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mercoledì 9 ottobre 2019
N. 218 SENTENZA 15 luglio - 3 ottobre 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Previdenza - Previdenza complementare - Dipendenti delle pubbliche amministrazioni - Riscatto volontario della posizione individuale dal fondo pensione - Trattamento fiscale - Assoggettamento alla tassazione ordinaria anziche' a quella agevolata prevista per i dipendenti del settore privato - Disparita' di trattamento - Illegittimita' costituzionale in parte qua. - Decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, art. 23, comma 6. - Costituzione, artt. 3 e 53. (GU n.41 del 9-10-2019 )
N. 218 SENTENZA 15 luglio - 3 ottobre 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Previdenza - Previdenza complementare - Dipendenti delle pubbliche
amministrazioni - Riscatto volontario della posizione individuale
dal fondo pensione - Trattamento fiscale - Assoggettamento alla
tassazione ordinaria anziche' a quella agevolata prevista per i
dipendenti del settore privato - Disparita' di trattamento -
Illegittimita' costituzionale in parte qua.
- Decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, art. 23, comma 6.
- Costituzione, artt. 3 e 53.
(GU n.41 del 9-10-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma
6, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle
forme pensionistiche complementari), in relazione all'art. 52, comma
1, lettera d-ter), del decreto del Presidente della Repubblica 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui
redditi), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di
Vicenza nel procedimento vertente tra Paola Rizzo e l'Agenzia delle
entrate - Direzione provinciale di Vicenza, con ordinanza dell'11
ottobre 2017, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2019 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima
serie speciale, dell'anno 2019.
Visti l'atto di costituzione di Paola Rizzo, nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice
relatore Luca Antonini;
uditi l'avvocato Flavio De Benedictis per Paola Rizzo e
l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza dell'11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la
Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha sollevato questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 6, del decreto
legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme
pensionistiche complementari), in relazione all'art. 52, comma 1,
lettera d-ter), del decreto del Presidente della Repubblica 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui
redditi), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
La controversia pendente davanti al giudice rimettente riguarda
il rifiuto tacito opposto dall'Agenzia delle entrate all'istanza di
rimborso dell'imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) e
delle addizionali comunale e regionale per l'anno 2014 presentata
dalla ricorrente; questa ritiene di avere versato un'imposta maggiore
del dovuto poiche' al reddito complessivo prodotto e' stato sommato
l'ammontare dell'imponibile erogatole dal Fondo nazionale pensione
complementare per i lavoratori della scuola (Fondo scuola «Espero»),
tassato sulla base di disposizioni asseritamente illegittime. A tale
fondo la stessa e' stata iscritta dal 16 dicembre 2009 al 30 giugno
2014, maturando una posizione individuale imponibile di euro
8.108,70; esercitato il riscatto volontario, il fondo ha applicato
sulla somma liquidatale una ritenuta alla fonte di euro 1.865,01 a
titolo di tassazione ordinaria, per effetto del combinato disposto
degli artt. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005 e 52, comma 2,
lettera d-ter), t.u. imposte redditi.
2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, l'ordinanza ricorda
che il fondo al quale la ricorrente aveva aderito, costituito a
seguito della riforma pensionistica contenuta nella legge 8 agosto
1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare), e' destinato ai lavoratori del comparto scuola, sia
con contratto a tempo indeterminato che determinato, che vi
aderiscono volontariamente.
Prosegue il giudice rilevando che la riforma introdotta dalla
legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e
deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il
sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e
per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria),
avente tra l'altro ad oggetto l'adozione di norme intese a «sostenere
e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari» (art.
1, comma 1), non avrebbe trovato immediata applicazione nei confronti
del pubblico impiego. Infatti, non e' stato emanato l'apposito
decreto di armonizzazione necessario per l'attuazione degli specifici
principi e criteri direttivi indicati all'art. 1, comma 2, lettera
p), della legge citata: «applicare i principi e i criteri direttivi
di cui al comma 1 e al presente comma e le disposizioni relative agli
incentivi al posticipo del pensionamento di cui ai commi da 12 a 17,
con le necessarie armonizzazioni, al rapporto di lavoro con le
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, previo
confronto con le organizzazioni sindacali comparativamente piu'
rappresentative dei datori e dei prestatori di lavoro, le regioni,
gli enti locali e le autonomie funzionali, tenendo conto delle
specificita' dei singoli settori e dell'interesse pubblico connesso
all'organizzazione del lavoro e all'esigenza di efficienza
dell'apparato amministrativo pubblico».
Il d.lgs. n. 252 del 2005, recante disposizioni attuative della
predetta legge delega, prevedeva, infatti, all'art. 21, comma 8, che
«[f]atto salvo quanto previsto dall'art. 23, comma 5, e' abrogato il
decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124», recante «Disciplina
delle forme pensionistiche complementari, a norma dell'articolo 3,
comma 1, lettera v), della legge 23 ottobre 1992, n. 421», e all'art.
23, comma 6, che «[f]ino all'emanazione del decreto legislativo di
attuazione dell'articolo 1, comma 2, lettera p), della legge 23
agosto 2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001,
n. 165, si applica esclusivamente ed integralmente la previgente
normativa».
Ad avviso del giudice a quo, il combinato disposto di tali
previsioni escluderebbe «l'applicazione, al rapporto di lavoro
pubblico, del regime fiscale piu' favorevole introdotto dallo stesso
decreto legislativo, creando due regimi impositivi e una disparita'
di trattamento costituzionalmente rilevante». Infatti, il cosiddetto
riscatto volontario di una posizione individuale accumulata dopo il
1° gennaio 2007 (data di entrata in vigore del d.lgs. n. 252 del
2005), «se erogato a favore di dipendenti del settore privato
iscritti a una forma pensionistica di natura negoziale di cui sono
destinatari, beneficia della favorevole imposizione sostitutiva di
cui all'art. 14 del decreto legislativo n. 252/2005, mentre il
medesimo riscatto erogato a favore di dipendenti pubblici subisce una
differente e penalizzante imposizione ordinaria che si
configur[erebbe] nella maggiorazione dell'onere tributario, derivante
dall'applicazione dell'art. 52, comma 1, lett. d-ter) del TUIR».
Pertanto, il rimettente ritiene che il d.lgs. n. 252 del 2005
risulterebbe «carente di una disciplina generale di armonizzazione
con il settore pubblico», per effetto delle sopra richiamate
disposizioni di cui agli artt. 21, comma 8, e 23, comma 6 della
stessa fonte normativa.
