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mercoledì 26 giugno 2019

N. 149 SENTENZA 8 maggio - 19 giugno 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Cittadinanza - Riconoscimento della cittadinanza italiana ai discendenti di persone nate e residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920 ed emigrate all'estero prima di tale data - Svolgimento di attivita' lavorativa da parte del titolare di permesso di soggiorno per attesa cittadinanza. - Legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e gia' residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai loro discendenti), art. 1; decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), art. 6. - (GU n.26 del 26-6-2019 )





N. 149 SENTENZA 8 maggio - 19 giugno 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Cittadinanza  -  Riconoscimento  della   cittadinanza   italiana   ai
  discendenti di persone nate e residenti nei  territori  appartenuti
  all'Impero austro-ungarico prima del 16  luglio  1920  ed  emigrate
  all'estero prima di tale data - Svolgimento di attivita' lavorativa
  da  parte  del  titolare  di  permesso  di  soggiorno  per   attesa
  cittadinanza.
- Legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il  riconoscimento
  della cittadinanza italiana alle persone nate e gia' residenti  nei
  territori  appartenuti  all'Impero  austro-ungarico   e   ai   loro
  discendenti), art. 1; decreto legislativo 25 luglio  1998,  n.  286
  (Testo  unico  delle   disposizioni   concernenti   la   disciplina
  dell'immigrazione e norme sulla condizione dello  straniero),  art.
  6.


(GU n.26 del 26-6-2019 )

 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI,

     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  1  della
legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni  per  il  riconoscimento
della cittadinanza italiana alle persone nate e  gia'  residenti  nei
territori  appartenuti   all'Impero   austro-ungarico   e   ai   loro
discendenti) e dell'art. 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286  (Testo  unico  delle  disposizioni  concernenti  la   disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso
dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto
Adige, sede di Trento, nel procedimento  vertente  tra  V.  P.  e  il
Ministero dell'interno e altro, con ordinanza  del  9  ottobre  2018,
iscritta al n. 189 del registro ordinanze  2018  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  2,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2019.
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri;
    udito nella camera di consiglio dell'8  maggio  2019  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon.

                          Ritenuto in fatto

    1.-  Il  Tribunale  regionale  di  giustizia  amministrativa  del
Trentino-Alto Adige, sede di Trento,  con  ordinanza  del  9  ottobre
2018, ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art.
1  della  legge  14  dicembre  2000,  n.  379  (Disposizioni  per  il
riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate  e  gia'
residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico  e  ai
loro discendenti) e dell'art. 6 del  decreto  legislativo  25  luglio
1998,  n.  286  (Testo  unico  delle  disposizioni   concernenti   la
disciplina  dell'immigrazione  e   norme   sulla   condizione   dello
straniero), «nella parte in cui non prevedono  l'utilizzazione  dello
speciale  permesso  per  attesa  di  cittadinanza   ai   fini   dello
svolgimento di attivita' lavorativa», in relazione all'art.  3  della
Costituzione, sia sotto il profilo della  lesione  del  principio  di
pari trattamento, sia sotto il profilo della ragionevolezza.
    Da' atto il giudice a quo che il ricorrente nel giudizio, V.  P.,
e' il discendente di una persona nata in provincia di Trento nel 1852
ed emigrata in Brasile prima del 1920; espone che costui  e'  entrato
in Italia il 6 giugno 2005 «usufruendo del permesso di soggiorno  per
attesa di cittadinanza previsto dall'art. 11 del  d.p.r.  3  novembre
1999, n. 394, rilasciato il 14 giugno 2005 e avviato ai  sensi  della
legge 14 dicembre 2000, n. 379».
    Enuncia inoltre che, ottenuta la residenza, V. P.  ha  esercitato
diverse attivita' lavorative fino al 15 novembre del 2008. In data 11
gennaio 2008, la Provincia autonoma di Trento emanava pero' una nota,
secondo cui «sulla base della legislazione  attuale  i  cittadini  di
origine  italiana  titolari  di  permesso  di  soggiorno  per  attesa
cittadinanza non sono abilitati  a  svolgere  attivita'  lavorativa».
Tale comunicazione trovava il suo fondamento in una  precedente  nota
del 12 settembre 2007 che il  Ministero  dell'interno  aveva  inviato
alla Questura di Trento in risposta ad un quesito ad esso rivolto.
    In ragione di tali atti, spiega il rimettente, V. P.  non  poteva
piu' esercitare attivita' lavorativa e veniva  contestualmente  meno,
in ragione della nota ministeriale piu' sopra ricordata,  l'efficacia
di un precedente protocollo d'intesa, stipulato il 12 giugno 2007 tra
la Provincia autonoma di Trento e la Questura di Trento,  in  ragione
del quale si era invece consentito ai soggetti di cui alla  legge  n.
379 del 2000, che avessero ottenuto  un  permesso  di  soggiorno  per
attesa cittadinanza, di svolgere attivita' lavorativa.
    Ottenuta la cittadinanza  italiana  nel  2012,  V.  P.,  che  nel
frattempo aveva percepito soltanto il sostegno economico dell'Agenzia
provinciale per  l'assistenza  e  la  previdenza  integrativa,  aveva
potuto riprendere a lavorare. Per ottenere il risarcimento del  danno
medio tempore patito a causa del divieto di lavoro,  lo  stesso,  con
atto di  citazione  del  18  luglio  del  2014,  adiva  il  Tribunale
ordinario di  Trento  che,  con  sentenza  5  maggio  2017,  n.  444,
declinava la giurisdizione a favore del giudice amministrativo.
    Evidenzia,  infine,  il  giudice  rimettente  che  V.  P.   adiva
successivamente il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di
Trento,  sia  per  ottenere  l'annullamento  della  citata  nota  del
Ministero  dell'interno  del  12  settembre  2007,  richiamata  nella
comunicazione n. 996 dell'11 gennaio 2008 della Provincia autonoma di
Trento, sia per ottenere la condanna della Questura di Trento  e  del
Ministero  dell'interno  al  risarcimento  del  danno   asseritamente
patito, quantificato in euro 40.000.
