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mercoledì 9 ottobre 2019

N. 218 SENTENZA 15 luglio - 3 ottobre 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Previdenza - Previdenza complementare - Dipendenti delle pubbliche amministrazioni - Riscatto volontario della posizione individuale dal fondo pensione - Trattamento fiscale - Assoggettamento alla tassazione ordinaria anziche' a quella agevolata prevista per i dipendenti del settore privato - Disparita' di trattamento - Illegittimita' costituzionale in parte qua. - Decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, art. 23, comma 6. - Costituzione, artt. 3 e 53. (GU n.41 del 9-10-2019 )



N. 218 SENTENZA 15 luglio - 3 ottobre 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Previdenza - Previdenza complementare -  Dipendenti  delle  pubbliche
  amministrazioni - Riscatto volontario della  posizione  individuale
  dal fondo pensione - Trattamento  fiscale  -  Assoggettamento  alla
  tassazione ordinaria anziche' a quella  agevolata  prevista  per  i
  dipendenti del  settore  privato  -  Disparita'  di  trattamento  -
  Illegittimita' costituzionale in parte qua.
- Decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, art. 23, comma 6.
- Costituzione, artt. 3 e 53.
(GU n.41 del 9-10-2019 )
 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  23,  comma
6, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina  delle
forme pensionistiche complementari), in relazione all'art. 52,  comma
1, lettera d-ter), del decreto del  Presidente  della  Repubblica  22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui
redditi),  promosso  dalla  Commissione  tributaria  provinciale   di
Vicenza nel procedimento vertente tra Paola Rizzo e  l'Agenzia  delle
entrate - Direzione provinciale di  Vicenza,  con  ordinanza  dell'11
ottobre 2017,  iscritta  al  n.  1  del  registro  ordinanze  2019  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  5,  prima
serie speciale, dell'anno 2019.
    Visti l'atto di costituzione di Paola Rizzo,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    udito  nell'udienza  pubblica  del  18  giugno  2019  il  Giudice
relatore Luca Antonini;
    uditi  l'avvocato  Flavio  De  Benedictis  per  Paola   Rizzo   e
l'avvocato dello Stato  Gabriella  Palmieri  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.- Con ordinanza dell'11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019),  la
Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 23,  comma  6,  del  decreto
legislativo  5  dicembre  2005,  n.  252  (Disciplina   delle   forme
pensionistiche complementari), in relazione  all'art.  52,  comma  1,
lettera d-ter),  del  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui
redditi), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
    La controversia pendente davanti al giudice  rimettente  riguarda
il rifiuto tacito opposto dall'Agenzia delle entrate  all'istanza  di
rimborso dell'imposta sui redditi delle  persone  fisiche  (IRPEF)  e
delle addizionali comunale e regionale  per  l'anno  2014  presentata
dalla ricorrente; questa ritiene di avere versato un'imposta maggiore
del dovuto poiche' al reddito complessivo prodotto e'  stato  sommato
l'ammontare dell'imponibile erogatole dal  Fondo  nazionale  pensione
complementare per i lavoratori della scuola (Fondo scuola  «Espero»),
tassato sulla base di disposizioni asseritamente illegittime. A  tale
fondo la stessa e' stata iscritta dal 16 dicembre 2009 al  30  giugno
2014,  maturando  una  posizione  individuale  imponibile   di   euro
8.108,70; esercitato il riscatto volontario, il  fondo  ha  applicato
sulla somma liquidatale una ritenuta alla fonte di  euro  1.865,01  a
titolo di tassazione ordinaria, per effetto  del  combinato  disposto
degli artt. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005 e  52,  comma  2,
lettera d-ter), t.u. imposte redditi.
    2.- Quanto alla non manifesta infondatezza,  l'ordinanza  ricorda
che il fondo al quale  la  ricorrente  aveva  aderito,  costituito  a
seguito della riforma pensionistica contenuta nella  legge  8  agosto
1995, n.  335  (Riforma  del  sistema  pensionistico  obbligatorio  e
complementare), e' destinato ai lavoratori del comparto  scuola,  sia
con  contratto  a  tempo  indeterminato  che  determinato,   che   vi
aderiscono volontariamente.
    Prosegue il giudice rilevando che  la  riforma  introdotta  dalla
legge 23 agosto 2004,  n.  243  (Norme  in  materia  pensionistica  e
deleghe al Governo nel settore  della  previdenza  pubblica,  per  il
sostegno alla previdenza complementare e  all'occupazione  stabile  e
per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria),
avente tra l'altro ad oggetto l'adozione di norme intese a «sostenere
e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche  complementari»  (art.
1, comma 1), non avrebbe trovato immediata applicazione nei confronti
del pubblico  impiego.  Infatti,  non  e'  stato  emanato  l'apposito
decreto di armonizzazione necessario per l'attuazione degli specifici
principi e criteri direttivi indicati all'art. 1,  comma  2,  lettera
p), della legge citata: «applicare i principi e i  criteri  direttivi
di cui al comma 1 e al presente comma e le disposizioni relative agli
incentivi al posticipo del pensionamento di cui ai commi da 12 a  17,
con le necessarie  armonizzazioni,  al  rapporto  di  lavoro  con  le
amministrazioni  di  cui  all'articolo  1,  comma  2,   del   decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, previo
confronto  con  le  organizzazioni  sindacali  comparativamente  piu'
rappresentative dei datori e dei prestatori di  lavoro,  le  regioni,
gli enti locali  e  le  autonomie  funzionali,  tenendo  conto  delle
specificita' dei singoli settori e dell'interesse  pubblico  connesso
all'organizzazione  del   lavoro   e   all'esigenza   di   efficienza
dell'apparato amministrativo pubblico».
    Il d.lgs. n. 252 del 2005, recante disposizioni  attuative  della
predetta legge delega, prevedeva, infatti, all'art. 21, comma 8,  che
«[f]atto salvo quanto previsto dall'art. 23, comma 5, e' abrogato  il
decreto legislativo 21 aprile  1993,  n.  124»,  recante  «Disciplina
delle forme pensionistiche complementari, a  norma  dell'articolo  3,
comma 1, lettera v), della legge 23 ottobre 1992, n. 421», e all'art.
23, comma 6, che «[f]ino all'emanazione del  decreto  legislativo  di
attuazione dell'articolo 1, comma  2,  lettera  p),  della  legge  23
agosto 2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30  marzo  2001,
n. 165, si applica  esclusivamente  ed  integralmente  la  previgente
normativa».
    Ad avviso del giudice  a  quo,  il  combinato  disposto  di  tali
previsioni  escluderebbe  «l'applicazione,  al  rapporto  di   lavoro
pubblico, del regime fiscale piu' favorevole introdotto dallo  stesso
decreto legislativo, creando due regimi impositivi e  una  disparita'
di trattamento costituzionalmente rilevante». Infatti, il  cosiddetto
riscatto volontario di una posizione individuale accumulata  dopo  il
1° gennaio 2007 (data di entrata in vigore  del  d.lgs.  n.  252  del
2005), «se  erogato  a  favore  di  dipendenti  del  settore  privato
iscritti a una forma pensionistica di natura negoziale  di  cui  sono
destinatari, beneficia della favorevole  imposizione  sostitutiva  di
cui all'art. 14  del  decreto  legislativo  n.  252/2005,  mentre  il
medesimo riscatto erogato a favore di dipendenti pubblici subisce una
differente   e   penalizzante   imposizione    ordinaria    che    si
configur[erebbe] nella maggiorazione dell'onere tributario, derivante
dall'applicazione dell'art. 52, comma 1, lett. d-ter) del TUIR».
