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mercoledì 9 ottobre 2019

N. 219 SENTENZA 15 luglio - 3 ottobre 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Prove illegittimamente acquisite - Sanzione della inutilizzabilita' - Non riferibilita' ai risultati probatori (compreso il sequestro del corpo del reato e le dichiarazioni della polizia giudiziaria) delle perquisizioni e ispezioni eseguite contra legem - Denunciata irragionevolezza, disparita' di trattamento, violazione dei diritti fondamentali alla liberta' personale e domiciliare, del diritto di difesa e del diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dalla CEDU - Inammissibilita' delle questioni. - Codice di procedura penale, art. 191. - Costituzione, artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, e 117, primo comma; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 8. (GU n.41 del 9-10-2019 )



N. 219 SENTENZA 15 luglio - 3 ottobre 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo penale - Prove illegittimamente acquisite -  Sanzione  della
  inutilizzabilita'  -  Non  riferibilita'  ai  risultati   probatori
  (compreso il sequestro del corpo del reato e le dichiarazioni della
  polizia  giudiziaria)  delle  perquisizioni  e  ispezioni  eseguite
  contra  legem  -   Denunciata   irragionevolezza,   disparita'   di
  trattamento, violazione  dei  diritti  fondamentali  alla  liberta'
  personale e domiciliare, del diritto di difesa  e  del  diritto  al
  rispetto della vita  privata  e  familiare  sancito  dalla  CEDU  -
  Inammissibilita' delle questioni.
- Codice di procedura penale, art. 191.
- Costituzione, artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97,  secondo  comma,  e  117,
  primo comma; Convenzione per la salvaguardia dei diritti  dell'uomo
  e delle liberta' fondamentali, art. 8.
(GU n.41 del 9-10-2019 )
 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI,
     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nei giudizi di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  191  del
codice  di  procedura  penale,  promossi  dal  Giudice   dell'udienza
preliminare del Tribunale ordinario di Lecce,  con  ordinanze  del  3
ottobre e del 12 dicembre 2017, iscritte rispettivamente ai numeri 14
e  93  del  registro  ordinanze  2018  e  pubblicate  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica numeri  6  e  26,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2018.
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri;
    udito nella camera di consiglio del 22  maggio  2019  il  Giudice
relatore Franco Modugno.

                          Ritenuto in fatto

    1.- Con due ordinanze di tenore in larga misura  analogo,  del  3
ottobre 2017 (r. o. n. 14 del 2018) e del 12 dicembre 2017 (r. o.  n.
93 del 2018),  il  Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale
ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13,  14
e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, questioni di legittimita' costituzionale  dell'art.  191  del
codice  di  procedura  penale,  nella  parte   in   cui   -   secondo
l'interpretazione predominante nella giurisprudenza di  legittimita',
assunta  quale  diritto  vivente  -  «non  prevede  che  la  sanzione
dell'inutilizzabilita' ai fini della prova riguardi anche  gli  esiti
probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose
pertinenti  al  reato,  degli  atti  di  perquisizione  ed  ispezione
compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori  dei  casi  tassativamente
previsti dalla  legge  o  comunque  non  convalidati  dall'[autorita'
giudiziaria]  con  provvedimento  motivato,  nonche'  la  deposizione
testimoniale in ordine a tali attivita'».
    La sola ordinanza r. o. n.  93  del  2018  assume  che  la  norma
denunciata violi, in parte qua, anche gli artt. 2,  24  e  97,  terzo
(recte: secondo) comma, Cost.
    1.1.- Il giudice a quo premette, in entrambi i  casi,  di  essere
chiamato a  giudicare,  nelle  forme  del  giudizio  abbreviato,  una
persona imputata del reato di detenzione di sostanze stupefacenti per
uso non personale.
    Riferisce, altresi', che gli elementi a carico dell'imputato sono
costituiti, nel caso  dell'ordinanza  r.  o.  n.  14  del  2018,  dai
risultati dell'ispezione del bagaglio e della perquisizione personale
e, nel caso dell'ordinanza r. o. n. 93 del 2018, dai risultati  della
perquisizione  personale  e  domiciliare  cui  l'imputato  era  stato
sottoposto, di loro iniziativa, da militari appartenenti all'Arma dei
carabinieri:  ispezione  e  perquisizioni  che  avevano  portato   al
rinvenimento e al conseguente sequestro di alcuni grammi di  sostanza
stupefacente (hashish e marijuana, in un caso, sola  canapa  indiana,
nell'altro).
    Stando alle indicazioni del processo verbale di perquisizione,  i
Carabinieri  erano  stati  indotti  a  procedere  a  tali  attivita',
«particolarmente invasiv[e]»:
    a) nel caso dell'ordinanza r. o. n. 14 del 2018, da un non meglio
specificato    «atteggiamento    asseritamente    sospetto»    tenuto
dall'imputato, allorche', verso le ore 14.00, si aggirava nei  pressi
del litorale di Gallipoli;
    b)  nel  caso  dell'ordinanza  r.  o.  n.  93  del  2018,   dalla
circostanza che «fonti confidenziali» avevano indicato  nell'imputato
uno  spacciatore  di  sostanze  stupefacenti:  sicche',   avendo   in
precedenti occasioni rilevato, in quella  zona,  «un  andirivieni  di
soggetti noti come  tossicodipendenti»  (peraltro  non  indicati),  e
avendo scorto un giovane che consegnava una banconota all'imputato, i
militari avevano proceduto alla  immediata  identificazione  di  tali
soggetti. Pur  avendo  accertato  che  il  giovane  era  il  fratello
dell'imputato e pur avendo questi chiarito che stava  consegnando  al
fratello denaro  per  le  «spese  di  casa»,  i  Carabinieri  avevano
proceduto alla perquisizione  personale  dell'imputato  e,  avendogli
trovato in tasca tre  involucri  di  sostanza  stupefacente,  avevano
esteso la perquisizione all'abitazione,  dove  avevano  rinvenuto  la
restante parte della sostanza sottoposta a sequestro.
    Ad avviso  del  rimettente,  i  ricordati  atti  di  ispezione  e
perquisizione dovrebbero  ritenersi  "abusivi",  in  quanto  eseguiti
fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge.
    Al riguardo, il giudice salentino rammenta che  l'art.  13  Cost.
(richiamato, quanto a garanzie e forme  ivi  previste,  dall'art.  14
Cost.  con  riguardo   a   ispezioni,   perquisizioni   e   sequestri
domiciliari) prevede che ogni forma  di  limitazione  della  liberta'
personale  -  compresa  quella  insita  nelle   ispezioni   e   nelle
perquisizioni personali  -  possa  essere  disposta  solo  con  «atto
motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e  modi  previsti
dalla legge». A tale principio puo'  derogarsi  unicamente  «in  casi
eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati  tassativamente  dalla
legge», nei quali l'autorita' di  pubblica  sicurezza  puo'  adottare
«provvedimenti   provvisori»   soggetti   a   convalida   da    parte
dell'autorita' giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono
revocati e restano privi di ogni effetto».