    2.-  In  via   preliminare,   il   giudice   a   quo   da'   atto
dell'ammissibilita' della domanda risarcitoria ad esso  proposta,  in
ragione di quanto previsto dall'art. 30  del  decreto  legislativo  2
luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell'articolo 44 della legge
18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino  del
processo amministrativo» (da ora in poi: cod. proc. amm.).
    Sempre preliminarmente, afferma il giudice a quo che l'azione del
ricorrente sarebbe stata  tempestivamente  promossa:  non  troverebbe
infatti in questo caso applicazione il termine di  decadenza  di  120
giorni previsto dal citato art. 30, comma 3, cod. proc. amm., poiche'
siffatto   termine   non   e'   applicabile,   secondo    consolidata
giurisprudenza  amministrativa,  alle  cause   relative   a   vicende
antecedenti l'entrata in vigore dello stesso codice.
    Di  conseguenza,  e  in  mancanza  di  comportamenti   negligenti
dell'interessato,   troverebbe   applicazione   in   questa   vicenda
l'ordinario  termine  di  prescrizione  quinquennale   previsto   per
l'azione risarcitoria:  poiche'  il  periodo  in  cui  il  ricorrente
asserisce di aver subito il danno inizia il 12 gennaio 2008 e termina
nel 2012 e poiche' in ragione della intervenuta translatio iudicii il
termine di prescrizione dovrebbe considerarsi interrotto il 18 luglio
2014, data della notificazione dell'atto  di  citazione  introduttivo
del giudizio civile, ne consegue che «[p]er il  periodo  fino  al  18
luglio  2009  [...]  il  diritto  al   risarcimento   incorre   nella
prescrizione    quinquennale    (eccepita    in    via    subordinata
dall'Avvocatura  resistente),  mentre  rimane  vivo  per  il  periodo
successivo».
    3.- Nel merito, il rimettente espone che la  Questura  di  Trento
aveva formulato al Ministero  dell'interno  un  quesito  al  fine  di
sapere se il possesso del permesso di soggiorno per l'acquisto  della
cittadinanza italiana iure sanguinis consentisse  lo  svolgimento  di
attivita' lavorativa. Il  Ministero  aveva  risposto  osservando  che
l'art. 14 del d.P.R. 31 agosto  1999,  n.  394  (Regolamento  recante
norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina  dell'immigrazione  e   norme   sulla   condizione   dello
straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del decreto  legislativo
25 luglio 1998, n. 286), «nel disciplinare le ipotesi di  conversione
del permesso di soggiorno da altra tipologia a quella per lavoro, non
contempla  quello  per  attesa  cittadinanza.  Pertanto,  per   poter
autorizzare i cittadini di  origine  italiana  in  possesso  di  tale
tipologia di permesso di soggiorno a  svolgere  attivita'  lavorativa
sara' necessario attendere una modifica normativa in tal senso».
    Secondo il giudice a quo, tale affermazione  corrisponderebbe  al
quadro normativo vigente:  lo  svolgimento  di  attivita'  lavorative
sarebbe consentito soltanto se i permessi  di  soggiorno  sono  stati
«espressamente rilasciati a tale scopo, ovvero se  cosi'  prevede  la
legge», come dimostrerebbero le previsioni  di  cui  all'art.  6  del
d.lgs. n. 286 del 1998 e di cui all'art. 14 del  d.P.R.  n.  394  del
1999.
    Osserva il rimettente come, pero',  «[n]essuna  delle  specifiche
disposizioni dedicate all'ambito delle attivita' consentite dai  vari
tipi di permesso di soggiorno, ovvero  convertibili  in  una  diversa
fattispecie che consenta attivita' lavorativa, si occupa del permesso
per attesa cittadinanza italiana iure sanguinis di cui alla legge  n.
379 del 2000».
    Poiche'  nella  determinazione   dello   status   dei   cittadini
extracomunitari  -  secondo  quanto  affermato  nella  sentenza   del
Consiglio di Stato, sezione terza, 12 ottobre 2017,  n.  4738  -  non
potrebbe farsi ricorso  allo  strumento  dell'analogia,  risolvendosi
cio' in una innovazione del sistema non consentita al giudice  (viene
citata la sentenza di questa Corte n. 277 del  2014),  in  definitiva
non si rinverrebbe nell'ordinamento «alcuna  norma  che  consenta  lo
svolgimento  di  attivita'  lavorativa  ai  soggetti  in  attesa   di
cittadinanza iure sanguinis».
    4.- Cio' premesso, il rimettente evidenzia la diversa  condizione
in cui versa la generalita' dei  soggetti  che  attende  il  rilascio
della cittadinanza, da una parte, rispetto ai destinatari della legge
n. 379 del 2000, dall'altra.
    Per i primi, il possesso di un permesso di soggiorno costituisce,
ai sensi dell'art. 11, comma 1, lettera c), del  d.P.R.  n.  394  del
1999, «presupposto imprescindibile per ottenere quello per attesa  di
cittadinanza».   Non   si   porrebbe   dunque   alcun   problema   di
convertibilita' del permesso di soggiorno  per  attesa  cittadinanza,
poiche' al piu' occorrerebbe verificare se il permesso  di  soggiorno
presupposto possa  direttamente  consentire  l'attivita'  lavorativa,
oppure sia convertibile in un permesso che tale attivita' consente.
    Per i secondi, invece, la disciplina speciale di cui all'art.  1,
comma 2, della legge n. 379  del  2000,  «riconosce  la  cittadinanza
italiana, senza subordinare tale riconoscimento  al  possesso  di  un
diverso titolo di soggiorno»: di conseguenza, lo  specifico  permesso
per attesa di cittadinanza «non essendo  collegato  ad  alcun  altro,
diverso, titolo,  e  non  prevedendo  l'autorizzazione  all'attivita'
lavorativa, ne preclude [...] lo svolgimento».