    Pertanto, il rimettente ritiene che il d.lgs.  n.  252  del  2005
risulterebbe «carente di una disciplina  generale  di  armonizzazione
con  il  settore  pubblico»,  per  effetto  delle  sopra   richiamate
disposizioni di cui agli artt. 21, comma  8,  e  23,  comma  6  della
stessa fonte normativa.
    Il  combinato  disposto   di   queste   ultime   «esclude[rebbe],
irragionevolmente, al rapporto di lavoro pubblico  contrattualizzato,
il regime fiscale piu' favorevole  introdotto  dallo  stesso  decreto
legislativo,  creando  due  sistemi   impositivi».   La   conseguente
disparita' di  trattamento  appare  al  rimettente  irragionevole,  e
quindi in violazione dell'art. 3 Cost., essendo lesiva del  principio
di uguaglianza tra  lavoratori  del  settore  pubblico  e  di  quello
privato, nonche' dell'art. 53 Cost., «in quanto una medesima fonte di
capacita'  contributiva   v[errebbe]   sottoposta   a   due   diverse
imposizioni fiscali».
    L'ordinanza  ritiene  le  questioni  rilevanti   in   quanto   la
risoluzione della controversia in senso sfavorevole o  favorevole  al
contribuente dipenderebbe dall'applicazione  della  norma  della  cui
costituzionalita' si dubita.
    3.- Con atto depositato il 19 febbraio  2019  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello  Stato,  chiedendo  che  le  questioni
siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate.
    Vengono, in premessa, richiamate le principali fonti normative in
materia di previdenza complementare segnalando, da ultimo, l'art.  1,
comma 156,  della  legge  27  dicembre  2017,  n.  205  (Bilancio  di
previsione  dello  Stato  per  l'anno  finanziario  2018  e  bilancio
pluriennale  per  il  triennio  2018-2020):  tale   disposizione,   a
decorrere  dal  1°  gennaio  2018,  ha  esteso  ai  dipendenti  delle
pubbliche   amministrazioni   le    disposizioni    concernenti    la
deducibilita' dei premi  e  dei  contributi  versati  ai  fini  della
previdenza complementare e il regime di tassazione delle  prestazioni
previsti dal d.lgs. n. 252 del 2005, precisando che, per i dipendenti
pubblici iscritti alla data di entrata in vigore della legge a  forme
previdenziali  complementari,  «relativamente   ai   montanti   delle
prestazioni accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi  le
disposizioni previgenti».
    3.1.- L'Avvocatura generale eccepisce la  inammissibilita'  delle
questioni, «per non  avere  investito  la  normativa  rilevante,  con
particolare riferimento all'art. 1 della legge delega n. 243/2004, in
forza della quale e' stato emanato il D.Lgs.  252/2005».  Richiamando
il principio direttivo contenuto nella lettera p) del comma 2 di tale
articolo, ritiene evidente che l'art. 23, comma 6, del d.lgs. n.  252
del 2005, sospettato di incostituzionalita', trovi  in  esso  il  suo
fondamento.
    Un ulteriore profilo di inammissibilita'  deriverebbe  dal  fatto
che l'ordinanza  ha  richiesto  la  dichiarazione  di  illegittimita'
dell'art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005  senza  richiamare,
«neppure in estrema sintesi», la  disciplina,  contenuta  nel  citato
decreto legislativo, in tema di trattamento fiscale delle prestazioni
di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati diverse dal
riscatto volontario, di  cui  l'accoglimento  del  petitum  formulato
«comporterebbe l'estensione ai lavoratori del comparto pubblico».
    3.2.- A sostegno della manifesta  infondatezza  della  questione,
l'Avvocatura premette che le prestazioni di previdenza  complementare
costituiscono reddito da lavoro dipendente o da pensione e  che,  sia
il d.lgs. n. 124 del 1993, sia il  decreto  legislativo  18  febbraio
2000, n.  47  (Riforma  della  disciplina  fiscale  della  previdenza
complementare, a norma dell'articolo 3 della l. 13  maggio  1999,  n.
133), avevano  delineato  «un  trattamento  fiscale  delle  anzidette
prestazioni omogeneo per i lavoratori privati e  pubblici  analogo  a
quello dettato dal TUIR per tali redditi».
    Secondo la ricostruzione dell'Avvocatura  il  regime  applicabile
alla quota parte delle prestazioni  riferibili  ai  contributi  e  al
trattamento di fine rapporto (TFR) versati fino al 31 dicembre  2006,
sia per i lavoratori pubblici che per quelli privati,  prevedeva:  a)
la tassazione progressiva, per le prestazioni in forma periodica;  b)
la tassazione separata, per le prestazioni in forma di capitale e per
le anticipazioni; c) la tassazione separata, per riscatti conseguenti
a pensionamento, cessazione del rapporto di lavoro  per  mobilita'  e
per altre cause non dipendenti dalla  volonta'  delle  parti;  d)  la
tassazione progressiva, per i riscatti volontari.
    Rispetto a tale regime tipico, la nuova  disciplina  dettata  dal
d.lgs.  n.  252  del  2005   avrebbe   un   connotato   evidentemente
agevolativo, come risulterebbe dal contenuto dell'art. 11. Per quanto
attiene ai riscatti, si applicherebbe la medesima tassazione prevista
per le prestazioni erogate sotto  forma  di  capitale,  nei  casi  di
riscatti esercitati ai sensi dell'art. 14, commi 2 e 3, del d.lgs. n.
252 del 2005,  mentre  le  ipotesi  di  riscatto  per  cause  diverse
sarebbero assoggettate a ritenuta  a  titolo  d'imposta  del  23  per
cento.
    Cio' ricordato, ad avviso dell'interveniente le censure sollevate
dal  giudice  a  quo   sarebbero   manifestamente   infondate   «[i]n
considerazione della natura agevolativa  delle  disposizioni  dettate
dal D.Lgs. n. 252/2005» e del principio  affermato  dalla  Corte  (e'
richiamata la sentenza n. 21 del 2005), secondo cui «la previsione di
aliquote differenziate per settori  produttivi  e  per  tipologie  di
soggetti  passivi  rientra  pienamente  nella  discrezionalita'   del
legislatore, se sorretta da  non  irragionevoli  motivi  di  politica
economica e ridistributiva». L'Avvocatura ritiene che  la  stabilita'
del rapporto pubblico e la  circostanza  che  i  dipendenti  pubblici
percepissero  e  continuino  a  percepire  trattamenti  pensionistici
obbligatori di importo pari «circa al doppio di quelli percepiti  dai
dipendenti   privati»,   costituirebbero   «ragioni   sufficienti   a
giustificare una disciplina  differenziata  del  trattamento  fiscale
delle prestazioni erogate dalle forme di previdenza complementare».
    Argomentando  sotto  un  ulteriore   profilo   di   infondatezza,
l'Avvocatura generale considera che la previdenza integrativa sarebbe
stata costituita prendendo a modello il settore dipendente privato  e
attribuendo un ruolo fondamentale al trattamento  di  fine  rapporto.
Peraltro, cio' avrebbe  fin  dall'inizio  comportato  difficolta'  di
applicazione nel settore pubblico, nel quale mancava il  TFR,  e  non
potendo quindi il bilancio pubblico facilmente «trasferirlo ai  fondi
pensione nel caso di  una  trasformazione  dei  trattamenti  di  fine
servizio (TFS) in TFR».
