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venerdì 4 marzo 2011

Se mi rivolgo al capo dicendogli "non mi rompere il c....", cosa succede? Nulla Dire al capo "non mi rompere il c...." è legittimo secondo la Corte di Cassazione: "assoluzione piena", quindi, per la frase incriminata.





Così, infatti, i giudici della Cassazione hanno stabilito nella sentenza 16 novembre 2010, n. 23132.


LAVORO (RAPPORTO DI)
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-11-2010, n. 23132
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di G.P., proposta nei confronti della società Azienda Trasporti Campania, avente ad oggetto la declaratoria d' illegittimità del licenziamento per giusta causa, con tutte le conseguenze economiche e giuridiche di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 intimatogli in data (OMISSIS) per aver rivolto ingiurie e volgarità a carico del D.N. azionista di riferimento della società controllata SIPPIC. La Corte territoriale, per quello che interessa in questa sede, poneva a fondamento della decisione il rilievo fondante che la sanzione del licenziamento non era proporzionata al comportamento addebitato valutato sotto il profilo oggettivo e soggettivo.

Secondo la predetta Corte venivano in rilievo al riguardo: la situazione di accesa conflittualità che connotava le relazioni industriali al momento del fatto addebitato; lo stato di comprensibile esasperazione nel quale versava il lavoratore già provato da tre ore di colloqui con gli autisti i quali si erano rifiutati di rendere prestazioni di lavoro straordinario vanificando ogni sforzo da lui intrapreso e teso alla organizzazione del servizio; la protrazione per oltre quindici minuti del colloquio telefonico con il D.N. e i toni alterati assunti da questi; la obiettiva gravità della situazione organizzativa sfociata nell'interruzione del servizio di trasporto, la concitazione dei toni assunti dalle parti, le trattative con il personale tali da rendere l'espressione proferita dal lavoratore priva della valenza ingiuriosa conferitale dalla società in quanto frutto del clima incandescente venutosi a creare nell'ambito dei rapporti con il personale.

La Corte territoriale considerava, inoltre, rilevante ai fini della ingiustificatezza dell'intimato licenziamento la obiettiva insussistenza di un legame di subordinazione diretta con il D. N., mero azionista, sia pure di riferimento della società SIPPIC che doveva ritenersi ragionevolmente percepito dal lavoratore quale soggetto estraneo all'organizzazione del servizio e comunque all'assetto gerarchico societario di guisa che anche l'espressione "non mi rompere il cazzo" non poteva essere intesa quale reazione al legittimo esercizio di prerogative conferite alla parte datoriale; il contesto in cui il fatto addebitato si era verificato consistito in un colloquio telefonico in un ambito del tutto estraneo a quello lavorativo e con modalità insuscettibili di determinare una diffusione in un più esteso ambito tanto da poter essere percepita da terzi e da essere quindi connotata da particolare disvalore ambientale, nonchè la mancanza lungo la lunga carriera del lavoratore di
precedenti addebiti.

Avverso tale sentenza la società in epigrafe ricorre in cassazione sulla base di due censure.

Resiste con controricorso il G..
Motivi della decisione

Rileva preliminarmente, il Collegio che risulta infondata l'eccezione d'inammissibilità del ricorso per carente esposizione sommaria dei fatti di causa sollevata da parte resistente.

Invero, dall'intero contesto dell'atto d'impugnazione è possibile desumere una conoscenza del "fatto", sostanziale e processuale, sufficiente per intendere correttamente il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia oggetto di impugnazione (Cass. 24 luglio 2007 n. 16315).

Con il primo motivo la società ricorrente, deducendo vizio di motivazione, allega che la Corte territoriale: ha omesso di procedere a qualsiasi valutazione in ordine alla posizione, al ruolo ed alle responsabilità del G., nonchè alla qualità del rapporto di lavoro ed al grado di fiducia richiesto;non ha considerato che rientrava nelle normali mansioni del lavoratore la contrattazione con gli autisti; non ha valutato che il G. era tenuto a riferire per espressa disposizione del diretto superiore al socio di riferimento D.N.; ha errato nella ricostruzione del contesto oggettivo in cui si è verificato il fatto in quanto quello prospettato non è veritiero ed è indimostrato; ha apoditticamente ritenuta l'assenza di un legame di subordinazione tra il G. ed il D.N.; non ha valutato il documento del (OMISSIS), che ha per destinatario il D.N. e per mittente l'Amministratore unico della SIPPIC, e le dichiarazioni del teste O..

La censura è infondata.

E' necessario premettere che per costante giurisprudenza di questa Corte in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso è rimesso al giudice di merito (per tutte Cass. 22 marzo 2010 n. 6848) il cui apprezzamento, che deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta, è sottratto a censure in sede di legittimità se la relativa valutazione è sorretta da adeguata e logica motivazione (per tutte Cass. 27 settembre 2007 n. 2021).