    Tale diversita'  di  trattamento  sarebbe,  a  dire  del  giudice
rimettente, contraria al principio di eguaglianza di cui  all'art.  3
Cost., in ragione del «diverso, immotivato trattamento riservato  dal
legislatore a due situazioni analoghe, ambedue tutelate attraverso il
permesso in attesa del rilascio della cittadinanza, ma con un  ambito
di facolta' e diritti del tutto divergenti,  in  assenza  di  ragioni
giustificativ[e]».
    Precisa il rimettente  come  l'intervento  richiesto  alla  Corte
costituzionale non avrebbe natura «creativa»: la «pronuncia  additiva
da parte della Corte costituzionale,  dovrebbe  ritenersi  consentita
dal momento che la soluzione e' logicamente necessitata ed  implicita
nello stesso contesto normativo».
    Il giudice rimettente  censura  le  due  disposizioni  anche  con
specifico riferimento al principio di ragionevolezza:  la  disciplina
sarebbe irragionevole poiche' «alla situazione che il legislatore  ha
ritenuto evidentemente meritevole di speciale  considerazione,  quale
quella   dei   discendenti   degli   ex    appartenenti    all'Impero
austro-ungarico emigrati all'estero,  ai  quali  la  cittadinanza  e'
concessa su semplice dichiarazione, rispetto ai  casi  generali,  nei
quali e' richiesto il possesso di un diverso permesso  di  soggiorno,
e' collegato  un  effetto  deteriore,  che  consegna  il  richiedente
all'impossibilita' di lavorare».
    5.- Con atto depositato il 29 gennaio  2019,  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate inammissibili ed infondate.
    L'inammissibilita'  delle  questioni  deriverebbe,  innanzitutto,
dalla «non inerenza  delle  disposizioni  denunciate»  rispetto  alle
questioni di legittimita' costituzionale sollevate.  L'art.  1  della
legge n. 379 del  2000  si  limiterebbe,  infatti,  a  prevedere  uno
«specifico caso di riconoscimento della cittadinanza  italiana»,  che
neppure richiederebbe la  presenza  dello  straniero  sul  territorio
nazionale  nelle  more  del   procedimento   di   concessione   della
cittadinanza, come dimostrerebbe il fatto che lo stesso art. 1, comma
2, della legge n. 379 del 2000  rinvia  all'art.  23  della  legge  5
febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla  cittadinanza),  disposizione
che  espressamente  contempla  la  possibilita'   per   i   residenti
all'estero  di  rendere  la  dichiarazione   per   l'acquisto   della
cittadinanza davanti all'autorita' diplomatica o consolare del  luogo
di residenza.
    Soprattutto, l'art. 1 della legge n. 379 del 2000 non disporrebbe
nulla «in merito alla tipologia di permesso atto  a  legittimare»  il
soggiorno dello straniero, ne' «in ordine alle attivita' al  medesimo
consentite o interdette».
    Anche l'art. 6 del d.lgs. n.  286  del  1998  sarebbe  eccentrico
rispetto al thema decidendum:  esso  infatti  disciplinerebbe  alcune
facolta' inerenti il permesso di soggiorno rilasciato per  motivi  di
lavoro subordinato, lavoro autonomo e familiare, nonche' relative  al
permesso di soggiorno rilasciato per motivi di studio  e  formazione,
ma  non  riguarderebbe  in  alcun  modo  il  permesso   per   «attesa
cittadinanza».
    Espone l'Avvocatura che l'art. 14 del  d.P.R.  n.  394  del  1999
descrive i casi  in  cui  le  differenti  tipologie  di  permesso  di
soggiorno possono essere convertite in un altro tipo di  permesso  di
soggiorno e indica quali attivita'  lavorative  sono  consentite  per
ciascuna di queste tipologie. Esso pero' nulla  prevede  rispetto  ai
permessi di soggiorno rilasciati per l'acquisto  della  cittadinanza:
circostanza, questa, che impedisce pertanto ai titolari dei  permessi
da ultimo citati di svolgere attivita' lavorative o di convertirli in
tipologie di permessi che consentono di lavorare. D'altra  parte,  la
possibilita'  di  convertire  i  permessi  di  soggiorno  sarebbe  da
considerarsi  di  carattere  eccezionale  e  non   sarebbe   pertanto
possibile ampliare il novero dei casi gia' indicati  dal  legislatore
(viene citata anche dall'Avvocatura  la  sentenza  del  Consiglio  di
Stato, sezione terza, 12 ottobre 2017, n. 4738), al fine «di evitare,
anche attraverso la conversione, l'elusione del complesso  di  regole
che presiedono al controllo dei flussi migratori».
    I sospetti di illegittimita' costituzionale andrebbero quindi  al
piu' rivolti nei confronti dell'art. 14 del d.P.R. n. 394 del 1999  -
che non contempla il permesso per l'acquisto della cittadinanza tra i
permessi che consentono lo svolgimento di attivita'  lavorativa  -  e
non nei confronti dell'art. 1 della legge n. 379 del 2000 e dell'art.
6 del d.lgs. n. 286  del  1998,  che  invece  sarebbero  «palesemente
inconferenti».
    La questione  sarebbe  altresi'  inammissibile  per  l'incompleta
ricostruzione del quadro normativo di riferimento, circostanza questa
che si risolverebbe «altresi' in infondatezza  [...]  per  erroneita'
dei  presupposti  interpretativi».  In  particolare,  il   rimettente
avrebbe omesso di considerare quanto  dispone  l'art.  11,  comma  1,
lettera c), del d.P.R.  n.  394  del  1999  che,  stabilendo  che  il
permesso  di  soggiorno  e'  rilasciato,  tra  le  altre  cose,   per
l'acquisto della cittadinanza, pur non dicendo nulla in  merito  alle
attivita' consentite ai titolari delle varie tipologie di permesso di
soggiorno, subordinerebbe «il rilascio del permesso alla  circostanza
che lo straniero richiedente la concessione o il riconoscimento della
cittadinanza italiana ovvero dello stato  di  apolide  sia  "gia'  in
possesso del permesso di soggiorno per altri motivi"».