    La difesa dello Stato prosegue riepilogando  le  fasi  che  hanno
segnato l'estensione ai dipendenti  pubblici  del  TFR,  inizialmente
disposta dalla legge n. 335 del 1995, e delineando  le  modalita'  di
determinazione della misura dei contributi a carico del lavoratore  e
del datore di lavoro, nonche' le modalita' di accantonamento del  TFR
dei dipendenti pubblici.
    Tali peculiari vicende e, in particolare, la «diversa  disciplina
ed entita' del TFS e la differente modalita'  di  accantonamento  del
TFR» costituirebbero, ad avviso  dell'Avvocatura,  ulteriori  ragioni
che varrebbero «a rendere non irragionevole la scelta del legislatore
di  differenziare  il  trattamento  fiscale  delle   prestazioni   di
previdenza complementare erogate dai  fondi  pensione  ai  lavoratori
pubblici e privati».
    4.- Con atto depositato il 15 febbraio  2019,  si  e'  costituita
Paola Rizzo, come rappresentata e difesa, in qualita'  di  parte  del
giudizio a quo.
    Dopo avere richiamato il regime di tassazione applicabile per  il
periodo dal 1° gennaio 2001 al 31 dicembre 2006, e  avere  menzionato
la disposizione di cui all'art. 23, comma 6, del d.lgs.  n.  252  del
2005, la  parte  da'  atto  del  nuovo  regime  di  tassazione  delle
prestazioni a favore dei dipendenti delle  amministrazioni  pubbliche
introdotto dall'art. 1, comma 156, della l. n. 205 del 2017.
    4.1.-  Anche  a  seguito   dell'entrata   in   vigore   di   tale
disposizione, tuttavia, non potrebbe «considerarsi cessata la materia
del contendere del presente procedimento»: ad avviso della  parte  lo
ius superveniens «non  [avrebbe]  avuto  carattere  satisfattivo  dei
rilievi sollevati dal giudice a quo» e,  inoltre,  vi  sarebbe  stata
«applicazione  medio  tempore  della   disposizione   originariamente
censurata». Considerando che quest'ultima  avrebbe  «gia'  conosciuto
effettiva applicazione al momento in cui  e'  entrata  in  vigore  la
disciplina sopravvenuta», si  prospetta  l'estensione  del  «giudizio
incidentale di legittimita' costituzionale» al comma 156 dell'art.  1
della  l.  n.  205  del  2017;  nonostante  lo  ius  superveniens,  i
lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche continuerebbero
a subire una  illegittima  discriminazione,  risultante  dai  diversi
regimi, di cui si esplicitano i contenuti.
    4.2.- Il regime impositivo previgente al d.lgs. n. 252 del  2005,
applicabile  alle  prestazioni  erogate  a  dipendenti  di  pubbliche
amministrazioni per la quota riferibile al montante accumulato dal 1°
gennaio 2007 al 31 dicembre 2017, risulterebbe  in  contrasto  con  i
parametri  evocati  dal  rimettente.  A  sostegno  di  tale  tesi  si
richiamano le affermazioni contenute nella sentenza n.  10  del  2015
sul principio della  capacita'  contributiva,  da  interpretare  come
specificazione settoriale del piu' ampio principio di uguaglianza  di
cui all'art. 3 Cost., e nella sentenza n. 83  del  2015,  sul  limite
della  manifesta  irragionevolezza  applicabile  anche   in   materia
tributaria     al     principio     della     discrezionalita'      e
dell'insindacabilita' delle opzioni legislative.
    La scelta legislativa di tassare in modo totalmente differente  e
penalizzante una prestazione di previdenza complementare percepita da
un  aderente  a  una  forma  pensionistica  collettiva  per  la  sola
circostanza  che  il  proprio  datore  di  lavoro  sia  una  pubblica
amministrazione (e non un soggetto di diritto privato) sarebbe quindi
manifestamente irragionevole e discriminatoria in forza dei parametri
costituzionali evocati.
    Da ultimo, si sostiene che il  vizio  di  irragionevolezza  sopra
evidenziato porrebbe una questione di  illegittimita'  costituzionale
«anche con riferimento al principio di  non  discriminazione  di  cui
all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione  all'art.
21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea  [...]  e
in relazione all'art. 14 della Convenzione per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali».
    5.- In prossimita' dell'udienza e' pervenuta  una  memoria  della
parte privata, che replica all'atto di intervento del Presidente  del
Consiglio dei ministri.
    A confutazione della eccezione di inammissibilita' per non essere
stata censurata la legge di delegazione, si osserva che la situazione
di  irragionevolezza  denunciata  nel  giudizio  conseguirebbe  dalla
mancata attuazione del criterio di legge delega di cui  alla  lettera
p) del comma 2 dell'art. 1 della legge n. 243 del 2004  e  non  dalla
stessa  disposizione  di  legge,  che  prevedeva  l'applicazione   al
rapporto di lavoro con  le  pubbliche  amministrazioni  degli  stessi
principi  e  criteri  direttivi  fissati  per  il  settore   privato.
Pertanto, il giudice rimettente non avrebbe  dovuto  censurare  anche
tale ultima disposizione normativa.
    Ugualmente  infondata  sarebbe  l'altra  eccezione   prospettata,
atteso che l'ordinanza esplicitamente ed esaustivamente richiamerebbe
il regime impositivo di cui al d.lgs.  n.  252  del  2005,  citandone
l'art. 14.
    Quanto agli argomenti di merito  utilizzati  dalla  difesa  dello
Stato, la memoria ritiene che si basino su presupposti errati e siano
comunque infondati. Precisa che la ricorrente aveva prestato  la  sua
attivita' in forza di un contratto di lavoro a tempo determinato  con
scadenza al 30 giugno 2014, si' che nessuna stabilita'  del  rapporto
stesso  potrebbe  essere  invocata.  Inoltre,  fa  presente   che   i
dipendenti pubblici  non  beneficiano  di  trattamenti  pensionistici
obbligatori calcolati in modo differente rispetto ai  lavoratori  del
settore privato, essendo il relativo importo direttamente correlato a
quello dei contributi versati all'ente previdenziale di gestione  del
sistema pensionistico pubblico.
    In ogni caso, la diversa natura del datore di lavoro non potrebbe
assurgere a indice della capacita' contributiva tale da  giustificare
un prelievo fiscale totalmente  differente  su  medesimi  presupposti
d'imposta.
    Inoltre,  si   ritiene   inconferente   con   la   questione   di
costituzionalita' «la legislazione sulla indennita' di fine  servizio
spettante  a  determinate  tipologie  di   lavoratori   del   settore
pubblico». Infine, la preclusione per i lavoratori pubblici di  poter
materialmente ed effettivamente conferire le quote maturande del  TFR
alla  propria  forma  pensionistica  complementare,  rappresenterebbe
tuttalpiu' un'ulteriore discriminazione a danno degli  stessi  e  non
certo  una  valida  ragione  per   giustificare   il   differente   e
penalizzante prelievo  tributario  sulle  prestazioni  di  previdenza
complementare.

                       Considerato in diritto

    1.- Con ordinanza dell'11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019),  la
Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 23,  comma  6,  del  decreto
legislativo  5  dicembre  2005,  n.  252  (Disciplina   delle   forme
pensionistiche complementari), in relazione  all'art.  52,  comma  1,
lettera d-ter),  del  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui
redditi), secondo i quali sulle somme percepite dai dipendenti  delle
pubbliche  amministrazioni  a  titolo  di  riscatto  della  posizione
individuale maturata presso una  forma  di  previdenza  complementare
collettiva si applica il regime fiscale previgente al d.lgs.  n.  252
del 2005, invece del regime fiscale  piu'  favorevole  introdotto  da
detto d.lgs. n. 252 del 2005 per la stessa prestazione erogata  dalle
forme pensionistiche complementari collettive ai dipendenti  privati.