    L'ipotesi principale che, in base alla legge ordinaria, legittima
l'intervento eccezionale delle  forze  di  polizia  e'  quella  della
flagranza di reato (artt. 352 e 354 cod. proc. pen.). Norme  speciali
hanno, peraltro, ampliato i casi nei  quali  la  polizia  giudiziaria
puo' procedere a ispezioni e perquisizioni. A  fianco  delle  ipotesi
previste dall'art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni
a tutela dell'ordine pubblico) - che consente, in casi eccezionali di
necessita' e urgenza, la perquisizione, per  la  ricerca  di  armi  e
strumenti di effrazione, di persone il cui  atteggiamento  o  la  cui
presenza non appaiano giustificabili, in  relazione  a  specifiche  e
concrete circostanze di luogo e di tempo - e dall'art. 41  del  regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del  testo  unico  delle
leggi  di  pubblica  sicurezza)  -  che  permette  la   perquisizione
domiciliare per la ricerca delle armi della cui esistenza, in  locali
pubblici o privati, la polizia abbia notizia, anche per indizio -, la
fattispecie piu' ricorrente nella pratica -  e  rilevante  anche  nei
giudizi a quibus - e' quella contemplata dall'art. 103 del  d.P.R.  9
ottobre  1990,  n.  309  (Testo  unico  delle  leggi  in  materia  di
disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi  stati  di  tossicodipendenza).  I
commi 2 e 3 del  citato  art.  103  abilitano,  infatti,  la  polizia
giudiziaria a procedere - nel corso di  operazioni  finalizzate  alla
prevenzione e alla repressione  del  traffico  illecito  di  sostanze
stupefacenti o psicotrope - rispettivamente, all'ispezione dei  mezzi
di  trasporto,  dei  bagagli  e  degli   effetti   personali,   e   a
perquisizioni, personali e domiciliari,  allorche'  vi  sia  «fondato
motivo» di ritenere che possano  essere  rinvenute  tali  sostanze  e
ricorrano, altresi' - nel  caso  delle  perquisizioni  -  «motivi  di
particolare necessita' ed urgenza che non  consentano  di  richiedere
l'autorizzazione  telefonica  del   magistrato   competente».   Delle
operazioni deve  essere  data  notizia,  entro  quarantotto  ore,  al
procuratore della Repubblica, il quale le convalida nelle quarantotto
ore successive, sempre che ne sussistano i presupposti.
    A  parere  del  giudice  a   quo,   una   interpretazione   delle
disposizioni ora richiamate  rispettosa  del  dettato  costituzionale
imporrebbe di ritenere che il presupposto che legittima  l'intervento
della polizia giudiziaria, anche fuori  dai  casi  di  flagranza  nel
reato, debba possedere un  «requisito  minimo  di  comprovabilita'  e
verificabilita'»: non occorrerebbe, cioe', la prova preventiva  della
detenzione illegittima di armi o stupefacenti, ma dovrebbero  esservi
almeno degli indizi in tal senso, sia pure semplici e non  gravi,  ma
comunque  sia  verificabili.  Diversamente  opinando,   infatti,   si
attribuirebbe alla  polizia  giudiziaria  il  potere  di  ledere  «ad
libitum»  la  liberta'  personale   e   domiciliare   dell'individuo,
vanificando il senso del controllo dell'autorita' giudiziaria sul suo
operato.
    In questa prospettiva, la sussistenza di un indizio di detenzione
delle armi o dello stupefacente non potrebbe essere desunta da  fonti
anonime o confidenziali, le quali non sono in alcun modo verificabili
dal giudice e delle quali e' proprio  per  questo  prevista,  in  via
generale, l'inutilizzabilita' (artt. 195, comma 7, 203,  comma  1,  e
240 cod. proc. pen.): conclusione che troverebbe riscontro in plurime
pronunce della giurisprudenza di legittimita'.
    Alla luce di quanto precede, l'ispezione e  le  perquisizioni  di
cui si  discute  nei  giudizi  a  quibus  apparirebbero  illegittime,
risultando del tutto ingiustificate sulla base del «giudizio ex ante»
che  deve  presiedere  alla  valutazione  degli  atti  della  polizia
giudiziaria che incidano su liberta' costituzionalmente tutelate. Nei
casi di specie non ricorrerebbe, infatti, l'ipotesi  della  flagranza
del reato, essendosi  questa  manifestata  solo  ex  post,  all'esito
dell'ispezione e delle  perquisizioni.  Ma  neppure  ricorrerebbe  il
«fondato motivo» per ritenere che potessero essere rinvenute sostanze
stupefacenti, richiesto dall'art. 103 t.u. stupefacenti.
    Nel caso dell'ordinanza r. o. n. 14 del 2018, infatti, il verbale
di  perquisizione  non  specifica  in  alcun   modo   in   che   cosa
concretamente consistesse  l'«atteggiamento  sospetto»  tenuto  nella
circostanza  dall'imputato.  Il   riferimento   a   quest'ultimo   si
tradurrebbe, di conseguenza, in un'affermazione «apodittica»  e  «non
verificabile».
    Analogamente, nel caso dell'ordinanza r. o. n. 93  del  2018,  il
verbale - di la' dal riferimento a fonti confidenziali, inidoneo  per
quanto detto a legittimare l'intervento - non indica  quali  elementi
inducessero a ritenere che  l'imputato  fosse  dedito  allo  spaccio,
ovvero a qualificare come acquisto  di  stupefacenti  la  dazione  al
medesimo di denaro da parte del fratello. La conseguente «abusivita'»
della  perquisizione  personale  non  potrebbe,  d'altra  parte,  non
riverberarsi sulla successiva  perquisizione  domiciliare.  Peraltro,
anche  a  voler  diversamente  opinare  sul   punto,   le   questioni
resterebbero rilevanti, in quanto la pena da irrogare e' in  funzione
della gravita' del fatto e questa dipende anche  dalla  quantita'  di
sostanza stupefacente detenuta: sicche' la possibilita', o  meno,  di
computare nel  relativo  calcolo  quanto  e'  stato  rinvenuto  sulla
persona dell'imputato influirebbe,  comunque  sia,  sugli  esiti  del
giudizio principale.
    Il rimettente rileva, per altro verso, come gli atti di ispezione
e perquisizione siano stati convalidati dal pubblico ministero  -  in
entrambi i casi - con provvedimenti totalmente privi di  motivazione,
consistenti  nella  mera  formula  «v°,  si  convalida».   Essi   non
permetterebbero, pertanto, di comprendere in base a quali ragioni  il
pubblico ministero abbia ritenuto legittimo l'operato  della  polizia
giudiziaria.
    Secondo il giudice a quo, simili provvedimenti non  varrebbero  a
impedire la perdita di efficacia degli  atti  di  polizia,  stabilita
dall'art.  13  Cost.  nel  caso  di  mancata   convalida   da   parte
dell'autorita' giudiziaria nel termine stabilito. Pur in  assenza  di
esplicita previsione  in  tal  senso,  sarebbe  giocoforza,  infatti,
ritenere  che  la  convalida   debba   essere   effettuata   mediante
provvedimento motivato, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della
garanzia  apprestata  dall'art.  13  Cost.,   la   quale   presuppone
l'effettivita' del controllo sulla legalita' degli atti  di  polizia.