    Dunque, la  presentazione  della  domanda  di  concessione  della
cittadinanza italiana da parte  di  un  soggetto  gia'  presente  sul
territorio nazionale presupporrebbe «necessariamente  il  (pregresso)
possesso da parte del richiedente, di un titolo che ne giustifichi la
presenza e il soggiorno sul territorio nazionale». D'altra parte,  il
permesso  di  soggiorno  per  acquisto  della  cittadinanza   sarebbe
necessariamente temporaneo  e  la  sua  efficacia  verrebbe  meno  al
termine  del  procedimento  di  concessione  o  riconoscimento  della
cittadinanza, con la conseguenza che, in caso di mancata  concessione
della cittadinanza stessa, «il  soggiorno  sul  territorio  nazionale
dello straniero riprende - o meglio, continua - ad essere legittimato
dal titolo permissivo in precedenza posseduto».
    Secondo l'Avvocatura generale  le  questioni  sarebbero,  infine,
inammissibili perche'  volte  ad  attribuire  ai  soli  titolari  del
permesso di soggiorno per l'acquisto della  cittadinanza  secondo  le
modalita' di cui alla legge  n.  379  del  2000  la  possibilita'  di
svolgere  attivita'  lavorative,  possibilita'  invece   preclusa   e
«sconosciuta al permesso di soggiorno per  "attesa  cittadinanza"  in
quanto  tale».  Cio'  determinerebbe  l'adozione  di  una   pronuncia
additiva non costituzionalmente obbligata in un ambito, quale  quello
della regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello  straniero
nel  territorio  nazionale,  sul  quale   la   discrezionalita'   del
legislatore e' ampia (si citano le sentenze n. 277 del 2014,  n.  202
del 2013, n. 172 del 2012, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e  n.  62
del 1994).
    6.- Nel merito, le  questioni  non  sarebbero  comunque  fondate,
perche' il permesso di soggiorno rilasciato a coloro  che  presentano
la domanda ai sensi della legge n. 379 del 2000 non  sarebbe  affatto
diverso da quello previsto in generale dall'art. 11, comma 1, lettera
c), del d.P.R. n. 394  del  1999.  Si  tratterebbe  di  un  ordinario
permesso di soggiorno che presuppone pertanto il previo possesso,  da
parte del richiedente, di un titolo di soggiorno.
    In particolare, secondo l'Avvocatura,  rileverebbe  la  legge  28
maggio 2007, n. 68 (Disciplina dei soggiorni di  breve  durata  degli
stranieri per visite, affari, turismo e studio), che, per i soggiorni
non superiori a tre mesi, non richiede un permesso  di  soggiorno  ma
una «dichiarazione di presenza» da rendere all'autorita' di frontiera
o al questore della Provincia  in  cui  lo  straniero  si  trova.  La
ricevuta di  tale  dichiarazione  -  secondo  quanto  previsto  dalla
circolare del Ministero dell'interno 13  giugno  2007,  n.  32  -  e'
titolo utile anche «ai fini dell'iscrizione anagrafica di coloro  che
intendono avviare in Italia la procedura per il riconoscimento  della
cittadinanza "jure sanguinis"».
    Non  sussisterebbe  pertanto  quella  disparita'  di  trattamento
evocata dal giudice rimettente:  sia  coloro  che  hanno  chiesto  il
riconoscimento della cittadinanza italiana ai sensi  della  legge  n.
379 del 2000,  sia  coloro  che  la  richiedono  ai  sensi  di  altre
disposizioni di legge, possono ottenere  il  permesso  in  attesa  di
cittadinanza soltanto se siano gia' in possesso di un titolo  che  li
abiliti a permanere nel territorio nazionale.
    Espone  l'Avvocatura  che  neppure  ci  sarebbe   discriminazione
rispetto alla possibilita' di  svolgere  prestazioni  lavorative.  In
nessun caso infatti il permesso per attesa di cittadinanza  consente,
di per se', lo svolgimento di attivita' lavorativa:  il  titolare  di
tale permesso «in tanto puo' svolgere attivita' lavorativa in  quanto
lo consenta, in via diretta o per effetto di conversione, il  diverso
ed ulteriore permesso di soggiorno, in precedenza rilasciatogli  "per
altri motivi", di cui lo stesso e' gia' in possesso».
    Circostanza, questa, che induce l'Avvocatura a  evidenziare  come
l'eventuale  problema   di   legittimita'   costituzionale   dovrebbe
riguardare  le  facolta'  connesse  al  permesso  di  soggiorno   che
costituisce  il  presupposto  per  l'ottenimento  del   permesso   di
soggiorno per attesa cittadinanza e, piu' in generale, la  previsione
di permessi di soggiorno che non consentono in alcun modo di svolgere
attivita'  lavorativa.  Si  tratterebbe   pero'   di   questione   di
legittimita' costituzionale diversa  da  quella  sollevata,  comunque
destinata ad una pronuncia  di  infondatezza  in  ragione  dell'ampia
discrezionalita' di cui gode il legislatore  sulla  determinazione  e
sulla  regolamentazione  delle  facolta'  inerenti  i   permessi   di
soggiorno.
    Ancora, sottolinea l'Avvocatura come anche coloro che  richiedono
la cittadinanza sulla base di previsioni diverse dalla legge  n.  379
del 2000 potrebbero trovarsi in possesso di un permesso di  soggiorno
che  non  consente  loro  lo  svolgimento  di  attivita'  lavorativa.
Circostanza, questa, che smentirebbe la violazione del  principio  di
eguaglianza, poiche' la possibilita' o meno di lavorare  dipenderebbe
esclusivamente dal titolo di  soggiorno  collegato  al  "permesso  di
soggiorno per attesa cittadinanza" e non dal «titolo legale  posto  a
base della domanda di concessione o di  riconoscimento  dello  status
civitatis».