Il rimettente ritiene che nel d.lgs. n. 252 del 2005  la  carenza  di
una disciplina generale di armonizzazione  con  il  settore  pubblico
conduca  a  escludere  l'applicazione   del   regime   fiscale   piu'
favorevole,  introdotto  dallo  stesso  decreto  legislativo  per  il
rapporto  di  lavoro  privato,  al  rapporto   di   lavoro   pubblico
contrattualizzato:  la  duplicita'  dei  sistemi  impositivi   e   la
disparita'  di  trattamento  conseguenti   sarebbero,   percio',   in
contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione.
    Nel giudizio a quo si impugna il rifiuto tacito  formatosi  sulla
richiesta, avanzata dalla  ricorrente,  di  rimborso  della  maggiore
imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF)  e  delle  maggiori
addizionali regionale e comunale versate sulle somme percepite da  un
fondo  pensione  complementare  (Fondo  scuola  «Espero»)  a  seguito
dell'esercizio, da parte di un dipendente pubblico, della facolta' di
riscatto  cosiddetto  volontario.  L'Agenzia  delle  entrate  ritiene
corretta   l'applicazione   della   tassazione   ordinaria,   secondo
l'aliquota progressiva applicabile al reddito complessivo,  ai  sensi
dell'art. 52, comma 1, lettera d-ter), t.u. imposte  redditi,  mentre
la ricorrente sostiene la incostituzionalita'  di  tale  norma  e  la
necessita' di applicare il piu' favorevole trattamento previsto per i
dipendenti privati dall'art. 14 del d.lgs. n. 252 del 2005.
    2.- Deve preliminarmente rilevarsi che non  incide  nel  presente
giudizio lo ius superveniens dell'art. 1, comma 156, della  legge  27
dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per  l'anno
finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il  triennio  2018-2020).
Tale disposizione ha previsto che «[a] decorrere dal 1° gennaio 2018,
ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo  1,
comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si  applicano
le disposizioni concernenti la deducibilita' dei premi  e  contributi
versati e il regime di tassazione delle prestazioni di cui al decreto
legislativo  5  dicembre  2005,  n.  252.  Per  i  dipendenti   delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165,  che,  alla  data  di  entrata  in
vigore   della   presente   legge,   risultano   iscritti   a   forme
pensionistiche  complementari,   le   disposizioni   concernenti   la
deducibilita' dei contributi versati e il regime di tassazione  delle
prestazioni di cui al decreto legislativo 5 dicembre  2005,  n.  252,
sono applicabili a decorrere dal 1°  gennaio  2018.  Per  i  medesimi
soggetti, relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate fino
a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti».
    La norma citata, successiva all'ordinanza di rimessione,  non  ha
effetti retroattivi e non e' quindi applicabile al giudizio a quo, il
quale ha ad oggetto un rapporto di previdenza  complementare  cessato
nel 2014.
    3.- Va,  in  primo  luogo,  rilevata  la  inammissibilita'  delle
deduzioni svolte dalla parte costituita, ricorrente  nel  giudizio  a
quo,  volte  ad  estendere  il  thema  decidendum  -  quale  definito
nell'ordinanza di rimessione - «anche con riferimento al principio di
non  discriminazione  di  cui  all'art.  117,  primo   comma,   della
Costituzione, in  relazione  all'art.  21  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea proclamata a  Nizza  il  7  dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12  dicembre  2007,  e  in  relazione
all'art.  14  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848».
    Si tratta di profili di illegittimita' che il giudice a  quo  non
ha  fatto  propri:  per  costante  giurisprudenza  di  questa   Corte
«l'oggetto  del  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  in   via
incidentale e' limitato alle disposizioni  e  ai  parametri  indicati
nell'ordinanza di rimessione, sicche' non  possono  essere  presi  in
considerazione ulteriori questioni  o  profili  di  costituzionalita'
dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice  a
quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il  contenuto
della stessa ordinanza (ex  plurimis,  sentenza  n.  194  del  2018)»
(sentenza n. 7 del 2019).
    4.-  L'Avvocatura  generale  ha  formulato   due   eccezioni   di
inammissibilita' delle questioni.
    4.1.- Con la  prima,  ha  sostenuto  che  il  giudice  rimettente
avrebbe dovuto censurare l'art. 1, comma 2, lettera p),  della  legge
n. 243 del 2004, poiche' il principio di delega  da  questo  espresso
costituirebbe il fondamento dell'art. 23, comma 6, del d.lgs. n.  252
del 2005, disposizione sospettata di incostituzionalita'.
    4.1.1.- L'eccezione non e' fondata.
    La  citata  norma  della  legge  di  delega  ha  indirizzato   il
legislatore delegato ad  applicare  gli  stessi  principi  e  criteri
direttivi di cui ai commi 1 e 2 dell'art.  1  anche  al  rapporto  di
lavoro  con  le  amministrazioni  pubbliche,  pur  subordinando  tale
applicazione alle «necessarie armonizzazioni». Pertanto, il contenuto
del criterio direttivo sopra richiamato non consente di affermare che
il legislatore delegante intendesse direttamente ottenere,  all'esito
dell'attuazione della delega, una differenziazione  della  disciplina
tributaria applicabile alle prestazioni di  previdenza  complementare
in ragione della natura del rapporto di lavoro  dell'aderente,  tanto
piu' che i principi e criteri relativi  al  regime  tributario  della
previdenza  complementare  presentavano  un  contenuto  generale   e,
peraltro, piuttosto circoscritto.
    Risulta quindi priva di validita' l'affermazione secondo  cui  la
disposizione censurata troverebbe diretto fondamento  nel  menzionato
criterio direttivo e non sussiste,  pertanto,  la  eccepita  inesatta
indicazione della norma oggetto  di  censura  che  determinerebbe  la
inammissibilita' della questione.
    Correttamente il  giudice  a  quo  non  ha  esteso  le  questioni
sollevate  alla  disposizione  della  legge  delega   poiche',   come
osservato  nella  memoria  della  parte  privata,  la  situazione  di
irragionevolezza  che  egli  lamenta  non  e'  conseguenza  di   tale
previsione,  quanto  piuttosto  dell'inattuazione,  sullo   specifico
punto, della stessa disposizione.
    4.2.- Con la  seconda  eccezione  l'Avvocatura  ha  rilevato  che
l'ordinanza, pur chiedendo la  dichiarazione  di  incostituzionalita'
dell'art. 23, comma 6, del  d.lgs.  n.  252  del  2005,  non  avrebbe
richiamato, neppure in estrema sintesi, l'intera  disciplina  dettata
dal decreto stesso in tema di trattamento fiscale  delle  prestazioni
di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati,  essendosi
invece limitata a  citare  solo  quella  concernente  la  prestazione
oggetto del giudizio (il cosiddetto riscatto volontario).
    4.2.1.- Anche tale eccezione non e' fondata.
    Se e'  vero  che  l'ordinanza  di  rimessione,  nel  dispositivo,
riferisce genericamente le questioni all'art. 23, comma 6, del d.lgs.
n. 252 del 2005, in forza del  quale  ai  dipendenti  pubblici  resta
applicabile  la  intera  disciplina  previgente,  tuttavia  nel   suo
contenuto  motivazionale  circoscrive  precipuamente  il  dubbio   di
costituzionalita' al combinato disposto del citato art. 23, comma  6,
e dell'art. 52,  comma  2,  lettera  d-ter),  t.u.  imposte  redditi.
