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mercoledì 26 giugno 2019
N. 149 SENTENZA 8 maggio - 19 giugno 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Cittadinanza - Riconoscimento della cittadinanza italiana ai discendenti di persone nate e residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920 ed emigrate all'estero prima di tale data - Svolgimento di attivita' lavorativa da parte del titolare di permesso di soggiorno per attesa cittadinanza. - Legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e gia' residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai loro discendenti), art. 1; decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), art. 6. - (GU n.26 del 26-6-2019 )
N. 149 SENTENZA 8 maggio - 19 giugno 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Cittadinanza - Riconoscimento della cittadinanza italiana ai
discendenti di persone nate e residenti nei territori appartenuti
all'Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920 ed emigrate
all'estero prima di tale data - Svolgimento di attivita' lavorativa
da parte del titolare di permesso di soggiorno per attesa
cittadinanza.
- Legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento
della cittadinanza italiana alle persone nate e gia' residenti nei
territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai loro
discendenti), art. 1; decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286
(Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), art.
6.
-
(GU n.26 del 26-6-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della
legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento
della cittadinanza italiana alle persone nate e gia' residenti nei
territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai loro
discendenti) e dell'art. 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso
dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto
Adige, sede di Trento, nel procedimento vertente tra V. P. e il
Ministero dell'interno e altro, con ordinanza del 9 ottobre 2018,
iscritta al n. 189 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale,
dell'anno 2019.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio dell'8 maggio 2019 il Giudice
relatore Nicolo' Zanon.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del
Trentino-Alto Adige, sede di Trento, con ordinanza del 9 ottobre
2018, ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art.
1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il
riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e gia'
residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai
loro discendenti) e dell'art. 6 del decreto legislativo 25 luglio
1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), «nella parte in cui non prevedono l'utilizzazione dello
speciale permesso per attesa di cittadinanza ai fini dello
svolgimento di attivita' lavorativa», in relazione all'art. 3 della
Costituzione, sia sotto il profilo della lesione del principio di
pari trattamento, sia sotto il profilo della ragionevolezza.
Da' atto il giudice a quo che il ricorrente nel giudizio, V. P.,
e' il discendente di una persona nata in provincia di Trento nel 1852
ed emigrata in Brasile prima del 1920; espone che costui e' entrato
in Italia il 6 giugno 2005 «usufruendo del permesso di soggiorno per
attesa di cittadinanza previsto dall'art. 11 del d.p.r. 3 novembre
1999, n. 394, rilasciato il 14 giugno 2005 e avviato ai sensi della
legge 14 dicembre 2000, n. 379».
Enuncia inoltre che, ottenuta la residenza, V. P. ha esercitato
diverse attivita' lavorative fino al 15 novembre del 2008. In data 11
gennaio 2008, la Provincia autonoma di Trento emanava pero' una nota,
secondo cui «sulla base della legislazione attuale i cittadini di
origine italiana titolari di permesso di soggiorno per attesa
cittadinanza non sono abilitati a svolgere attivita' lavorativa».
Tale comunicazione trovava il suo fondamento in una precedente nota
del 12 settembre 2007 che il Ministero dell'interno aveva inviato
alla Questura di Trento in risposta ad un quesito ad esso rivolto.
In ragione di tali atti, spiega il rimettente, V. P. non poteva
piu' esercitare attivita' lavorativa e veniva contestualmente meno,
in ragione della nota ministeriale piu' sopra ricordata, l'efficacia
di un precedente protocollo d'intesa, stipulato il 12 giugno 2007 tra
la Provincia autonoma di Trento e la Questura di Trento, in ragione
del quale si era invece consentito ai soggetti di cui alla legge n.
379 del 2000, che avessero ottenuto un permesso di soggiorno per
attesa cittadinanza, di svolgere attivita' lavorativa.
Ottenuta la cittadinanza italiana nel 2012, V. P., che nel
frattempo aveva percepito soltanto il sostegno economico dell'Agenzia
provinciale per l'assistenza e la previdenza integrativa, aveva
potuto riprendere a lavorare. Per ottenere il risarcimento del danno
medio tempore patito a causa del divieto di lavoro, lo stesso, con
atto di citazione del 18 luglio del 2014, adiva il Tribunale
ordinario di Trento che, con sentenza 5 maggio 2017, n. 444,
declinava la giurisdizione a favore del giudice amministrativo.
Evidenzia, infine, il giudice rimettente che V. P. adiva
successivamente il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di
Trento, sia per ottenere l'annullamento della citata nota del
Ministero dell'interno del 12 settembre 2007, richiamata nella
comunicazione n. 996 dell'11 gennaio 2008 della Provincia autonoma di
Trento, sia per ottenere la condanna della Questura di Trento e del
Ministero dell'interno al risarcimento del danno asseritamente
patito, quantificato in euro 40.000.
2.- In via preliminare, il giudice a quo da' atto
dell'ammissibilita' della domanda risarcitoria ad esso proposta, in
ragione di quanto previsto dall'art. 30 del decreto legislativo 2
luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell'articolo 44 della legge
18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del
processo amministrativo» (da ora in poi: cod. proc. amm.).