    Le precedenti osservazioni determinerebbero anche  l'infondatezza
della censura di irragionevolezza della disciplina: la situazione dei
richiedenti la cittadinanza e' ritenuta  in  generale  meritevole  di
particolare  considerazione,  tanto  che  il  relativo  permesso   di
soggiorno e' "aggiuntivo" rispetto  al  permesso  di  soggiorno  gia'
posseduto.    Tuttavia,    tale    condizione    non    implicherebbe
necessariamente la possibilita' di lavorare, soprattutto quando, come
nel caso di cui alla legge n. 379 del 2000, non  e'  obbligatoria  la
presenza del richiedente sul  territorio  nazionale  nelle  more  del
procedimento.

                       Considerato in diritto

    1.-  Il  Tribunale  regionale  di  giustizia  amministrativa  del
Trentino-Alto Adige, sede di Trento, solleva, in relazione all'art. 3
della  Costituzione,   questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il
riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate  e  gia'
residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico  e  ai
loro discendenti) e dell'art. 6 del  decreto  legislativo  25  luglio
1998,  n.  286  (Testo  unico  delle  disposizioni   concernenti   la
disciplina  dell'immigrazione  e   norme   sulla   condizione   dello
straniero).
    Le due disposizioni citate sono censurate nella parte in cui  non
prevedono che il permesso di  soggiorno  per  attesa  cittadinanza  -
rilasciato ai discendenti di persone nate e residenti  nei  territori
appartenuti all'Impero austro-ungarico prima del 16  luglio  1920,  e
prima di tale data emigrate all'estero - consenta lo  svolgimento  di
attivita' di lavoro.
    In primo luogo, l'impossibilita' di utilizzare tale  permesso  ai
fini dello svolgimento  di  attivita'  lavorativa  determinerebbe  un
trattamento diseguale di tali soggetti,  in  violazione  dell'art.  3
Cost., rispetto a coloro che, ugualmente in attesa della cittadinanza
italiana, siano in possesso di un permesso di soggiorno che, per  sua
natura o perche' convertibile in un permesso di soggiorno per ragioni
di lavoro, consentirebbe loro l'esercizio di attivita' lavorativa.
    Sotto  un  secondo  profilo,  la  violazione  dell'art.  3  Cost.
emergerebbe dal fatto che le disposizioni censurate  comporterebbero,
a carico dei  soggetti  in  questione,  pur  ritenuti  meritevoli  di
speciale considerazione dalla legge n. 379 del 2000,  un  trattamento
irragionevolmente deteriore rispetto alla generalita' di  coloro  che
hanno richiesto la cittadinanza. Infatti, a differenza di  tutti  gli
altri stranieri che  hanno  presentato  richiesta  di  acquistare  lo
status civitatis, i destinatari della legge  n.  379  del  2000,  pur
titolari di un permesso di soggiorno, e nonostante il favor  ad  essi
riservato da tale legge, risulterebbero consegnati all'impossibilita'
di lavorare.
    2.-  Le  descritte  questioni  di   legittimita'   costituzionale
riguardano una peculiare disciplina legislativa, riferita a  soggetti
che - dopo essere nati e  aver  risieduto  in  territori  appartenuti
all'Impero austro-ungarico - sono da quei  territori  emigrati  prima
del 16 luglio 1920, data coincidente  con  l'entrata  in  vigore  del
Trattato di Saint Germain en Laye (d'ora in avanti: Trattato di Saint
Germain), stipulato tra le potenze alleate e l'Austria alla fine  del
primo  conflitto  mondiale,  in  virtu'  del  quale,  a  causa  della
dissoluzione  dell'Impero  austro-ungarico,  alcuni  territori   gia'
appartenenti a quest'ultimo furono trasferiti al Regno d'Italia.
    Ai soggetti che da tali territori erano  emigrati  prima  del  16
luglio 1920 - e oggi, in definitiva, ai loro discendenti -  la  legge
n. 379 del 2000 concede la possibilita' di ottenere  la  cittadinanza
italiana, qualora, entro il termine di cinque  anni  dall'entrata  in
vigore della  legge  stessa  (termine  successivamente  prorogato  di
ulteriori cinque anni dall'art. 28-bis del decreto-legge 30  dicembre
2005, n. 273, recante «Definizione  e  proroga  di  termini,  nonche'
conseguenti disposizioni  urgenti»,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51) abbiano  reso  dichiarazione  di
acquisto  della  cittadinanza  stessa,  con  le  modalita'   previste
dall'art. 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91  (Nuove  norme  sulla
cittadinanza).
    2.1.- La legge n. 379 del 2000 trae  la  propria  giustificazione
dagli eventi che si svolgono dalla meta' del diciannovesimo secolo al
termine della prima guerra mondiale.  In  quel  non  breve  torno  di
tempo, accanto all'ampio fenomeno migratorio  di  cittadini  italiani
verso gli Stati Uniti d'America e diverse nazioni del Sudamerica,  un
significativo esodo  interesso'  anche  quanti,  cittadini  non  gia'
italiani ma  dell'allora  Impero  austro-ungarico,  abbandonarono  il
Trentino e  i  territori  che  componevano  il  cosiddetto  "Litorale
austriaco", corrispondenti alle attuali province di Gorizia e Trieste
e alla penisola istriana.
    Al termine della prima guerra mondiale, con il Trattato di  Saint
Germain, nell'ambito della ripartizione tra le nazioni vincitrici del
conflitto  dei  territori  appartenuti  all'ormai  disciolto   Impero
austro-ungarico,   al   Regno   d'Italia   vennero   ceduti    quelli
corrispondenti  al  Trentino  Alto-Adige,  alla  Venezia   Giulia   e
all'Istria.
    Lo stesso Trattato di Saint Germain disciplino' quello che, nella
dottrina del tempo, venne definito un modo  eccezionale  di  acquisto
della cittadinanza. Secondo l'art. 70 del Trattato,  chiunque  avesse
la  «pertinenza»  (peculiare  istituto  del  diritto   amministrativo
austriaco, fonte di legami tra un individuo e un determinato Comune e
distinto da cittadinanza, domicilio e  residenza)  in  un  territorio
facente  parte   dell'antica   monarchia   austro-ungarica,   avrebbe
acquisito  «di  pieno  diritto,  ad  esclusione  della   cittadinanza
austriaca, la cittadinanza dello Stato che esercita la sovranita' sul
territorio predetto».