Quest'ultima lettera attiene specificamente  al  trattamento  fiscale
delle «prestazioni pensionistiche di  cui  alla  lettera  h-bis)  del
comma 1, dell'articolo 50, erogate in forma  capitale  a  seguito  di
riscatto della posizione individuale ai sensi dell'articolo 10, comma
1, lettera c), del  decreto  legislativo  21  aprile  1993,  n.  124,
diverso  da  quello  esercitato  a  seguito  di  pensionamento  o  di
cessazione del rapporto di lavoro per mobilita' o per altre cause non
dipendenti dalla volonta' delle parti».
    Dall'insieme delle due disposizioni si ricava  la  norma  che  il
rimettente dovrebbe applicare e sulla quale appunta le censure; cosi'
precisato l'oggetto  delle  questioni  e  del  petitum,  ne  discende
l'infondatezza  della  eccezione  in  esame:   l'ordinanza   richiama
puntualmente la disciplina del trattamento  tributario  del  riscatto
contenuta nell'art. 14 del d.lgs. n. 252 del 2005, di cui lamenta  la
irragionevole non applicazione ai dipendenti pubblici, e  non  doveva
pertanto  illustrare  anche  il   regime   tributario   delle   altre
prestazioni erogate dai fondi di previdenza  complementare,  estranee
all'oggetto del giudizio a quo.
    5.- Le questioni sono fondate in relazione all'art. 3 Cost.
    Il  richiamato  regime  sostitutivo  tributario   del   riscatto,
previsto dal d.lgs. n. 252 del 2005, ma solo  per  i  dipendenti  del
settore privato, si inquadra nell'ambito di  agevolazioni  tributarie
non strutturali, dirette, in questo caso, a incentivare  lo  sviluppo
della previdenza complementare; non  si  configura  quindi  come  una
qualunque spesa fiscale,  ma  assume  una  specifica  giustificazione
costituzionale in virtu' della sua connessione con  l'attuazione  del
sistema  dell'art.  38,   secondo   comma,   Cost.,   derivante   dal
«collegamento funzionale tra  previdenza  obbligatoria  e  previdenza
complementare»  (sentenza  n.  393  del  2000;  nello  stesso  senso,
ordinanza n. 319 del 2001).
    Questa Corte si e' trovata piu' volte a vagliare la  legittimita'
costituzionale di disposizioni che, in  nome  del  bilanciamento  con
altri  principi  costituzionali,   prevedono,   a   fronte   di   una
riconosciuta capacita'  contributiva  (sentenza  n.  159  del  1985),
agevolazioni tributarie e, in questo contesto, ha affermato,  in  via
generale, che «norme di tale tipo,  aventi  carattere  eccezionale  e
derogatorio, costituiscono esercizio di un potere  discrezionale  del
legislatore,  censurabile  solo   per   la   sua   eventuale   palese
arbitrarieta' o irrazionalita' (sentenza n. 292 del  1987;  ordinanza
n. 174 del 2001); con la conseguenza che la  Corte  stessa  non  puo'
estenderne l'ambito di applicazione, se non quando lo esiga la  ratio
dei benefici medesimi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27
del 2001, n. 431 del 1997 e n. 86 del  1985;  ordinanze  n.  103  del
2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999)» (da ultimo,
sentenza n. 264; nello stesso senso, sentenza n. 242 del 2017).
    Nella fattispecie in esame, tuttavia, e' palese che la ratio  del
beneficio riconosciuto a favore dei dipendenti privati  -  quella  di
favorire lo sviluppo della previdenza complementare, dando attuazione
al sistema dell'art. 38, secondo  comma,  Cost.  -  e'  identicamente
ravvisabile anche nei confronti di quelli pubblici.
    5.1.- Tanto dimostra la ricostruzione dell'evoluzione normativa.
    Le  forme  di  previdenza   per   l'erogazione   di   trattamenti
pensionistici complementari del sistema obbligatorio,  infatti,  sono
finalizzate  ad  assicurare  piu'  elevati   livelli   di   copertura
previdenziale, come enunciano sia l'art. 1 del decreto legislativo 21
aprile  1993,  n.  124   (Disciplina   delle   forme   pensionistiche
complementari, a norma dell'articolo 3, comma  1,  lettera  v,  della
legge 23 ottobre 1992, n. 421) - decreto con cui  il  legislatore  ha
per la prima volta disciplinato in  maniera  organica  la  previdenza
complementare nel nostro ordinamento -, sia l'art. 1  del  d.lgs.  n.
252 del 2005, che oggi regola la medesima materia.
    Tra i destinatari delle  forme  pensionistiche  complementari  vi
sono in  primo  luogo  i  lavoratori  dipendenti,  sia  privati,  sia
pubblici (art. 2, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 252 del 2005); le
modalita' di partecipazione sono  stabilite  dalle  fonti  istitutive
delle forme pensionistiche medesime, individuate  principalmente  nei
contratti collettivi (art. 3, commi 1, lettera a, e  2,  del  decreto
citato).
    Per quanto attiene al finanziamento delle forme pensionistiche, e
con specifico riferimento a  quelle  istituite  dalla  contrattazione
collettiva  dei  lavoratori  dipendenti,  esso  puo'  essere  attuato
mediante il versamento di contributi a carico del  lavoratore  e  del
datore di lavoro e attraverso il conferimento del trattamento di fine
rapporto maturando (art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 252 del 2005).  Le
fonti istitutive fissano  le  modalita'  e  la  misura  minima  della
contribuzione a carico del datore di lavoro e del  lavoratore  e  «la
percentuale  minima  di  TFR  maturando  da  destinare  a  previdenza
complementare. In assenza di  tale  indicazione  il  conferimento  e'
totale» (art. 8, comma 2, del  d.lgs.  citato).  Quanto  alle  «forme
pensionistiche complementari di cui siano  destinatari  i  dipendenti
della   pubblica   amministrazione,   i   contributi    alle    forme
pensionistiche debbono essere definiti in sede di determinazione  del
trattamento economico, secondo procedure  coerenti  alla  natura  del
rapporto» (art. 8, comma 3, del d.lgs. citato,  che  conferma  quanto
gia' previsto dall'art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 124 del 1993); cio'
rappresenta un implicito richiamo all'art. 3, comma  2,  del  decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento
del lavoro alle  dipendenze  delle  amministrazioni  pubbliche),  che
riserva in via di principio alla contrattazione collettiva la materia
dell'attribuzione di trattamenti economici.
    5.2.-  Il  finanziamento  della  previdenza   complementare   dei
dipendenti pubblici - con la costituzione dei  primi  fondi  pensione
negoziali per tali lavoratori - e' divenuto  concretamente  operativo
solo a distanza di tempo dall'approvazione  del  d.lgs.  n.  124  del
1993. Furono inizialmente di ostacolo l'assenza nel settore  pubblico
dell'istituto del trattamento di fine rapporto (TFR) e la inidoneita'
delle indennita' di fine rapporto variamente denominate,  proprie  di
tale settore, a realizzare la funzione tipica di finanziamento  delle
forme pensionistiche complementari.