Sempre preliminarmente, afferma il giudice a quo che l'azione del
ricorrente sarebbe stata tempestivamente promossa: non troverebbe
infatti in questo caso applicazione il termine di decadenza di 120
giorni previsto dal citato art. 30, comma 3, cod. proc. amm., poiche'
siffatto termine non e' applicabile, secondo consolidata
giurisprudenza amministrativa, alle cause relative a vicende
antecedenti l'entrata in vigore dello stesso codice.
Di conseguenza, e in mancanza di comportamenti negligenti
dell'interessato, troverebbe applicazione in questa vicenda
l'ordinario termine di prescrizione quinquennale previsto per
l'azione risarcitoria: poiche' il periodo in cui il ricorrente
asserisce di aver subito il danno inizia il 12 gennaio 2008 e termina
nel 2012 e poiche' in ragione della intervenuta translatio iudicii il
termine di prescrizione dovrebbe considerarsi interrotto il 18 luglio
2014, data della notificazione dell'atto di citazione introduttivo
del giudizio civile, ne consegue che «[p]er il periodo fino al 18
luglio 2009 [...] il diritto al risarcimento incorre nella
prescrizione quinquennale (eccepita in via subordinata
dall'Avvocatura resistente), mentre rimane vivo per il periodo
successivo».
3.- Nel merito, il rimettente espone che la Questura di Trento
aveva formulato al Ministero dell'interno un quesito al fine di
sapere se il possesso del permesso di soggiorno per l'acquisto della
cittadinanza italiana iure sanguinis consentisse lo svolgimento di
attivita' lavorativa. Il Ministero aveva risposto osservando che
l'art. 14 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante
norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286), «nel disciplinare le ipotesi di conversione
del permesso di soggiorno da altra tipologia a quella per lavoro, non
contempla quello per attesa cittadinanza. Pertanto, per poter
autorizzare i cittadini di origine italiana in possesso di tale
tipologia di permesso di soggiorno a svolgere attivita' lavorativa
sara' necessario attendere una modifica normativa in tal senso».
Secondo il giudice a quo, tale affermazione corrisponderebbe al
quadro normativo vigente: lo svolgimento di attivita' lavorative
sarebbe consentito soltanto se i permessi di soggiorno sono stati
«espressamente rilasciati a tale scopo, ovvero se cosi' prevede la
legge», come dimostrerebbero le previsioni di cui all'art. 6 del
d.lgs. n. 286 del 1998 e di cui all'art. 14 del d.P.R. n. 394 del
1999.
Osserva il rimettente come, pero', «[n]essuna delle specifiche
disposizioni dedicate all'ambito delle attivita' consentite dai vari
tipi di permesso di soggiorno, ovvero convertibili in una diversa
fattispecie che consenta attivita' lavorativa, si occupa del permesso
per attesa cittadinanza italiana iure sanguinis di cui alla legge n.
379 del 2000».
Poiche' nella determinazione dello status dei cittadini
extracomunitari - secondo quanto affermato nella sentenza del
Consiglio di Stato, sezione terza, 12 ottobre 2017, n. 4738 - non
potrebbe farsi ricorso allo strumento dell'analogia, risolvendosi
cio' in una innovazione del sistema non consentita al giudice (viene
citata la sentenza di questa Corte n. 277 del 2014), in definitiva
non si rinverrebbe nell'ordinamento «alcuna norma che consenta lo
svolgimento di attivita' lavorativa ai soggetti in attesa di
cittadinanza iure sanguinis».
4.- Cio' premesso, il rimettente evidenzia la diversa condizione
in cui versa la generalita' dei soggetti che attende il rilascio
della cittadinanza, da una parte, rispetto ai destinatari della legge
n. 379 del 2000, dall'altra.
Per i primi, il possesso di un permesso di soggiorno costituisce,
ai sensi dell'art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 394 del
1999, «presupposto imprescindibile per ottenere quello per attesa di
cittadinanza». Non si porrebbe dunque alcun problema di
convertibilita' del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza,
poiche' al piu' occorrerebbe verificare se il permesso di soggiorno
presupposto possa direttamente consentire l'attivita' lavorativa,
oppure sia convertibile in un permesso che tale attivita' consente.
Per i secondi, invece, la disciplina speciale di cui all'art. 1,
comma 2, della legge n. 379 del 2000, «riconosce la cittadinanza
italiana, senza subordinare tale riconoscimento al possesso di un
diverso titolo di soggiorno»: di conseguenza, lo specifico permesso
per attesa di cittadinanza «non essendo collegato ad alcun altro,
diverso, titolo, e non prevedendo l'autorizzazione all'attivita'
lavorativa, ne preclude [...] lo svolgimento».
Tale diversita' di trattamento sarebbe, a dire del giudice
rimettente, contraria al principio di eguaglianza di cui all'art. 3
Cost., in ragione del «diverso, immotivato trattamento riservato dal
legislatore a due situazioni analoghe, ambedue tutelate attraverso il
permesso in attesa del rilascio della cittadinanza, ma con un ambito
di facolta' e diritti del tutto divergenti, in assenza di ragioni
giustificativ[e]».
