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mercoledì 26 giugno 2019
N. 150 SENTENZA 21 maggio - 19 giugno 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Impiego pubblico - Ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria - Procedimento disciplinare iniziato a seguito di condanna penale per i medesimi fatti oggetto di incolpazione - Termini per la promozione e la conclusione del procedimento. - Decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), art. 17. - (GU n.26 del 26-6-2019 )
N. 150 SENTENZA 21 maggio - 19 giugno 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Impiego pubblico - Ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria -
Procedimento disciplinare iniziato a seguito di condanna penale per
i medesimi fatti oggetto di incolpazione - Termini per la
promozione e la conclusione del procedimento.
- Decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), art.
17.
-
(GU n.26 del 26-6-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 17 del
decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promosso
dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria nel
procedimento vertente tra C. D. S. e il Ministero della giustizia e
altro, con ordinanza del 6 aprile 2018, iscritta al n. 107 del
registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2018.
Visti l'atto di costituzione di C. D. S., nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 21 maggio 2019 il Giudice
relatore Daria de Pretis;
uditi l'avvocato Ardo Arzeni per C. D. S. e l'avvocato dello
Stato Beatrice Gaia Fiduccia per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 6 aprile 2018, iscritta al n. 107 reg. ord.
2018, il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 17 del
decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) in
riferimento agli artt. 3 e 97, primo comma, della Costituzione, nella
parte in cui non prevede che, nel procedimento disciplinare nei
confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria
iniziato a seguito di condanna penale per i medesimi fatti oggetto di
incolpazione, si applichino i termini per la promozione e la
conclusione del procedimento stabiliti dall'art. 9, comma 2, della
legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze,
sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici
dipendenti).
Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso da C.
D. S., vice questore aggiunto della Polizia di Stato, per
l'annullamento della decisione emessa il 27 ottobre 2014 dalla
commissione competente a decidere sui ricorsi nei procedimenti
disciplinari contro gli ufficiali e gli agenti di polizia
giudiziaria. La decisione impugnata ha confermato la sanzione della
sospensione per quattro mesi dall'impiego, irrogata a C. D. S. dalla
commissione disciplinare presso la Corte di appello di Genova sulla
base della sua condanna definitiva alla pena principale di tre anni e
otto mesi di reclusione, nonche' alla pena accessoria
dell'interdizione temporanea per cinque anni dai pubblici uffici, per
i reati di cui agli artt. 110, 61, numero 2), e 419 del codice
penale, in relazione ai fatti verificatisi nella notte tra il 21 e il
22 luglio 2001 nell'istituto scolastico «Armando Diaz» durante il
vertice "G8" di Genova.
Il giudice a quo riferisce che il ricorrente nel processo
principale lamenta, tra l'altro, l'eccessiva durata del procedimento
disciplinare e la violazione dei termini perentori per l'avvio, lo
svolgimento e la conclusione del procedimento stesso, previsti
dall'art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, alla cui stregua il
«procedimento disciplinare [...] deve essere proseguito o promosso
entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto
notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei
successivi novanta giorni». Precisa che, nel caso di specie, tra la
notizia della sentenza irrevocabile e la notifica dell'atto di
incolpazione sarebbero trascorsi piu' di sette mesi e comunque
sarebbe trascorso oltre un anno dall'avvio del procedimento fino alla
sua conclusione.
1.1.- Le questioni sarebbero rilevanti, in quanto, ne' l'art. 17
censurato, ne' l'art. 127 del codice di procedura penale, in esso
richiamato, prevedono termini perentori per l'avvio e la conclusione
del procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali e degli
agenti di polizia giudiziaria a seguito di una sentenza penale
irrevocabile di condanna per gli stessi fatti addebitati
nell'incolpazione. Il processo principale non potrebbe dunque essere
definito indipendentemente dalla risoluzione delle questioni.
Neppure sarebbe possibile interpretare la norma censurata in
senso costituzionalmente orientato, per la univocita' del suo dato
letterale e per la specialita' del procedimento disciplinare regolato
dagli artt. 16 e 17 delle norme att. cod. proc. pen., che non
contempla la sanzione della destituzione, prevista invece dall'art. 9
della legge n. 19 del 1990, norma da assumere a tertium
comparationis. Una diversa soluzione interpretativa, perseguita
mediante «l'applicazione analogica» dei termini previsti in
quest'ultima disposizione, «si tradurrebbe in un'inammissibile
operazione additiva del dettato legislativo».