    Coerentemente, gli art.  72  e  78  del  Trattato  dettavano  una
disciplina speciale  per  coloro  che  in  quel  momento  risiedevano
all'estero,  ma  avevano  avuto  una  pertinenza  nei  territori  poi
trasferiti  all'Italia.  Costoro,  se  maggiori  di  diciotto   anni,
avrebbero potuto ugualmente eleggere la cittadinanza italiana,  entro
un anno dall'entrata in vigore del Trattato, mentre, in  mancanza  di
tale opzione, avrebbero conservato la  cittadinanza  straniera  medio
tempore eventualmente acquisita.
    Alla  fine  della  prima  guerra  mondiale,  pero',   la   grande
maggioranza di quanti erano emigrati tra  la  fine  dell'ottocento  e
l'inizio del novecento non poterono avvalersi di  tale  possibilita',
per  mancanza  di  informazioni  o  per  difficolta'   logistiche   o
economiche.  Di  conseguenza,  nonostante  il  permanere  di  vincoli
familiari e culturali con territori ormai divenuti italiani, rimasero
privi di qualsiasi legame giuridico con l'Italia, cosi' come  i  loro
discendenti.
    Tali soggetti si trovarono pertanto in una  condizione  diseguale
rispetto  a  quella  degli  appartenenti  a  comunita'  di   emigrati
provenienti da varie zone d'Italia, in  possesso  della  cittadinanza
italiana jure sanguinis e  senza  limite  di  generazione.  Sarebbero
potuti diventare cittadini italiani  se,  alla  data  di  entrata  in
vigore del Trattato di Saint Germain, avessero continuato a risiedere
nei territori del dissolto Impero austro-ungarico ceduti  all'Italia,
ma, proprio perche' gia' precedentemente emigrati, tale  possibilita'
risulto' di fatto loro preclusa.
    2.2.- Il legislatore prende in considerazione  la  condizione  di
tali soggetti, una prima volta, nell'art. 18 della legge  n.  91  del
1992, equiparandoli agli stranieri di origine  italiana  o  nati  nel
territorio della Repubblica e prevedendo che  essi  avrebbero  potuto
acquisire la cittadinanza italiana dopo aver risieduto legalmente  in
Italia da almeno tre anni.
    Pochissimi,  tra  i  destinatari  delle  ricordate  disposizioni,
vollero o poterono trasferire la propria residenza in Italia,  avendo
stabilito  la  propria  vita  e  i  propri  interessi,  nella  grande
maggioranza dei casi, in un altro continente. Questa  disciplina  non
raggiunse, percio', l'obiettivo che si prefiggeva.
    Permaneva  dunque,  e  veniva  percepita  come  iniqua,  la  gia'
ricordata diversa situazione di  tali  comunita'  rispetto  a  quelle
sorte all'estero in seguito alla emigrazione da varie zone di Italia,
i  cui  componenti  erano  e  sono  in  possesso  della  cittadinanza
italiana, trasmessa jure sanguinis di genitore in figlio.
    Alla luce di cio', nell'unanime consenso delle forze presenti  in
Parlamento, venne approvata la legge n. 379 del 2000.  In  virtu'  di
essa, viene disposta l'abrogazione del citato art. 18 della legge  n.
91 del 1992, e ai soggetti originari dei territori  gia'  appartenuti
all'Impero austro-ungarico ed emigrati all'estero prima del 16 luglio
1920 e ai loro discendenti «e' riconosciuta la cittadinanza  italiana
qualora rendano una dichiarazione in tal senso con  le  modalita'  di
cui all'articolo 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, entro  cinque
anni dalla data di entrata in vigore della presente legge».
    Nei  confronti  dei  soggetti  in  questione  viene  cosi'   meno
l'obbligo di residenza  triennale  in  Italia,  gia'  previsto  quale
condizione  per  l'acquisto  della  cittadinanza.   Sussistendone   i
requisiti soggettivi, essa  e'  riconosciuta  a  seguito  della  sola
dichiarazione che l'art. 23 della legge n. 91 del  1992  richiede  in
via generale  in  tutti  i  casi  in  cui  gli  interessati  vogliano
procedere all'acquisto, alla  conservazione,  al  riacquisto  o  alla
rinuncia della cittadinanza.
    Secondo  quanto  previsto  dallo  stesso  art.  23,  in  caso  di
residenza all'estero,  la  dichiarazione  deve  essere  resa  davanti
all'autorita' diplomatica o consolare del luogo di residenza, oppure,
in Italia, all'ufficiale dello stato civile  del  Comune  in  cui  il
dichiarante risiede o intende risiedere.
    A fronte di  decine  di  migliaia  di  richieste,  l'esame  della
documentazione da prodursi  a  corredo  delle  dichiarazioni  per  il
riconoscimento della cittadinanza e' stato affidato  a  una  apposita
commissione interministeriale, che non risulta aver ancora concluso i
propri  lavori,  nonostante  il  termine  previsto  per  rendere   le
dichiarazioni sia scaduto  nel  dicembre  del  2010,  e  benche',  in
generale, la durata dei procedimenti per l'acquisto e la  concessione
della cittadinanza italiana sia stabilita in un massimo di  due  anni
(innalzati ora a quattro per alcune specifiche  ipotesi:  art.  9-ter
della legge n. 91 del 1992, inserito dall'art. 14, comma  1,  lettera
c, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n.  113,  recante  «Disposizioni
urgenti in  materia  di  protezione  internazionale  e  immigrazione,
sicurezza pubblica, nonche' misure per la funzionalita' del Ministero
dell'interno  e  l'organizzazione  e  il  funzionamento  dell'Agenzia
nazionale  per  l'amministrazione  e   la   destinazione   dei   beni
sequestrati e confiscati alla criminalita' organizzata»,  convertito,
con modificazioni, in legge 1 dicembre 2018, n. 132).