Non avrebbe senso, d'altronde, che la norma  costituzionale  richieda
l'«atto motivato» quando l'autorita'  giudiziaria,  titolare  in  via
ordinaria  del  potere,  incida  di  sua  iniziativa  sulla  liberta'
personale, e non pure nell'ipotesi -  piu'  delicata  -  in  cui  sia
chiamata a verificare se la polizia giudiziaria abbia agito fuori dai
casi eccezionali nei quali la legge le consente di intervenire.
    La conclusione risulterebbe,  peraltro,  avvalorata  anche  dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale ha
posto in evidenza - in particolare con la  sentenza  16  marzo  2017,
Modestou contro Grecia - come  la  presenza  di  controllo  effettivo
dell'autorita'   giurisdizionale   sugli   atti   di    perquisizione
rappresenti condizione essenziale  per  il  rispetto  della  garanzia
prevista dall'art. 8 CEDU.
    1.2.- Tutto cio' premesso, il giudice rimettente osserva come, al
lume della previsione dell'art. 13  Cost.,  gli  atti  di  ispezione,
perquisizione  e  sequestro  eseguiti  abusivamente   dalla   polizia
giudiziaria, o non convalidati dall'autorita'  giudiziaria  con  atto
motivato,  debbano  rimanere  privi  di  effetto  anche   sul   piano
probatorio.
    La sanzione della revoca e della perdita  di  efficacia  non  e',
infatti, limitata ai soli provvedimenti di arresto e di fermo, ma  si
estende, in modo indistinto, a  tutti  i  «provvedimenti  provvisori»
adottabili   dalla   polizia   giudiziaria   in   base   alla   norma
costituzionale, e dunque anche alle ispezioni  e  alle  perquisizioni
personali. Cio' emergerebbe anche dal  rinvio  operato  dall'art.  14
Cost. con specifico riguardo a «ispezioni, perquisizioni o sequestri»
eseguiti nel domicilio.
    Per altro verso, poi,  l'unica  efficacia  perdurante  nel  tempo
degli atti di perquisizione o ispezione e' quella relativa alla  loro
«capacita' probatoria»: di modo  che  la  perdita  di  efficacia  non
potrebbe che equivalere, per essi, a quella che, nell'art.  191  cod.
proc. pen. del 1988,  e'  qualificata  come  inutilizzabilita'  delle
prove assunte in violazione di un divieto di legge.
    Tale esito interpretativo, al quale dovrebbe condurre  una  piena
esegesi dello stesso art. 191 cod. proc. pen.  -  apparendo  evidente
che  la  polizia  giudiziaria,  allorche'  procede  a  un   atto   di
perquisizione fuori dei casi consentiti, compie un  atto  che  le  e'
vietato,  e  non  semplicemente  un  atto   irrituale   o   nullo   -
risulterebbe,    tuttavia,    contraddetto    dall'indirizzo    della
giurisprudenza di legittimita' divenuto «assolutamente  dominante»  a
partire dalla sentenza  della  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite
penali, 27 marzo-6 maggio 1996, n. 5021.
    Nella citata  sentenza,  le  Sezioni  unite  hanno,  in  verita',
riconosciuto che le conseguenze della  illiceita'  dell'attivita'  di
acquisizione  di  una  prova  -  nella  specie,   una   perquisizione
illegittima - non possono  esaurirsi  nell'applicazione  di  sanzioni
amministrative,  disciplinari  o  penali  nei  confronti  dell'autore
dell'illecito,    ma    debbono    estendersi    anche    al    piano
dell'inutilizzabilita' della prova stessa: profilo  in  relazione  al
quale non assume rilievo la distinzione concettuale,  pur  esistente,
tra la perquisizione, quale  mezzo  di  ricerca  della  prova,  e  il
sequestro, quale strumento di acquisizione della prova stessa.
    Vanificando, di fatto, i principi  affermati,  le  Sezioni  unite
hanno ritenuto, nondimeno, valido  il  sequestro  conseguente  a  una
perquisizione eseguita fuori dai  casi  e  dai  modi  previsti  dalla
legge,  allorche'  abbia  ad  oggetto  il  corpo  del  reato  o  cose
pertinenti al reato, posto che, in tal caso, il sequestro costituisce
un atto dovuto ai sensi dell'art. 253, comma 1, cod. proc. pen.,  che
non potrebbe essere omesso dalla polizia  giudiziaria  solo  a  causa
dell'abuso  compiuto.  Correlativamente,  gli   agenti   di   polizia
giudiziaria  potrebbero  anche   testimoniare   sugli   esiti   della
perquisizione, ferma restando l'inutilizzabilita' di quest'ultima  in
quanto tale (ossia, sembrerebbe, del verbale che la documenta).
    La giurisprudenza di legittimita' successiva si sarebbe allineata
«monoliticamente»  a  tale  soluzione   interpretativa,   confermando
ripetutamente  la  legittimita'  del  sequestro  conseguente  a   una
perquisizione illegittima e  la  sua  piena  utilizzabilita'  a  fini
probatori. Cio', senza neppure  tentare  di  valorizzare  i  principi
affermati dalle Sezioni unite nella prima parte della pronuncia,  per
limitare l'utilizzabilita' del sequestro «alla res in  quanto  tale»:
vale a dire, ai fini della sola dimostrazione della  sussistenza  del
reato e come fonte di eventuali tracce a carattere individualizzante,
quali, ad esempio, impronte digitali (a  cio'  essendo,  in  effetti,
circoscritta la valenza probatoria della cosa sequestrata come  tale,
mentre  quel  che  conta,  al  fine  di  addebitare  il  reato  a  un
determinato  soggetto,  sono  soprattutto  le   modalita'   del   suo
rinvenimento - nella specie, la perquisizione  -  che  dimostrano  la
relazione tra il soggetto stesso e la cosa "indiziante").
    1.3.- Il giudice a quo dubita,  tuttavia,  che  l'art.  191  cod.
proc. pen. - come  interpretato  dalla  giurisprudenza  assolutamente
prevalente -, tale da dar luogo a un vero e proprio diritto vivente -
possa ritenersi compatibile con il dettato costituzionale.
    L'interpretazione censurata si porrebbe, infatti, inevitabilmente
in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost., negando concreta attuazione
alla previsione della perdita  di  efficacia  delle  perquisizioni  e
delle ispezioni, nonche' dei sequestri ad esse conseguenti, allorche'
eseguiti in violazione dei divieti.
    La ragion d'essere della disciplina stabilita dall'art. 191  cod.
proc. pen. non e', in effetti, tanto di ordine etico (il rifiuto  del
legislatore di  riconoscere  valore  probatorio  ad  atti  illeciti),
quanto piuttosto di ordine «politico costituzionale». La disposizione
mirerebbe,  cioe',  ad  offrire  una  efficace  tutela   ai   diritti
costituzionalmente  garantiti,  disincentivando  le  loro  violazioni
finalizzate    all'acquisizione    della    prova    col    prevedere
l'inutilizzabilita' dei relativi risultati.