1.2.- La mancata previsione, nella norma censurata, di termini
perentori per l'avvio e per la conclusione del procedimento, a pena
di decadenza del potere disciplinare, determinerebbe
un'ingiustificata disparita' di trattamento degli ufficiali e degli
agenti di polizia giudiziaria, in contrasto con i principi di
uguaglianza e di ragionevolezza sanciti dall'art. 3 Cost., rispetto
alla «generalita' dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche in
regime di diritto pubblico» di cui all'art. 3 del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e segnatamente
rispetto al citato art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, che
esprimerebbe lo «statuto» di tutti gli altri dipendenti pubblici.
Analoga disparita' di trattamento sussisterebbe anche
considerando la normativa dettata dall'art. 55-ter, comma 4, del
d.lgs. n. 165 del 2001 per i dipendenti delle amministrazioni
pubbliche in regime di diritto privato, la quale tuttavia, ad avviso
del giudice a quo, non potrebbe fungere da tertium comparationis,
«stante l'elemento differenziatore costituito dalla natura
privatistica del relativo statuto giuridico».
A sostegno della non manifesta infondatezza della questione il
rimettente richiama gli argomenti svolti da questa Corte nella
sentenza n. 104 del 1991, che ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., il combinato disposto
degli artt. 20, 64, 65, 72 e 74 della legge 31 luglio 1954, n. 599
(Stato dei sottufficiali dell'Esercito, della Marina e
dell'Aeronautica), nella parte in cui non prevedevano che si
applicassero anche al procedimento disciplinare instaurato nei
confronti dei sottufficiali delle Forze armate, a seguito di una
sentenza definitiva di proscioglimento o assoluzione con formula non
liberatoria, i termini di avvio e di conclusione del procedimento
disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici civili previsti
dagli artt. 97, terzo comma, prima parte, 111, ultimo comma, e 120,
primo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello
Stato).
1.3.- L'art. 17 delle norme att. cod. proc. pen. violerebbe anche
il principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui
all'art. 97, primo comma, Cost., sotto i profili dell'economicita' e
della speditezza dell'azione amministrativa, dei quali gli artt. 1,
comma 2, 2 e 2-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in
materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi) costituirebbero specifica applicazione
La fissazione per legge di termini perentori di inizio e fine del
procedimento risponderebbe all'esigenza dell'incolpato a un
tempestivo e sollecito svolgimento del procedimento disciplinare e,
al contempo, all'interesse dell'amministrazione alla tutela della
propria immagine e del proprio prestigio, potenzialmente appannati
dal mancato o anche soltanto ritardato esercizio del potere
disciplinare.
2.- Con atto depositato il 17 luglio 2018 si e' costituito in
giudizio il ricorrente nel processo principale, che ha concluso per
l'accoglimento delle questioni, aderendo alle ragioni esposte dal
giudice a quo.
3.- Con atto depositato il 18 settembre 2018 e' intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per
l'infondatezza delle questioni.
Secondo l'Avvocatura, il giudice a quo non avrebbe adeguatamente
vagliato la possibilita' di interpretare la norma censurata in modo
conforme a Costituzione.
Il procedimento descritto dall'art. 17 delle norme att. cod.
proc. pen. avrebbe natura speciale, essendo diretto all'irrogazione
delle sanzioni disciplinari - la censura e, nei casi piu' gravi, la
sospensione dall'impiego per un tempo non eccedente i sei mesi -
previste dal precedente art. 16 delle stesse norme di attuazione per
gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria che abbiano violato
le disposizioni di legge attinenti all'esercizio delle funzioni a
essi affidate.
