Cons. Stato Sez. III, Sent., 26-03-2013, n. 1690
Fatto - Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 152 del 2011, proposto da:
-
contro
Ministero dell'Interno, Questura di (Lpd), rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, anche domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA - BOLOGNA, SEZIONE II, n. 07968/2010, resa tra le parti, concernente destituzione dal servizio.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 gennaio 2013 il Cons. Pierfrancesco Ungari e uditi per le parti l'avvocato Tartaglia e l'avvocato dello Stato Saulino;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. L'appellante, all'epoca assistente capo della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di (Lpd), in esito a procedimento disciplinare, con decreto del Capo della Polizia in data 27 aprile 2007 è stato destituito dal servizio, ai sensi dell'art. 7, nn. 1, 2 e 4, del D.P.R. n. 737 del 1981.
Il provvedimento è basato sulla sottoposizione dell'appellante ad un'indagine penale da parte della Procura della Repubblica di (Lpd), ed in particolare sulle dichiarazioni rese dallo stesso nel corso di un interrogatorio davanti al PM ed alla presenza del proprio legale di fiducia.
2. Il TAR Emilia Romagna, con la sentenza appellata (Bologna, II, n. 7968/2010) ha respinto il ricorso, ritenendo infondate tutte le censure dedotte avverso il provvedimento.
3. Nell'appello, vengono riproposte, integrate da considerazioni critiche sulle argomentazioni svolte dal TAR, le censure appresso indicate.
3.1. Il procedimento disciplinare trova il presupposto fattuale nella violazione, da parte della Questura di (Lpd), degli artt. 114 e 329 c.p.p. che, disciplinando il "segreto istruttorio", rendono gli atti compiuti dal PM in sede di indagini non conoscibili e non divulgabili (se non al PM stesso, al GIP e al difensore dell'indagato) fino alla chiusura delle stesse.
3.2. In violazione dell'art. 12 del D.P.R. n. 737 del 1981, i superiori dell'appellante, dott. P (dirigente della Squadra Mobile), Ispettore M. e Vice Sovrintendente U., che assistevano all'interrogatorio, non hanno contestato all'appellante la mancanza e di essa non hanno fatto tempestivamente rapporto all'organo competente ad irrogare la sanzione disciplinare;
3.3. In pendenza del procedimento penale, il procedimento disciplinare avrebbe dovuto essere sospeso ai sensi dell'art. 11 del D.P.R. n. 737 del 1981 e riattivato solo dopo la sentenza penale.
3.4. In violazione del suddetto art. 12, la funzionaria istruttrice del procedimento disciplinare, dott.ssa M., nella contestazione di addebiti, anziché limitarsi ad indicare i fatti e la trasgressione di cui l'appellante era chiamato a rispondere (come previsto dall'art. 14 del citato D.P.R.), ha ricondotto alla fattispecie di cui all'art. 7, nn. 1, 2 e 4, così esprimendo un parere in ordine alla sanzione da applicare ancor prima dell'inizio delle indagini e degli accertamenti.
3.5. In violazione dell'art. 19 del citato D.P.R., nonché degli artt. 24 e 97 Cost., la dott.ssa M. ha prima acquisito copia del verbale dell'interrogatorio davanti al PM e dopo ha contestato gli addebiti, così comprimendo il diritto di difesa dell'appellante in ordine all'acquisizione del verbale.
3.6. Il Consiglio di disciplina, in violazione degli artt. 20 e 13 del citato D.P.R., ha proceduto nell'udienza del 22 marzo 2007 nonostante l'appellante fosse assente ed avesse comunicato la sua impossibilità di intervenire a causa di una patologia ansioso-depressiva presente da alcuni anni ed in fase di riacutizzazione, e nonostante il suo difensore avesse chiaramente informato il collegio di non poter svolgere la sua attività per esplicito diniego dell'inquisito.
3.7. In violazione degli artt. 13 e 21, comma 3, del citato D.P.R., ed incorrendo altresì in eccesso di potere, il provvedimento sanzionatorio non segue un'autonoma ricognizione dei fatti e non tiene conto delle giustificazioni addotte dall'inquisito, infliggendo la massima sanzione senza una adeguata motivazione e senza considerare gli ottimi precedenti di carriera dell'appellante.
4. Per l'Amministrazione si è costituita in giudizio l'Avvocatura Generale dello Stato, ed ha controdedotto puntualmente.