    Il protrarsi di queste operazioni di verifica e' circostanza  che
ha non poco aumentato le difficolta' di quanti, venuti in  Italia  in
vista del riconoscimento della cittadinanza disposto dalla  legge  n.
379 del 2000, si sono trovati nella medesima situazione lamentata dal
ricorrente nel giudizio a quo.
    3.- In via preliminare, va osservato che la fattispecie  relativa
ai soggetti in questione non appare compiutamente inquadrabile  entro
le coordinate normative generalmente vigenti in tema di  permessi  di
soggiorno.
    Tali coordinate sono tratteggiate nell'art. 11, comma 1,  lettera
c), del  d.P.R.  n.  394  del  1999  (Regolamento  recante  norme  di
attuazione  del  testo  unico  delle  disposizioni   concernenti   la
disciplina  dell'immigrazione  e   norme   sulla   condizione   dello
straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del decreto  legislativo
25 luglio 1998, n. 286), peraltro fonte  di  natura  regolamentare  e
percio'   sottratta   al   controllo   accentrato   di   legittimita'
costituzionale.  Esso  prevede  che  il  permesso  di  soggiorno  per
l'acquisto della cittadinanza (o per il riconoscimento dello stato di
apolide) puo' essere rilasciato «a favore  dello  straniero  gia'  in
possesso del permesso di soggiorno per altri motivi,  per  la  durata
del procedimento di concessione o di riconoscimento».
    Nella generalita' dei casi, pertanto, questo diverso permesso  di
soggiorno  costituisce  il  titolo   "presupposto",   necessariamente
preesistente  all'ottenimento  di  quello  per  attesa  cittadinanza.
Quest'ultimo permesso solitamente si aggiunge, per  tutta  la  durata
del  procedimento  di  riconoscimento  dello  status  civitatis,   al
permesso di soggiorno "originario". In definitiva, l'ottenimento  del
permesso  di  soggiorno  per  attesa   cittadinanza   presuppone   la
titolarita' di altro permesso, che consente  la  regolare  permanenza
sul territorio italiano e ne disciplina facolta' ed obblighi.
    Diversa appare la  situazione  nel  caso  che  da'  origine  alla
presente questione di legittimita' costituzionale, poiche', a  quanto
si desume dall'ordinanza di rimessione, al soggetto, venuto in Italia
al fine di vedersi riconosciuta la cittadinanza ai sensi della  legge
n. 379 del 2000,  e'  stato  concesso  direttamente  il  permesso  di
soggiorno per attesa cittadinanza,  pur  in  assenza  del  titolo  di
soggiorno  presupposto,  sulla   base   di   una   non   implausibile
interpretazione dell'art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n.  394
del 1999 alla luce della stessa legge n. 379 del 2000.
    Nessuna norma, peraltro,  disciplina  specificamente  facolta'  e
obblighi collegati al possesso del permesso di soggiorno  per  attesa
cittadinanza. Tale lacuna puo' giustificarsi proprio in  ragione  del
fatto che lo straniero richiedente la cittadinanza, in tutti  i  casi
disciplinati dal d.lgs. n. 286  del  1998,  in  quanto  presente  sul
territorio italiano deve  essere  titolare  di  un  altro  e  diverso
permesso, cui appunto ineriscono gli specifici obblighi e facolta' di
volta in volta stabiliti. Di conseguenza, lo straniero che,  avendone
maturato i requisiti, vorra' richiedere la cittadinanza, se  presente
in  Italia  per   svolgere   attivita'   lavorativa,   avra'   dovuto
necessariamente seguire il procedimento a questo scopo previsto dallo
stesso d.lgs. n. 286 del 1998.
    Una tale lacuna, viceversa, sembra assai meno  comprensibile  nel
caso disciplinato dalla legge n. 379 del 2000. Si tratta qui non gia'
di uno straniero che intende entrare in Italia al fine  di  svolgervi
attivita' di lavoro, ma di un soggetto  cui  la  legge  espressamente
riconosce  la  cittadinanza  italiana,  e  si  trova  sul  territorio
italiano, come la stessa legge n.  379  del  2000  gli  consente,  in
attesa che si concluda il procedimento  di  verifica  dei  prescritti
requisiti.
    Deve altresi' aggiungersi che, in linea generale, in mancanza  di
una apposita disposizione che cio' preveda, il permesso di  soggiorno
per attesa cittadinanza non puo' essere convertito in altro  permesso
che consenta lo svolgimento di attivita' lavorativa.  Si  versa,  del
resto, in un ambito - quello della regolamentazione  dell'ingresso  e
del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale -  in  cui  la
discrezionalita'  del  legislatore  e'  particolarmente   ampia   (ex
plurimis, sentenze n. 277 del 2014 e n. 172 del 2012, con riferimento
alla «fissazione dei requisiti necessari per  le  autorizzazioni  che
consentono ai cittadini extracomunitari di trattenersi e lavorare nel
territorio della Repubblica»). E come si desume dalla  giurisprudenza
amministrativa - che intende preservare la tassativita' delle ipotesi
di conversione per non incidere sul sistema delle quote di  stranieri
autorizzati all'ingresso  in  Italia  per  ragioni  di  lavoro  -  la
conversione del permesso rilasciato  per  una  determinata  causa  in
altro genere di  titolo  puo'  ammettersi  solo  laddove  esista  una
espressa regolamentazione in tal senso, che ne  precisi  altresi'  le
relative condizioni (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione  terza,
sentenza 24 gennaio 2018, n. 476; Consiglio di Stato, sezione  terza,
sentenza 12 ottobre 2017, n. 4738; si  veda,  inoltre,  Consiglio  di
Stato, sezione prima, parere 25 agosto 2015, n. 1048).
    4.- In tale contesto normativo, l'Avvocatura generale dello Stato
eccepisce l'inammissibilita' della questione,  ritenendo  eccentriche
le due disposizioni censurate, ossia l'art. 1 della legge n. 379  del
2000 e l'art. 6 del  d.lgs.  n.  286  del  1998,  rispetto  al  thema
decidendum posto dall'ordinanza di rimessione, volta a  censurare  la
mancata utilizzabilita' a fini lavorativi del permesso  di  soggiorno
per attesa cittadinanza rilasciato ai destinatari della legge n.  379
del 2000.