Il combinato disposto di queste ultime «esclude[rebbe],
irragionevolmente, al rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato,
il regime fiscale piu' favorevole introdotto dallo stesso decreto
legislativo, creando due sistemi impositivi». La conseguente
disparita' di trattamento appare al rimettente irragionevole, e
quindi in violazione dell'art. 3 Cost., essendo lesiva del principio
di uguaglianza tra lavoratori del settore pubblico e di quello
privato, nonche' dell'art. 53 Cost., «in quanto una medesima fonte di
capacita' contributiva v[errebbe] sottoposta a due diverse
imposizioni fiscali».
L'ordinanza ritiene le questioni rilevanti in quanto la
risoluzione della controversia in senso sfavorevole o favorevole al
contribuente dipenderebbe dall'applicazione della norma della cui
costituzionalita' si dubita.
3.- Con atto depositato il 19 febbraio 2019 e' intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni
siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate.
Vengono, in premessa, richiamate le principali fonti normative in
materia di previdenza complementare segnalando, da ultimo, l'art. 1,
comma 156, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di
previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio
pluriennale per il triennio 2018-2020): tale disposizione, a
decorrere dal 1° gennaio 2018, ha esteso ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni le disposizioni concernenti la
deducibilita' dei premi e dei contributi versati ai fini della
previdenza complementare e il regime di tassazione delle prestazioni
previsti dal d.lgs. n. 252 del 2005, precisando che, per i dipendenti
pubblici iscritti alla data di entrata in vigore della legge a forme
previdenziali complementari, «relativamente ai montanti delle
prestazioni accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi le
disposizioni previgenti».
3.1.- L'Avvocatura generale eccepisce la inammissibilita' delle
questioni, «per non avere investito la normativa rilevante, con
particolare riferimento all'art. 1 della legge delega n. 243/2004, in
forza della quale e' stato emanato il D.Lgs. 252/2005». Richiamando
il principio direttivo contenuto nella lettera p) del comma 2 di tale
articolo, ritiene evidente che l'art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252
del 2005, sospettato di incostituzionalita', trovi in esso il suo
fondamento.
Un ulteriore profilo di inammissibilita' deriverebbe dal fatto
che l'ordinanza ha richiesto la dichiarazione di illegittimita'
dell'art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005 senza richiamare,
«neppure in estrema sintesi», la disciplina, contenuta nel citato
decreto legislativo, in tema di trattamento fiscale delle prestazioni
di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati diverse dal
riscatto volontario, di cui l'accoglimento del petitum formulato
«comporterebbe l'estensione ai lavoratori del comparto pubblico».
3.2.- A sostegno della manifesta infondatezza della questione,
l'Avvocatura premette che le prestazioni di previdenza complementare
costituiscono reddito da lavoro dipendente o da pensione e che, sia
il d.lgs. n. 124 del 1993, sia il decreto legislativo 18 febbraio
2000, n. 47 (Riforma della disciplina fiscale della previdenza
complementare, a norma dell'articolo 3 della l. 13 maggio 1999, n.
133), avevano delineato «un trattamento fiscale delle anzidette
prestazioni omogeneo per i lavoratori privati e pubblici analogo a
quello dettato dal TUIR per tali redditi».
Secondo la ricostruzione dell'Avvocatura il regime applicabile
alla quota parte delle prestazioni riferibili ai contributi e al
trattamento di fine rapporto (TFR) versati fino al 31 dicembre 2006,
sia per i lavoratori pubblici che per quelli privati, prevedeva: a)
la tassazione progressiva, per le prestazioni in forma periodica; b)
la tassazione separata, per le prestazioni in forma di capitale e per
le anticipazioni; c) la tassazione separata, per riscatti conseguenti
a pensionamento, cessazione del rapporto di lavoro per mobilita' e
per altre cause non dipendenti dalla volonta' delle parti; d) la
tassazione progressiva, per i riscatti volontari.
Rispetto a tale regime tipico, la nuova disciplina dettata dal
d.lgs. n. 252 del 2005 avrebbe un connotato evidentemente
agevolativo, come risulterebbe dal contenuto dell'art. 11. Per quanto
attiene ai riscatti, si applicherebbe la medesima tassazione prevista
per le prestazioni erogate sotto forma di capitale, nei casi di
riscatti esercitati ai sensi dell'art. 14, commi 2 e 3, del d.lgs. n.
252 del 2005, mentre le ipotesi di riscatto per cause diverse
sarebbero assoggettate a ritenuta a titolo d'imposta del 23 per
cento.
Cio' ricordato, ad avviso dell'interveniente le censure sollevate
dal giudice a quo sarebbero manifestamente infondate «[i]n
considerazione della natura agevolativa delle disposizioni dettate
dal D.Lgs. n. 252/2005» e del principio affermato dalla Corte (e'
richiamata la sentenza n. 21 del 2005), secondo cui «la previsione di
aliquote differenziate per settori produttivi e per tipologie di
soggetti passivi rientra pienamente nella discrezionalita' del
legislatore, se sorretta da non irragionevoli motivi di politica
economica e ridistributiva». L'Avvocatura ritiene che la stabilita'
del rapporto pubblico e la circostanza che i dipendenti pubblici
percepissero e continuino a percepire trattamenti pensionistici
obbligatori di importo pari «circa al doppio di quelli percepiti dai
dipendenti privati», costituirebbero «ragioni sufficienti a
giustificare una disciplina differenziata del trattamento fiscale
delle prestazioni erogate dalle forme di previdenza complementare».
Argomentando sotto un ulteriore profilo di infondatezza,
l'Avvocatura generale considera che la previdenza integrativa sarebbe
stata costituita prendendo a modello il settore dipendente privato e
attribuendo un ruolo fondamentale al trattamento di fine rapporto.
Peraltro, cio' avrebbe fin dall'inizio comportato difficolta' di
applicazione nel settore pubblico, nel quale mancava il TFR, e non
potendo quindi il bilancio pubblico facilmente «trasferirlo ai fondi
pensione nel caso di una trasformazione dei trattamenti di fine
servizio (TFS) in TFR».
La difesa dello Stato prosegue riepilogando le fasi che hanno
segnato l'estensione ai dipendenti pubblici del TFR, inizialmente
disposta dalla legge n. 335 del 1995, e delineando le modalita' di
determinazione della misura dei contributi a carico del lavoratore e
del datore di lavoro, nonche' le modalita' di accantonamento del TFR
dei dipendenti pubblici.