    Seguendo un percorso graduale, con l'art. 2, comma 5, della legge
8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio
e  complementare),  il  legislatore  ha  dapprima  assoggettato  alle
disposizioni sul TFR, contenute nell'art. 2120 del codice  civile,  i
trattamenti di fine servizio,  comunque  denominati,  dei  lavoratori
assunti dal 1° gennaio 1996  alle  dipendenze  delle  amministrazioni
pubbliche.  In  forza  del  comma  6  dello  stesso  art.   2,   alla
contrattazione collettiva, nell'ambito dei singoli comparti, e' stata
demandata la  definizione  delle  modalita'  di  attuazione  di  tali
previsioni,  «con  riferimento  ai  conseguenti   adeguamenti   della
struttura retributiva e contributiva del personale»,  anche  ai  fini
della  disciplina  delle  forme  pensionistiche   complementari.   Il
successivo  comma  7  ha  affidato  alla  contrattazione   collettiva
nazionale la definizione delle  modalita'  per  l'applicazione  della
disciplina del  trattamento  di  fine  rapporto  ai  lavoratori  gia'
occupati alla data del 31 dicembre 1995, da recepire  in  un  decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, con la procedura  prevista
dal suddetto comma 6.
    Successivamente, l'art. 59, comma 56,  della  legge  27  dicembre
1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza  pubblica),
al fine di favorire  il  processo  di  attuazione  per  i  dipendenti
pubblici delle disposizioni in materia di  previdenza  complementare,
ha  previsto  «la  possibilita'  di  richiedere   la   trasformazione
dell'indennita' di fine servizio in trattamento di fine rapporto. Per
coloro che optano in tal  senso  una  quota  della  vigente  aliquota
contributiva relativa all'indennita' di fine servizio prevista  dalle
gestioni previdenziali  di  appartenenza,  pari  all'1,5  per  cento,
verra' destinata  a  previdenza  complementare  nei  modi  e  con  la
gradualita' da definirsi in  sede  di  specifica  trattativa  con  le
organizzazioni sindacali dei lavoratori». Tale misura incentivante e'
stata oggetto di una piu' specifica disciplina ad opera dell'art. 26,
commi da 18 a 20, della legge 23 dicembre 1998,  n.  448  (Misure  di
finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo).
    Infine, il 29 luglio 1999 e' stato stipulato  un  accordo  quadro
nazionale tra le  organizzazioni  sindacali  piu'  rappresentative  e
l'Agenzia   per   la   rappresentanza   negoziale   delle   pubbliche
amministrazioni  (ARAN)  successivamente  recepito  dal  decreto  del
Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre  1999  (Trattamento
di fine rapporto  e  istituzione  dei  fondi  pensione  dei  pubblici
dipendenti).
    Ai fini che qui rilevano, il  d.P.C.m.  20  dicembre  1999,  come
modificato dal successivo decreto del Presidente  del  Consiglio  dei
ministri 2 marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei
fondi dei pubblici dipendenti), ha previsto  che  in  fase  di  prima
attuazione i dipendenti esercitanti l'opzione  di  cui  all'art.  59,
comma 56, della legge n. 449 del  1997  possano  destinare  ai  fondi
pensione una quota  di  TFR  non  superiore  al  2  per  cento  della
retribuzione base di riferimento per il  calcolo  del  TFR  (art.  2,
comma 1). Invece, per il  personale  assunto  successivamente  al  31
dicembre 2000, soggetto alle regole concessive e di  computo  di  cui
alla legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine
rapporto e norme in materia pensionistica), in caso di iscrizione  al
fondo pensione e' stata prevista «la integrale destinazione al  fondo
stesso degli accantonamenti al trattamento di fine rapporto» (art. 2,
comma 2).
    Il d.P.C.m. 20 dicembre 1999,  all'art.  1,  comma  6,  ha  anche
previsto  in  via  generale  che  il  TFR  debba  essere  accantonato
figurativamente e liquidato  dall'Istituto  nazionale  di  previdenza
delle amministrazioni pubbliche (INPDAP, oggi dall'Istituto nazionale
di  previdenza  sociale-INPS)  alla  cessazione  dal   servizio   del
lavoratore secondo quanto disposto dalla legge n. 297  del  1982.  In
caso di adesione del lavoratore pubblico a un fondo pensione,  l'art.
2, comma 5, ha disposto che alla cessazione del  rapporto  di  lavoro
l'INPDAP conferisca al fondo di  riferimento  il  montante  maturato,
costituito dagli accantonamenti figurativi delle quote di TFR nonche'
di quelli relativi all'aliquota dell'1,5 per cento riconosciuta a chi
abbia  esercitato  l'opzione  sopra  menzionata.   A   entrambi   gli
accantonamenti va applicato il tasso di rendimento  netto  conseguito
dal fondo di adesione, salva, in via transitoria, per il  periodo  di
consolidamento della struttura finanziaria  dei  fondi  pensione  dei
dipendenti delle  amministrazioni  pubbliche,  l'applicazione  di  un
tasso corrispondente alla media dei rendimenti netti di un  "paniere"
di fondi presenti sul mercato.
    5.3.-  Sulla  base  della   disciplina   sopra   ripercorsa,   il
finanziamento delle forme pensionistiche complementari negoziali  per
i lavoratori sia privati sia pubblici si realizza,  dunque,  mediante
contribuzioni a carico sia del lavoratore sia del datore di lavoro  e
mediante il conferimento del TFR maturando che, insieme,  formano  la
posizione individuale dell'aderente.
    5.4.- Va precisato che, per i dipendenti  pubblici,  il  TFR  non
viene  periodicamente   trasferito   al   fondo,   ma   entra   nella
disponibilita'  dello  stesso  al  termine  del  rapporto  di  lavoro
dell'aderente, incrementato secondo il tasso di rendimento descritto.
    Tale differenza di disciplina non influisce pero'  sulle  odierne
questioni   di   costituzionalita':   queste,   infatti,   riguardano
precipuamente  il  trattamento  tributario  di  una  prestazione   di
previdenza  complementare   a   favore   dei   lavoratori   pubblici,
prospettato  come  penalizzante  rispetto  a  quello   della   stessa
prestazione  erogata  ai  lavoratori  privati.  In  questi   termini,
specificamente inerenti alla materia fiscale, non  viene  logicamente
in considerazione quanto questa Corte ha avuto cura di  precisare  ad
altro riguardo, ovvero che «il lavoro pubblico e  il  lavoro  privato
"non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n.  120
del 2012 e n. 146 del 2008) e [che]  le  differenze,  pur  attenuate,
permangono  anche  in  seguito  all'estensione  della  contrattazione
collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni" (sentenza n. 178 del 2015, punto 9.2.  del
Considerato in diritto)» (sentenza n. 159 del 2019).
    5.5.-  Per  quanto  attiene   specificamente   all'istituto   del
riscatto, il d.lgs. n. 124 del 1993 dispone all'art. 10, comma 1, che
«[o]ve  vengano  meno  i  requisiti  di  partecipazione  alla   forma
pensionistica complementare,  lo  statuto  del  fondo  pensione  deve
consentire le  seguenti  opzioni  stabilendone  misure,  modalita'  e
termini di esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione
complementare, cui il  lavoratore  acceda  in  relazione  alla  nuova
attivita'; b) il trasferimento ad uno dei fondi  di  cui  all'art.  9
[ossia i fondi pensione  aperti];  c)  il  riscatto  della  posizione
individuale». Il comma 3-ter  prevede  che,  in  caso  di  morte  del
lavoratore iscritto al fondo pensione  prima  del  pensionamento  per
vecchiaia, la posizione individuale dello stesso «e'  riscattata  dal
coniuge  ovvero  dai  figli  ovvero,  se  gia'   viventi   a   carico
dell'iscritto, dai genitori.  In  mancanza  di  tali  soggetti  o  di
diverse disposizioni del lavoratore iscritto al  fondo  la  posizione
resta acquisita al fondo pensione».