Precisa il rimettente come l'intervento richiesto alla Corte
costituzionale non avrebbe natura «creativa»: la «pronuncia additiva
da parte della Corte costituzionale, dovrebbe ritenersi consentita
dal momento che la soluzione e' logicamente necessitata ed implicita
nello stesso contesto normativo».
Il giudice rimettente censura le due disposizioni anche con
specifico riferimento al principio di ragionevolezza: la disciplina
sarebbe irragionevole poiche' «alla situazione che il legislatore ha
ritenuto evidentemente meritevole di speciale considerazione, quale
quella dei discendenti degli ex appartenenti all'Impero
austro-ungarico emigrati all'estero, ai quali la cittadinanza e'
concessa su semplice dichiarazione, rispetto ai casi generali, nei
quali e' richiesto il possesso di un diverso permesso di soggiorno,
e' collegato un effetto deteriore, che consegna il richiedente
all'impossibilita' di lavorare».
5.- Con atto depositato il 29 gennaio 2019, e' intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni siano dichiarate inammissibili ed infondate.
L'inammissibilita' delle questioni deriverebbe, innanzitutto,
dalla «non inerenza delle disposizioni denunciate» rispetto alle
questioni di legittimita' costituzionale sollevate. L'art. 1 della
legge n. 379 del 2000 si limiterebbe, infatti, a prevedere uno
«specifico caso di riconoscimento della cittadinanza italiana», che
neppure richiederebbe la presenza dello straniero sul territorio
nazionale nelle more del procedimento di concessione della
cittadinanza, come dimostrerebbe il fatto che lo stesso art. 1, comma
2, della legge n. 379 del 2000 rinvia all'art. 23 della legge 5
febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), disposizione
che espressamente contempla la possibilita' per i residenti
all'estero di rendere la dichiarazione per l'acquisto della
cittadinanza davanti all'autorita' diplomatica o consolare del luogo
di residenza.
Soprattutto, l'art. 1 della legge n. 379 del 2000 non disporrebbe
nulla «in merito alla tipologia di permesso atto a legittimare» il
soggiorno dello straniero, ne' «in ordine alle attivita' al medesimo
consentite o interdette».
Anche l'art. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998 sarebbe eccentrico
rispetto al thema decidendum: esso infatti disciplinerebbe alcune
facolta' inerenti il permesso di soggiorno rilasciato per motivi di
lavoro subordinato, lavoro autonomo e familiare, nonche' relative al
permesso di soggiorno rilasciato per motivi di studio e formazione,
ma non riguarderebbe in alcun modo il permesso per «attesa
cittadinanza».
Espone l'Avvocatura che l'art. 14 del d.P.R. n. 394 del 1999
descrive i casi in cui le differenti tipologie di permesso di
soggiorno possono essere convertite in un altro tipo di permesso di
soggiorno e indica quali attivita' lavorative sono consentite per
ciascuna di queste tipologie. Esso pero' nulla prevede rispetto ai
permessi di soggiorno rilasciati per l'acquisto della cittadinanza:
circostanza, questa, che impedisce pertanto ai titolari dei permessi
da ultimo citati di svolgere attivita' lavorative o di convertirli in
tipologie di permessi che consentono di lavorare. D'altra parte, la
possibilita' di convertire i permessi di soggiorno sarebbe da
considerarsi di carattere eccezionale e non sarebbe pertanto
possibile ampliare il novero dei casi gia' indicati dal legislatore
(viene citata anche dall'Avvocatura la sentenza del Consiglio di
Stato, sezione terza, 12 ottobre 2017, n. 4738), al fine «di evitare,
anche attraverso la conversione, l'elusione del complesso di regole
che presiedono al controllo dei flussi migratori».
I sospetti di illegittimita' costituzionale andrebbero quindi al
piu' rivolti nei confronti dell'art. 14 del d.P.R. n. 394 del 1999 -
che non contempla il permesso per l'acquisto della cittadinanza tra i
permessi che consentono lo svolgimento di attivita' lavorativa - e
non nei confronti dell'art. 1 della legge n. 379 del 2000 e dell'art.
6 del d.lgs. n. 286 del 1998, che invece sarebbero «palesemente
inconferenti».
La questione sarebbe altresi' inammissibile per l'incompleta
ricostruzione del quadro normativo di riferimento, circostanza questa
che si risolverebbe «altresi' in infondatezza [...] per erroneita'
dei presupposti interpretativi». In particolare, il rimettente
avrebbe omesso di considerare quanto dispone l'art. 11, comma 1,
lettera c), del d.P.R. n. 394 del 1999 che, stabilendo che il
permesso di soggiorno e' rilasciato, tra le altre cose, per
l'acquisto della cittadinanza, pur non dicendo nulla in merito alle
attivita' consentite ai titolari delle varie tipologie di permesso di
soggiorno, subordinerebbe «il rilascio del permesso alla circostanza
che lo straniero richiedente la concessione o il riconoscimento della
cittadinanza italiana ovvero dello stato di apolide sia "gia' in
possesso del permesso di soggiorno per altri motivi"».