Tali peculiari vicende e, in particolare, la «diversa disciplina
ed entita' del TFS e la differente modalita' di accantonamento del
TFR» costituirebbero, ad avviso dell'Avvocatura, ulteriori ragioni
che varrebbero «a rendere non irragionevole la scelta del legislatore
di differenziare il trattamento fiscale delle prestazioni di
previdenza complementare erogate dai fondi pensione ai lavoratori
pubblici e privati».
4.- Con atto depositato il 15 febbraio 2019, si e' costituita
Paola Rizzo, come rappresentata e difesa, in qualita' di parte del
giudizio a quo.
Dopo avere richiamato il regime di tassazione applicabile per il
periodo dal 1° gennaio 2001 al 31 dicembre 2006, e avere menzionato
la disposizione di cui all'art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del
2005, la parte da' atto del nuovo regime di tassazione delle
prestazioni a favore dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche
introdotto dall'art. 1, comma 156, della l. n. 205 del 2017.
4.1.- Anche a seguito dell'entrata in vigore di tale
disposizione, tuttavia, non potrebbe «considerarsi cessata la materia
del contendere del presente procedimento»: ad avviso della parte lo
ius superveniens «non [avrebbe] avuto carattere satisfattivo dei
rilievi sollevati dal giudice a quo» e, inoltre, vi sarebbe stata
«applicazione medio tempore della disposizione originariamente
censurata». Considerando che quest'ultima avrebbe «gia' conosciuto
effettiva applicazione al momento in cui e' entrata in vigore la
disciplina sopravvenuta», si prospetta l'estensione del «giudizio
incidentale di legittimita' costituzionale» al comma 156 dell'art. 1
della l. n. 205 del 2017; nonostante lo ius superveniens, i
lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche continuerebbero
a subire una illegittima discriminazione, risultante dai diversi
regimi, di cui si esplicitano i contenuti.
4.2.- Il regime impositivo previgente al d.lgs. n. 252 del 2005,
applicabile alle prestazioni erogate a dipendenti di pubbliche
amministrazioni per la quota riferibile al montante accumulato dal 1°
gennaio 2007 al 31 dicembre 2017, risulterebbe in contrasto con i
parametri evocati dal rimettente. A sostegno di tale tesi si
richiamano le affermazioni contenute nella sentenza n. 10 del 2015
sul principio della capacita' contributiva, da interpretare come
specificazione settoriale del piu' ampio principio di uguaglianza di
cui all'art. 3 Cost., e nella sentenza n. 83 del 2015, sul limite
della manifesta irragionevolezza applicabile anche in materia
tributaria al principio della discrezionalita' e
dell'insindacabilita' delle opzioni legislative.
La scelta legislativa di tassare in modo totalmente differente e
penalizzante una prestazione di previdenza complementare percepita da
un aderente a una forma pensionistica collettiva per la sola
circostanza che il proprio datore di lavoro sia una pubblica
amministrazione (e non un soggetto di diritto privato) sarebbe quindi
manifestamente irragionevole e discriminatoria in forza dei parametri
costituzionali evocati.
Da ultimo, si sostiene che il vizio di irragionevolezza sopra
evidenziato porrebbe una questione di illegittimita' costituzionale
«anche con riferimento al principio di non discriminazione di cui
all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art.
21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea [...] e
in relazione all'art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali».
5.- In prossimita' dell'udienza e' pervenuta una memoria della
parte privata, che replica all'atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri.
A confutazione della eccezione di inammissibilita' per non essere
stata censurata la legge di delegazione, si osserva che la situazione
di irragionevolezza denunciata nel giudizio conseguirebbe dalla
mancata attuazione del criterio di legge delega di cui alla lettera
p) del comma 2 dell'art. 1 della legge n. 243 del 2004 e non dalla
stessa disposizione di legge, che prevedeva l'applicazione al
rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni degli stessi
principi e criteri direttivi fissati per il settore privato.
Pertanto, il giudice rimettente non avrebbe dovuto censurare anche
tale ultima disposizione normativa.
Ugualmente infondata sarebbe l'altra eccezione prospettata,
atteso che l'ordinanza esplicitamente ed esaustivamente richiamerebbe
il regime impositivo di cui al d.lgs. n. 252 del 2005, citandone
l'art. 14.
Quanto agli argomenti di merito utilizzati dalla difesa dello
Stato, la memoria ritiene che si basino su presupposti errati e siano
comunque infondati. Precisa che la ricorrente aveva prestato la sua
attivita' in forza di un contratto di lavoro a tempo determinato con
scadenza al 30 giugno 2014, si' che nessuna stabilita' del rapporto
stesso potrebbe essere invocata. Inoltre, fa presente che i
dipendenti pubblici non beneficiano di trattamenti pensionistici
obbligatori calcolati in modo differente rispetto ai lavoratori del
settore privato, essendo il relativo importo direttamente correlato a
quello dei contributi versati all'ente previdenziale di gestione del
sistema pensionistico pubblico.
In ogni caso, la diversa natura del datore di lavoro non potrebbe
assurgere a indice della capacita' contributiva tale da giustificare
un prelievo fiscale totalmente differente su medesimi presupposti
d'imposta.
Inoltre, si ritiene inconferente con la questione di
costituzionalita' «la legislazione sulla indennita' di fine servizio
spettante a determinate tipologie di lavoratori del settore
pubblico». Infine, la preclusione per i lavoratori pubblici di poter
materialmente ed effettivamente conferire le quote maturande del TFR
alla propria forma pensionistica complementare, rappresenterebbe
tuttalpiu' un'ulteriore discriminazione a danno degli stessi e non
certo una valida ragione per giustificare il differente e
penalizzante prelievo tributario sulle prestazioni di previdenza
complementare.
Considerato in diritto
1.- Con ordinanza dell'11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la
Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha sollevato questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 6, del decreto
legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme
pensionistiche complementari), in relazione all'art. 52, comma 1,
lettera d-ter), del decreto del Presidente della Repubblica 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui
redditi), secondo i quali sulle somme percepite dai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni a titolo di riscatto della posizione
individuale maturata presso una forma di previdenza complementare
collettiva si applica il regime fiscale previgente al d.lgs. n. 252
del 2005, invece del regime fiscale piu' favorevole introdotto da
detto d.lgs. n. 252 del 2005 per la stessa prestazione erogata dalle
forme pensionistiche complementari collettive ai dipendenti privati.