    Pertanto, se non decida di aderire  a  un  altro  fondo  pensione
trasferendovi la posizione individuale, esercitando  il  riscatto  il
lavoratore ricevera' l'ammontare della posizione individuale maturata
nel periodo di adesione al fondo, costituita dai  contributi  versati
da lui stesso e dal datore di lavoro nonche'  dal  TFR  destinato  al
fondo, e  tenuto  conto  dei  risultati  della  gestione  finanziaria
svolta.
    5.6.- Il trattamento tributario di  tale  provento,  inizialmente
disciplinato in modo uniforme - come peraltro rileva la stessa difesa
erariale - per i dipendenti pubblici e privati dal testo unico  delle
imposte  sui  redditi,  risponde  ad  alcuni  principi  con  cui   il
legislatore ha informato la materia:  la  deducibilita'  dal  reddito
imponibile dei contributi destinati  alla  previdenza  complementare,
entro un determinato importo; la esclusione del TFR  trasferito  alle
forme di previdenza complementare dal reddito  da  lavoro  dipendente
imponibile dell'anno in cui e' maturato; la tassazione dei rendimenti
della gestione finanziaria del fondo pensione direttamente in capo  a
questo, con  conseguente  esenzione  di  tale  componente  reddituale
dall'imponibile della prestazione erogata all'aderente.
    La disciplina tributaria originariamente prevista per il riscatto
della  posizione  di  previdenza   complementare   sanciva,   quindi,
l'assimilazione di tale reddito a quelli di lavoro dipendente,  cosi'
come in via generale per tutte le «prestazioni pensionistiche di  cui
al decreto legislativo 21 aprile  1993,  n.  124,  comunque  erogate»
(art. 50, comma 1, lettera h-bis, t.u. imposte redditi). Lo specifico
criterio di tassazione del riscatto dipendeva dalla sua causale e  le
somme erogate erano considerate imponibili al netto dei redditi  gia'
assoggettati a imposta (artt. 20, comma 1, e  52,  comma  1,  lettera
d-ter, t.u.  imposte  redditi),  ossia  dei  contributi  destinati  a
previdenza complementare non in precedenza dedotti dal  lavoratore  e
dei  rendimenti  conseguiti  durante  la   gestione   (sottoposti   a
tassazione in capo al fondo pensione).
    6.- E' solo con il d.lgs. n. 252 del 2005 che i regimi  tributari
del riscatto si differenziano.
    Quest'ultimo, infatti, modificando la disciplina della previdenza
complementare,  ha  mantenuto  all'art.  14  la  previsione  generale
secondo cui, ove vengano meno  i  requisiti  di  partecipazione  alle
forme pensionistiche, gli statuti e i regolamenti delle stesse devono
consentire  il  riscatto,  in  alternativa  al  trasferimento   della
posizione ad altra forma pensionistica.
    Il trattamento fiscale del riscatto, non piu' contenuto nel  t.u.
imposte redditi, e' stato disciplinato dal medesimo d.lgs. n. 252 del
2005: artt. 14, commi 4 e 5, e 11, comma 6.
    Il regime impositivo  introdotto  dal  d.lgs.  n.  252  del  2005
prevede che la prestazione erogata dal fondo pensione  venga  tassata
con una ritenuta a titolo d'imposta e, quindi,  in  maniera  distinta
rispetto agli altri redditi del  percipiente  e  senza  concorrere  a
determinarne il reddito complessivo.
    Tuttavia, tale regime, come rilevato dal giudice rimettente,  non
si applica a tutti gli aderenti a forme pensionistiche complementari.
    Infatti, se per un verso l'art. 21, comma 8, del  d.lgs.  n.  252
del 2005 ha, in via generale, abrogato il d.lgs. n. 124 del 1993, per
altro verso, il censurato successivo art. 23, comma  6,  ha  disposto
che «[f]ino all'emanazione  del  decreto  legislativo  di  attuazione
dell'articolo 1, comma 2, lettera p), della legge 23 agosto 2004,  n.
243,  ai  dipendenti   delle   pubbliche   amministrazioni   di   cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30  marzo  2001,  n.
165,  si  applica  esclusivamente  ed  integralmente  la   previgente
normativa».
    Con quest'ultima disposizione il legislatore delegato - prendendo
atto della ormai sopraggiunta  scadenza  del  termine  di  attuazione
della delega contenuta nella menzionata lettera p) dell'art. 1, comma
2, della legge n. 243  del  2004  -  ha  quindi  esplicitato  che  ai
dipendenti pubblici dovesse applicarsi esclusivamente e integralmente
la previgente normativa.
    La individuazione della specifica disciplina applicabile avviene,
quindi, in ragione della natura del rapporto di lavoro  dell'aderente
a una forma di previdenza complementare e,  precisamente,  a  seconda
che egli dipenda da un'amministrazione pubblica o  da  un  datore  di
lavoro privato.
    Dal 1° gennaio 2007, data di entrata in vigore del d.lgs. n.  252
del 2005, per effetto della mancata attuazione dei principi e criteri
direttivi di cui all'art. 1, comma 2, lettera p), della legge n.  243
del 2004, si e' dunque originata una distinzione  di  disciplina  con
riferimento a vari istituti della previdenza complementare,  tra  cui
il riscatto  di  una  posizione  individuale  e  il  connesso  regime
tributario.
    Qui non e' in questione l'esercizio incompleto della delega,  che
non comporterebbe di per se' violazione degli articoli 76 e 77 Cost.,
ove non determinasse «uno stravolgimento della legge di  delegazione»
(sentenza  n.  149  del  2005  e  ordinanza  n.  283  del  2013).  La
fattispecie in esame, infatti, e' esclusivamente  l'effetto  riflesso
della parziale attuazione della delega, che ha condotto al  risultato
normativo di  discriminare  due  fattispecie  caratterizzate  da  una
sostanziale    omogeneita',    con    violazione    del     principio
dell'eguaglianza tributaria e una conseguente incidenza sul  contesto
sociale.
    7.- La ricostruzione del quadro normativo evidenzia, infatti, che
non sono individuabili elementi che giustifichino ragionevolmente una
disomogeneita' del trattamento fiscale agevolativo. Tale  conclusione
trova, peraltro, conferma nella stessa evoluzione legislativa che  ha
sempre mantenuto equiparate le due  posizioni,  salva  l'eccezione  -
concretizzatasi  nella  normativa  del  d.lgs.  n.  252  del  2005  -
derivante dalla parentesi dovuta alla mancata attuazione di una parte
della legge delega n. 243 del 2004. E' inoltre significativo  che  lo
stesso legislatore, con l'art. 1, comma 156, della legge n.  205  del
2017, abbia successivamente provveduto  -  pur  con  l'eccezione  dei
montanti delle prestazioni accumulate fino al 1°  gennaio  2018  -  a
ristabilire una situazione di omogeneita' di trattamento.
    8.- A un diverso esito non  possono  condurre  le  argomentazioni
dell'Avvocatura generale.
    8.1.- Sotto un primo profilo, non  sono  conferenti  il  richiamo
alla stabilita' del rapporto di lavoro pubblico e al maggiore importo
dei trattamenti pensionistici obbligatori  percepiti  dai  dipendenti
pubblici; e cio' in disparte l'assenza di  un'adeguata  dimostrazione
di questa specifica affermazione.
    Ne' l'uno ne' l'altro dei due caratteri sono, in  ogni  caso,  in
grado di offrire una valida ragione a sostegno  della  ragionevolezza
della duplice disciplina del  trattamento  tributario  del  riscatto,
quale  prestazione  pensionistica  complementare:   sia   che   venga
percepita da un dipendente privato, sia che  venga  percepita  da  un
dipendente pubblico. In entrambi  i  casi,  infatti,  la  prestazione
sottoposta a tassazione  e'  composta  da  contributi  a  carico  del
lavoratore, del datore di lavoro e dal TFR maturato  nel  periodo  di
adesione al fondo.