Dunque, la presentazione della domanda di concessione della
cittadinanza italiana da parte di un soggetto gia' presente sul
territorio nazionale presupporrebbe «necessariamente il (pregresso)
possesso da parte del richiedente, di un titolo che ne giustifichi la
presenza e il soggiorno sul territorio nazionale». D'altra parte, il
permesso di soggiorno per acquisto della cittadinanza sarebbe
necessariamente temporaneo e la sua efficacia verrebbe meno al
termine del procedimento di concessione o riconoscimento della
cittadinanza, con la conseguenza che, in caso di mancata concessione
della cittadinanza stessa, «il soggiorno sul territorio nazionale
dello straniero riprende - o meglio, continua - ad essere legittimato
dal titolo permissivo in precedenza posseduto».
Secondo l'Avvocatura generale le questioni sarebbero, infine,
inammissibili perche' volte ad attribuire ai soli titolari del
permesso di soggiorno per l'acquisto della cittadinanza secondo le
modalita' di cui alla legge n. 379 del 2000 la possibilita' di
svolgere attivita' lavorative, possibilita' invece preclusa e
«sconosciuta al permesso di soggiorno per "attesa cittadinanza" in
quanto tale». Cio' determinerebbe l'adozione di una pronuncia
additiva non costituzionalmente obbligata in un ambito, quale quello
della regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero
nel territorio nazionale, sul quale la discrezionalita' del
legislatore e' ampia (si citano le sentenze n. 277 del 2014, n. 202
del 2013, n. 172 del 2012, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62
del 1994).
6.- Nel merito, le questioni non sarebbero comunque fondate,
perche' il permesso di soggiorno rilasciato a coloro che presentano
la domanda ai sensi della legge n. 379 del 2000 non sarebbe affatto
diverso da quello previsto in generale dall'art. 11, comma 1, lettera
c), del d.P.R. n. 394 del 1999. Si tratterebbe di un ordinario
permesso di soggiorno che presuppone pertanto il previo possesso, da
parte del richiedente, di un titolo di soggiorno.
In particolare, secondo l'Avvocatura, rileverebbe la legge 28
maggio 2007, n. 68 (Disciplina dei soggiorni di breve durata degli
stranieri per visite, affari, turismo e studio), che, per i soggiorni
non superiori a tre mesi, non richiede un permesso di soggiorno ma
una «dichiarazione di presenza» da rendere all'autorita' di frontiera
o al questore della Provincia in cui lo straniero si trova. La
ricevuta di tale dichiarazione - secondo quanto previsto dalla
circolare del Ministero dell'interno 13 giugno 2007, n. 32 - e'
titolo utile anche «ai fini dell'iscrizione anagrafica di coloro che
intendono avviare in Italia la procedura per il riconoscimento della
cittadinanza "jure sanguinis"».
Non sussisterebbe pertanto quella disparita' di trattamento
evocata dal giudice rimettente: sia coloro che hanno chiesto il
riconoscimento della cittadinanza italiana ai sensi della legge n.
379 del 2000, sia coloro che la richiedono ai sensi di altre
disposizioni di legge, possono ottenere il permesso in attesa di
cittadinanza soltanto se siano gia' in possesso di un titolo che li
abiliti a permanere nel territorio nazionale.
Espone l'Avvocatura che neppure ci sarebbe discriminazione
rispetto alla possibilita' di svolgere prestazioni lavorative. In
nessun caso infatti il permesso per attesa di cittadinanza consente,
di per se', lo svolgimento di attivita' lavorativa: il titolare di
tale permesso «in tanto puo' svolgere attivita' lavorativa in quanto
lo consenta, in via diretta o per effetto di conversione, il diverso
ed ulteriore permesso di soggiorno, in precedenza rilasciatogli "per
altri motivi", di cui lo stesso e' gia' in possesso».
Circostanza, questa, che induce l'Avvocatura a evidenziare come
l'eventuale problema di legittimita' costituzionale dovrebbe
riguardare le facolta' connesse al permesso di soggiorno che
costituisce il presupposto per l'ottenimento del permesso di
soggiorno per attesa cittadinanza e, piu' in generale, la previsione
di permessi di soggiorno che non consentono in alcun modo di svolgere
attivita' lavorativa. Si tratterebbe pero' di questione di
legittimita' costituzionale diversa da quella sollevata, comunque
destinata ad una pronuncia di infondatezza in ragione dell'ampia
discrezionalita' di cui gode il legislatore sulla determinazione e
sulla regolamentazione delle facolta' inerenti i permessi di
soggiorno.
Ancora, sottolinea l'Avvocatura come anche coloro che richiedono
la cittadinanza sulla base di previsioni diverse dalla legge n. 379
del 2000 potrebbero trovarsi in possesso di un permesso di soggiorno
che non consente loro lo svolgimento di attivita' lavorativa.
Circostanza, questa, che smentirebbe la violazione del principio di
eguaglianza, poiche' la possibilita' o meno di lavorare dipenderebbe
esclusivamente dal titolo di soggiorno collegato al "permesso di
soggiorno per attesa cittadinanza" e non dal «titolo legale posto a
base della domanda di concessione o di riconoscimento dello status
civitatis».