In assenza dell'indicazione, nella norma censurata, di termini
iniziali e finali del procedimento disciplinare promosso (o
proseguito dopo la sospensione) in seguito a sentenza penale
irrevocabile di condanna per gli stessi fatti, troverebbe
applicazione anche per tale procedimento la previsione generale
dell'art. 5, comma 4, della legge 20 marzo 2001, n. 97 (Norme sul
rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed
effetti del giudicato nei confronti dei dipendenti della pubblica
amministrazione), secondo cui «[i]l procedimento disciplinare deve
avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro
il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza
all'amministrazione o all'ente competente per il procedimento
disciplinare» e «deve concludersi entro centottanta giorni decorrenti
dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto
dall'articolo 653 del codice di procedura penale».
La legge n. 97 del 2001 disciplinerebbe infatti in via generale e
completa il rapporto tra procedimento penale e procedimento
disciplinare nei confronti dei dipendenti della pubblica
amministrazione, dopo che, con l'art. 9 della legge n. 19 del 1990,
introdotto a seguito della sentenza di questa Corte n. 971 del 1988,
il legislatore ha vietato ogni automatismo tra la condanna penale e
la destituzione degli stessi pubblici dipendenti.
Non sussisterebbe, pertanto, il vuoto legislativo denunciato dal
giudice a quo.
Sul piano soggettivo, l'art. 5, comma 4, della citata legge n. 97
del 2001 si applicherebbe «nei confronti dei dipendenti indicati nel
comma 1 dell'art. 3» della stessa legge, vale a dire nei confronti di
tutti i dipendenti «di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di
enti a prevalente partecipazione pubblica» in regime di diritto
pubblico, mentre per i dipendenti pubblici "contrattualizzati" vale
la diversa disciplina prevista dall'art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del
2001. Non avrebbe rilievo il fatto che il richiamato art. 3, comma 1,
della legge n. 97 del 2001 indica una serie di reati addebitati al
dipendente («delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317,
318, 319, 319-ter, 319-quater e 320 del codice penale e dall'articolo
3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383»), in quanto tale indicazione,
secondo la giurisprudenza sia di legittimita' che amministrativa,
avrebbe solo lo scopo di definire la fattispecie del trasferimento
d'ufficio a seguito di rinvio a giudizio, disciplinata dalla stessa
disposizione richiamata.
Nemmeno il riferimento contenuto nell'art. 5, comma 4, della
legge n. 97 del 2001 alla «estinzione del rapporto di lavoro e
impiego» varrebbe ad escludere la compatibilita' della disposizione
con la speciale disciplina del procedimento a carico degli ufficiali
e degli agenti di polizia giudiziaria, in quanto la previsione di
termini certi per la sanzione "espulsiva" ben potrebbe trovare
ragionevole applicazione anche nelle ipotesi meno gravi delle
sanzioni "conservative" del rapporto, come quelle previste dall'art.
16 delle norme att. cod. proc. pen.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria dubita
della legittimita' costituzionale dell'art. 17 del decreto
legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), in
riferimento agli artt. 3 e 97, primo comma, della Costituzione, nella
parte in cui non prevede che, nel procedimento disciplinare nei
confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria
instaurato a seguito di definitiva condanna penale per i medesimi
fatti oggetto di incolpazione, si applichino i termini per la
promozione e la conclusione del procedimento stabiliti dall'art. 9,
comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di
circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei
pubblici dipendenti), secondo il quale «[l]a destituzione puo' sempre
essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve
essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in
cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di
condanna e concluso nei successivi novanta giorni».
Ad avviso del rimettente, la mancata previsione, nella norma
censurata, di termini perentori per l'avvio e per la conclusione del
procedimento, a pena di decadenza del potere disciplinare,
determinerebbe un'ingiustificata disparita' di trattamento degli
ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, in contrasto con i
principi di uguaglianza e di ragionevolezza sanciti dall'art. 3
Cost., rispetto alla «generalita' dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche in regime di diritto pubblico» di cui
all'art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche), e segnatamente rispetto al citato art. 9,
comma 2, della legge n. 19 del 1990, che esprimerebbe lo «statuto» di
tutti gli altri dipendenti pubblici.
L'art. 17 censurato violerebbe anche il principio di buon
andamento della pubblica amministrazione di cui all'art. 97 Cost.,
sotto i profili dell'economicita' e della speditezza dell'azione
amministrativa, a garanzia delle quali e' diretta la fissazione per
legge di termini perentori di inizio e fine del procedimento.
