabelle del Tribunale di Roma nonostante l'orientamento di Cass. n.12408/2011 secondo il quale "la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell'integrità psico-fisica presuppone l'adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di previsioni normative, vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto" atteso che, come osservato da parte ricorrente, in ordine alla elezioni delle tabelle milanesi come criterio generale di liquidazione equitativa del danno alla persona, l'orientamento affermato dalla citata pronuncia n. 12408/2011 risulta stemperato dalla successive pronunce n. 17879/2011 e n. 24748/2011, oltre che n. 16866/2011; a ciò deve aggiungersi poi che più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, volti a rimarcare la necessità di evitare "vuoti risarcitori" (v. Cass. n. 19402/2013 e Cass. n.22585/2013), consentono di ritenere che le tabelle del Tribunale di Roma - attraverso le quali il danno biologico è computabile in modo distinto e senza inglobare le eventuali percentuali riferibili a tutti i possibili aspetti della personalizzazione- siano più idonee per la soluzione del caso concreto. Occorre precisare che, secondo le tabelle in uso presso questo Tribunale, " il Tribunale di Roma…… ha ritenuto di dover confermare il sistema tabellare realizzato - operando la sola rivalutazione sulla base dell'Incremento Istat rilevato…… - con i criteri che soddisfano correttamente, come più volte riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, i parametri diretti ad assicurare un corretto esercizio del potere equitativo di determinazione del danno non ritenendo allo stato condivisibile l'orientamento espresso dalla corte di Cassazione nella decisione della III sezione del 7 giugno 2011, n. 12408 nel quale si individua nelle complessive tabelle elaborate dal Tribunale di Milano un criterio da considerare al fine di operare la valutazione del danno biologico dal momento che tali tabelle utilizzano dei criteri di riferimento in concreto basati su principi che non appaiono al momento essere corrispondenti ai valori costituzionali quali la valutazione del danno non patrimoniale secondo un incremento percentuale, già inserito in tabella, del danno biologico fino al 50% per un pregiudizio fino al 33% e fino al 25% per pregiudizio a partire dal 34% e fino al 100%, analogamente a quanto ipotizzato per la possibilità di personalizzazione del danno, essendo evidente che in presenza di lesioni a interessi costituzionalmente rilevanti maggiori debba coincidere la necessità di valutazioni che siano funzione diretta del pregiudizio correlabile al danno biologico ( non si comprende perché in caso di pregiudizio del 10% possano essere liquidati importi maggiorati del 50% mentre per pregiudizi del 90% possano essere liquidati importi ulteriori fino al 25% e ciò secondo criteri di norma, essendo evidente che nei singoli casi si può divergere da tali criteri ma la divergenza deve rimanere la eccezione a meno di rendere inutile la funzione stessa della tabella che dovrebbe essere in grado di individuare almeno un numero di casi corrispondente al valore modale essendo altrimenti errata la tabella e non idonea a consentire la sua funzione di rendere in qualche modo prevedibile la decisione del giudice perché adottata sulla base di criteri sempre più predeterminati) e non secondo criteri di funzionalità inversa (al crescere del primo parametro diminuisce il secondo) come ipotizzato dalle tabelle milanesi cui fa riferimento la decisione citata, scelta che appare di difficile conciliazione con l'articolo 3 della Costituzione. Anche la valutazione di una misura variabile della indennità per la incapacità temporanea induce perplessità dal momento che il criterio di adeguamento è già contenuto nella percentuale di pregiudizio alla capacità di estrinsecare compiutamente la propria personalità in tale periodo essendo già previsto una valutazione che consente una corretta individuazione sulla base di una scala centesimale nel corretto rispetto di quanto ricordato sul punto proprio dalle Sezioni Unite.

E’ parimenti necessario che le tabelle abbiano un aggiornamento annuale in relazione agli indici Istat di inflazione dal momento che altrimenti il valore individuato dovrebbe comunque essere rivalutato al momento della decisione trattandosi di un credito di valore che diviene liquido solo al momento della decisione.

Utilizzare valori tabellari non aggiornati significherebbe solamente dover operare un ulteriore aggiornamento secondo i coefficienti di rivalutazione - e devalutazione per il calcolo degli interessi - al momento della decisione con una ulteriore complicazione del calcolo e della comprensibilità dello stesso, essendo evidente che non sarebbe corretta una decisione che opera la traduzione del debito di valore a quello di valuta sulla base di valori rivalutati all'anno precedente.

Anche ai fini della corretta valutazione della prevedibilità della decisione si ritiene che altri parametri che prevedano una oscillazione da zero alla somma integrale rendano ancora più soggettiva la valutazione e si allontanino dalla pur condivisibile esigenza espressa dalla Cassazione nella sentenza indicata, da contemperare, peraltro, con quanto indicato nelle sentenze 14402 del 30 giugno 2011, 18641 del 12 settembre 2011 e 16 febbraio 2012, n. 2228."