    Ammettendo una "sanatoria" ex post  di  tali  violazioni,  legata
agli esiti della perquisizione o dell'ispezione, si verrebbe a negare
la tutela  del  cittadino  in  confronto  agli  abusi  della  polizia
giudiziaria,  i  quali  verrebbero  incentivati  dalla  mancanza   di
conseguenze  processuali  in  ordine  all'impiego  dei   loro   esiti
probatori.
    L'interpretazione censurata  violerebbe  anche  l'art.  3  Cost.,
negando irragionevolmente la conseguenza dell'inutilizzabilita',  pur
a fronte di  una  palese  identita'  di  ratio,  in  casi  del  tutto
sovrapponibili ad altri - per certi versi, addirittura meno  gravi  -
per i quali la legge espressamente la  prevede:  quali,  ad  esempio,
quelli delle intercettazioni eseguite dalla  polizia  giudiziaria  in
assenza  di  decreto  motivato   dell'autorita'   giudiziaria   (caso
sanzionato con l'inutilizzabilita' dall'art. 271 cod. proc.  pen.)  e
dell'acquisizione di tabulati del traffico telefonico eseguita  senza
provvedimento motivato del pubblico ministero  (caso  che  le  stesse
Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ritenuto  dar  luogo  a
un'ipotesi di inutilizzabilita'  della  prova  perche'  acquisita  in
violazione di un divieto di legge: Corte di cassazione, sezioni unite
penali, 13 luglio-24 settembre 1998, n. 21). In  tal  modo,  verrebbe
quindi operata  una  ingiustificata  disparita'  di  trattamento  fra
indagati in situazioni del tutto analoghe.
    La lettura della norma denunciata offerta dal diritto vivente  si
porrebbe in contrasto, ancora, con  l'art.  8  CEDU  e,  quindi,  con
l'art. 117 Cost., risolvendosi nella  mancata  adozione  di  efficaci
disincentivi  agli  abusi  delle  forze  di  polizia  che  implichino
indebite interferenze nella vita privata  della  persona  o  nel  suo
domicilio.
    Secondo la sola ordinanza r. o. n. 93 del 2018, l'interpretazione
maggioritaria  violerebbe   anche   il   «principio   di   necessaria
razionalita'  dell'ordinamento  dello  Stato  di  diritto»,  espresso
dall'art. 3 Cost., dando luogo - «in maniera del tutto paradossale» -
a un sistema giuridico  che  vede  inefficaci  ab  origine  le  leggi
incostituzionali,  ma  «efficacissimi»,  anche   sotto   il   profilo
probatorio, gli atti di polizia giudiziaria  compiuti  in  violazione
dei diritti costituzionali del cittadino.
    Sempre secondo la  citata  ordinanza,  la  soluzione  ermeneutica
censurata lederebbe anche l'art. 2 Cost., facendo si' che  vengano  a
mancare effettive garanzie  contro  le  illecite  compromissioni  dei
diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali rientra senz'altro  quello
alla liberta' personale; come pure l'art. 97, terzo (recte:  secondo)
comma, Cost., che sottopone in via  generale  l'azione  dei  pubblici
poteri  al  principio  di  legalita',  rendendo  prevalente  l'azione
illegale degli  organi  statali,  finalizzata  alla  repressione  dei
reati,  rispetto  ai  diritti  costituzionali  dei  consociati:   con
ulteriore violazione dell'art. 3 Cost., posto che in  un  ordinamento
che prevede come centrali i diritti inviolabili della persona  questi
dovrebbero porsi quantomeno sullo  stesso  piano  dei  diritti  della
collettivita' e dello Stato.
    Un  conclusivo  profilo  di  violazione  dell'art.  3  Cost.   e'
ravvisato dalla medesima ordinanza nel  fatto  che  l'interpretazione
censurata  si  trova  irrazionalmente  a  convivere  con  quella  che
riconosce l'inutilizzabilita'  di  prove  vietate  dalla  legge  solo
perche' non verificabili (come nel caso degli scritti anonimi e delle
fonti confidenziali), laddove invece, nell'ipotesi che qui interessa,
essa viene negata in rapporto a prove acquisite in diretta violazione
di un  divieto  di  legge  (anche  costituzionale)  e  caratterizzate
anch'esse da una «ridotta verificabilita'». Al  riguardo,  basterebbe
considerare come l'«insondabilita'» degli elementi che hanno  spinto,
nel  caso  di  specie,  la  polizia   giudiziaria   a   eseguire   la
perquisizione non consenta di escludere  la  possibilita'  che  siano
stati proprio i terzi latori della notizia confidenziale o anonima  -
se non, addirittura, come talora pure e' avvenuto, le stesse forze di
polizia - a introdurre nell'abitazione dell'imputato la res illicita.
Aspetto per il quale emergerebbe anche  la  violazione  dell'art.  24
Cost., stante la limitazione all'esplicazione del diritto  di  difesa
conseguente all'ingresso tra le prove utilizzabili  di  elementi  dei
quali e' impossibile verificare in modo approfondito la genuinita'.
    Secondo  entrambe  le  ordinanze  di   rimessione,   la   dedotta
illegittimita' costituzionale avrebbe, come  necessaria  conseguenza,
anche  il  divieto  di  testimonianza  degli  operatori  di   polizia
giudiziaria in ordine al  risultato  delle  attivita'  di  ispezione,
perquisizione  e  sequestro  indebitamente  eseguite:   divieto   che
discenderebbe logicamente dalla perdita di  ogni  efficacia  di  tali
attivita',    rimanendo     altrimenti     frustrata     la     ratio
dell'inutilizzabilita' sancita dall'art.  191  cod.  proc.  pen.  Per
questo verso, le questioni sarebbero rilevanti anche nell'ambito  del
giudizio abbreviato - rito con il  quale  si  svolgono  i  giudizi  a
quibus   -   laddove    si    dovesse    ravvisare,    per    ovviare
all'inutilizzabilita'   delle   perquisizioni    e    dell'ispezione,
l'assoluta necessita' di procedere, ai sensi dell'art. 441, comma  5,
cod. proc. pen., all'audizione dei verbalizzanti in ordine  a  quanto
rinvenuto sulla persona e nel bagaglio dell'imputato.
    2.- Nel solo giudizio relativo all'ordinanza r. o. n. 14 del 2018
e'  intervenuto   il   Presidente   del   Consiglio   dei   ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo  che  le  questioni  siano   dichiarate   inammissibili   o
infondate.
    Secondo la difesa dello Stato, le questioni si baserebbero su  un
duplice, erroneo presupposto. Il  giudice  a  quo,  infatti,  per  un
verso,  avrebbe  posto   impropriamente   sullo   stesso   piano   le
perquisizioni "ordinarie" disciplinate dal codice di procedura penale
e le perquisizioni cosiddette  "preventive",  disciplinate  da  leggi
speciali o di emergenza, che hanno ratio e  natura  differenti  dalle
prime; per un altro verso, sarebbe caduto in equivoco circa  l'ambito
di applicazione dell'istituto della nullita' degli atti  processuali,
sovrapponendolo a quello - ben  distinto  -  della  inutilizzabilita'
delle prove.