2.- Le questioni sono inammissibili.
Le censure mosse all'art. 17 delle norme att. cod. proc. pen.
investono il rapporto tra il processo penale e il procedimento
disciplinare, nel caso in cui quest'ultimo sia instaurato nei
confronti di un ufficiale di polizia giudiziaria condannato con
sentenza penale irrevocabile per gli stessi fatti, essendo
contestata, in particolare, la mancata previsione, nella disposizione
censurata, di termini di decadenza per l'inizio e per la conclusione
del procedimento disciplinare in essa regolato.
Il giudice a quo assume a tertium comparationis della denunciata
disparita' di trattamento la disciplina - qualificata dallo stesso
rimettente come «statuto di tutti gli altri dipendenti pubblici» -
contenuta all'art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990 con
riguardo alla destituzione dei pubblici dipendenti, ma, come osserva
nelle sue difese l'Avvocatura, non considera l'evoluzione normativa
della materia.
Il quadro normativo di riferimento per quanto attiene agli
effetti del giudicato penale nei procedimenti disciplinari contro i
pubblici dipendenti e' stato profondamente innovato dalla legge 27
marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e
procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei
confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), la quale
per un verso prevede che anche la sentenza penale irrevocabile di
condanna e quella di applicazione della pena su richiesta abbiano
efficacia nel giudizio disciplinare (artt. 1 e 2, modificativi,
rispettivamente, degli artt. 653 e 445 del codice di procedura
penale), per altro verso regola il rapporto tra processo penale e
procedimento disciplinare.
L'art. 5, comma 4, prevede in particolare che, nel caso sia
pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna «nei confronti
dei dipendenti indicati nel comma 1 dell'articolo 3» della stessa
legge n. 97 del 2001, «l'estinzione del rapporto di lavoro o di
impiego puo' essere pronunciata a seguito di procedimento
disciplinare», che «deve avere inizio o, in caso di intervenuta
sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla
comunicazione della sentenza all'amministrazione o all'ente
competente per il procedimento disciplinare» e «deve concludersi
entro centottanta giorni decorrenti dal termine di inizio o di
proseguimento».
Per quello che qui rileva, il richiamato art. 3, comma 1, della
legge n. 97 del 2001 prevede che, «[s]alva l'applicazione della
sospensione dal servizio in conformita' a quanto previsto dai
rispettivi ordinamenti, quando nei confronti di un dipendente di
amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente
partecipazione pubblica e' disposto il giudizio per alcuni dei
delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319,
319-ter, 319-quater e 320 del codice penale e dall'articolo 3 della
legge 9 dicembre 1941, n. 1383, l'amministrazione di appartenenza lo
trasferisce ad un ufficio diverso da quello in cui prestava servizio
al momento del fatto, con attribuzione di funzioni corrispondenti,
per inquadramento, mansioni e prospettive di carriera, a quelle
svolte in precedenza».
Nell'interpretazione offerta dalla giurisprudenza civile e
amministrativa, l'art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001 ha in
sostanza riformulato la disciplina dell'art. 9, comma 2, della legge
n. 19 del 1990 relativamente ai rapporti tra il procedimento penale
conclusosi con sentenza irrevocabile di condanna e il procedimento
disciplinare instaurato (o proseguito dopo la sospensione) per gli
stessi fatti (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 5 ottobre
2016, n. 19930; 7 dicembre 2012, n. 22210; 10 marzo 2010, n. 5806) ed
e' applicabile non solo ai dipendenti pubblici soggetti al giudizio
per i delitti indicati nel richiamato comma 1 dell'art. 3, ma a tutto
il settore del pubblico impiego, ivi compresi gli appartenenti alle
Forze armate e alla Polizia di Stato (Consiglio di Stato, sezione
sesta, sentenza 18 settembre 2015, n. 4350).