Le precedenti osservazioni determinerebbero anche l'infondatezza
della censura di irragionevolezza della disciplina: la situazione dei
richiedenti la cittadinanza e' ritenuta in generale meritevole di
particolare considerazione, tanto che il relativo permesso di
soggiorno e' "aggiuntivo" rispetto al permesso di soggiorno gia'
posseduto. Tuttavia, tale condizione non implicherebbe
necessariamente la possibilita' di lavorare, soprattutto quando, come
nel caso di cui alla legge n. 379 del 2000, non e' obbligatoria la
presenza del richiedente sul territorio nazionale nelle more del
procedimento.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del
Trentino-Alto Adige, sede di Trento, solleva, in relazione all'art. 3
della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il
riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e gia'
residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai
loro discendenti) e dell'art. 6 del decreto legislativo 25 luglio
1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero).
Le due disposizioni citate sono censurate nella parte in cui non
prevedono che il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza -
rilasciato ai discendenti di persone nate e residenti nei territori
appartenuti all'Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, e
prima di tale data emigrate all'estero - consenta lo svolgimento di
attivita' di lavoro.
In primo luogo, l'impossibilita' di utilizzare tale permesso ai
fini dello svolgimento di attivita' lavorativa determinerebbe un
trattamento diseguale di tali soggetti, in violazione dell'art. 3
Cost., rispetto a coloro che, ugualmente in attesa della cittadinanza
italiana, siano in possesso di un permesso di soggiorno che, per sua
natura o perche' convertibile in un permesso di soggiorno per ragioni
di lavoro, consentirebbe loro l'esercizio di attivita' lavorativa.
Sotto un secondo profilo, la violazione dell'art. 3 Cost.
emergerebbe dal fatto che le disposizioni censurate comporterebbero,
a carico dei soggetti in questione, pur ritenuti meritevoli di
speciale considerazione dalla legge n. 379 del 2000, un trattamento
irragionevolmente deteriore rispetto alla generalita' di coloro che
hanno richiesto la cittadinanza. Infatti, a differenza di tutti gli
altri stranieri che hanno presentato richiesta di acquistare lo
status civitatis, i destinatari della legge n. 379 del 2000, pur
titolari di un permesso di soggiorno, e nonostante il favor ad essi
riservato da tale legge, risulterebbero consegnati all'impossibilita'
di lavorare.
2.- Le descritte questioni di legittimita' costituzionale
riguardano una peculiare disciplina legislativa, riferita a soggetti
che - dopo essere nati e aver risieduto in territori appartenuti
all'Impero austro-ungarico - sono da quei territori emigrati prima
del 16 luglio 1920, data coincidente con l'entrata in vigore del
Trattato di Saint Germain en Laye (d'ora in avanti: Trattato di Saint
Germain), stipulato tra le potenze alleate e l'Austria alla fine del
primo conflitto mondiale, in virtu' del quale, a causa della
dissoluzione dell'Impero austro-ungarico, alcuni territori gia'
appartenenti a quest'ultimo furono trasferiti al Regno d'Italia.
Ai soggetti che da tali territori erano emigrati prima del 16
luglio 1920 - e oggi, in definitiva, ai loro discendenti - la legge
n. 379 del 2000 concede la possibilita' di ottenere la cittadinanza
italiana, qualora, entro il termine di cinque anni dall'entrata in
vigore della legge stessa (termine successivamente prorogato di
ulteriori cinque anni dall'art. 28-bis del decreto-legge 30 dicembre
2005, n. 273, recante «Definizione e proroga di termini, nonche'
conseguenti disposizioni urgenti», convertito, con modificazioni,
dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51) abbiano reso dichiarazione di
acquisto della cittadinanza stessa, con le modalita' previste
dall'art. 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla
cittadinanza).
2.1.- La legge n. 379 del 2000 trae la propria giustificazione
dagli eventi che si svolgono dalla meta' del diciannovesimo secolo al
termine della prima guerra mondiale. In quel non breve torno di
tempo, accanto all'ampio fenomeno migratorio di cittadini italiani
verso gli Stati Uniti d'America e diverse nazioni del Sudamerica, un
significativo esodo interesso' anche quanti, cittadini non gia'
italiani ma dell'allora Impero austro-ungarico, abbandonarono il
Trentino e i territori che componevano il cosiddetto "Litorale
austriaco", corrispondenti alle attuali province di Gorizia e Trieste
e alla penisola istriana.
Al termine della prima guerra mondiale, con il Trattato di Saint
Germain, nell'ambito della ripartizione tra le nazioni vincitrici del
conflitto dei territori appartenuti all'ormai disciolto Impero
austro-ungarico, al Regno d'Italia vennero ceduti quelli
corrispondenti al Trentino Alto-Adige, alla Venezia Giulia e
all'Istria.
Lo stesso Trattato di Saint Germain disciplino' quello che, nella
dottrina del tempo, venne definito un modo eccezionale di acquisto
della cittadinanza. Secondo l'art. 70 del Trattato, chiunque avesse
la «pertinenza» (peculiare istituto del diritto amministrativo
austriaco, fonte di legami tra un individuo e un determinato Comune e
distinto da cittadinanza, domicilio e residenza) in un territorio
facente parte dell'antica monarchia austro-ungarica, avrebbe
acquisito «di pieno diritto, ad esclusione della cittadinanza
austriaca, la cittadinanza dello Stato che esercita la sovranita' sul
territorio predetto».