    A fronte di tale dato, se si puo' affermare  che  la  durata  del
rapporto di lavoro (specialmente ove  a  tempo  indeterminato)  e  le
garanzie di  stabilita'  influiscono  sul  complessivo  funzionamento
della previdenza complementare per i  lavoratori  dipendenti,  basato
sulla continuita' dei conferimenti e sulla durata  della  gestione  a
capitalizzazione, quegli stessi elementi sono inidonei a integrare un
valido criterio di differenziazione  dei  lavoratori  quali  soggetti
passivi del rapporto tributario. Cio' in  quanto  la  stabilita'  del
rapporto di lavoro non e' carattere indefettibile  ed  esclusivo  del
settore pubblico; peraltro la disciplina  tributaria  rimane  diversa
anche quando l'aderente sia un dipendente pubblico  assunto  a  tempo
determinato.
    Quanto all'entita' del trattamento pensionistico riconosciuto dal
sistema  di  previdenza  obbligatorio,  l'argomento   dell'Avvocatura
sembra fare riferimento al piu' favorevole criterio di determinazione
della pensione secondo il sistema retributivo; si tratta,  pero',  di
una prospettiva fallace perche' i  dipendenti  pubblici  che  possono
aderire a un fondo pensione sono coloro ai quali fin dall'inizio  del
loro rapporto di lavoro si applicano sia il regime  di  TFR,  sia  il
nuovo sistema di  calcolo  contributivo  delle  pensioni,  introdotto
dalla legge n. 335 del 1995, al pari dei dipendenti privati.  Venendo
in rilievo per  entrambe  le  categorie  di  lavoratori  il  medesimo
criterio   di   quantificazione   del    trattamento    pensionistico
obbligatorio, cade  il  presupposto  su  cui  dovrebbe  poggiarsi  la
giustificazione   del   differente   trattamento   tributario   delle
prestazioni di  previdenza  complementare  in  ragione  della  natura
pubblica o privata del rapporto di lavoro dell'aderente.
    8.2.- Sotto un secondo profilo, ad avviso dell'Avvocatura la  non
irragionevolezza della scelta del  legislatore  delegato  deriverebbe
dalle vicende  che  hanno  portato  alla  progressiva  estensione  al
settore pubblico  del  TFR,  partendo  dalla  diversa  disciplina  ed
entita' del trattamento di fine servizio (TFS),  e  dalla  differente
modalita' di accantonamento del TFR stesso.
    Anche tale approccio non coglie la specificita'  delle  questioni
sollevate: il  tempo  occorso  per  introdurre  il  TFR  nel  settore
dell'impiego pubblico  ha  condotto  alla  disciplina  contenuta  nei
d.P.C.m. 20 dicembre 1999 e 2 marzo 2001 che questa Corte ha ritenuto
costituire un «punto di  equilibrio  individuato  dal  legislatore  e
dalle parti negoziali, secondo un  bilanciamento  non  irragionevole»
tra lavoratori in regime di  TFR  e  lavoratori  in  regime  di  TFS,
all'esito di un  «laborioso  processo  di  armonizzazione  e  [della]
necessaria gradualita' che lo ha  governato»  (sentenza  n.  213  del
2018). Cio' premesso, la conseguita  possibilita'  per  i  lavoratori
pubblici di accedere alla previdenza complementare, con la  ulteriore
significativa incentivazione a favore di quelli che, ancora in regime
di TFS, ritengano piu' conveniente l'opzione per il TFR, esclude  che
i profili  evidenziati  dalla  difesa  dello  Stato  possano  tuttora
assumere rilievo quali indici della  legittima  differenziazione  del
suddetto trattamento tributario.
    Con particolare riguardo al meccanismo di accantonamento del  TFR
dei dipendenti pubblici, se questo -  per  esigenze  di  contenimento
delle risorse pubbliche - implica  una  temporanea  "sottrazione"  di
fonti di finanziamento che i  fondi  pensione  potrebbero  altrimenti
gestire direttamente, la sua disciplina  non  influisce  pero'  sulla
quantificazione della posizione individuale  maturata  dall'aderente.
Infatti, come illustrato (supra,  punto  5.2.),  ferma  rimanendo  la
destinazione al finanziamento della previdenza complementare impressa
anche al TFR fin dall'adesione al fondo pensione,  al  momento  della
cessazione del rapporto di lavoro pubblico l'istituto  gestore  (oggi
l'INPS)  trasferisce  al  fondo  il  montante   del   TFR   maturato,
applicandovi lo stesso tasso di rendimento conseguito dal fondo nella
gestione   dell'altra   componente   della   posizione   individuale,
costituita dai contributi periodici.
    Pertanto  l'aderente  che,  al  venir  meno  dei   requisiti   di
partecipazione  al  fondo,  eserciti  il  riscatto  della   posizione
individuale maturata, vedra' quest'ultima calcolata allo stesso modo,
sia se dipendente pubblico, sia se dipendente privato.
    In conclusione,  la  peculiare  modalita'  di  gestione  del  TFR
pubblico, mediante un accantonamento virtuale in costanza di rapporto
di  lavoro,  non  e'  idonea  a  differenziare  dal  punto  di  vista
funzionale la posizione individuale maturata in un fondo pensione  da
un dipendente pubblico rispetto a quella maturata  da  un  dipendente
privato e,  di  conseguenza,  a  giustificare  un  differente  regime
tributario del riscatto della posizione medesima.
    9.- Per le esposte considerazioni, la disposizione censurata deve
essere  dichiarata  costituzionalmente  illegittima  per   violazione
dell'art. 3 Cost.  nella  parte  in  cui  assoggetta  ad  imposta  il
riscatto della posizione individuale ai sensi dell'art. 52, comma  1,
lettera d-ter), del  d.P.R.  n.  917  del  1986,  anziche'  ai  sensi
dell'art. 14, commi 4 e 5,  del  d.lgs.  n.  252  del  2005.  Risulta
pertanto assorbita la censura relativa all'art. 53 Cost.
    Non appare necessario  estendere,  come  invece  richiesto  dalla
parte privata, la dichiarazione di incostituzionalita' anche al terzo
periodo dell'art. 1, comma 156, della legge n. 205 del 2017, con  cui
il  legislatore  ha  disciplinato  anche  i  rapporti  di  previdenza
complementare  in  corso  a  quella  data;   la   tecnica   normativa
utilizzata, basata su un rinvio alle  «disposizioni  previgenti»,  e'
infatti di per se' idonea, all'esito del presente giudizio, a rendere
applicabile l'art. 14, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 252 del 2005, anche
ai montanti delle prestazioni accumulate fino al 1°  gennaio  2018  e
successivamente oggetto di riscatto.
     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 23,  comma  6,
del decreto legislativo 5 dicembre 2005,  n.  252  (Disciplina  delle
forme pensionistiche complementari), nella parte in cui  prevede  che
il riscatto della posizione individuale sia assoggettato a imposta ai
sensi  dell'art.  52,  comma  1,  lettera  d-ter),  del  decreto  del
Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986,  n.  917  (Approvazione
del testo  unico  delle  imposte  sui  redditi),  anziche'  ai  sensi
dell'art. 14, commi 4 e 5, dello stesso d.lgs. n. 252 del 2005.
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2019.

                                F.to:
                    Giorgio LATTANZI, Presidente
                      Luca ANTONINI, Redattore
                     Roberto MILANA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2019.

                   Il Direttore della Cancelleria
                        F.to: Roberto MILANA

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