    Al riguardo, l'Avvocatura dello Stato rileva come  questa  Corte,
con l'ordinanza n. 332 del 2001, abbia gia' dichiarato manifestamente
inammissibili  analoghe  questioni  di  legittimita'  costituzionale,
relative agli artt. 191 cod. proc. pen. e 41 t.u. pubblica sicurezza,
proprio perche'  basate  su  una  interpretazione  che  «finisce  per
confondere  fra  loro  fenomeni  -  quali  quelli  della  nullita'  e
dell'inutilizzabilita' - tutt'altro che  sovrapponibili,  mirando  in
definitiva  il  rimettente  a  trasferire  nella   disciplina   della
inutilizzabilita' un concetto di vizio derivato che il sistema regola
esclusivamente in relazione al tema delle nullita'»: richiedendo, con
cio', alla Corte l'esercizio «di opzioni  che  l'ordinamento  riserva
esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di  piu',  che  -
quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra  gli  atti
probatori - ammette, gia' sul  piano  logico,  un'ampia  varieta'  di
possibili configurazioni e alternative».
    Inoltre, la Corte europea dei diritti dell'uomo, con la decisione
10  luglio  2007,  Giugliano  contro  Italia,  ha  escluso   che   la
perquisizione eseguita ai sensi dell'art. 41 t.u. pubblica  sicurezza
violi l'art. 8 CEDU. La circostanza che, in base al  citato  art.  41
t.u. pubblica sicurezza, la polizia possa agire con urgenza  e  senza
la  previa  autorizzazione  di   un   magistrato,   allorche'   fonti
considerate attendibili indichino la presenza in  un  dato  luogo  di
armi, munizioni o materie esplodenti, non puo'  costituire,  infatti,
indice di arbitrio. L'esigenza di una convalida a posteriori da parte
di  un  magistrato  della  procura  della  Repubblica  garantisce  un
controllo sulla legalita' della condotta della polizia.
    L'ispezione e la perquisizione personale, di cui si  discute  nel
giudizio a quo, sono state, in effetti, convalidate dalla  competente
procura della Repubblica, la quale,  con  il  proprio  provvedimento,
avrebbe  dunque  «assorbito  e  superato»  l'operato  della   polizia
giudiziaria: donde  l'inammissibilita'  delle  questioni  riguardanti
tale operato.

                       Considerato in diritto

    1.- Con due ordinanze di analogo contenuto (r. o. n. 14 e  n.  93
del  2018),  il  Giudice  dell'udienza  preliminare   del   Tribunale
ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13,  14
e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, questioni di legittimita' costituzionale  dell'art.  191  del
codice  di  procedura  penale,  nella  parte   in   cui   -   secondo
l'interpretazione predominante nella giurisprudenza di  legittimita',
assunta  quale  diritto  vivente  -  «non  prevede  che  la  sanzione
dell'inutilizzabilita' ai fini della prova riguardi anche  gli  esiti
probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose
pertinenti  al  reato,  degli  atti  di  perquisizione  ed  ispezione
compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori  dei  casi  tassativamente
previsti dalla  legge  o  comunque  non  convalidati  dall'[autorita'
giudiziaria]  con  provvedimento  motivato,  nonche'  la  deposizione
testimoniale in ordine a tali attivita'».
    Con la sola ordinanza r. o. n. 93 del 2018 si deduce che la norma
denunciata violerebbe, in parte qua, anche gli  artt.  2,  24  e  97,
terzo (recte: secondo) comma, Cost.
    A parere del giudice rimettente,  la  disposizione  censurata  si
porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost., in forza dei quali
l'autorita'  di  pubblica  sicurezza  puo'  procedere   a   ispezioni
personali e a perquisizioni, personali e domiciliari,  solo  in  casi
eccezionali di necessita' e  urgenza  indicati  tassativamente  dalla
legge, mediante atti soggetti a  convalida  da  parte  dell'autorita'
giudiziaria, in mancanza della quale  essi  «restano  privi  di  ogni
efficacia»: perdita di efficacia  che  implicherebbe  necessariamente
l'inutilizzabilita' dei loro risultati sul  piano  probatorio,  anche
perche' solo in questo modo si tutelerebbero efficacemente i  diritti
fondamentali alla liberta' personale e  domiciliare,  disincentivando
la loro violazione ad opera della polizia giudiziaria  per  finalita'
di ricerca della prova.
    Sarebbe altresi' violato l'art. 3 Cost. sotto un  duplice  ordine
di considerazioni. Da un  lato,  infatti,  la  previsione  denunciata
darebbe luogo ad una ingiustificata disparita' di  trattamento  delle
ipotesi considerate rispetto a situazioni analoghe, per le  quali  la
sanzione  dell'inutilizzabilita'  e'  espressamente  prevista   dalla
legge, quali quelle  delle  intercettazioni  e  dell'acquisizione  di
tabulati del traffico telefonico operate dalla polizia giudiziaria in
difetto  di  provvedimento   motivato   dell'autorita'   giudiziaria.
Dall'altro lato, si determinerebbe un contrasto con il «principio  di
necessaria razionalita' dell'ordinamento», venendosi a teorizzare  un
sistema   che   considera   «inefficaci   ab   origine    le    leggi
incostituzionali»,  ma  «efficacissimi»,  anche  sotto   il   profilo
probatorio, gli atti di polizia giudiziaria  compiuti  in  violazione
dei diritti costituzionali del cittadino.
    Si prospetta,  anche,  la  violazione  dell'art.  117  Cost.,  in
relazione all'art. 8 CEDU, giacche'  verrebbero  a  mancare  efficaci
disincentivi  agli  abusi  delle  forze  di  polizia  che  implichino
indebite interferenze nella vita privata  della  persona  o  nel  suo
domicilio.
    Vulnerato sarebbe pure l'art. 2 Cost., non risultando predisposte
effettive garanzie contro  le  illecite  compromissioni  dei  diritti
inviolabili dell'uomo, tra i quali  certamente  rientra  quello  alla
liberta'  personale,  nonche'  gli  artt.  3  e  97,  terzo   [recte,
verosimilmente: secondo] comma, Cost., rendendo  prevalente  l'azione
illegale degli  organi  statali,  finalizzata  alla  repressione  dei
reati, rispetto ai  diritti  inviolabili  dei  consociati,  posti  al
centro dell'ordinamento costituzionale.
    Deduce, infine, il rimettente, la violazione degli artt. 3  e  24
Cost., essendo generalmente riconosciuta l'inutilizzabilita' di prove
vietate dalla legge solo perche' non verificabili (quali gli  scritti
anonimi e le fonti confidenziali), mentre, nell'ipotesi in esame,  si
considerano irrazionalmente utilizzabili prove acquisite  in  diretta
violazione  di  un  divieto  di  legge   (anche   costituzionale)   e
caratterizzate  anch'esse  da  una  «ridotta   verificabilita'»,   in
particolare  quanto  agli  elementi  che  hanno  indotto  la  polizia
giudiziaria  a  procedere   alla   perquisizione,   con   conseguente
compromissione anche del diritto di difesa dell'imputato.
    2.- Le ordinanze sollevano questioni in  larga  misura  analoghe,
sicche' i relativi  giudizi  vanno  riuniti  per  essere  decisi  con
un'unica sentenza.