Coerentemente, gli art. 72 e 78 del Trattato dettavano una
disciplina speciale per coloro che in quel momento risiedevano
all'estero, ma avevano avuto una pertinenza nei territori poi
trasferiti all'Italia. Costoro, se maggiori di diciotto anni,
avrebbero potuto ugualmente eleggere la cittadinanza italiana, entro
un anno dall'entrata in vigore del Trattato, mentre, in mancanza di
tale opzione, avrebbero conservato la cittadinanza straniera medio
tempore eventualmente acquisita.
Alla fine della prima guerra mondiale, pero', la grande
maggioranza di quanti erano emigrati tra la fine dell'ottocento e
l'inizio del novecento non poterono avvalersi di tale possibilita',
per mancanza di informazioni o per difficolta' logistiche o
economiche. Di conseguenza, nonostante il permanere di vincoli
familiari e culturali con territori ormai divenuti italiani, rimasero
privi di qualsiasi legame giuridico con l'Italia, cosi' come i loro
discendenti.
Tali soggetti si trovarono pertanto in una condizione diseguale
rispetto a quella degli appartenenti a comunita' di emigrati
provenienti da varie zone d'Italia, in possesso della cittadinanza
italiana jure sanguinis e senza limite di generazione. Sarebbero
potuti diventare cittadini italiani se, alla data di entrata in
vigore del Trattato di Saint Germain, avessero continuato a risiedere
nei territori del dissolto Impero austro-ungarico ceduti all'Italia,
ma, proprio perche' gia' precedentemente emigrati, tale possibilita'
risulto' di fatto loro preclusa.
2.2.- Il legislatore prende in considerazione la condizione di
tali soggetti, una prima volta, nell'art. 18 della legge n. 91 del
1992, equiparandoli agli stranieri di origine italiana o nati nel
territorio della Repubblica e prevedendo che essi avrebbero potuto
acquisire la cittadinanza italiana dopo aver risieduto legalmente in
Italia da almeno tre anni.
Pochissimi, tra i destinatari delle ricordate disposizioni,
vollero o poterono trasferire la propria residenza in Italia, avendo
stabilito la propria vita e i propri interessi, nella grande
maggioranza dei casi, in un altro continente. Questa disciplina non
raggiunse, percio', l'obiettivo che si prefiggeva.
Permaneva dunque, e veniva percepita come iniqua, la gia'
ricordata diversa situazione di tali comunita' rispetto a quelle
sorte all'estero in seguito alla emigrazione da varie zone di Italia,
i cui componenti erano e sono in possesso della cittadinanza
italiana, trasmessa jure sanguinis di genitore in figlio.
Alla luce di cio', nell'unanime consenso delle forze presenti in
Parlamento, venne approvata la legge n. 379 del 2000. In virtu' di
essa, viene disposta l'abrogazione del citato art. 18 della legge n.
91 del 1992, e ai soggetti originari dei territori gia' appartenuti
all'Impero austro-ungarico ed emigrati all'estero prima del 16 luglio
1920 e ai loro discendenti «e' riconosciuta la cittadinanza italiana
qualora rendano una dichiarazione in tal senso con le modalita' di
cui all'articolo 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, entro cinque
anni dalla data di entrata in vigore della presente legge».
Nei confronti dei soggetti in questione viene cosi' meno
l'obbligo di residenza triennale in Italia, gia' previsto quale
condizione per l'acquisto della cittadinanza. Sussistendone i
requisiti soggettivi, essa e' riconosciuta a seguito della sola
dichiarazione che l'art. 23 della legge n. 91 del 1992 richiede in
via generale in tutti i casi in cui gli interessati vogliano
procedere all'acquisto, alla conservazione, al riacquisto o alla
rinuncia della cittadinanza.
Secondo quanto previsto dallo stesso art. 23, in caso di
residenza all'estero, la dichiarazione deve essere resa davanti
all'autorita' diplomatica o consolare del luogo di residenza, oppure,
in Italia, all'ufficiale dello stato civile del Comune in cui il
dichiarante risiede o intende risiedere.
A fronte di decine di migliaia di richieste, l'esame della
documentazione da prodursi a corredo delle dichiarazioni per il
riconoscimento della cittadinanza e' stato affidato a una apposita
commissione interministeriale, che non risulta aver ancora concluso i
propri lavori, nonostante il termine previsto per rendere le
dichiarazioni sia scaduto nel dicembre del 2010, e benche', in
generale, la durata dei procedimenti per l'acquisto e la concessione
della cittadinanza italiana sia stabilita in un massimo di due anni
(innalzati ora a quattro per alcune specifiche ipotesi: art. 9-ter
della legge n. 91 del 1992, inserito dall'art. 14, comma 1, lettera
c, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante «Disposizioni
urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione,
sicurezza pubblica, nonche' misure per la funzionalita' del Ministero
dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia
nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni
sequestrati e confiscati alla criminalita' organizzata», convertito,
con modificazioni, in legge 1 dicembre 2018, n. 132).