Il rimettente ritiene che nel d.lgs. n. 252 del 2005 la carenza di
una disciplina generale di armonizzazione con il settore pubblico
conduca a escludere l'applicazione del regime fiscale piu'
favorevole, introdotto dallo stesso decreto legislativo per il
rapporto di lavoro privato, al rapporto di lavoro pubblico
contrattualizzato: la duplicita' dei sistemi impositivi e la
disparita' di trattamento conseguenti sarebbero, percio', in
contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione.
Nel giudizio a quo si impugna il rifiuto tacito formatosi sulla
richiesta, avanzata dalla ricorrente, di rimborso della maggiore
imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) e delle maggiori
addizionali regionale e comunale versate sulle somme percepite da un
fondo pensione complementare (Fondo scuola «Espero») a seguito
dell'esercizio, da parte di un dipendente pubblico, della facolta' di
riscatto cosiddetto volontario. L'Agenzia delle entrate ritiene
corretta l'applicazione della tassazione ordinaria, secondo
l'aliquota progressiva applicabile al reddito complessivo, ai sensi
dell'art. 52, comma 1, lettera d-ter), t.u. imposte redditi, mentre
la ricorrente sostiene la incostituzionalita' di tale norma e la
necessita' di applicare il piu' favorevole trattamento previsto per i
dipendenti privati dall'art. 14 del d.lgs. n. 252 del 2005.
2.- Deve preliminarmente rilevarsi che non incide nel presente
giudizio lo ius superveniens dell'art. 1, comma 156, della legge 27
dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno
finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020).
Tale disposizione ha previsto che «[a] decorrere dal 1° gennaio 2018,
ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si applicano
le disposizioni concernenti la deducibilita' dei premi e contributi
versati e il regime di tassazione delle prestazioni di cui al decreto
legislativo 5 dicembre 2005, n. 252. Per i dipendenti delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che, alla data di entrata in
vigore della presente legge, risultano iscritti a forme
pensionistiche complementari, le disposizioni concernenti la
deducibilita' dei contributi versati e il regime di tassazione delle
prestazioni di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252,
sono applicabili a decorrere dal 1° gennaio 2018. Per i medesimi
soggetti, relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate fino
a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti».
La norma citata, successiva all'ordinanza di rimessione, non ha
effetti retroattivi e non e' quindi applicabile al giudizio a quo, il
quale ha ad oggetto un rapporto di previdenza complementare cessato
nel 2014.
3.- Va, in primo luogo, rilevata la inammissibilita' delle
deduzioni svolte dalla parte costituita, ricorrente nel giudizio a
quo, volte ad estendere il thema decidendum - quale definito
nell'ordinanza di rimessione - «anche con riferimento al principio di
non discriminazione di cui all'art. 117, primo comma, della
Costituzione, in relazione all'art. 21 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e in relazione
all'art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848».
Si tratta di profili di illegittimita' che il giudice a quo non
ha fatto propri: per costante giurisprudenza di questa Corte
«l'oggetto del giudizio di legittimita' costituzionale in via
incidentale e' limitato alle disposizioni e ai parametri indicati
nell'ordinanza di rimessione, sicche' non possono essere presi in
considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalita'
dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a
quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto
della stessa ordinanza (ex plurimis, sentenza n. 194 del 2018)»
(sentenza n. 7 del 2019).
4.- L'Avvocatura generale ha formulato due eccezioni di
inammissibilita' delle questioni.
4.1.- Con la prima, ha sostenuto che il giudice rimettente
avrebbe dovuto censurare l'art. 1, comma 2, lettera p), della legge
n. 243 del 2004, poiche' il principio di delega da questo espresso
costituirebbe il fondamento dell'art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252
del 2005, disposizione sospettata di incostituzionalita'.
4.1.1.- L'eccezione non e' fondata.
La citata norma della legge di delega ha indirizzato il
legislatore delegato ad applicare gli stessi principi e criteri
direttivi di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 1 anche al rapporto di
lavoro con le amministrazioni pubbliche, pur subordinando tale
applicazione alle «necessarie armonizzazioni». Pertanto, il contenuto
del criterio direttivo sopra richiamato non consente di affermare che
il legislatore delegante intendesse direttamente ottenere, all'esito
dell'attuazione della delega, una differenziazione della disciplina
tributaria applicabile alle prestazioni di previdenza complementare
in ragione della natura del rapporto di lavoro dell'aderente, tanto
piu' che i principi e criteri relativi al regime tributario della
previdenza complementare presentavano un contenuto generale e,
peraltro, piuttosto circoscritto.
Risulta quindi priva di validita' l'affermazione secondo cui la
disposizione censurata troverebbe diretto fondamento nel menzionato
criterio direttivo e non sussiste, pertanto, la eccepita inesatta
indicazione della norma oggetto di censura che determinerebbe la
inammissibilita' della questione.
Correttamente il giudice a quo non ha esteso le questioni
sollevate alla disposizione della legge delega poiche', come
osservato nella memoria della parte privata, la situazione di
irragionevolezza che egli lamenta non e' conseguenza di tale
previsione, quanto piuttosto dell'inattuazione, sullo specifico
punto, della stessa disposizione.
4.2.- Con la seconda eccezione l'Avvocatura ha rilevato che
l'ordinanza, pur chiedendo la dichiarazione di incostituzionalita'
dell'art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005, non avrebbe
richiamato, neppure in estrema sintesi, l'intera disciplina dettata
dal decreto stesso in tema di trattamento fiscale delle prestazioni
di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati, essendosi
invece limitata a citare solo quella concernente la prestazione
oggetto del giudizio (il cosiddetto riscatto volontario).
4.2.1.- Anche tale eccezione non e' fondata.
Se e' vero che l'ordinanza di rimessione, nel dispositivo,
riferisce genericamente le questioni all'art. 23, comma 6, del d.lgs.
n. 252 del 2005, in forza del quale ai dipendenti pubblici resta
applicabile la intera disciplina previgente, tuttavia nel suo
contenuto motivazionale circoscrive precipuamente il dubbio di
costituzionalita' al combinato disposto del citato art. 23, comma 6,
e dell'art. 52, comma 2, lettera d-ter), t.u. imposte redditi.