    3.-  Le  questioni,  che  il  giudice  rimettente   solleva,   si
riflettono su  una  disposizione  cardine  del  codice  di  procedura
penale, che introduce nel sistema processuale il principio secondo il
quale e' preclusa la possibilita'  di  utilizzare  prove  assunte  in
violazione dei divieti stabiliti dalla legge.
    Come ricorda la relazione al progetto preliminare del  codice  di
procedura penale vigente, l'istituto della inutilizzabilita' non puo'
definirsi una novita' in senso assoluto, dal momento che, anche sotto
la  vigenza  del  codice   del   1930,   legislazione,   dottrina   e
giurisprudenza avevano gia' maturato una propensione a designare  con
tale nomen una figura destinata a frapporsi, in termini  di  maggiore
incisivita',  all'impiego  di   prove   vietate   dalla   legge,   in
contrapposizione   alla   tradizionale   sanzione   della   nullita',
riservata,  invece,  alla   violazione   delle   forme   degli   atti
processuali. Gia' nel codice  del  1930,  infatti,  la  figura  della
inutilizzabilita' era stata richiamata nell'art.  304,  terzo  comma,
ove appunto si era  stabilito  che  «non  possono,  comunque,  essere
utilizzate»  le  dichiarazioni  rese  da  persone   esaminate   quali
testimoni, quando fossero emersi indizi di reita' nei loro  confronti
e  non  fosse  stato  nominato  un  difensore.  Preclusione,  dunque,
destinata ad impedire la violazione del fondamentale canone del  nemo
tenetur contra se  edere  e  delle  conseguenti  facolta'  difensive.
Analogamente,  anche  l'art.  226-quinquies   dello   stesso   codice
(introdotto dall'art. 5 della legge 8 aprile  1974,  n.  98,  recante
«Tutela della  riservatezza  e  della  liberta'  e  segretezza  delle
comunicazioni»)  stabiliva  che  «non  si  puo'  tener  conto»  delle
intercettazioni effettuate fuori dei casi consentiti dalla  legge  od
eseguite in difformita' dalle prescrizioni  in  essa  stabilite,  pur
esordendo con la formula «a pena di nullita' insanabile  da  rilevare
d'ufficio in ogni stato e grado del  procedimento»,  evocativa  della
sanzione piu' tradizionale, richiamata per sancire il relativo regime
di   rilevabilita'   processuale.   Anche   in   questo   caso,    la
inutilizzabilita'  derivante  dal  divieto  probatorio,  si   saldava
intimamente alla "gravita'" del vizio in rapporto alla rilevanza  dei
valori protetti, essendo il legislatore intervenuto, sul  tema  delle
intercettazioni, in aderenza ai principi affermati  da  questa  Corte
nella sentenza n. 34 del 1973,  ove,  fra  l'altro,  si  avverti'  la
necessita' di «mettere nella dovuta evidenza il principio secondo  il
quale attivita' compiute in dispregio dei  fondamentali  diritti  del
cittadino non possono essere assunte di per se' a giustificazione  ed
a fondamento di atti processuali a carico  di  chi  quelle  attivita'
costituzionalmente illegittime abbia subito».
    Questa stessa Corte, nella successiva sentenza n. 120  del  1975,
chiari' come proprio  l'allora  introdotto  art.  226-quinquies  cod.
proc. pen. impedisse «di tener conto delle intercettazioni effettuate
fuori dei casi consentiti dalla legge o in difformita' delle relative
prescrizioni, sancendo una nullita' insanabile, rilevabile  d'ufficio
in ogni stato e grado del procedimento.  Cio'  equivale  a  dire  che
nessun effetto probatorio puo' derivare da intercettazioni  siffatte,
le quali debbono ritenersi come inesistenti [...]».
    Mettendo dunque a frutto questo  ampio  fermento  di  idee  -  ha
soggiunto la citata relazione - il legislatore  delegato  ritenne  di
stabilire, con la disposizione oggetto delle odierne  questioni,  che
«[a]nche  quando  le  norme   di   parte   speciale   non   prevedono
espressamente alcuna  sanzione,  l'inutilizzabilita'  puo'  desumersi
dall'art. 191, comma 1, la' dove siano configurabili  veri  e  propri
divieti probatori», richiamandosi, a titolo  esemplificativo,  l'art.
197, in materia di incompatibilita' a  testimoniare,  e  l'art.  234,
comma 3, concernente documenti  su  voci  correnti  nel  pubblico.  I
risultati  della  prova   acquisita   in   violazione   dei   divieti
tassativamente previsti dall'ordinamento non sono, dunque, «in  alcun
modo utilizzabili in ogni stato e grado del procedimento,  quale  che
sia il comportamento  della  parte  interessata  a  far  rilevare  la
violazione [...]».
    4.- E' ovvio, dunque, che la  scelta  del  legislatore  e'  stata
quella  di  introdurre  un  meccanismo  preclusivo  che  direttamente
attingesse, dissolvendola, la stessa "idoneita'" probatoria  di  atti
vietati  dalla  legge,  distinguendo  in  tal  modo  nettamente  tale
fenomeno  dai  profili  di  inefficacia  conseguenti  alla  eventuale
violazione di una regola sancita a pena di nullita' dell'atto.
    E da qui, il naturale ed ampio dibattito, sviluppatosi, tanto  in
sede giurisprudenziale quanto in sede dottrinaria, non  soltanto  sul
versante, prevalentemente teorico, relativo alla individuazione della
"natura  sanzionatoria"  da  annettere  alla  categoria  degli   atti
inutilizzabili,  bensi',  anche,  e  soprattutto,  su  quello   della
effettiva portata applicativa dell'istituto, non essendo mancate voci
che  ne  hanno  addirittura  stigmatizzato  la  relativa   incoerenza
sistematica e la stessa utilita' processuale.
    D'altra  parte,  e  come  rammentato  dalla   giurisprudenza   di
legittimita', «essendo il diritto alla prova un connotato ineludibile
del  nuovo  processo  penale,  assurto  al  rango  di  paradigma  del
parametro costituzionale sul  "giusto  processo",  qualsiasi  divieto
probatorio positivamente introdotto dal  legislatore  puo'  spiegarsi
solo nell'ottica di preservare equivalenti valori, anch'essi di rango
costituzionale» (Corte di cassazione, sezioni unite penali,  sentenza
25 marzo-9 aprile 2010, n. 13426), con  l'ovvia  conseguenza  che  le
norme le quali  introducano  divieti  probatori  si  atteggiano,  nel
sistema,  alla  stregua   di   norme   eccezionali   e   di   stretta
interpretazione.
    Per altro verso, e' altrettanto evidente come, proprio in ragione
delle peculiarita' "funzionali" che caratterizzano il  sistema  delle
inutilizzabilita' e dei connessi divieti probatori,  in  ragione  dei
valori che mirano a preservare, esista una gamma  "differenziata"  di
regole  di  esclusione,  alle  quali   corrisponde   un   altrettanto
differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono
tutelare: il tutto, come e' ovvio, in funzione di scelte di "politica
processuale" che soltanto il legislatore  e'  abilitato,  nei  limiti
della ragionevolezza, ad esercitare.
    D'altra parte, e' lo stesso art. 191 cod. proc. pen. ad  offrire,
icasticamente,  dimostrazione  di  tale  assunto.  Nello   stabilire,
infatti, il generale principio in forza del quale le prove assunte in
violazione  dei  divieti  probatori   previsti   dalla   legge   sono
inutilizzabili e che la  inutilizzabilita'  e'  rilevabile  anche  di
ufficio  in  ogni  stato  e  grado  del  processo,  il  comma  2-bis,
introdotto dall'art. 2, comma 1, della legge 14 luglio 2017,  n.  110
(Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento  italiano),  ha
inserito nel sistema dei divieti probatori una regola, per cosi' dire
"rafforzata" per la specifica ipotesi di dichiarazioni "estorte"  con
la tortura. Di la', infatti, dal divieto probatorio sancito dall'art.
188 cod. proc. pen., a norma del quale non possono essere utilizzati,
neppure con il consenso della persona interessata, metodi o  tecniche
idonei a influire sulla liberta' di autodeterminazione o ad  alterare
la capacita' di ricordare e di valutare i fatti, la novella di cui si
e' detto sancisce che le dichiarazioni  o  le  informazioni  ottenute
mediante il delitto di tortura non sono «comunque utilizzabili, salvo
che contro le persone accusate di tale delitto  e  al  solo  fine  di
provarne la responsabilita' penale».
    Il "limite" della inutilizzabilita', quindi, e'  stato  allargato
dal legislatore  non  soltanto  alle  dichiarazioni,  ma  anche  alle
"informazioni"  provenienti  dalla  persona,  e  copre   radicalmente
qualunque oggetto (contro o a favore di se stessa o  di  altri),  che
non sia quello espressamente eccettuato dalla legge.
    Il che dimostra come il legislatore abbia inteso precludere -  ed
in tal modo prevenire  -  qualsiasi  utilizzabilita'  processuale  di
dichiarazioni  scaturite  dall'uso  di  metodi   riconducibili   alla
fattispecie di  cui  all'art.  613-bis  cod.  pen.  (Tortura),  avuto
riguardo all'estremo livello di lesione che  una  siffatta  attivita'
presenterebbe  per  i  diritti  fondamentali  della  persona.  A   un
"massimo" di illegalita' dell'atto probatorio,  perche'  compiuto  in
violazione  di  divieti  di  elevato  spessore,  deve  corrispondere,
dunque, una equivalente "estensione" dell'area  di  inutilizzabilita'
processuale.
    5.- Da tutto cio' e' pertanto possibile  desumere  una  serie  di
corollari che appaiono essere, ormai,  sufficientemente  sedimentati,
tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. E' da considerare infatti
pacifico   l'assunto    secondo    il    quale    l'istituto    della
inutilizzabilita' abbia vita totalmente autonoma rispetto  al  regime
ed alla stessa natura giuridica  delle  nullita',  non  essendo  anzi
mancati tentativi definitori  che  hanno  fatto  riferimento  ad  una
ipotesi di «difetto funzionale della  "causa"  dell'atto  probatorio,
vale a dire come una  inidoneita'  dell'atto  stesso  a  svolgere  la
funzione che l'ordinamento processuale gli assegna» (Cass., sez. un.,
n. 13426 del 2010).
    Un simile "vizio", peraltro, risponde anch'esso - al  pari  delle
nullita' - ai paradigmi della tassativita' e legalita',  dal  momento
che e' soltanto la  legge  a  stabilire  quali  siano  -  e  come  si
atteggino - i diversi divieti probatori.
    Infine, e' lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione
secondo la quale,  per  la  inutilizzabilita'  che  scaturisce  dalla
violazione di un divieto probatorio, non possa  trovare  applicazione
un principio di  "inutilizzabilita'  derivata",  sulla  falsariga  di
quanto e' previsto invece, nel campo delle nullita',  dall'art.  185,
comma 1, cod. proc. pen., a norma del quale «[l]a nullita' di un atto
rende  invalidi  gli  atti  consecutivi  che  dipendono   da   quello
dichiarato nullo».
    Derivando il divieto probatorio e la conseguente "sanzione" della
inutilizzabilita' da una espressa previsione della  legge,  qualsiasi
"estensione" di  tale  regime  ad  atti  diversi  da  quelli  cui  si
riferisce  il  divieto  non  potrebbe  che  essere  frutto  di   una,
altrettanto  espressa,  previsione   legislativa.   Del   resto,   e'
ricorrente in giurisprudenza l'affermazione  secondo  la  quale  tale
principio, valido per le nullita',  non  si  applica  in  materia  di
inutilizzabilita',   riguardando   quest'ultima   solo    le    prove
illegittimamente acquisite e  non  quelle  la  cui  acquisizione  sia
avvenuta in modo autonomo e  nelle  forme  consentite  (ex  plurimis,
Corte di cassazione, sezione  sesta  penale,  sentenza  12  settembre
2018-4 febbraio 2019, n. 5457).
    6.- In tale quadro di riferimento, coglie  dunque  nel  segno  il
rilievo svolto dall'Avvocatura generale dello Stato relativo al fatto
che il giudice rimettente ha omesso  qualsiasi  riferimento,  se  non
altro per confutarne gli argomenti, a quanto questa  Corte  ha  avuto
modo di affermare nella ordinanza n. 332 del 2001, con  la  quale  e'
stata  dichiarata  la  manifesta  inammissibilita'  di  questioni  di
legittimita'  costituzionale  riguardanti  l'art.  41  t.u.  pubblica
sicurezza e l'art. 191 cod. proc. pen.,  quest'ultimo  censurato,  in
riferimento all'art. 24 Cost., «nella parte in cui tale  disposizione
-   alla   luce,   anche,   della   interpretazione   offerta   dalla
giurisprudenza di legittimita' - consente la utilizzazione  di  prove
che derivano, non solo in via diretta, ma anche "in via mediata",  da
un atto posto in essere in violazione di divieti, e, in  particolare,
nella parte in cui consente  l'utilizzazione  del  risultato  di  una
perquisizione nulla».
    La Corte, nel frangente, pervenne, infatti, alla declaratoria  di
inammissibilita'  delle  questioni  proprio  perche'  basate  su  una
interpretazione che «finisce per confondere fra loro fenomeni - quali
quelli della  nullita'  e  dell'inutilizzabilita'  -  tutt'altro  che
sovrapponibili, mirando in  definitiva  il  rimettente  a  trasferire
nella  disciplina  della  inutilizzabilita'  un  concetto  di   vizio
derivato che il sistema regola esclusivamente in  relazione  al  tema
delle nullita'»: richiedendo, con cio', alla  Corte  l'esercizio  «di
opzioni che l'ordinamento riserva esclusivamente al  legislatore,  in
una tematica, per di  piu',  che  -  quale  quella  dei  rapporti  di
correlazione o dipendenza tra gli atti probatori - ammette, gia'  sul
piano  logico,  un'ampia  varieta'  di  possibili  configurazioni   e
alternative».
    7.- Ebbene, non misurandosi con  i  rilievi  dianzi  esposti,  il
giudice   rimettente   incorre   anche   nello   stesso    tipo    di
inammissibilita' del petitum, in  quanto  fondato  su  una  richiesta
fortemente  "manipolativa",  pretendendo  di  desumere   l'automatica
"inutilizzabilita'"  degli   atti   di   sequestro,   attraverso   il
"trasferimento" su di essi dei "vizi" che affliggerebbero gli atti di
perquisizione personale e domiciliare  dai  quali  i  sequestri  sono
scaturiti, in ragione di una ritenuta non congruita'  -  rispetto  ai
presupposti enunciati dall'art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi stati di tossicodipendenza) - dell'apparato  di  motivazioni
esibito dalla polizia giudiziaria a corredo degli atti in  questione,
ancorche' convalidati da parte del pubblico ministero.
    In numerose occasioni, questa Corte  ha  infatti  avuto  modo  di
dichiarare l'inammissibilita' di questioni  rispetto  alle  quali  il
rimettente chiedeva una  pronuncia  additiva,  nei  casi  in  cui  il
petitum  formulato  si   connotava   per   un   cospicuo   tasso   di
manipolativita', tanto piu' in  materie  rispetto  alle  quali,  come
quella processuale, e' stata  riconosciuta  l'ampia  discrezionalita'
del legislatore (sentenze n. 23 del 2016 e n. 277 del 2014; ordinanze
n. 254 e n. 122 del 2016). E cio', tutte le volte in cui il  petitum,
pur meritevole di considerazione, implichi una  modifica  «rientrante
nell'ambito  delle  scelte  riservate   alla   discrezionalita'   del
legislatore» (sentenza n. 45 del 2018).
    Affermazioni,  queste,  che  assumono  un  risalto   ancor   piu'
specifico allorche',  come  si  e'  accennato,  vengano  in  discorso
disposizioni di carattere "eccezionale"  (in  quanto  strutturalmente
derogatorie rispetto alla opposta, ordinaria, regola), quali istituti
che sanciscano divieti  probatori  e  clausole  di  inutilizzabilita'
processuale, vigendo in materia un rigoroso  regime  di  tipicita'  e
tassativita'.
    La  tesi  del   giudice   rimettente,   secondo   la   quale   la
illegittimita' della perquisizione dovrebbe condurre - come soluzione
costituzionalmente imposta - alla "inutilizzabilita'"  del  sequestro
del corpo del reato, secondo la nota teoria dei  "frutti  dell'albero
avvelenato", rinverrebbe, d'altra parte, la propria  ragion  d'essere
nella circostanza che l'art. 191  cod.  proc.  pen.  svolgerebbe  una
funzione di tipo "politico costituzionale", in  quanto  mirerebbe  ad
assicurare una effettiva tutela ai valori  costituzionali  coinvolti,
disincentivando le loro violazioni finalizzate all'acquisizione della
prova attraverso lo strumento della  inutilizzabilita'  dei  relativi
risultati. Sarebbe proprio grazie a tale divieto di utilizzabilita' -
sostiene  il  giudice  rimettente   -   che   si   «scoraggeranno   e
disincentiveranno quelle pratiche di  acquisizione  della  prova  con
modalita' illegali (e talora francamente  illecite),  che  violano  i
diritti costituzionali al cui presidio sono appunto posti  i  divieti
rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali».
    In questa prospettiva, la stessa ratio essendi  delle  censure  -
volte a rendere automaticamente "contaminata" la utilizzabilita'  del
sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita
fuori dai casi consentiti dalla legge - finisce ineluttabilmente  per
coinvolgere  scelte  di  "politica   processuale"   che   la   stessa
Costituzione riserva al legislatore.
    In  sostanza,  il  giudice  rimettente,  dichiaratamente,   vuole
raggiungere, attraverso la  pronuncia  additiva  e  manipolativa  che
enuncia e propone in dispositivo, l'obiettivo di  disincentivare  gli
abusi (o quelli che lui  ipotizza  esser  tali)  rendendo  gli  abusi
stessi "non paganti" sul piano processuale, attraverso  un  passaggio
che estende ad un atto in se' valido (il sequestro) la illegittimita'
(e inutilizzabilita') di quello che ne  costituisce  la  occasio  (la
perquisizione ed ispezione).
    8.- Tutto cio', d'altra parte, e' reso  particolarmente  evidente
dallo stesso tenore  del  quesito  enunciato  nel  dispositivo  delle
ordinanze  di  rimessione,   ove   viene   sollevata   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 191  cod.  proc.  pen.,  «nella
parte in cui non prevede che la  sanzione  dell'inutilizzabilita'  ai
fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso  il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli
atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla p.g. fuori dei casi
tassativamente  previsti  dalla  legge  o  comunque  non  convalidati
dall'A.G.  con  provvedimento  motivato,   nonche'   la   deposizione
testimoniale in ordine a tali attivita'».
    La  richiesta  di  addizione,  dunque,  non  soltanto   mira   ad
introdurre  un  nuovo  caso  di   inutilizzabilita'   di   cio'   che
l'ordinamento prescrive come attivita' obbligatoria (il sequestro del
corpo del reato), ma si propone altresi' di introdurre, ex novo,  uno
specifico divieto probatorio,  sancendo  la  inutilizzabilita'  delle
dichiarazioni  a  tal  proposito  rese  dalla  polizia   giudiziaria:
preclusione, quest'ultima, che si  colloca  in  posizione  del  tutto
eccentrica rispetto al tema costituzionale coinvolto dagli artt. 13 e
14 Cost.
    Va da se', peraltro, che se e' vero quanto afferma il  giudice  a
quo a proposito del fatto che  le  regole  che  stabiliscono  divieti
probatori riposano essenzialmente sulla esigenza di introdurre misure
volte  anche  a  disincentivare  possibili  "abusi"  -  e'  noto,  al
riguardo, che nei sistemi di common law la finalita' prevalente delle
exclusionary rules e' proprio quella di deterrence -  e'  altrettanto
vero  che  un  simile  obiettivo  viene  in  ogni   modo   perseguito
dall'ordinamento  a  traverso  la  persecuzione  diretta,   in   sede
disciplinare o, se del caso, anche penale, della  condotta  "abusiva"
che possa essere stata posta in  essere  dalla  polizia  giudiziaria,
come d'altra parte espressamente affermato in varie  occasioni  dalla
giurisprudenza di legittimita'  (ad  esempio,  Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, sentenza 28 aprile-25 maggio 2006, n. 18438).
    9.- Le questioni proposte  devono,  pertanto,  essere  dichiarate
inammissibili.
     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale  dell'art.  191  del  codice  di   procedura   penale,
sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14,  24,  97,  secondo
comma, e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto  1955,  n.  848,  dal  Giudice  dell'udienza  preliminare  del
Tribunale ordinario di Lecce, con le ordinanze indicate in epigrafe.
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2019.

                                F.to:
                    Giorgio LATTANZI, Presidente
                      Franco MODUGNO, Redattore
                     Roberto MILANA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2019.

                   Il Direttore della Cancelleria
                        F.to: Roberto MILANA

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