5. Le considerazioni svolte nella sentenza di primo grado meritano di essere condivise.
5.1. Può convenirsi con il TAR sull'insussistenza della violazione del segreto istruttorio, in quanto ai sensi dell'art. 329 c.p.p. gli atti di indagine compiuti dal PM sono coperti da segreto fino a quando l'imputato non possa averne conoscenza, mentre nella vicenda in questione, trattandosi del verbale del suo interrogatorio, la conoscenza è in re ipsa.
La difesa dell'Amministrazione evidenzia poi che l'acquisizione del verbale è avvenuta previo nulla osta del magistrato penale.
In ogni caso, un eventuale violazione degli artt. 114 e 329 c.p.p., avrebbe effetti nell'ambito del processo penale e nei confronti dei responsabili, ma non priverebbe di rilevanza il fatto storico evidenziato dall'interrogatorio e posto alla base del procedimento disciplinare, cioè l'ammissione della responsabilità dell'appellante nella commissione dei reati contestatigli dal PM. Ammissione che, giova sottolinearlo, non risulta l'appellante abbia mai ritrattato, né altrimenti messo in discussione (nemmeno nel ricorso), neanche per quanto concerne il significato attribuito dall'Amministrazione alla condotta.
5.2. Anche qualora rispondesse a verità che i superiori dell'appellante presenti all'interrogatorio non gli abbiano fatto constatare la rilevanza disciplinare dei fatti, si può ritenere che, dato il tenore delle accuse che gli erano state mosse in sede penale e il contenuto delle sue stesse ammissioni, qualsiasi precisazione sulla rilevanza disciplinare dei comportamenti dell'appellante risultasse, anche nella prospettiva di garantire all'interessato il più ampio diritto di difesa, superflua; se non anche inopportuna, nell'interesse dello stesso indagato, trattandosi di interrogatorio davanti al PM, e potendo comunque trovare applicazione l'art. 12 del D.P.R. n. 737 del 1981 - come affermato dal TAR - anche nella parte in cui prevede che il superiore gerarchico debba astenersi, di massima, dal richiamare il responsabile dell'infrazione in presenza di altre persone.
Tanto più che è solo con l'atto di contestazione che il dipendente viene messo a conoscenza che il comportamento da lui tenuto è oggetto di valutazione disciplinare.
In ogni caso, l'eventuale inadempimento del dovere di far constatare la mancanza e fare rapporto, previsto dall'art. 12 a carico dei superiori, non può impedire e non inficia la formale apertura del procedimento disciplinare.
5.3. L'illecito disciplinare contestato si basa sul fatto storico irreversibile della avvenuta confessione, ed è indifferente alla effettiva sussistenza di una responsabilità penale per i medesimi fatti.
La ratio dell'art. 11 del D.P.R. n. 737 del 1981 è quella di evitare antinomie tra la sentenza penale e la decisione disciplinare, ma in ordine alla sospensione obbligatoria del procedimento disciplinare la giurisprudenza ha chiarito da tempo che, ai sensi del predetto art. 11 e dell'art. 117 del D.Lgs. n. 3 del 1957, il dovere dell'Amministrazione di non dare inizio al procedimento disciplinare o di sospendere il procedimento già avviato sorge soltanto nel momento in cui viene esercitata l'azione penale, vale a dire con la richiesta di rinvio a giudizio o gli altri atti tipizzati dal c.p.p. (cfr. Cons. Stato, A.P., 29 gennaio 2009, n. 1).
Pertanto, nel caso in esame non vi era alcun obbligo di sospensione ed il procedimento poteva essere avviato e proseguire, secondo il generale principio di reciproca autonomia tra il reato e l'illecito disciplinare, e coerentemente all'esigenza che rispetto a determinate condotte venga posto in essere un tempestivo intervento (non solo cautelare) in sede disciplinare.
5.4. Quanto alla censura con cui, in sostanza, si lamenta che da parte del funzionario istruttore, mediante il riferimento all'art. 7, nn. 1, 2 e 4, sarebbe stato formulato anticipatamente un giudizio sull'esito del procedimento disciplinare, l'appellante sembra confondere il rapporto ex art. 12 del D.P.R. n. 737 del 1981 - che, in ossequio alla regola della neutralità nell'esposizione dei fatti, non deve contenere alcuna proposta relativa alla specie e all'entità della sanzione - con la contestazione di addebiti, che è disciplinata dall'art. 14, e che, viceversa, non può prescindere dal riferire ipoteticamente i fatti ad una fattispecie sanzionatoria, per assicurare un effettivo contraddittorio.