Quest'ultima lettera attiene specificamente al trattamento fiscale
delle «prestazioni pensionistiche di cui alla lettera h-bis) del
comma 1, dell'articolo 50, erogate in forma capitale a seguito di
riscatto della posizione individuale ai sensi dell'articolo 10, comma
1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124,
diverso da quello esercitato a seguito di pensionamento o di
cessazione del rapporto di lavoro per mobilita' o per altre cause non
dipendenti dalla volonta' delle parti».
Dall'insieme delle due disposizioni si ricava la norma che il
rimettente dovrebbe applicare e sulla quale appunta le censure; cosi'
precisato l'oggetto delle questioni e del petitum, ne discende
l'infondatezza della eccezione in esame: l'ordinanza richiama
puntualmente la disciplina del trattamento tributario del riscatto
contenuta nell'art. 14 del d.lgs. n. 252 del 2005, di cui lamenta la
irragionevole non applicazione ai dipendenti pubblici, e non doveva
pertanto illustrare anche il regime tributario delle altre
prestazioni erogate dai fondi di previdenza complementare, estranee
all'oggetto del giudizio a quo.
5.- Le questioni sono fondate in relazione all'art. 3 Cost.
Il richiamato regime sostitutivo tributario del riscatto,
previsto dal d.lgs. n. 252 del 2005, ma solo per i dipendenti del
settore privato, si inquadra nell'ambito di agevolazioni tributarie
non strutturali, dirette, in questo caso, a incentivare lo sviluppo
della previdenza complementare; non si configura quindi come una
qualunque spesa fiscale, ma assume una specifica giustificazione
costituzionale in virtu' della sua connessione con l'attuazione del
sistema dell'art. 38, secondo comma, Cost., derivante dal
«collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza
complementare» (sentenza n. 393 del 2000; nello stesso senso,
ordinanza n. 319 del 2001).
Questa Corte si e' trovata piu' volte a vagliare la legittimita'
costituzionale di disposizioni che, in nome del bilanciamento con
altri principi costituzionali, prevedono, a fronte di una
riconosciuta capacita' contributiva (sentenza n. 159 del 1985),
agevolazioni tributarie e, in questo contesto, ha affermato, in via
generale, che «norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e
derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del
legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese
arbitrarieta' o irrazionalita' (sentenza n. 292 del 1987; ordinanza
n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non puo'
estenderne l'ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio
dei benefici medesimi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27
del 2001, n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985; ordinanze n. 103 del
2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999)» (da ultimo,
sentenza n. 264; nello stesso senso, sentenza n. 242 del 2017).
Nella fattispecie in esame, tuttavia, e' palese che la ratio del
beneficio riconosciuto a favore dei dipendenti privati - quella di
favorire lo sviluppo della previdenza complementare, dando attuazione
al sistema dell'art. 38, secondo comma, Cost. - e' identicamente
ravvisabile anche nei confronti di quelli pubblici.
5.1.- Tanto dimostra la ricostruzione dell'evoluzione normativa.
Le forme di previdenza per l'erogazione di trattamenti
pensionistici complementari del sistema obbligatorio, infatti, sono
finalizzate ad assicurare piu' elevati livelli di copertura
previdenziale, come enunciano sia l'art. 1 del decreto legislativo 21
aprile 1993, n. 124 (Disciplina delle forme pensionistiche
complementari, a norma dell'articolo 3, comma 1, lettera v, della
legge 23 ottobre 1992, n. 421) - decreto con cui il legislatore ha
per la prima volta disciplinato in maniera organica la previdenza
complementare nel nostro ordinamento -, sia l'art. 1 del d.lgs. n.
252 del 2005, che oggi regola la medesima materia.
Tra i destinatari delle forme pensionistiche complementari vi
sono in primo luogo i lavoratori dipendenti, sia privati, sia
pubblici (art. 2, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 252 del 2005); le
modalita' di partecipazione sono stabilite dalle fonti istitutive
delle forme pensionistiche medesime, individuate principalmente nei
contratti collettivi (art. 3, commi 1, lettera a, e 2, del decreto
citato).
Per quanto attiene al finanziamento delle forme pensionistiche, e
con specifico riferimento a quelle istituite dalla contrattazione
collettiva dei lavoratori dipendenti, esso puo' essere attuato
mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore e del
datore di lavoro e attraverso il conferimento del trattamento di fine
rapporto maturando (art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 252 del 2005). Le
fonti istitutive fissano le modalita' e la misura minima della
contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore e «la
percentuale minima di TFR maturando da destinare a previdenza
complementare. In assenza di tale indicazione il conferimento e'
totale» (art. 8, comma 2, del d.lgs. citato). Quanto alle «forme
pensionistiche complementari di cui siano destinatari i dipendenti
della pubblica amministrazione, i contributi alle forme
pensionistiche debbono essere definiti in sede di determinazione del
trattamento economico, secondo procedure coerenti alla natura del
rapporto» (art. 8, comma 3, del d.lgs. citato, che conferma quanto
gia' previsto dall'art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 124 del 1993); cio'
rappresenta un implicito richiamo all'art. 3, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che
riserva in via di principio alla contrattazione collettiva la materia
dell'attribuzione di trattamenti economici.
5.2.- Il finanziamento della previdenza complementare dei
dipendenti pubblici - con la costituzione dei primi fondi pensione
negoziali per tali lavoratori - e' divenuto concretamente operativo
solo a distanza di tempo dall'approvazione del d.lgs. n. 124 del
1993. Furono inizialmente di ostacolo l'assenza nel settore pubblico
dell'istituto del trattamento di fine rapporto (TFR) e la inidoneita'
delle indennita' di fine rapporto variamente denominate, proprie di
tale settore, a realizzare la funzione tipica di finanziamento delle
forme pensionistiche complementari.
Seguendo un percorso graduale, con l'art. 2, comma 5, della legge
8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio
e complementare), il legislatore ha dapprima assoggettato alle
disposizioni sul TFR, contenute nell'art. 2120 del codice civile, i
trattamenti di fine servizio, comunque denominati, dei lavoratori
assunti dal 1° gennaio 1996 alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche. In forza del comma 6 dello stesso art. 2, alla
contrattazione collettiva, nell'ambito dei singoli comparti, e' stata
demandata la definizione delle modalita' di attuazione di tali
previsioni, «con riferimento ai conseguenti adeguamenti della
struttura retributiva e contributiva del personale», anche ai fini
della disciplina delle forme pensionistiche complementari. Il
successivo comma 7 ha affidato alla contrattazione collettiva
nazionale la definizione delle modalita' per l'applicazione della
disciplina del trattamento di fine rapporto ai lavoratori gia'
occupati alla data del 31 dicembre 1995, da recepire in un decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, con la procedura prevista
dal suddetto comma 6.