Va altresì premesso che per pacifica giurisprudenza il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c, n. 5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti, in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l'individuazione della "ratio decidendi", e cioè l'identificazione del procedimento logico - il giuridico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le
prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (cfr. ex plurimis da ultimo: Cass. 6 marzo 2008 n. 6064 e Cass. 26 marzo 2010 n. 7394). E nella stessa ottica i giudici di legittimità hanno inoltre precisato che nel caso in cui nel ricorso per cassazione venga prospettato come vizio di motivazione della sentenza una insufficiente spiegazione logica relativa all'apprezzamento, operato dal giudice di merito, di un fatto principale della controversia, il ricorrente non può limitarsi a prospettare una possibilità o anche una probabilità di una spiegazione logica alternativa, essendo invece necessario che tale spiegazione logica alternativa del fatto appaia come l'unica possibile (cfr. in tali sensi: Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 e
27 luglio 2008 n. 20499).

Sulla base di tali principi osserva il Collegio che non possono trovare ingresso in questa sede le censure con le quali si addebita al giudice del merito di aver erroneamente valutato, ai fini dell'apprezzamento della proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione irrogata, gli elementi istruttori.

In particolare mette conto sottolineare che il giudice di appello, diversamente da quanto assunto dalla società ricorrente, non oblitera affatto il ruolo ricoperto dal lavoratore nell'ambito dell'organizzazione aziendale tant'è vero che proprio nel considerare la particolare situazione in cui il G. si trovava al momento del fatto, sottolinea che costui era impegnato nella organizzazione del servizio degli autisti che si rifiutavano di rendere prestazioni di lavoro straordinario.

Nè il contesto oggettivo in cui si verificò il comportamento sanzionato, così come ricostruito dal giudice del merito, è sfornito di supporto probatorio in quanto, nella motivazione, si da atto che la situazione di accesa conflittualità. che connotava in quel momento le relazioni industriali ed aveva determinato una estenuante trattativa con gli autisti trova riscontro nelle giustificazioni del G. "il cui contenuto non risulta sostanzialmente contestato ex adverso".

Quanto al rapporto con l'azionista di riferimento è bene sottolineare che la società ricorrente a confutazione dell'assunto del giudice di appello, secondo il quale in base all'id quod plerumque accidit deve ragionevolmente ritenersi fosse percepito dal G. quale soggetto estraneo all'organizzazione del servizio e comunque all'assetto gerarchico societario, richiama una lettera che ha per destinatario il D.N. e per mittente l'Amministratore unico della SIPPIC e, quindi, un documento che non doveva essere necessariamente conosciuto dal G.. Nè è illogico ritenere che il D.N. quale mero azionista della società SIPPIC non fosse percepito dal G., dipendente della società ATAC, quale superiore gerarchico. La stessa deposizione del teste O., almeno per quello che è riportato nel ricorso per cassazione, non smentisce l'assunto della Corte del merito atteso che il teste da conto solo del ruolo svolto dal D.N. e per giunta con una certa approssimazione atteso che riferisce di ritenere
che fosse anche amministratore unico della SIPPIC, ma nulla dice della conoscenza da parte del G. dello specifico ruolo di suo superiore gerarchico.

Nè tanto contrasta con le riportate parziali dichiarazioni dello stesso G. atteso che i passi trascritti, in cui il G. riferisce che il D.N. aveva minacciato di licenziarlo, si riferiscono a situazione antecedente la "cessione". In sostanza e per le esposte ragioni a fronte di una logica e corretta motivazione della sentenza di appello il motivo del ricorso in esame si risolve in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.

Con la seconda censura la società, denunciando violazione degli artt. 2106, 2119, 1175 e 1375 c.c., formula, ex art. 366 bis c.p.c., i seguenti quesiti di diritto: "se l'espressione mi hai rotto il cazzo proferita da un lavoratore nei confronti dell'azionista di maggioranza della società datrice di lavoro, altresì dotato formalmente del potere di assumere, licenziare e sanzionare il personale dipendente, di coordinare lo svolgimento dell'attività lavorativa aziendale, che aveva chiesto spiegazioni in ordine all'andamento aziendale gestita dal dipendente sia o meno lesiva delle regole della civiltà del lavoro e idonea o meno a,ledere in modo irreparabile il vincolo fiduciario posto a fondamento del rapporto di lavoro subordinato"; "se la mancanza di recidiva o comunque nel non aver commesso infrazioni disciplinari nell'arco della vita lavorativa rileva ai fini del giudizio di proporzionalità tra la condotta posta in essere dal lavoratore e le sanzioni irrogatagli".

La censura, per come formulata, non può essere esaminata in questa sede di legittimità.

Invero nel primo quesito non si tiene conto che la Corte di appello ha accertato, e la censura sul punto è risultata infondata, che il G. non aveva percepito che il D.N. facesse parte dell'assetto gerarchico societario di guisa che anche l'espressione proferita "non mi rompere il cazzo" non poteva essere intesa quale reazione al legittimo esercizio di prerogative conferite alla parte datoriale.

Quindi la risposta anche eventualmente positiva al quesito non è risolutiva ai fini decisori.

Altrettanto è da rilevarsi in ordine al secondo quesito in quanto nella struttura argomentativa della Corte del merito la mancanza di precedenti addebiti non è decisiva, ma costituisce mero elemento rafforzativo delle considerazioni svolte in precedenza riguardo alla valutazione del profilo soggettivo del comportamento del lavoratore.

Sulla base di tali considerazioni, quindi, il ricorso va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 11,00- oltre Euro 3.000,00 per onorario ed oltre spese, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 ottobre 2010.

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