Il protrarsi di queste operazioni di verifica e' circostanza che
ha non poco aumentato le difficolta' di quanti, venuti in Italia in
vista del riconoscimento della cittadinanza disposto dalla legge n.
379 del 2000, si sono trovati nella medesima situazione lamentata dal
ricorrente nel giudizio a quo.
3.- In via preliminare, va osservato che la fattispecie relativa
ai soggetti in questione non appare compiutamente inquadrabile entro
le coordinate normative generalmente vigenti in tema di permessi di
soggiorno.
Tali coordinate sono tratteggiate nell'art. 11, comma 1, lettera
c), del d.P.R. n. 394 del 1999 (Regolamento recante norme di
attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286), peraltro fonte di natura regolamentare e
percio' sottratta al controllo accentrato di legittimita'
costituzionale. Esso prevede che il permesso di soggiorno per
l'acquisto della cittadinanza (o per il riconoscimento dello stato di
apolide) puo' essere rilasciato «a favore dello straniero gia' in
possesso del permesso di soggiorno per altri motivi, per la durata
del procedimento di concessione o di riconoscimento».
Nella generalita' dei casi, pertanto, questo diverso permesso di
soggiorno costituisce il titolo "presupposto", necessariamente
preesistente all'ottenimento di quello per attesa cittadinanza.
Quest'ultimo permesso solitamente si aggiunge, per tutta la durata
del procedimento di riconoscimento dello status civitatis, al
permesso di soggiorno "originario". In definitiva, l'ottenimento del
permesso di soggiorno per attesa cittadinanza presuppone la
titolarita' di altro permesso, che consente la regolare permanenza
sul territorio italiano e ne disciplina facolta' ed obblighi.
Diversa appare la situazione nel caso che da' origine alla
presente questione di legittimita' costituzionale, poiche', a quanto
si desume dall'ordinanza di rimessione, al soggetto, venuto in Italia
al fine di vedersi riconosciuta la cittadinanza ai sensi della legge
n. 379 del 2000, e' stato concesso direttamente il permesso di
soggiorno per attesa cittadinanza, pur in assenza del titolo di
soggiorno presupposto, sulla base di una non implausibile
interpretazione dell'art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 394
del 1999 alla luce della stessa legge n. 379 del 2000.
Nessuna norma, peraltro, disciplina specificamente facolta' e
obblighi collegati al possesso del permesso di soggiorno per attesa
cittadinanza. Tale lacuna puo' giustificarsi proprio in ragione del
fatto che lo straniero richiedente la cittadinanza, in tutti i casi
disciplinati dal d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto presente sul
territorio italiano deve essere titolare di un altro e diverso
permesso, cui appunto ineriscono gli specifici obblighi e facolta' di
volta in volta stabiliti. Di conseguenza, lo straniero che, avendone
maturato i requisiti, vorra' richiedere la cittadinanza, se presente
in Italia per svolgere attivita' lavorativa, avra' dovuto
necessariamente seguire il procedimento a questo scopo previsto dallo
stesso d.lgs. n. 286 del 1998.
Una tale lacuna, viceversa, sembra assai meno comprensibile nel
caso disciplinato dalla legge n. 379 del 2000. Si tratta qui non gia'
di uno straniero che intende entrare in Italia al fine di svolgervi
attivita' di lavoro, ma di un soggetto cui la legge espressamente
riconosce la cittadinanza italiana, e si trova sul territorio
italiano, come la stessa legge n. 379 del 2000 gli consente, in
attesa che si concluda il procedimento di verifica dei prescritti
requisiti.
Deve altresi' aggiungersi che, in linea generale, in mancanza di
una apposita disposizione che cio' preveda, il permesso di soggiorno
per attesa cittadinanza non puo' essere convertito in altro permesso
che consenta lo svolgimento di attivita' lavorativa. Si versa, del
resto, in un ambito - quello della regolamentazione dell'ingresso e
del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale - in cui la
discrezionalita' del legislatore e' particolarmente ampia (ex
plurimis, sentenze n. 277 del 2014 e n. 172 del 2012, con riferimento
alla «fissazione dei requisiti necessari per le autorizzazioni che
consentono ai cittadini extracomunitari di trattenersi e lavorare nel
territorio della Repubblica»). E come si desume dalla giurisprudenza
amministrativa - che intende preservare la tassativita' delle ipotesi
di conversione per non incidere sul sistema delle quote di stranieri
autorizzati all'ingresso in Italia per ragioni di lavoro - la
conversione del permesso rilasciato per una determinata causa in
altro genere di titolo puo' ammettersi solo laddove esista una
espressa regolamentazione in tal senso, che ne precisi altresi' le
relative condizioni (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza,
sentenza 24 gennaio 2018, n. 476; Consiglio di Stato, sezione terza,
sentenza 12 ottobre 2017, n. 4738; si veda, inoltre, Consiglio di
Stato, sezione prima, parere 25 agosto 2015, n. 1048).