Il funzionario istruttore, del resto, se non ha competenza in ordine al giudizio di responsabilità disciplinare (che spetta, evidentemente, all'organo decidente), ha comunque lo specifico compito di inquadrare i fatti contestati nella previsione legale e può formulare in proposito osservazioni in sede di relazione conclusiva, senza che ne risulti vulnerata la posizione dell'interessato, viceversa posto così in condizione di elaborare tempestivamente ogni opportuna difesa.
5.5. Sembra di capire che, a dire dell'appellante, l'acquisizione del verbale dell'interrogatorio, secondo l'art. 19, dovesse essere disposta solo dopo la contestazione degli addebiti in sede disciplinare.
Ma l'appellante trascura di considerare che il verbale non è un atto del procedimento disciplinare, acquisito in violazione delle garanzie del contraddittorio, bensì un atto formato in altro procedimento, il cui contenuto è imputabile all'appellante e che costituisce occasione di avvio del procedimento disciplinare. Per ciò che concerne la ipotizzata illegittimità, in sé, dell'acquisizione, valgono le considerazioni sopra esposte circa i limiti del segreto istruttorio e della sua rilevanza in sede disciplinare.
Riguardo, poi, alla omessa audizione dell'appellante, l'art. 20 non impedisce di procedere in presenza di qualsiasi comunicazione di impedimento, ma lascia al Consiglio di disciplina la potestà di verificare l'effettività dell'impedimento e l'attendibilità ed adeguatezza della relativa documentazione probatoria. Diversamente, appare evidente che la prosecuzione, e la conclusione in tempo utile del procedimento sarebbe rimessa al mero arbitrio dell'inquisito.
Ora, la difesa dell'Amministrazione ha posto in luce la circostanza che l'organo collegiale (come si evince dal verbale della seduta del 22 marzo 2007) avesse valutato come la patologia segnalata - in quanto legata ad una situazione pregressa, attestata da certificazione medica che prescriveva un lungo periodo di riposo non meglio precisato, ma non indicava alcuna incapacità sia psichica che motoria - non impedisse all'appellante la partecipazione all'udienza. Questo Collegio ritiene di aggiungere che lo stesso "divieto", manifestato dall'interessato all'avvocato, di sostenerne la difesa dinanzi al Consiglio di disciplina, denota, in mancanza di alcuna motivazione o precisazione, una volontà dilatoria.
5.6. Quanto alla motivazione della sanzione inflitta, essa risulta pienamente comprensibile per relationem alla deliberazione del Consiglio di disciplina ed al verbale dell'interrogatorio in data 18 gennaio 2007.
Dal verbale si evince che l'appellante, alla presenza del proprio difensore di fiducia (oltre che dei superiori sopra menzionati), ha rilasciato al magistrato inquirente dettagliate dichiarazioni sull'aver dato ospitalità e fornito consigli sulla scelta degli obiettivi agli esecutori materiali di una rapina aggravata in concorso, e di essere l'esecutore materiale di un furto aggravato.
Stante l'ammissione del ruolo attivo avuto nella commissione dei predetti gravi reati, nella città di (Lpd) dove svolgeva le sue funzioni di tutore dell'ordine, non sembra che il provvedimento possa ritenersi il frutto di una ricostruzione dei fatti incompleta o travisata, o di una valutazione illogica o preconcetta, se, ricalcando valutazioni esternate nella proposta del Consiglio di disciplina di cui al verbale in data 23 marzo 2007, ha ricondotto i comportamenti dell'appellante alla fattispecie dell'art. 7, nn. 1, 2 e 4, del D.P.R. n. 737 del 1981, ponendo in evidenza, in particolare, che:
- i fatti denotano "la più assoluta mancanza del senso dell'onore e della morale, in quanto nella sua qualità di tutore dell'ordine avrebbe dovuto considerare il disvalore della sua azione ed astenersi dalla commistione del fatto" e "il grave pregiudizio arrecato all'Amministrazione" (legato anche alla risonanza mediatica dell'accaduto);
- il comportamento tenuto dall'appellante "è oltremodo riprovevole e assolutamente inconciliabile con le funzioni proprie di un operatore di polizia, pregiudizievole per il servizio e tale da rendere incompatibile una sua ulteriore permanenza nella Polizia di Stato", non potendo i precedenti di servizio e le giustificazioni addotte sminuire la gravità dei fatti commessi.
Considerata la natura del fatto (ammesso, si ribadisce, dall'interessato) nessuno potrà sostenere che i suddetti apprezzamenti siano eccessivi o insufficienti a dar conto della saznione applicata.
6. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
7. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l'appellante al pagamento in favore dell'Amministrazione della somma di Euro 2.000,00 (duemila/00) per spese ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Hadrian Simonetti, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Pierfrancesco Ungari, Consigliere, Estensore
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