Successivamente, l'art. 59, comma 56, della legge 27 dicembre
1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica),
al fine di favorire il processo di attuazione per i dipendenti
pubblici delle disposizioni in materia di previdenza complementare,
ha previsto «la possibilita' di richiedere la trasformazione
dell'indennita' di fine servizio in trattamento di fine rapporto. Per
coloro che optano in tal senso una quota della vigente aliquota
contributiva relativa all'indennita' di fine servizio prevista dalle
gestioni previdenziali di appartenenza, pari all'1,5 per cento,
verra' destinata a previdenza complementare nei modi e con la
gradualita' da definirsi in sede di specifica trattativa con le
organizzazioni sindacali dei lavoratori». Tale misura incentivante e'
stata oggetto di una piu' specifica disciplina ad opera dell'art. 26,
commi da 18 a 20, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di
finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo).
Infine, il 29 luglio 1999 e' stato stipulato un accordo quadro
nazionale tra le organizzazioni sindacali piu' rappresentative e
l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni (ARAN) successivamente recepito dal decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999 (Trattamento
di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici
dipendenti).
Ai fini che qui rilevano, il d.P.C.m. 20 dicembre 1999, come
modificato dal successivo decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri 2 marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei
fondi dei pubblici dipendenti), ha previsto che in fase di prima
attuazione i dipendenti esercitanti l'opzione di cui all'art. 59,
comma 56, della legge n. 449 del 1997 possano destinare ai fondi
pensione una quota di TFR non superiore al 2 per cento della
retribuzione base di riferimento per il calcolo del TFR (art. 2,
comma 1). Invece, per il personale assunto successivamente al 31
dicembre 2000, soggetto alle regole concessive e di computo di cui
alla legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine
rapporto e norme in materia pensionistica), in caso di iscrizione al
fondo pensione e' stata prevista «la integrale destinazione al fondo
stesso degli accantonamenti al trattamento di fine rapporto» (art. 2,
comma 2).
Il d.P.C.m. 20 dicembre 1999, all'art. 1, comma 6, ha anche
previsto in via generale che il TFR debba essere accantonato
figurativamente e liquidato dall'Istituto nazionale di previdenza
delle amministrazioni pubbliche (INPDAP, oggi dall'Istituto nazionale
di previdenza sociale-INPS) alla cessazione dal servizio del
lavoratore secondo quanto disposto dalla legge n. 297 del 1982. In
caso di adesione del lavoratore pubblico a un fondo pensione, l'art.
2, comma 5, ha disposto che alla cessazione del rapporto di lavoro
l'INPDAP conferisca al fondo di riferimento il montante maturato,
costituito dagli accantonamenti figurativi delle quote di TFR nonche'
di quelli relativi all'aliquota dell'1,5 per cento riconosciuta a chi
abbia esercitato l'opzione sopra menzionata. A entrambi gli
accantonamenti va applicato il tasso di rendimento netto conseguito
dal fondo di adesione, salva, in via transitoria, per il periodo di
consolidamento della struttura finanziaria dei fondi pensione dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche, l'applicazione di un
tasso corrispondente alla media dei rendimenti netti di un "paniere"
di fondi presenti sul mercato.
5.3.- Sulla base della disciplina sopra ripercorsa, il
finanziamento delle forme pensionistiche complementari negoziali per
i lavoratori sia privati sia pubblici si realizza, dunque, mediante
contribuzioni a carico sia del lavoratore sia del datore di lavoro e
mediante il conferimento del TFR maturando che, insieme, formano la
posizione individuale dell'aderente.
5.4.- Va precisato che, per i dipendenti pubblici, il TFR non
viene periodicamente trasferito al fondo, ma entra nella
disponibilita' dello stesso al termine del rapporto di lavoro
dell'aderente, incrementato secondo il tasso di rendimento descritto.
Tale differenza di disciplina non influisce pero' sulle odierne
questioni di costituzionalita': queste, infatti, riguardano
precipuamente il trattamento tributario di una prestazione di
previdenza complementare a favore dei lavoratori pubblici,
prospettato come penalizzante rispetto a quello della stessa
prestazione erogata ai lavoratori privati. In questi termini,
specificamente inerenti alla materia fiscale, non viene logicamente
in considerazione quanto questa Corte ha avuto cura di precisare ad
altro riguardo, ovvero che «il lavoro pubblico e il lavoro privato
"non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120
del 2012 e n. 146 del 2008) e [che] le differenze, pur attenuate,
permangono anche in seguito all'estensione della contrattazione
collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni" (sentenza n. 178 del 2015, punto 9.2. del
Considerato in diritto)» (sentenza n. 159 del 2019).
5.5.- Per quanto attiene specificamente all'istituto del
riscatto, il d.lgs. n. 124 del 1993 dispone all'art. 10, comma 1, che
«[o]ve vengano meno i requisiti di partecipazione alla forma
pensionistica complementare, lo statuto del fondo pensione deve
consentire le seguenti opzioni stabilendone misure, modalita' e
termini di esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione
complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova
attivita'; b) il trasferimento ad uno dei fondi di cui all'art. 9
[ossia i fondi pensione aperti]; c) il riscatto della posizione
individuale». Il comma 3-ter prevede che, in caso di morte del
lavoratore iscritto al fondo pensione prima del pensionamento per
vecchiaia, la posizione individuale dello stesso «e' riscattata dal
coniuge ovvero dai figli ovvero, se gia' viventi a carico
dell'iscritto, dai genitori. In mancanza di tali soggetti o di
diverse disposizioni del lavoratore iscritto al fondo la posizione
resta acquisita al fondo pensione».
Pertanto, se non decida di aderire a un altro fondo pensione
trasferendovi la posizione individuale, esercitando il riscatto il
lavoratore ricevera' l'ammontare della posizione individuale maturata
nel periodo di adesione al fondo, costituita dai contributi versati
da lui stesso e dal datore di lavoro nonche' dal TFR destinato al
fondo, e tenuto conto dei risultati della gestione finanziaria
svolta.