Il menzionato richiamo al comma 1 dell'art. 3 e' diretto infatti
ad attrarre nell'ambito di applicazione della nuova disciplina tutto
il settore dei dipendenti «di amministrazioni o di enti pubblici
ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica», con
l'obiettivo, desumibile dal titolo della legge, di sottoporre a una
disciplina unitaria il «rapporto tra procedimento penale e
procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei
confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche» (Consiglio
di Stato, sezione sesta, sentenza 6 aprile 2009, n. 2112; nello
stesso senso, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 ottobre
2016, n. 19930, secondo la quale il rinvio al comma 1 dell'art. 3
«non puo' che riferirsi solo alla espressione "dipendente di
amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente
partecipazione pubblica", mentre la tipologia di reati contenuta nel
medesimo art. 3, comma 1, concorre a definire la specifica
fattispecie» disciplinata da tale disposizione, vale a dire il
trasferimento d'ufficio a seguito di rinvio a giudizio).
Sempre nell'applicazione giurisprudenziale, inoltre, l'art. 5,
comma 4, della legge n. 97 del 2001 trova applicazione nei
procedimenti disciplinari destinati a sfociare in qualsiasi sanzione,
non solo in quelle che comportano l'estinzione del rapporto di lavoro
o di impiego (Consiglio di Stato, sentenza n. 2112 del 2009, secondo
la quale restringere la portata della norma ai procedimenti
disciplinari destinati a sfociare in una misura espulsiva
significherebbe «compiere una non consentita inversione logica,
facendo dipendere la struttura del procedimento dall'esito finale
dello stesso, che proprio il procedimento potra' determinare»).
2.1.- La disposizione censurata avrebbe, dunque, dovuto essere
valutata in riferimento al contesto normativo e giurisprudenziale
cosi' ricostruito, tenendo conto in particolare della disciplina
della legge n. 97 del 2001 - certamente applicabile ratione temporis
alla fattispecie dedotta nel giudizio a quo sulla base della
descrizione che ne fornisce il rimettente - e della sua
interpretazione da parte della giurisprudenza.
In questo contesto, sarebbe stato onere del rimettente dare conto
delle ragioni della assunta permanente vigenza dell'art. 9, comma 2,
della legge n. 19 del 1990 e della sua idoneita' a fungere da tertium
comparationis in seguito alla sostanziale riformulazione, operata
dall'art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001, della disciplina
dei termini di inizio (o di prosecuzione) e di conclusione del
procedimento disciplinare.
Ugualmente sarebbe stato necessario stabilire la relazione fra lo
speciale procedimento nei confronti degli ufficiali e agenti di
polizia giudiziaria e il nuovo regime dei termini, ed esplorare,
sulla scia dell'orientamento giurisprudenziale che riconosce una
portata generale alla disposizione non considerata dal rimettente, la
possibilita' di escludere il prospettato vulnus costituzionale.
La specialita' della disciplina contenuta agli artt. 16, 17 e 18
delle norme att. cod. proc. pen. - che regola le condotte illecite,
le sanzioni irrogabili, la titolarita' dell'azione disciplinare, la
tutela del contraddittorio e il diritto di difesa dell'incolpato,
nonche' la composizione delle commissioni di disciplina - trova
ragione nella dipendenza funzionale della polizia giudiziaria
dall'autorita' giudiziaria. Nella prospettiva del rimettente,
tuttavia, essa non osta all'applicabilita' al procedimento ivi
disciplinato (art. 17 delle norme att. cod. proc. pen.) dei termini
stabiliti dall'art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001, posto che
la stessa normativa speciale non tratta espressamente del rapporto
tra il processo penale e il procedimento disciplinare.
2.2.- La circostanza che il rimettente non abbia ricostruito in
modo completo il quadro normativo, ne' abbia esaminato i profili
indicati di applicabilita' della disciplina intervenuta, anche solo
per negarne rilievo o consistenza, compromette irrimediabilmente
l'iter logico argomentativo posto a fondamento delle censure
sollevate. Cio' che, secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, ne preclude lo scrutinio, incidendo
sull'ammissibilita' delle questioni (ex plurimis, sentenze n. 27 del
2015, n. 165 del 2014 e n. 276 del 2013; ordinanze n. 244 del 2017 e
n. 194 del 2014).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 17 del decreto legislativo 28 luglio 1989,
n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale), sollevate dal Tribunale amministrativo
regionale per la Liguria, in riferimento agli artt. 3 e 97, primo
comma, della Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 giugno 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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