    E', in effetti, vero che il  giudice  rimettente  ha  rivolto  le
proprie  censure  nei  confronti  di  disposizioni  non   del   tutto
conferenti nel caso di  specie.  Cio',  in  particolare,  perche'  il
permesso di soggiorno per attesa cittadinanza, che non  consentirebbe
lo svolgimento di attivita' lavorativa, non e' contemplato dalle  due
disposizioni censurate e, in particolare, non lo e' dall'art. 1 della
legge n. 379 del 2000, che pure riconosce ai soggetti ivi indicati la
cittadinanza italiana. Ed e' anche vero, come  suggerisce  la  stessa
Avvocatura  generale  dello  Stato,  che,  per  quanto   scarna,   la
disciplina del permesso  di  soggiorno  per  attesa  cittadinanza  e'
contenuta, come s'e' visto, nell'art. 11, comma 1,  lettera  c),  del
d.P.R. n. 394 del 1999: ma si e' gia' sottolineato  che,  trattandosi
di fonte regolamentare, il giudice a quo non avrebbe comunque  potuto
farne oggetto di diretta censura dinnanzi a questa Corte.
    Cio' posto, l'inammissibilita' della  questione,  a  ben  vedere,
discende da una ragione distinta da - e logicamente antecedente  a  -
quella allegata dall'Avvocatura erariale.
    Invero, anche alla luce della peculiare ratio della legge n.  379
del 2000, ispirata da  un  chiaro  favor  per  la  concessione  della
cittadinanza italiana a una particolare  categoria  di  soggetti,  il
giudice a quo avrebbe  dovuto  verificare  la  esperibilita'  di  una
interpretazione volta a regolare ragionevolmente - in modo conforme a
Costituzione -  la  situazione  di  quanti,  in  Italia  per  vedersi
riconoscere la cittadinanza, si sono trovati ad attendere  per  lungo
tempo  la  definizione  del   relativo   procedimento,   dovendo   in
particolare provvedere alle proprie  necessita'  di  vita  attraverso
l'indispensabile svolgimento di un'attivita' di lavoro.
    Ribadita la non applicabilita' a casi del genere della disciplina
contenuta nel d.lgs. n. 286  del  1998,  poiche',  come  gia'  detto,
rispondente a una logica del tutto distinta da quella della legge  n.
379 del 2000, va rilevato  che  non  e'  sconosciuta  all'ordinamento
l'ipotesi di permessi di soggiorno che, pur non essendo  convertibili
in permessi abilitanti al lavoro, consentono comunque lo  svolgimento
di attivita' lavorativa per tutta la durata del permesso stesso, e la
consentono,  percio',   senza   direttamente   incidere   ne'   sulla
tassativita' delle ipotesi di conversione, ne' sulla regolamentazione
dei flussi e delle quote di  stranieri  che  entrano  in  Italia  per
ragioni di lavoro (si veda, ad esempio, il combinato  disposto  degli
artt. 29, comma 6, e 31 del d.lgs. n. 286 del 1998; l'art. 20-bis del
d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera  h),
del d.l. n. 113 del 2018; l'art. 32, comma 3, del decreto legislativo
28  gennaio  2008,  n.  25,  recante  «Attuazione   della   direttiva
2005/85/CE recante norme minime  per  le  procedure  applicate  negli
Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca  dello  status
di rifugiato»).
    Nell'assenza  di  una  espressa  disciplina  che  regolamenti  la
situazione di quanti, destinatari della legge n. 379 del 2000,  hanno
ottenuto il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza  pur  senza
avere un precedente titolo abilitante alla permanenza in Italia, e in
Italia aspettano la conclusione del procedimento volto alla  verifica
dei prescritti  requisiti,  il  giudice  rimettente  avrebbe  percio'
dovuto verificare la praticabilita', in base alla ratio  della  legge
n. 379 del 2000 e alla luce della Costituzione, di un'interpretazione
che non trasformi l'imprevisto ritardo della  procedura  di  verifica
(anche  considerando  i  termini   generalmente   previsti   per   la
conclusione dei procedimenti per l'acquisto e  la  concessione  della
cittadinanza) in una lesione di  diritti  costituzionali  essenziali,
quale il diritto al lavoro. Lesione che  assume  connotati  peculiari
considerando, altresi', che essa avviene ai danni di un soggetto  cui
la legge, oltretutto, riconosce la cittadinanza,  in  caso  di  esito
positivo della verifica, a decorrere dal giorno successivo in cui  e'
stata resa la dichiarazione richiesta (art. 15 della legge n. 91  del
1992).
    Non e' senza significato, del resto, che proprio nella  direzione
qui  indicata  si  fossero  in  prima  battuta  orientate  le  stesse
amministrazioni  locali,  che  avevano  inizialmente  consentito   al
ricorrente nel giudizio principale di svolgere attivita'  lavorativa,
come si desume dall'ordinanza di rimessione.
    Il  non   aver   svolto   la   verifica   illustrata   e'   causa
d'inammissibilita' delle questioni sollevate.

     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara  l'inammissibilita'  delle  questioni  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1 della  legge  14  dicembre  2000,  n.  379
(Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana  alle
persone nate e gia' residenti nei  territori  appartenuti  all'Impero
austro-ungarico e ai loro discendenti)  e  dell'art.  6  del  decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo  unico  delle  disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla  condizione
dello  straniero),  sollevate  in  riferimento   all'art.   3   della
Costituzione, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del
Trentino Alto-Adige, sede di  Trento,  con  l'ordinanza  indicata  in
epigrafe.
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 maggio 2019.

                                F.to:
                    Giorgio LATTANZI, Presidente
                      Nicolo' ZANON, Redattore
                     Roberto MILANA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 19 giugno 2019.

                   Il Direttore della Cancelleria
                        F.to: Roberto MILANA


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