5.6.- Il trattamento tributario di tale provento, inizialmente
disciplinato in modo uniforme - come peraltro rileva la stessa difesa
erariale - per i dipendenti pubblici e privati dal testo unico delle
imposte sui redditi, risponde ad alcuni principi con cui il
legislatore ha informato la materia: la deducibilita' dal reddito
imponibile dei contributi destinati alla previdenza complementare,
entro un determinato importo; la esclusione del TFR trasferito alle
forme di previdenza complementare dal reddito da lavoro dipendente
imponibile dell'anno in cui e' maturato; la tassazione dei rendimenti
della gestione finanziaria del fondo pensione direttamente in capo a
questo, con conseguente esenzione di tale componente reddituale
dall'imponibile della prestazione erogata all'aderente.
La disciplina tributaria originariamente prevista per il riscatto
della posizione di previdenza complementare sanciva, quindi,
l'assimilazione di tale reddito a quelli di lavoro dipendente, cosi'
come in via generale per tutte le «prestazioni pensionistiche di cui
al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, comunque erogate»
(art. 50, comma 1, lettera h-bis, t.u. imposte redditi). Lo specifico
criterio di tassazione del riscatto dipendeva dalla sua causale e le
somme erogate erano considerate imponibili al netto dei redditi gia'
assoggettati a imposta (artt. 20, comma 1, e 52, comma 1, lettera
d-ter, t.u. imposte redditi), ossia dei contributi destinati a
previdenza complementare non in precedenza dedotti dal lavoratore e
dei rendimenti conseguiti durante la gestione (sottoposti a
tassazione in capo al fondo pensione).
6.- E' solo con il d.lgs. n. 252 del 2005 che i regimi tributari
del riscatto si differenziano.
Quest'ultimo, infatti, modificando la disciplina della previdenza
complementare, ha mantenuto all'art. 14 la previsione generale
secondo cui, ove vengano meno i requisiti di partecipazione alle
forme pensionistiche, gli statuti e i regolamenti delle stesse devono
consentire il riscatto, in alternativa al trasferimento della
posizione ad altra forma pensionistica.
Il trattamento fiscale del riscatto, non piu' contenuto nel t.u.
imposte redditi, e' stato disciplinato dal medesimo d.lgs. n. 252 del
2005: artt. 14, commi 4 e 5, e 11, comma 6.
Il regime impositivo introdotto dal d.lgs. n. 252 del 2005
prevede che la prestazione erogata dal fondo pensione venga tassata
con una ritenuta a titolo d'imposta e, quindi, in maniera distinta
rispetto agli altri redditi del percipiente e senza concorrere a
determinarne il reddito complessivo.
Tuttavia, tale regime, come rilevato dal giudice rimettente, non
si applica a tutti gli aderenti a forme pensionistiche complementari.
Infatti, se per un verso l'art. 21, comma 8, del d.lgs. n. 252
del 2005 ha, in via generale, abrogato il d.lgs. n. 124 del 1993, per
altro verso, il censurato successivo art. 23, comma 6, ha disposto
che «[f]ino all'emanazione del decreto legislativo di attuazione
dell'articolo 1, comma 2, lettera p), della legge 23 agosto 2004, n.
243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165, si applica esclusivamente ed integralmente la previgente
normativa».
Con quest'ultima disposizione il legislatore delegato - prendendo
atto della ormai sopraggiunta scadenza del termine di attuazione
della delega contenuta nella menzionata lettera p) dell'art. 1, comma
2, della legge n. 243 del 2004 - ha quindi esplicitato che ai
dipendenti pubblici dovesse applicarsi esclusivamente e integralmente
la previgente normativa.
La individuazione della specifica disciplina applicabile avviene,
quindi, in ragione della natura del rapporto di lavoro dell'aderente
a una forma di previdenza complementare e, precisamente, a seconda
che egli dipenda da un'amministrazione pubblica o da un datore di
lavoro privato.
Dal 1° gennaio 2007, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 252
del 2005, per effetto della mancata attuazione dei principi e criteri
direttivi di cui all'art. 1, comma 2, lettera p), della legge n. 243
del 2004, si e' dunque originata una distinzione di disciplina con
riferimento a vari istituti della previdenza complementare, tra cui
il riscatto di una posizione individuale e il connesso regime
tributario.
Qui non e' in questione l'esercizio incompleto della delega, che
non comporterebbe di per se' violazione degli articoli 76 e 77 Cost.,
ove non determinasse «uno stravolgimento della legge di delegazione»
(sentenza n. 149 del 2005 e ordinanza n. 283 del 2013). La
fattispecie in esame, infatti, e' esclusivamente l'effetto riflesso
della parziale attuazione della delega, che ha condotto al risultato
normativo di discriminare due fattispecie caratterizzate da una
sostanziale omogeneita', con violazione del principio
dell'eguaglianza tributaria e una conseguente incidenza sul contesto
sociale.
7.- La ricostruzione del quadro normativo evidenzia, infatti, che
non sono individuabili elementi che giustifichino ragionevolmente una
disomogeneita' del trattamento fiscale agevolativo. Tale conclusione
trova, peraltro, conferma nella stessa evoluzione legislativa che ha
sempre mantenuto equiparate le due posizioni, salva l'eccezione -
concretizzatasi nella normativa del d.lgs. n. 252 del 2005 -
derivante dalla parentesi dovuta alla mancata attuazione di una parte
della legge delega n. 243 del 2004. E' inoltre significativo che lo
stesso legislatore, con l'art. 1, comma 156, della legge n. 205 del
2017, abbia successivamente provveduto - pur con l'eccezione dei
montanti delle prestazioni accumulate fino al 1° gennaio 2018 - a
ristabilire una situazione di omogeneita' di trattamento.
8.- A un diverso esito non possono condurre le argomentazioni
dell'Avvocatura generale.
8.1.- Sotto un primo profilo, non sono conferenti il richiamo
alla stabilita' del rapporto di lavoro pubblico e al maggiore importo
dei trattamenti pensionistici obbligatori percepiti dai dipendenti
pubblici; e cio' in disparte l'assenza di un'adeguata dimostrazione
di questa specifica affermazione.
Ne' l'uno ne' l'altro dei due caratteri sono, in ogni caso, in
grado di offrire una valida ragione a sostegno della ragionevolezza
della duplice disciplina del trattamento tributario del riscatto,
quale prestazione pensionistica complementare: sia che venga
percepita da un dipendente privato, sia che venga percepita da un
dipendente pubblico. In entrambi i casi, infatti, la prestazione
sottoposta a tassazione e' composta da contributi a carico del
lavoratore, del datore di lavoro e dal TFR maturato nel periodo di
adesione al fondo.