4.- In tale contesto normativo, l'Avvocatura generale dello Stato
eccepisce l'inammissibilita' della questione, ritenendo eccentriche
le due disposizioni censurate, ossia l'art. 1 della legge n. 379 del
2000 e l'art. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998, rispetto al thema
decidendum posto dall'ordinanza di rimessione, volta a censurare la
mancata utilizzabilita' a fini lavorativi del permesso di soggiorno
per attesa cittadinanza rilasciato ai destinatari della legge n. 379
del 2000.
E', in effetti, vero che il giudice rimettente ha rivolto le
proprie censure nei confronti di disposizioni non del tutto
conferenti nel caso di specie. Cio', in particolare, perche' il
permesso di soggiorno per attesa cittadinanza, che non consentirebbe
lo svolgimento di attivita' lavorativa, non e' contemplato dalle due
disposizioni censurate e, in particolare, non lo e' dall'art. 1 della
legge n. 379 del 2000, che pure riconosce ai soggetti ivi indicati la
cittadinanza italiana. Ed e' anche vero, come suggerisce la stessa
Avvocatura generale dello Stato, che, per quanto scarna, la
disciplina del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza e'
contenuta, come s'e' visto, nell'art. 11, comma 1, lettera c), del
d.P.R. n. 394 del 1999: ma si e' gia' sottolineato che, trattandosi
di fonte regolamentare, il giudice a quo non avrebbe comunque potuto
farne oggetto di diretta censura dinnanzi a questa Corte.
Cio' posto, l'inammissibilita' della questione, a ben vedere,
discende da una ragione distinta da - e logicamente antecedente a -
quella allegata dall'Avvocatura erariale.
Invero, anche alla luce della peculiare ratio della legge n. 379
del 2000, ispirata da un chiaro favor per la concessione della
cittadinanza italiana a una particolare categoria di soggetti, il
giudice a quo avrebbe dovuto verificare la esperibilita' di una
interpretazione volta a regolare ragionevolmente - in modo conforme a
Costituzione - la situazione di quanti, in Italia per vedersi
riconoscere la cittadinanza, si sono trovati ad attendere per lungo
tempo la definizione del relativo procedimento, dovendo in
particolare provvedere alle proprie necessita' di vita attraverso
l'indispensabile svolgimento di un'attivita' di lavoro.
Ribadita la non applicabilita' a casi del genere della disciplina
contenuta nel d.lgs. n. 286 del 1998, poiche', come gia' detto,
rispondente a una logica del tutto distinta da quella della legge n.
379 del 2000, va rilevato che non e' sconosciuta all'ordinamento
l'ipotesi di permessi di soggiorno che, pur non essendo convertibili
in permessi abilitanti al lavoro, consentono comunque lo svolgimento
di attivita' lavorativa per tutta la durata del permesso stesso, e la
consentono, percio', senza direttamente incidere ne' sulla
tassativita' delle ipotesi di conversione, ne' sulla regolamentazione
dei flussi e delle quote di stranieri che entrano in Italia per
ragioni di lavoro (si veda, ad esempio, il combinato disposto degli
artt. 29, comma 6, e 31 del d.lgs. n. 286 del 1998; l'art. 20-bis del
d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera h),
del d.l. n. 113 del 2018; l'art. 32, comma 3, del decreto legislativo
28 gennaio 2008, n. 25, recante «Attuazione della direttiva
2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli
Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status
di rifugiato»).
Nell'assenza di una espressa disciplina che regolamenti la
situazione di quanti, destinatari della legge n. 379 del 2000, hanno
ottenuto il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza pur senza
avere un precedente titolo abilitante alla permanenza in Italia, e in
Italia aspettano la conclusione del procedimento volto alla verifica
dei prescritti requisiti, il giudice rimettente avrebbe percio'
dovuto verificare la praticabilita', in base alla ratio della legge
n. 379 del 2000 e alla luce della Costituzione, di un'interpretazione
che non trasformi l'imprevisto ritardo della procedura di verifica
(anche considerando i termini generalmente previsti per la
conclusione dei procedimenti per l'acquisto e la concessione della
cittadinanza) in una lesione di diritti costituzionali essenziali,
quale il diritto al lavoro. Lesione che assume connotati peculiari
considerando, altresi', che essa avviene ai danni di un soggetto cui
la legge, oltretutto, riconosce la cittadinanza, in caso di esito
positivo della verifica, a decorrere dal giorno successivo in cui e'
stata resa la dichiarazione richiesta (art. 15 della legge n. 91 del
1992).
Non e' senza significato, del resto, che proprio nella direzione
qui indicata si fossero in prima battuta orientate le stesse
amministrazioni locali, che avevano inizialmente consentito al
ricorrente nel giudizio principale di svolgere attivita' lavorativa,
come si desume dall'ordinanza di rimessione.
Il non aver svolto la verifica illustrata e' causa
d'inammissibilita' delle questioni sollevate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'inammissibilita' delle questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379
(Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle
persone nate e gia' residenti nei territori appartenuti all'Impero
austro-ungarico e ai loro discendenti) e dell'art. 6 del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero), sollevate in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del
Trentino Alto-Adige, sede di Trento, con l'ordinanza indicata in
epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 maggio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolo' ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 giugno 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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