La Fata Morgana ministro dell’Economia |
Le linee di politica economica in Italia si alimentano di miti. E’ proprio vero che la concorrenza genera sempre un vantaggio per il consumatore? Davvero le imposte indirette sono meno penose di quelle dirette? E’ certo che l’occupazione si avvantaggia agendo solo dal lato dell’offerta? |
Valerio Selan
In un mio libriccino di
parecchi anni or sono - oggi introvabile, non per folla di lettori, ma per
scarsissima tiratura - ho affrontato il problema dei cosiddetti "miti"
economici. Il mito è una credenza non sempre (o quasi mai completamente)
veritiera: che è però largamente diffusa e non di rado fornisce il supporto per
così dire psicologico ai provvedimenti di politica economica. Il mito richiede
un eroe eponimo (nel nostro caso un economista possibilmente defunto) e degli
epigoni. Essi sono gli sciamani dell'epoca moderna, preferibilmente professori
universitari con quel tocco "so british" che tanto impressiona l'opinione
pubblica provincialotta del nostro Paese.
Nei fatali
anni settanta imperversò il mito del salario come variabile indipendente,
vessillo di rivendicazioni un po' confuse della cosiddetta "gauche au caviar":
che attualmente ha forse cambiato dieta, ma non ha migliorato la logica formale.
Attualmente vengono considerate come protopostulati indiscutibili due tesi che
riscuotono non solo il plauso degli opinionisti, ma anche la fiduciosa attesa
del popolo dei consumatori.
La prima è
quella secondo la quale la concorrenza e, quindi, indirettamente le
liberalizzazioni, provoca sempre e necessariamente un vantaggio per il
consumatore; divenendo così un trampolino per lo sviluppo. La seconda - fondata
su una valutazione psicologica più sottile - consiste nel ritenere che
"spostando l'asse del peso tributario dall'imposizione diretta a quella
indiretta" (mozione di diritto sulla politica fiscale del presidente del
Consiglio) si allevia la penosità del carico impositivo: spianando così la
strada ad un secondo trampolino sempre per l'ipotetico
sviluppo.
La mitologia
della libera concorrenza è collegata ad un modello di sviluppo nel quale si
assumono implicitamente costi e ricavi costanti: i costi per unità di prodotto,
cioè, non diminuiscono al crescere del volume della produzione e delle vendite.
L'apertura del mercato consente l'afflusso di "new-comers" almeno sino al punto
in cui i prezzi, scendendo, annullano il profitto degli imprenditori. Essi,
dunque, dovranno accontentarsi, per così dire, del solo "salario
manageriale".
Ma la realtà
economica non solo nell'industria, ma anche nell'agricoltura e nei servizi, ci
offre un panorama diverso. I costi tendono a scendere all'aumentare del volume
di produzione delle singole aziende fino a che esse raggiungono la dimensione
economica ottima, che può essere anche molto grande.
Esaminiamo
ora il problema dal punto di vista del consumatore. In un mercato di libera
concorrenza il prezzo che deve pagare non può essere inferiore al costo pieno
delle imprese che, date le loro limitate dimensioni, è certamente più alto di
quello che avrebbe un monopolista od un oligopolista. