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mercoledì 9 ottobre 2019
N. 219 SENTENZA 15 luglio - 3 ottobre 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Prove illegittimamente acquisite - Sanzione della inutilizzabilita' - Non riferibilita' ai risultati probatori (compreso il sequestro del corpo del reato e le dichiarazioni della polizia giudiziaria) delle perquisizioni e ispezioni eseguite contra legem - Denunciata irragionevolezza, disparita' di trattamento, violazione dei diritti fondamentali alla liberta' personale e domiciliare, del diritto di difesa e del diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dalla CEDU - Inammissibilita' delle questioni. - Codice di procedura penale, art. 191. - Costituzione, artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, e 117, primo comma; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 8. (GU n.41 del 9-10-2019 )
N. 219 SENTENZA 15 luglio - 3 ottobre 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Processo penale - Prove illegittimamente acquisite - Sanzione della
inutilizzabilita' - Non riferibilita' ai risultati probatori
(compreso il sequestro del corpo del reato e le dichiarazioni della
polizia giudiziaria) delle perquisizioni e ispezioni eseguite
contra legem - Denunciata irragionevolezza, disparita' di
trattamento, violazione dei diritti fondamentali alla liberta'
personale e domiciliare, del diritto di difesa e del diritto al
rispetto della vita privata e familiare sancito dalla CEDU -
Inammissibilita' delle questioni.
- Codice di procedura penale, art. 191.
- Costituzione, artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, e 117,
primo comma; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle liberta' fondamentali, art. 8.
(GU n.41 del 9-10-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 191 del
codice di procedura penale, promossi dal Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale ordinario di Lecce, con ordinanze del 3
ottobre e del 12 dicembre 2017, iscritte rispettivamente ai numeri 14
e 93 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica numeri 6 e 26, prima serie speciale,
dell'anno 2018.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 maggio 2019 il Giudice
relatore Franco Modugno.
Ritenuto in fatto
1.- Con due ordinanze di tenore in larga misura analogo, del 3
ottobre 2017 (r. o. n. 14 del 2018) e del 12 dicembre 2017 (r. o. n.
93 del 2018), il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 14
e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione
all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 191 del
codice di procedura penale, nella parte in cui - secondo
l'interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimita',
assunta quale diritto vivente - «non prevede che la sanzione
dell'inutilizzabilita' ai fini della prova riguardi anche gli esiti
probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose
pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione
compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori dei casi tassativamente
previsti dalla legge o comunque non convalidati dall'[autorita'
giudiziaria] con provvedimento motivato, nonche' la deposizione
testimoniale in ordine a tali attivita'».
La sola ordinanza r. o. n. 93 del 2018 assume che la norma
denunciata violi, in parte qua, anche gli artt. 2, 24 e 97, terzo
(recte: secondo) comma, Cost.
1.1.- Il giudice a quo premette, in entrambi i casi, di essere
chiamato a giudicare, nelle forme del giudizio abbreviato, una
persona imputata del reato di detenzione di sostanze stupefacenti per
uso non personale.
Riferisce, altresi', che gli elementi a carico dell'imputato sono
costituiti, nel caso dell'ordinanza r. o. n. 14 del 2018, dai
risultati dell'ispezione del bagaglio e della perquisizione personale
e, nel caso dell'ordinanza r. o. n. 93 del 2018, dai risultati della
perquisizione personale e domiciliare cui l'imputato era stato
sottoposto, di loro iniziativa, da militari appartenenti all'Arma dei
carabinieri: ispezione e perquisizioni che avevano portato al
rinvenimento e al conseguente sequestro di alcuni grammi di sostanza
stupefacente (hashish e marijuana, in un caso, sola canapa indiana,
nell'altro).
Stando alle indicazioni del processo verbale di perquisizione, i
Carabinieri erano stati indotti a procedere a tali attivita',
«particolarmente invasiv[e]»:
a) nel caso dell'ordinanza r. o. n. 14 del 2018, da un non meglio
specificato «atteggiamento asseritamente sospetto» tenuto
dall'imputato, allorche', verso le ore 14.00, si aggirava nei pressi
del litorale di Gallipoli;
b) nel caso dell'ordinanza r. o. n. 93 del 2018, dalla
circostanza che «fonti confidenziali» avevano indicato nell'imputato
uno spacciatore di sostanze stupefacenti: sicche', avendo in
precedenti occasioni rilevato, in quella zona, «un andirivieni di
soggetti noti come tossicodipendenti» (peraltro non indicati), e
avendo scorto un giovane che consegnava una banconota all'imputato, i
militari avevano proceduto alla immediata identificazione di tali
soggetti. Pur avendo accertato che il giovane era il fratello
dell'imputato e pur avendo questi chiarito che stava consegnando al
fratello denaro per le «spese di casa», i Carabinieri avevano
proceduto alla perquisizione personale dell'imputato e, avendogli
trovato in tasca tre involucri di sostanza stupefacente, avevano
esteso la perquisizione all'abitazione, dove avevano rinvenuto la
restante parte della sostanza sottoposta a sequestro.
Ad avviso del rimettente, i ricordati atti di ispezione e
perquisizione dovrebbero ritenersi "abusivi", in quanto eseguiti
fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge.
Al riguardo, il giudice salentino rammenta che l'art. 13 Cost.
(richiamato, quanto a garanzie e forme ivi previste, dall'art. 14
Cost. con riguardo a ispezioni, perquisizioni e sequestri
domiciliari) prevede che ogni forma di limitazione della liberta'
personale - compresa quella insita nelle ispezioni e nelle
perquisizioni personali - possa essere disposta solo con «atto
motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e modi previsti
dalla legge». A tale principio puo' derogarsi unicamente «in casi
eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati tassativamente dalla
legge», nei quali l'autorita' di pubblica sicurezza puo' adottare
«provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte
dell'autorita' giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono
revocati e restano privi di ogni effetto».
L'ipotesi principale che, in base alla legge ordinaria, legittima
l'intervento eccezionale delle forze di polizia e' quella della
flagranza di reato (artt. 352 e 354 cod. proc. pen.). Norme speciali
hanno, peraltro, ampliato i casi nei quali la polizia giudiziaria
puo' procedere a ispezioni e perquisizioni. A fianco delle ipotesi
previste dall'art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni
a tutela dell'ordine pubblico) - che consente, in casi eccezionali di
necessita' e urgenza, la perquisizione, per la ricerca di armi e
strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento o la cui
presenza non appaiano giustificabili, in relazione a specifiche e
concrete circostanze di luogo e di tempo - e dall'art. 41 del regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza) - che permette la perquisizione
domiciliare per la ricerca delle armi della cui esistenza, in locali
pubblici o privati, la polizia abbia notizia, anche per indizio -, la
fattispecie piu' ricorrente nella pratica - e rilevante anche nei
giudizi a quibus - e' quella contemplata dall'art. 103 del d.P.R. 9
ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). I
commi 2 e 3 del citato art. 103 abilitano, infatti, la polizia
giudiziaria a procedere - nel corso di operazioni finalizzate alla
prevenzione e alla repressione del traffico illecito di sostanze
stupefacenti o psicotrope - rispettivamente, all'ispezione dei mezzi
di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, e a
perquisizioni, personali e domiciliari, allorche' vi sia «fondato
motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali sostanze e
ricorrano, altresi' - nel caso delle perquisizioni - «motivi di
particolare necessita' ed urgenza che non consentano di richiedere
l'autorizzazione telefonica del magistrato competente». Delle
operazioni deve essere data notizia, entro quarantotto ore, al
procuratore della Repubblica, il quale le convalida nelle quarantotto
ore successive, sempre che ne sussistano i presupposti.
A parere del giudice a quo, una interpretazione delle
disposizioni ora richiamate rispettosa del dettato costituzionale
imporrebbe di ritenere che il presupposto che legittima l'intervento
della polizia giudiziaria, anche fuori dai casi di flagranza nel
reato, debba possedere un «requisito minimo di comprovabilita' e
verificabilita'»: non occorrerebbe, cioe', la prova preventiva della
detenzione illegittima di armi o stupefacenti, ma dovrebbero esservi
almeno degli indizi in tal senso, sia pure semplici e non gravi, ma
comunque sia verificabili. Diversamente opinando, infatti, si
attribuirebbe alla polizia giudiziaria il potere di ledere «ad
libitum» la liberta' personale e domiciliare dell'individuo,
vanificando il senso del controllo dell'autorita' giudiziaria sul suo
operato.
In questa prospettiva, la sussistenza di un indizio di detenzione
delle armi o dello stupefacente non potrebbe essere desunta da fonti
anonime o confidenziali, le quali non sono in alcun modo verificabili
dal giudice e delle quali e' proprio per questo prevista, in via
generale, l'inutilizzabilita' (artt. 195, comma 7, 203, comma 1, e
240 cod. proc. pen.): conclusione che troverebbe riscontro in plurime
pronunce della giurisprudenza di legittimita'.
Alla luce di quanto precede, l'ispezione e le perquisizioni di
cui si discute nei giudizi a quibus apparirebbero illegittime,
risultando del tutto ingiustificate sulla base del «giudizio ex ante»
che deve presiedere alla valutazione degli atti della polizia
giudiziaria che incidano su liberta' costituzionalmente tutelate. Nei
casi di specie non ricorrerebbe, infatti, l'ipotesi della flagranza
del reato, essendosi questa manifestata solo ex post, all'esito
dell'ispezione e delle perquisizioni. Ma neppure ricorrerebbe il
«fondato motivo» per ritenere che potessero essere rinvenute sostanze
stupefacenti, richiesto dall'art. 103 t.u. stupefacenti.
Nel caso dell'ordinanza r. o. n. 14 del 2018, infatti, il verbale
di perquisizione non specifica in alcun modo in che cosa
concretamente consistesse l'«atteggiamento sospetto» tenuto nella
circostanza dall'imputato. Il riferimento a quest'ultimo si
tradurrebbe, di conseguenza, in un'affermazione «apodittica» e «non
verificabile».
Analogamente, nel caso dell'ordinanza r. o. n. 93 del 2018, il
verbale - di la' dal riferimento a fonti confidenziali, inidoneo per
quanto detto a legittimare l'intervento - non indica quali elementi
inducessero a ritenere che l'imputato fosse dedito allo spaccio,
ovvero a qualificare come acquisto di stupefacenti la dazione al
medesimo di denaro da parte del fratello. La conseguente «abusivita'»
della perquisizione personale non potrebbe, d'altra parte, non
riverberarsi sulla successiva perquisizione domiciliare. Peraltro,
anche a voler diversamente opinare sul punto, le questioni
resterebbero rilevanti, in quanto la pena da irrogare e' in funzione
della gravita' del fatto e questa dipende anche dalla quantita' di
sostanza stupefacente detenuta: sicche' la possibilita', o meno, di
computare nel relativo calcolo quanto e' stato rinvenuto sulla
persona dell'imputato influirebbe, comunque sia, sugli esiti del
giudizio principale.
Il rimettente rileva, per altro verso, come gli atti di ispezione
e perquisizione siano stati convalidati dal pubblico ministero - in
entrambi i casi - con provvedimenti totalmente privi di motivazione,
consistenti nella mera formula «v°, si convalida». Essi non
permetterebbero, pertanto, di comprendere in base a quali ragioni il
pubblico ministero abbia ritenuto legittimo l'operato della polizia
giudiziaria.
Secondo il giudice a quo, simili provvedimenti non varrebbero a
impedire la perdita di efficacia degli atti di polizia, stabilita
dall'art. 13 Cost. nel caso di mancata convalida da parte
dell'autorita' giudiziaria nel termine stabilito. Pur in assenza di
esplicita previsione in tal senso, sarebbe giocoforza, infatti,
ritenere che la convalida debba essere effettuata mediante
provvedimento motivato, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della
garanzia apprestata dall'art. 13 Cost., la quale presuppone
l'effettivita' del controllo sulla legalita' degli atti di polizia.
Non avrebbe senso, d'altronde, che la norma costituzionale richieda
l'«atto motivato» quando l'autorita' giudiziaria, titolare in via
ordinaria del potere, incida di sua iniziativa sulla liberta'
personale, e non pure nell'ipotesi - piu' delicata - in cui sia
chiamata a verificare se la polizia giudiziaria abbia agito fuori dai
casi eccezionali nei quali la legge le consente di intervenire.
La conclusione risulterebbe, peraltro, avvalorata anche dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale ha
posto in evidenza - in particolare con la sentenza 16 marzo 2017,
Modestou contro Grecia - come la presenza di controllo effettivo
dell'autorita' giurisdizionale sugli atti di perquisizione
rappresenti condizione essenziale per il rispetto della garanzia
prevista dall'art. 8 CEDU.
1.2.- Tutto cio' premesso, il giudice rimettente osserva come, al
lume della previsione dell'art. 13 Cost., gli atti di ispezione,
perquisizione e sequestro eseguiti abusivamente dalla polizia
giudiziaria, o non convalidati dall'autorita' giudiziaria con atto
motivato, debbano rimanere privi di effetto anche sul piano
probatorio.
La sanzione della revoca e della perdita di efficacia non e',
infatti, limitata ai soli provvedimenti di arresto e di fermo, ma si
estende, in modo indistinto, a tutti i «provvedimenti provvisori»
adottabili dalla polizia giudiziaria in base alla norma
costituzionale, e dunque anche alle ispezioni e alle perquisizioni
personali. Cio' emergerebbe anche dal rinvio operato dall'art. 14
Cost. con specifico riguardo a «ispezioni, perquisizioni o sequestri»
eseguiti nel domicilio.
Per altro verso, poi, l'unica efficacia perdurante nel tempo
degli atti di perquisizione o ispezione e' quella relativa alla loro
«capacita' probatoria»: di modo che la perdita di efficacia non
potrebbe che equivalere, per essi, a quella che, nell'art. 191 cod.
proc. pen. del 1988, e' qualificata come inutilizzabilita' delle
prove assunte in violazione di un divieto di legge.
Tale esito interpretativo, al quale dovrebbe condurre una piena
esegesi dello stesso art. 191 cod. proc. pen. - apparendo evidente
che la polizia giudiziaria, allorche' procede a un atto di
perquisizione fuori dei casi consentiti, compie un atto che le e'
vietato, e non semplicemente un atto irrituale o nullo -
risulterebbe, tuttavia, contraddetto dall'indirizzo della
giurisprudenza di legittimita' divenuto «assolutamente dominante» a
partire dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite
penali, 27 marzo-6 maggio 1996, n. 5021.
Nella citata sentenza, le Sezioni unite hanno, in verita',
riconosciuto che le conseguenze della illiceita' dell'attivita' di
acquisizione di una prova - nella specie, una perquisizione
illegittima - non possono esaurirsi nell'applicazione di sanzioni
amministrative, disciplinari o penali nei confronti dell'autore
dell'illecito, ma debbono estendersi anche al piano
dell'inutilizzabilita' della prova stessa: profilo in relazione al
quale non assume rilievo la distinzione concettuale, pur esistente,
tra la perquisizione, quale mezzo di ricerca della prova, e il
sequestro, quale strumento di acquisizione della prova stessa.
Vanificando, di fatto, i principi affermati, le Sezioni unite
hanno ritenuto, nondimeno, valido il sequestro conseguente a una
perquisizione eseguita fuori dai casi e dai modi previsti dalla
legge, allorche' abbia ad oggetto il corpo del reato o cose
pertinenti al reato, posto che, in tal caso, il sequestro costituisce
un atto dovuto ai sensi dell'art. 253, comma 1, cod. proc. pen., che
non potrebbe essere omesso dalla polizia giudiziaria solo a causa
dell'abuso compiuto. Correlativamente, gli agenti di polizia
giudiziaria potrebbero anche testimoniare sugli esiti della
perquisizione, ferma restando l'inutilizzabilita' di quest'ultima in
quanto tale (ossia, sembrerebbe, del verbale che la documenta).
La giurisprudenza di legittimita' successiva si sarebbe allineata
«monoliticamente» a tale soluzione interpretativa, confermando
ripetutamente la legittimita' del sequestro conseguente a una
perquisizione illegittima e la sua piena utilizzabilita' a fini
probatori. Cio', senza neppure tentare di valorizzare i principi
affermati dalle Sezioni unite nella prima parte della pronuncia, per
limitare l'utilizzabilita' del sequestro «alla res in quanto tale»:
vale a dire, ai fini della sola dimostrazione della sussistenza del
reato e come fonte di eventuali tracce a carattere individualizzante,
quali, ad esempio, impronte digitali (a cio' essendo, in effetti,
circoscritta la valenza probatoria della cosa sequestrata come tale,
mentre quel che conta, al fine di addebitare il reato a un
determinato soggetto, sono soprattutto le modalita' del suo
rinvenimento - nella specie, la perquisizione - che dimostrano la
relazione tra il soggetto stesso e la cosa "indiziante").
1.3.- Il giudice a quo dubita, tuttavia, che l'art. 191 cod.
proc. pen. - come interpretato dalla giurisprudenza assolutamente
prevalente -, tale da dar luogo a un vero e proprio diritto vivente -
possa ritenersi compatibile con il dettato costituzionale.
L'interpretazione censurata si porrebbe, infatti, inevitabilmente
in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost., negando concreta attuazione
alla previsione della perdita di efficacia delle perquisizioni e
delle ispezioni, nonche' dei sequestri ad esse conseguenti, allorche'
eseguiti in violazione dei divieti.
La ragion d'essere della disciplina stabilita dall'art. 191 cod.
proc. pen. non e', in effetti, tanto di ordine etico (il rifiuto del
legislatore di riconoscere valore probatorio ad atti illeciti),
quanto piuttosto di ordine «politico costituzionale». La disposizione
mirerebbe, cioe', ad offrire una efficace tutela ai diritti
costituzionalmente garantiti, disincentivando le loro violazioni
finalizzate all'acquisizione della prova col prevedere
l'inutilizzabilita' dei relativi risultati.
Ammettendo una "sanatoria" ex post di tali violazioni, legata
agli esiti della perquisizione o dell'ispezione, si verrebbe a negare
la tutela del cittadino in confronto agli abusi della polizia
giudiziaria, i quali verrebbero incentivati dalla mancanza di
conseguenze processuali in ordine all'impiego dei loro esiti
probatori.
L'interpretazione censurata violerebbe anche l'art. 3 Cost.,
negando irragionevolmente la conseguenza dell'inutilizzabilita', pur
a fronte di una palese identita' di ratio, in casi del tutto
sovrapponibili ad altri - per certi versi, addirittura meno gravi -
per i quali la legge espressamente la prevede: quali, ad esempio,
quelli delle intercettazioni eseguite dalla polizia giudiziaria in
assenza di decreto motivato dell'autorita' giudiziaria (caso
sanzionato con l'inutilizzabilita' dall'art. 271 cod. proc. pen.) e
dell'acquisizione di tabulati del traffico telefonico eseguita senza
provvedimento motivato del pubblico ministero (caso che le stesse
Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ritenuto dar luogo a
un'ipotesi di inutilizzabilita' della prova perche' acquisita in
violazione di un divieto di legge: Corte di cassazione, sezioni unite
penali, 13 luglio-24 settembre 1998, n. 21). In tal modo, verrebbe
quindi operata una ingiustificata disparita' di trattamento fra
indagati in situazioni del tutto analoghe.
La lettura della norma denunciata offerta dal diritto vivente si
porrebbe in contrasto, ancora, con l'art. 8 CEDU e, quindi, con
l'art. 117 Cost., risolvendosi nella mancata adozione di efficaci
disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino
indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo
domicilio.
Secondo la sola ordinanza r. o. n. 93 del 2018, l'interpretazione
maggioritaria violerebbe anche il «principio di necessaria
razionalita' dell'ordinamento dello Stato di diritto», espresso
dall'art. 3 Cost., dando luogo - «in maniera del tutto paradossale» -
a un sistema giuridico che vede inefficaci ab origine le leggi
incostituzionali, ma «efficacissimi», anche sotto il profilo
probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione
dei diritti costituzionali del cittadino.
Sempre secondo la citata ordinanza, la soluzione ermeneutica
censurata lederebbe anche l'art. 2 Cost., facendo si' che vengano a
mancare effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei
diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali rientra senz'altro quello
alla liberta' personale; come pure l'art. 97, terzo (recte: secondo)
comma, Cost., che sottopone in via generale l'azione dei pubblici
poteri al principio di legalita', rendendo prevalente l'azione
illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei
reati, rispetto ai diritti costituzionali dei consociati: con
ulteriore violazione dell'art. 3 Cost., posto che in un ordinamento
che prevede come centrali i diritti inviolabili della persona questi
dovrebbero porsi quantomeno sullo stesso piano dei diritti della
collettivita' e dello Stato.
Un conclusivo profilo di violazione dell'art. 3 Cost. e'
ravvisato dalla medesima ordinanza nel fatto che l'interpretazione
censurata si trova irrazionalmente a convivere con quella che
riconosce l'inutilizzabilita' di prove vietate dalla legge solo
perche' non verificabili (come nel caso degli scritti anonimi e delle
fonti confidenziali), laddove invece, nell'ipotesi che qui interessa,
essa viene negata in rapporto a prove acquisite in diretta violazione
di un divieto di legge (anche costituzionale) e caratterizzate
anch'esse da una «ridotta verificabilita'». Al riguardo, basterebbe
considerare come l'«insondabilita'» degli elementi che hanno spinto,
nel caso di specie, la polizia giudiziaria a eseguire la
perquisizione non consenta di escludere la possibilita' che siano
stati proprio i terzi latori della notizia confidenziale o anonima -
se non, addirittura, come talora pure e' avvenuto, le stesse forze di
polizia - a introdurre nell'abitazione dell'imputato la res illicita.
Aspetto per il quale emergerebbe anche la violazione dell'art. 24
Cost., stante la limitazione all'esplicazione del diritto di difesa
conseguente all'ingresso tra le prove utilizzabili di elementi dei
quali e' impossibile verificare in modo approfondito la genuinita'.
Secondo entrambe le ordinanze di rimessione, la dedotta
illegittimita' costituzionale avrebbe, come necessaria conseguenza,
anche il divieto di testimonianza degli operatori di polizia
giudiziaria in ordine al risultato delle attivita' di ispezione,
perquisizione e sequestro indebitamente eseguite: divieto che
discenderebbe logicamente dalla perdita di ogni efficacia di tali
attivita', rimanendo altrimenti frustrata la ratio
dell'inutilizzabilita' sancita dall'art. 191 cod. proc. pen. Per
questo verso, le questioni sarebbero rilevanti anche nell'ambito del
giudizio abbreviato - rito con il quale si svolgono i giudizi a
quibus - laddove si dovesse ravvisare, per ovviare
all'inutilizzabilita' delle perquisizioni e dell'ispezione,
l'assoluta necessita' di procedere, ai sensi dell'art. 441, comma 5,
cod. proc. pen., all'audizione dei verbalizzanti in ordine a quanto
rinvenuto sulla persona e nel bagaglio dell'imputato.
2.- Nel solo giudizio relativo all'ordinanza r. o. n. 14 del 2018
e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o
infondate.
Secondo la difesa dello Stato, le questioni si baserebbero su un
duplice, erroneo presupposto. Il giudice a quo, infatti, per un
verso, avrebbe posto impropriamente sullo stesso piano le
perquisizioni "ordinarie" disciplinate dal codice di procedura penale
e le perquisizioni cosiddette "preventive", disciplinate da leggi
speciali o di emergenza, che hanno ratio e natura differenti dalle
prime; per un altro verso, sarebbe caduto in equivoco circa l'ambito
di applicazione dell'istituto della nullita' degli atti processuali,
sovrapponendolo a quello - ben distinto - della inutilizzabilita'
delle prove.
Al riguardo, l'Avvocatura dello Stato rileva come questa Corte,
con l'ordinanza n. 332 del 2001, abbia gia' dichiarato manifestamente
inammissibili analoghe questioni di legittimita' costituzionale,
relative agli artt. 191 cod. proc. pen. e 41 t.u. pubblica sicurezza,
proprio perche' basate su una interpretazione che «finisce per
confondere fra loro fenomeni - quali quelli della nullita' e
dell'inutilizzabilita' - tutt'altro che sovrapponibili, mirando in
definitiva il rimettente a trasferire nella disciplina della
inutilizzabilita' un concetto di vizio derivato che il sistema regola
esclusivamente in relazione al tema delle nullita'»: richiedendo, con
cio', alla Corte l'esercizio «di opzioni che l'ordinamento riserva
esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di piu', che -
quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra gli atti
probatori - ammette, gia' sul piano logico, un'ampia varieta' di
possibili configurazioni e alternative».
Inoltre, la Corte europea dei diritti dell'uomo, con la decisione
10 luglio 2007, Giugliano contro Italia, ha escluso che la
perquisizione eseguita ai sensi dell'art. 41 t.u. pubblica sicurezza
violi l'art. 8 CEDU. La circostanza che, in base al citato art. 41
t.u. pubblica sicurezza, la polizia possa agire con urgenza e senza
la previa autorizzazione di un magistrato, allorche' fonti
considerate attendibili indichino la presenza in un dato luogo di
armi, munizioni o materie esplodenti, non puo' costituire, infatti,
indice di arbitrio. L'esigenza di una convalida a posteriori da parte
di un magistrato della procura della Repubblica garantisce un
controllo sulla legalita' della condotta della polizia.
L'ispezione e la perquisizione personale, di cui si discute nel
giudizio a quo, sono state, in effetti, convalidate dalla competente
procura della Repubblica, la quale, con il proprio provvedimento,
avrebbe dunque «assorbito e superato» l'operato della polizia
giudiziaria: donde l'inammissibilita' delle questioni riguardanti
tale operato.
Considerato in diritto
1.- Con due ordinanze di analogo contenuto (r. o. n. 14 e n. 93
del 2018), il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 14
e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione
all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 191 del
codice di procedura penale, nella parte in cui - secondo
l'interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimita',
assunta quale diritto vivente - «non prevede che la sanzione
dell'inutilizzabilita' ai fini della prova riguardi anche gli esiti
probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose
pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione
compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori dei casi tassativamente
previsti dalla legge o comunque non convalidati dall'[autorita'
giudiziaria] con provvedimento motivato, nonche' la deposizione
testimoniale in ordine a tali attivita'».
Con la sola ordinanza r. o. n. 93 del 2018 si deduce che la norma
denunciata violerebbe, in parte qua, anche gli artt. 2, 24 e 97,
terzo (recte: secondo) comma, Cost.
A parere del giudice rimettente, la disposizione censurata si
porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost., in forza dei quali
l'autorita' di pubblica sicurezza puo' procedere a ispezioni
personali e a perquisizioni, personali e domiciliari, solo in casi
eccezionali di necessita' e urgenza indicati tassativamente dalla
legge, mediante atti soggetti a convalida da parte dell'autorita'
giudiziaria, in mancanza della quale essi «restano privi di ogni
efficacia»: perdita di efficacia che implicherebbe necessariamente
l'inutilizzabilita' dei loro risultati sul piano probatorio, anche
perche' solo in questo modo si tutelerebbero efficacemente i diritti
fondamentali alla liberta' personale e domiciliare, disincentivando
la loro violazione ad opera della polizia giudiziaria per finalita'
di ricerca della prova.
Sarebbe altresi' violato l'art. 3 Cost. sotto un duplice ordine
di considerazioni. Da un lato, infatti, la previsione denunciata
darebbe luogo ad una ingiustificata disparita' di trattamento delle
ipotesi considerate rispetto a situazioni analoghe, per le quali la
sanzione dell'inutilizzabilita' e' espressamente prevista dalla
legge, quali quelle delle intercettazioni e dell'acquisizione di
tabulati del traffico telefonico operate dalla polizia giudiziaria in
difetto di provvedimento motivato dell'autorita' giudiziaria.
Dall'altro lato, si determinerebbe un contrasto con il «principio di
necessaria razionalita' dell'ordinamento», venendosi a teorizzare un
sistema che considera «inefficaci ab origine le leggi
incostituzionali», ma «efficacissimi», anche sotto il profilo
probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione
dei diritti costituzionali del cittadino.
Si prospetta, anche, la violazione dell'art. 117 Cost., in
relazione all'art. 8 CEDU, giacche' verrebbero a mancare efficaci
disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino
indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo
domicilio.
Vulnerato sarebbe pure l'art. 2 Cost., non risultando predisposte
effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti
inviolabili dell'uomo, tra i quali certamente rientra quello alla
liberta' personale, nonche' gli artt. 3 e 97, terzo [recte,
verosimilmente: secondo] comma, Cost., rendendo prevalente l'azione
illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei
reati, rispetto ai diritti inviolabili dei consociati, posti al
centro dell'ordinamento costituzionale.
Deduce, infine, il rimettente, la violazione degli artt. 3 e 24
Cost., essendo generalmente riconosciuta l'inutilizzabilita' di prove
vietate dalla legge solo perche' non verificabili (quali gli scritti
anonimi e le fonti confidenziali), mentre, nell'ipotesi in esame, si
considerano irrazionalmente utilizzabili prove acquisite in diretta
violazione di un divieto di legge (anche costituzionale) e
caratterizzate anch'esse da una «ridotta verificabilita'», in
particolare quanto agli elementi che hanno indotto la polizia
giudiziaria a procedere alla perquisizione, con conseguente
compromissione anche del diritto di difesa dell'imputato.
2.- Le ordinanze sollevano questioni in larga misura analoghe,
sicche' i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con
un'unica sentenza.
3.- Le questioni, che il giudice rimettente solleva, si
riflettono su una disposizione cardine del codice di procedura
penale, che introduce nel sistema processuale il principio secondo il
quale e' preclusa la possibilita' di utilizzare prove assunte in
violazione dei divieti stabiliti dalla legge.
Come ricorda la relazione al progetto preliminare del codice di
procedura penale vigente, l'istituto della inutilizzabilita' non puo'
definirsi una novita' in senso assoluto, dal momento che, anche sotto
la vigenza del codice del 1930, legislazione, dottrina e
giurisprudenza avevano gia' maturato una propensione a designare con
tale nomen una figura destinata a frapporsi, in termini di maggiore
incisivita', all'impiego di prove vietate dalla legge, in
contrapposizione alla tradizionale sanzione della nullita',
riservata, invece, alla violazione delle forme degli atti
processuali. Gia' nel codice del 1930, infatti, la figura della
inutilizzabilita' era stata richiamata nell'art. 304, terzo comma,
ove appunto si era stabilito che «non possono, comunque, essere
utilizzate» le dichiarazioni rese da persone esaminate quali
testimoni, quando fossero emersi indizi di reita' nei loro confronti
e non fosse stato nominato un difensore. Preclusione, dunque,
destinata ad impedire la violazione del fondamentale canone del nemo
tenetur contra se edere e delle conseguenti facolta' difensive.
Analogamente, anche l'art. 226-quinquies dello stesso codice
(introdotto dall'art. 5 della legge 8 aprile 1974, n. 98, recante
«Tutela della riservatezza e della liberta' e segretezza delle
comunicazioni») stabiliva che «non si puo' tener conto» delle
intercettazioni effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge od
eseguite in difformita' dalle prescrizioni in essa stabilite, pur
esordendo con la formula «a pena di nullita' insanabile da rilevare
d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento», evocativa della
sanzione piu' tradizionale, richiamata per sancire il relativo regime
di rilevabilita' processuale. Anche in questo caso, la
inutilizzabilita' derivante dal divieto probatorio, si saldava
intimamente alla "gravita'" del vizio in rapporto alla rilevanza dei
valori protetti, essendo il legislatore intervenuto, sul tema delle
intercettazioni, in aderenza ai principi affermati da questa Corte
nella sentenza n. 34 del 1973, ove, fra l'altro, si avverti' la
necessita' di «mettere nella dovuta evidenza il principio secondo il
quale attivita' compiute in dispregio dei fondamentali diritti del
cittadino non possono essere assunte di per se' a giustificazione ed
a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attivita'
costituzionalmente illegittime abbia subito».
Questa stessa Corte, nella successiva sentenza n. 120 del 1975,
chiari' come proprio l'allora introdotto art. 226-quinquies cod.
proc. pen. impedisse «di tener conto delle intercettazioni effettuate
fuori dei casi consentiti dalla legge o in difformita' delle relative
prescrizioni, sancendo una nullita' insanabile, rilevabile d'ufficio
in ogni stato e grado del procedimento. Cio' equivale a dire che
nessun effetto probatorio puo' derivare da intercettazioni siffatte,
le quali debbono ritenersi come inesistenti [...]».
Mettendo dunque a frutto questo ampio fermento di idee - ha
soggiunto la citata relazione - il legislatore delegato ritenne di
stabilire, con la disposizione oggetto delle odierne questioni, che
«[a]nche quando le norme di parte speciale non prevedono
espressamente alcuna sanzione, l'inutilizzabilita' puo' desumersi
dall'art. 191, comma 1, la' dove siano configurabili veri e propri
divieti probatori», richiamandosi, a titolo esemplificativo, l'art.
197, in materia di incompatibilita' a testimoniare, e l'art. 234,
comma 3, concernente documenti su voci correnti nel pubblico. I
risultati della prova acquisita in violazione dei divieti
tassativamente previsti dall'ordinamento non sono, dunque, «in alcun
modo utilizzabili in ogni stato e grado del procedimento, quale che
sia il comportamento della parte interessata a far rilevare la
violazione [...]».
4.- E' ovvio, dunque, che la scelta del legislatore e' stata
quella di introdurre un meccanismo preclusivo che direttamente
attingesse, dissolvendola, la stessa "idoneita'" probatoria di atti
vietati dalla legge, distinguendo in tal modo nettamente tale
fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla eventuale
violazione di una regola sancita a pena di nullita' dell'atto.
E da qui, il naturale ed ampio dibattito, sviluppatosi, tanto in
sede giurisprudenziale quanto in sede dottrinaria, non soltanto sul
versante, prevalentemente teorico, relativo alla individuazione della
"natura sanzionatoria" da annettere alla categoria degli atti
inutilizzabili, bensi', anche, e soprattutto, su quello della
effettiva portata applicativa dell'istituto, non essendo mancate voci
che ne hanno addirittura stigmatizzato la relativa incoerenza
sistematica e la stessa utilita' processuale.
D'altra parte, e come rammentato dalla giurisprudenza di
legittimita', «essendo il diritto alla prova un connotato ineludibile
del nuovo processo penale, assurto al rango di paradigma del
parametro costituzionale sul "giusto processo", qualsiasi divieto
probatorio positivamente introdotto dal legislatore puo' spiegarsi
solo nell'ottica di preservare equivalenti valori, anch'essi di rango
costituzionale» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza
25 marzo-9 aprile 2010, n. 13426), con l'ovvia conseguenza che le
norme le quali introducano divieti probatori si atteggiano, nel
sistema, alla stregua di norme eccezionali e di stretta
interpretazione.
Per altro verso, e' altrettanto evidente come, proprio in ragione
delle peculiarita' "funzionali" che caratterizzano il sistema delle
inutilizzabilita' e dei connessi divieti probatori, in ragione dei
valori che mirano a preservare, esista una gamma "differenziata" di
regole di esclusione, alle quali corrisponde un altrettanto
differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono
tutelare: il tutto, come e' ovvio, in funzione di scelte di "politica
processuale" che soltanto il legislatore e' abilitato, nei limiti
della ragionevolezza, ad esercitare.
D'altra parte, e' lo stesso art. 191 cod. proc. pen. ad offrire,
icasticamente, dimostrazione di tale assunto. Nello stabilire,
infatti, il generale principio in forza del quale le prove assunte in
violazione dei divieti probatori previsti dalla legge sono
inutilizzabili e che la inutilizzabilita' e' rilevabile anche di
ufficio in ogni stato e grado del processo, il comma 2-bis,
introdotto dall'art. 2, comma 1, della legge 14 luglio 2017, n. 110
(Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano), ha
inserito nel sistema dei divieti probatori una regola, per cosi' dire
"rafforzata" per la specifica ipotesi di dichiarazioni "estorte" con
la tortura. Di la', infatti, dal divieto probatorio sancito dall'art.
188 cod. proc. pen., a norma del quale non possono essere utilizzati,
neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche
idonei a influire sulla liberta' di autodeterminazione o ad alterare
la capacita' di ricordare e di valutare i fatti, la novella di cui si
e' detto sancisce che le dichiarazioni o le informazioni ottenute
mediante il delitto di tortura non sono «comunque utilizzabili, salvo
che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di
provarne la responsabilita' penale».
Il "limite" della inutilizzabilita', quindi, e' stato allargato
dal legislatore non soltanto alle dichiarazioni, ma anche alle
"informazioni" provenienti dalla persona, e copre radicalmente
qualunque oggetto (contro o a favore di se stessa o di altri), che
non sia quello espressamente eccettuato dalla legge.
Il che dimostra come il legislatore abbia inteso precludere - ed
in tal modo prevenire - qualsiasi utilizzabilita' processuale di
dichiarazioni scaturite dall'uso di metodi riconducibili alla
fattispecie di cui all'art. 613-bis cod. pen. (Tortura), avuto
riguardo all'estremo livello di lesione che una siffatta attivita'
presenterebbe per i diritti fondamentali della persona. A un
"massimo" di illegalita' dell'atto probatorio, perche' compiuto in
violazione di divieti di elevato spessore, deve corrispondere,
dunque, una equivalente "estensione" dell'area di inutilizzabilita'
processuale.
5.- Da tutto cio' e' pertanto possibile desumere una serie di
corollari che appaiono essere, ormai, sufficientemente sedimentati,
tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. E' da considerare infatti
pacifico l'assunto secondo il quale l'istituto della
inutilizzabilita' abbia vita totalmente autonoma rispetto al regime
ed alla stessa natura giuridica delle nullita', non essendo anzi
mancati tentativi definitori che hanno fatto riferimento ad una
ipotesi di «difetto funzionale della "causa" dell'atto probatorio,
vale a dire come una inidoneita' dell'atto stesso a svolgere la
funzione che l'ordinamento processuale gli assegna» (Cass., sez. un.,
n. 13426 del 2010).
Un simile "vizio", peraltro, risponde anch'esso - al pari delle
nullita' - ai paradigmi della tassativita' e legalita', dal momento
che e' soltanto la legge a stabilire quali siano - e come si
atteggino - i diversi divieti probatori.
Infine, e' lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione
secondo la quale, per la inutilizzabilita' che scaturisce dalla
violazione di un divieto probatorio, non possa trovare applicazione
un principio di "inutilizzabilita' derivata", sulla falsariga di
quanto e' previsto invece, nel campo delle nullita', dall'art. 185,
comma 1, cod. proc. pen., a norma del quale «[l]a nullita' di un atto
rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello
dichiarato nullo».
Derivando il divieto probatorio e la conseguente "sanzione" della
inutilizzabilita' da una espressa previsione della legge, qualsiasi
"estensione" di tale regime ad atti diversi da quelli cui si
riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una,
altrettanto espressa, previsione legislativa. Del resto, e'
ricorrente in giurisprudenza l'affermazione secondo la quale tale
principio, valido per le nullita', non si applica in materia di
inutilizzabilita', riguardando quest'ultima solo le prove
illegittimamente acquisite e non quelle la cui acquisizione sia
avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite (ex plurimis,
Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 settembre
2018-4 febbraio 2019, n. 5457).
6.- In tale quadro di riferimento, coglie dunque nel segno il
rilievo svolto dall'Avvocatura generale dello Stato relativo al fatto
che il giudice rimettente ha omesso qualsiasi riferimento, se non
altro per confutarne gli argomenti, a quanto questa Corte ha avuto
modo di affermare nella ordinanza n. 332 del 2001, con la quale e'
stata dichiarata la manifesta inammissibilita' di questioni di
legittimita' costituzionale riguardanti l'art. 41 t.u. pubblica
sicurezza e l'art. 191 cod. proc. pen., quest'ultimo censurato, in
riferimento all'art. 24 Cost., «nella parte in cui tale disposizione
- alla luce, anche, della interpretazione offerta dalla
giurisprudenza di legittimita' - consente la utilizzazione di prove
che derivano, non solo in via diretta, ma anche "in via mediata", da
un atto posto in essere in violazione di divieti, e, in particolare,
nella parte in cui consente l'utilizzazione del risultato di una
perquisizione nulla».
La Corte, nel frangente, pervenne, infatti, alla declaratoria di
inammissibilita' delle questioni proprio perche' basate su una
interpretazione che «finisce per confondere fra loro fenomeni - quali
quelli della nullita' e dell'inutilizzabilita' - tutt'altro che
sovrapponibili, mirando in definitiva il rimettente a trasferire
nella disciplina della inutilizzabilita' un concetto di vizio
derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema
delle nullita'»: richiedendo, con cio', alla Corte l'esercizio «di
opzioni che l'ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, in
una tematica, per di piu', che - quale quella dei rapporti di
correlazione o dipendenza tra gli atti probatori - ammette, gia' sul
piano logico, un'ampia varieta' di possibili configurazioni e
alternative».
7.- Ebbene, non misurandosi con i rilievi dianzi esposti, il
giudice rimettente incorre anche nello stesso tipo di
inammissibilita' del petitum, in quanto fondato su una richiesta
fortemente "manipolativa", pretendendo di desumere l'automatica
"inutilizzabilita'" degli atti di sequestro, attraverso il
"trasferimento" su di essi dei "vizi" che affliggerebbero gli atti di
perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono
scaturiti, in ragione di una ritenuta non congruita' - rispetto ai
presupposti enunciati dall'art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti
e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei
relativi stati di tossicodipendenza) - dell'apparato di motivazioni
esibito dalla polizia giudiziaria a corredo degli atti in questione,
ancorche' convalidati da parte del pubblico ministero.
In numerose occasioni, questa Corte ha infatti avuto modo di
dichiarare l'inammissibilita' di questioni rispetto alle quali il
rimettente chiedeva una pronuncia additiva, nei casi in cui il
petitum formulato si connotava per un cospicuo tasso di
manipolativita', tanto piu' in materie rispetto alle quali, come
quella processuale, e' stata riconosciuta l'ampia discrezionalita'
del legislatore (sentenze n. 23 del 2016 e n. 277 del 2014; ordinanze
n. 254 e n. 122 del 2016). E cio', tutte le volte in cui il petitum,
pur meritevole di considerazione, implichi una modifica «rientrante
nell'ambito delle scelte riservate alla discrezionalita' del
legislatore» (sentenza n. 45 del 2018).
Affermazioni, queste, che assumono un risalto ancor piu'
specifico allorche', come si e' accennato, vengano in discorso
disposizioni di carattere "eccezionale" (in quanto strutturalmente
derogatorie rispetto alla opposta, ordinaria, regola), quali istituti
che sanciscano divieti probatori e clausole di inutilizzabilita'
processuale, vigendo in materia un rigoroso regime di tipicita' e
tassativita'.
La tesi del giudice rimettente, secondo la quale la
illegittimita' della perquisizione dovrebbe condurre - come soluzione
costituzionalmente imposta - alla "inutilizzabilita'" del sequestro
del corpo del reato, secondo la nota teoria dei "frutti dell'albero
avvelenato", rinverrebbe, d'altra parte, la propria ragion d'essere
nella circostanza che l'art. 191 cod. proc. pen. svolgerebbe una
funzione di tipo "politico costituzionale", in quanto mirerebbe ad
assicurare una effettiva tutela ai valori costituzionali coinvolti,
disincentivando le loro violazioni finalizzate all'acquisizione della
prova attraverso lo strumento della inutilizzabilita' dei relativi
risultati. Sarebbe proprio grazie a tale divieto di utilizzabilita' -
sostiene il giudice rimettente - che si «scoraggeranno e
disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con
modalita' illegali (e talora francamente illecite), che violano i
diritti costituzionali al cui presidio sono appunto posti i divieti
rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali».
In questa prospettiva, la stessa ratio essendi delle censure -
volte a rendere automaticamente "contaminata" la utilizzabilita' del
sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita
fuori dai casi consentiti dalla legge - finisce ineluttabilmente per
coinvolgere scelte di "politica processuale" che la stessa
Costituzione riserva al legislatore.
In sostanza, il giudice rimettente, dichiaratamente, vuole
raggiungere, attraverso la pronuncia additiva e manipolativa che
enuncia e propone in dispositivo, l'obiettivo di disincentivare gli
abusi (o quelli che lui ipotizza esser tali) rendendo gli abusi
stessi "non paganti" sul piano processuale, attraverso un passaggio
che estende ad un atto in se' valido (il sequestro) la illegittimita'
(e inutilizzabilita') di quello che ne costituisce la occasio (la
perquisizione ed ispezione).
8.- Tutto cio', d'altra parte, e' reso particolarmente evidente
dallo stesso tenore del quesito enunciato nel dispositivo delle
ordinanze di rimessione, ove viene sollevata questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 191 cod. proc. pen., «nella
parte in cui non prevede che la sanzione dell'inutilizzabilita' ai
fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli
atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla p.g. fuori dei casi
tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati
dall'A.G. con provvedimento motivato, nonche' la deposizione
testimoniale in ordine a tali attivita'».
La richiesta di addizione, dunque, non soltanto mira ad
introdurre un nuovo caso di inutilizzabilita' di cio' che
l'ordinamento prescrive come attivita' obbligatoria (il sequestro del
corpo del reato), ma si propone altresi' di introdurre, ex novo, uno
specifico divieto probatorio, sancendo la inutilizzabilita' delle
dichiarazioni a tal proposito rese dalla polizia giudiziaria:
preclusione, quest'ultima, che si colloca in posizione del tutto
eccentrica rispetto al tema costituzionale coinvolto dagli artt. 13 e
14 Cost.
Va da se', peraltro, che se e' vero quanto afferma il giudice a
quo a proposito del fatto che le regole che stabiliscono divieti
probatori riposano essenzialmente sulla esigenza di introdurre misure
volte anche a disincentivare possibili "abusi" - e' noto, al
riguardo, che nei sistemi di common law la finalita' prevalente delle
exclusionary rules e' proprio quella di deterrence - e' altrettanto
vero che un simile obiettivo viene in ogni modo perseguito
dall'ordinamento a traverso la persecuzione diretta, in sede
disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta "abusiva"
che possa essere stata posta in essere dalla polizia giudiziaria,
come d'altra parte espressamente affermato in varie occasioni dalla
giurisprudenza di legittimita' (ad esempio, Corte di cassazione,
sezione prima penale, sentenza 28 aprile-25 maggio 2006, n. 18438).
9.- Le questioni proposte devono, pertanto, essere dichiarate
inammissibili.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 191 del codice di procedura penale,
sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo
comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in
relazione all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, dal Giudice dell'udienza preliminare del
Tribunale ordinario di Lecce, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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