A fronte di tale dato, se si puo' affermare che la durata del
rapporto di lavoro (specialmente ove a tempo indeterminato) e le
garanzie di stabilita' influiscono sul complessivo funzionamento
della previdenza complementare per i lavoratori dipendenti, basato
sulla continuita' dei conferimenti e sulla durata della gestione a
capitalizzazione, quegli stessi elementi sono inidonei a integrare un
valido criterio di differenziazione dei lavoratori quali soggetti
passivi del rapporto tributario. Cio' in quanto la stabilita' del
rapporto di lavoro non e' carattere indefettibile ed esclusivo del
settore pubblico; peraltro la disciplina tributaria rimane diversa
anche quando l'aderente sia un dipendente pubblico assunto a tempo
determinato.
Quanto all'entita' del trattamento pensionistico riconosciuto dal
sistema di previdenza obbligatorio, l'argomento dell'Avvocatura
sembra fare riferimento al piu' favorevole criterio di determinazione
della pensione secondo il sistema retributivo; si tratta, pero', di
una prospettiva fallace perche' i dipendenti pubblici che possono
aderire a un fondo pensione sono coloro ai quali fin dall'inizio del
loro rapporto di lavoro si applicano sia il regime di TFR, sia il
nuovo sistema di calcolo contributivo delle pensioni, introdotto
dalla legge n. 335 del 1995, al pari dei dipendenti privati. Venendo
in rilievo per entrambe le categorie di lavoratori il medesimo
criterio di quantificazione del trattamento pensionistico
obbligatorio, cade il presupposto su cui dovrebbe poggiarsi la
giustificazione del differente trattamento tributario delle
prestazioni di previdenza complementare in ragione della natura
pubblica o privata del rapporto di lavoro dell'aderente.
8.2.- Sotto un secondo profilo, ad avviso dell'Avvocatura la non
irragionevolezza della scelta del legislatore delegato deriverebbe
dalle vicende che hanno portato alla progressiva estensione al
settore pubblico del TFR, partendo dalla diversa disciplina ed
entita' del trattamento di fine servizio (TFS), e dalla differente
modalita' di accantonamento del TFR stesso.
Anche tale approccio non coglie la specificita' delle questioni
sollevate: il tempo occorso per introdurre il TFR nel settore
dell'impiego pubblico ha condotto alla disciplina contenuta nei
d.P.C.m. 20 dicembre 1999 e 2 marzo 2001 che questa Corte ha ritenuto
costituire un «punto di equilibrio individuato dal legislatore e
dalle parti negoziali, secondo un bilanciamento non irragionevole»
tra lavoratori in regime di TFR e lavoratori in regime di TFS,
all'esito di un «laborioso processo di armonizzazione e [della]
necessaria gradualita' che lo ha governato» (sentenza n. 213 del
2018). Cio' premesso, la conseguita possibilita' per i lavoratori
pubblici di accedere alla previdenza complementare, con la ulteriore
significativa incentivazione a favore di quelli che, ancora in regime
di TFS, ritengano piu' conveniente l'opzione per il TFR, esclude che
i profili evidenziati dalla difesa dello Stato possano tuttora
assumere rilievo quali indici della legittima differenziazione del
suddetto trattamento tributario.
Con particolare riguardo al meccanismo di accantonamento del TFR
dei dipendenti pubblici, se questo - per esigenze di contenimento
delle risorse pubbliche - implica una temporanea "sottrazione" di
fonti di finanziamento che i fondi pensione potrebbero altrimenti
gestire direttamente, la sua disciplina non influisce pero' sulla
quantificazione della posizione individuale maturata dall'aderente.
Infatti, come illustrato (supra, punto 5.2.), ferma rimanendo la
destinazione al finanziamento della previdenza complementare impressa
anche al TFR fin dall'adesione al fondo pensione, al momento della
cessazione del rapporto di lavoro pubblico l'istituto gestore (oggi
l'INPS) trasferisce al fondo il montante del TFR maturato,
applicandovi lo stesso tasso di rendimento conseguito dal fondo nella
gestione dell'altra componente della posizione individuale,
costituita dai contributi periodici.
Pertanto l'aderente che, al venir meno dei requisiti di
partecipazione al fondo, eserciti il riscatto della posizione
individuale maturata, vedra' quest'ultima calcolata allo stesso modo,
sia se dipendente pubblico, sia se dipendente privato.
In conclusione, la peculiare modalita' di gestione del TFR
pubblico, mediante un accantonamento virtuale in costanza di rapporto
di lavoro, non e' idonea a differenziare dal punto di vista
funzionale la posizione individuale maturata in un fondo pensione da
un dipendente pubblico rispetto a quella maturata da un dipendente
privato e, di conseguenza, a giustificare un differente regime
tributario del riscatto della posizione medesima.
9.- Per le esposte considerazioni, la disposizione censurata deve
essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione
dell'art. 3 Cost. nella parte in cui assoggetta ad imposta il
riscatto della posizione individuale ai sensi dell'art. 52, comma 1,
lettera d-ter), del d.P.R. n. 917 del 1986, anziche' ai sensi
dell'art. 14, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 252 del 2005. Risulta
pertanto assorbita la censura relativa all'art. 53 Cost.
Non appare necessario estendere, come invece richiesto dalla
parte privata, la dichiarazione di incostituzionalita' anche al terzo
periodo dell'art. 1, comma 156, della legge n. 205 del 2017, con cui
il legislatore ha disciplinato anche i rapporti di previdenza
complementare in corso a quella data; la tecnica normativa
utilizzata, basata su un rinvio alle «disposizioni previgenti», e'
infatti di per se' idonea, all'esito del presente giudizio, a rendere
applicabile l'art. 14, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 252 del 2005, anche
ai montanti delle prestazioni accumulate fino al 1° gennaio 2018 e
successivamente oggetto di riscatto.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 6,
del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle
forme pensionistiche complementari), nella parte in cui prevede che
il riscatto della posizione individuale sia assoggettato a imposta ai
sensi dell'art. 52, comma 1, lettera d-ter), del decreto del
Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione
del testo unico delle imposte sui redditi), anziche' ai sensi
dell'art. 14, commi 4 e 5, dello stesso d.lgs. n. 252 del 2005.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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