Tenuto conto, inoltre, che il demansionamento e la dequalificazione vi sono stati e che hanno comportato l'attribuzione di compiti di qualità inferiore all'inquadramento di appartenenza e, tenuto conto della durata non limitata della complessiva dequalificazione pari a più di 5 anni ( da aprile 2014 ad agosto 2019), può ritenersi che la stessa abbia comportato una lesione del fondamentale diritto di esplicazione della personalità del dipendente e la connessa lesione anche all’ immagine ed identità professionale che deve imputarsi alla condotta pregiudizievole del datore di lavoro e può ritenersi, anche in via presuntiva, che la stessa abbia comportato anche la perdita, almeno parziale, delle conoscenze acquisite e del proprio bagaglio professionale maturato nell'ambito dell’ esperienza lavorativa precedente.

Per la complessiva quantificazione del danno non patrimoniale direttamente cagionato può farsi, allora, riferimento in via equitativa, in conformità alla giurisprudenza citata ( Cass. n. 12253/15), al parametro della retribuzione mensile percepita atteso che la retribuzione compensa varie componenti della prestazione lavorativa quali il tempo di lavoro, la sua penosità fisica ed intellettuale ed anche, ma non solo, la capacità professionale.

In merito ai criteri di liquidazione di tale voce di danno, prendendo quale parametro di riferimento, in quanto corrispettivo del livello di professionalità, la retribuzione mensile percepita, appare equo liquidare a titolo di risarcimento del danno alla professionalità la somma pari a 1/3 del trattamento retributivo percepito in virtù dell'inquadramento posseduto, e non contestato, per il periodo compreso tra aprile 2014 e agosto 2019 e pari alla complessiva somma di Euro 53.642,46 ( 1/3 di Euro 160.927,40 ); tale somma deve essere posta a carico della società convenuta XXXXX SRL quale incorporante A. SRL nella misura di Euro 46.132,15, pari all'86%, ed a carico della società convenuta A. SRL nella misura di Euro 7510,31, pari al 14% con riferimento alla durata del demansionamento imputabile a tali società.

Sulle somme complessivamente riconosciute e liquidate all'attualità decorrono gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dalla maturazione al soddisfo ai sensi dell'art. 429 c.p.c.

Infine la domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive richieste in ricorso deve essere accolta secondo le risultanze della disposta CTU contabile che ha affermato:

" i titoli su cui calcolare le eventuali differenze (ultimi due capi delle conclusioni del ricorso) sono 1. "…delle ferie e dei permessi accantonati e mai pagati sino al 31.8.2019, nonché il rateo ferie, permessi, 13^ e 14^ maturati nel mese di Settembre 2019,…"; 2. "…omessa valutazione ai fini della quantizzazione del TFR dei due elementi E. e EPE…". Sul punto 1), dopo aver analizzato le buste paga in atti, soprattutto del luglio 2019, agosto 2019, settembre 2019, ottobre 2019 e novembre 2019, il CTU ha verificato che i ratei delle ferie, dei permessi sono stati correttamente accreditate (colonna COMPETENZE) ed anche recuperate (per le ore liquidate in eccesso nella colonna "TRATTENUTE") rispetto a quanto conteggiato e riportato, sempre nelle medesime buste paga alla voce "RATEI", per le ore di permesso e di ferie maturate e godute nei vari periodi fino al mese di agosto 2019.

I ratei di 13ma sono stati accreditati nella busta paga di novembre 2019 e calcolati per i ratei 8/12 (da gennaio ad agosto 2019), mentre i ratei di 14ma sono stati calcolato per 2/12 (da luglio ad agosto 2019). Secondo lo scrivente, il tutto calcolato correttamente con la cessazione del rapporto ad agosto 2019.

Le buste paga di luglio, agosto, settembre, ottobre e novembre 2019 hanno dei netti bassi o addirittura negativi (eccetto ilmese di luglio in cui c'è un accredito di Euro 2.208,00 per rimborsi da 730) perché ilricorrente ha percepito acconti nei mesi di luglio, agosto e settembre 2019 di Euro 1.209,79 per totali Euro 3.629,37 che sono riportati nella colonna TRATTENUTE nelle buste paga relative. L'unica differenza che si può calcolare, qualora il rapporto di lavoro fosse cessato dopo il mese di agosto (si veda lettera di licenziamento, datata 21/11/2019, dove si dice dal 14/10/2019) ma il lavoratore non era presente in azienda da diversi mesi(agosto 2019) come rilevabile dalle buste paga, è il calcolo di questi ratei maturati per il mese di settembre 2019 come richiesto nei conteggi inseriti nel ricorso…..

Sul punto 2), il CTU ha verificato quanto esposto nell'accordo sindacale datato 28/7/1993, in cui i due elementi retributivi di produttività: E. (indice di Presenza ed EPE (indice di efficienza) sono stati considerati elementi omnicomprensivi "…di ogni e qualsiasi elemento retributivo ad esso riconducibile secondo tutti gli istituti di legge e/o di contratto.". Prende atto, inoltre, della sentenza del Tribunale di Roma I grado n. 95327/99 che dispone, invece, come tali elementi debbano essere ricompresi nel calcolo del TFR, definendo la clausola di cui sopra non idonea a derogare la disciplina legale del TFR stesso. Pertanto, il CTU, non potendo dare un proprio giudizio in merito alla questione giurisprudenziale apertasi (peraltro con una sola sentenza) ma al fine di dare al Giudice la quantizzazione del TFR scaturente da questi elementi retributivi, qualora ritenesse corretto inserirli nel calcolo medesimo, ha effettuato il conteggio.

E) - CONCLUSIONI -§-Le eventuali differenze maturate per i titoli ferie, permessi, ratei 13ma e 14ma mensilità richieste nel ricorso sulla base dell'inquadramento al 2 livello del CCNL Turismo Pubblici Esercizi sono esposti nei vari prospetti dell'allegato 1 ed ammontano in totale ad Euro 596,36. =; Le eventuali differenze maturate sul calcolo del TFR richieste nel ricorso con l'inserimento nella base di calcolo dei due elementi retributivi di produttività: E. (indice di Presenza ed EPE (indice di efficienza) sono esposti nel prospetto allegato 3 ed ammontano in totale ad Euro 1.716,82. =;"

Concorda a tal proposito il Giudice con quanto statuito dalla sentenza del Tribunale di Roma del 19.3.2001 prodotta in atti nella quale si è statuito che l'E., ossia l'indice di presenza previsto dall'accordo sindacale del 28/07/93 e 30/07/93 prodotto in atti, e quindi, anche l'indice di efficienza (EPE), contrariamente a quanto è accaduto, debbono essere considerati ai fini del calcolo del T.F.R., la cui disciplina ex art. 2120 c.c. non è stata derogata dagli accordi citati, attesa la loro natura retributiva e non occasionale.

Ne segue la condanna delle società convenute al pagamento in favore del ricorrente della somma complessiva di Euro 2313,18 per i titoli indicati nella CTU espletata, da porre a carico di entrambe le società in solido per i crediti maturati sino all'1/01/19 ed a carico solo di XXXXXSRL per i crediti maturati dall'1/01/19 al 31/08/19, sulla base della durata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione al soddisfo

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 e succ. modif. ( D.M. n. 147 del 1922) applicabile ratione temporis a carico delle società convenute nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza ai sensi dell'art. 91 c.p.c. e debbono essere distratte in favore del procuratore di parte ricorrente dichiaratosi antistatario.

Anche le spese di CTU, separatamente liquidate, seguono la soccombenza.


P.Q.M.


Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni ulteriore istanza, deduzione ed eccezione disattesa:

dichiara l'illegittimità del demansionamento subìto da parte ricorrente a decorrere da aprile 2014 e sino ad agosto 2019 e, per l'effetto, condanna le società convenute al risarcimento del danno biologico pari al 15%, come accertato nella CTU medico-legale espletata, e morale cagionati al ricorrente che liquida nella complessiva somma di Euro 5980,05, di cui Euro 5142,84 a carico di XXXXX SRL quale incorporante A. SRL ed Euro 837,21 a carico di XXXXXSRL, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal novembre 2019 all'effettivo soddisfo;

condanna le società convenute al risarcimento dell'ulteriore danno non patrimoniale cagionato da liquidarsi equitativamente nella somma complessiva di Euro 53.642,46, di cui Euro 46.132,15 a carico di XXXXX SRL quale incorporante A. SRL ed Euro 7510,31 a carico di XXXXXSRL, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione al soddisfo;

condanna le società convenute al pagamento in favore del ricorrente della somma complessiva di Euro 2313,18 per i titoli indicati nella CTU contabile espletata, da porre a carico di entrambe le società in solido per i crediti maturati sino all'1/01/19 ed a carico solo di XXXXXSRL per i crediti maturati dall'1/01/19 al 31/08/19, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione al soddisfo;

condanna le società convenute al pagamento delle spese di lite liquidate in complessivi Euro 13.400,00, di cui Euro 11.000,00 a carico di XXXXX SRL quale incorporante A. SRL ed Euro 2400,00 a carico di XXXXXSRL, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, da distrarsi, ed oltre spese di CTU separatamente liquidate. Fissa il termine di giorni sessanta per il deposito della motivazione.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2023.

Depositata in Cancelleria il 5 ottobre 2023.


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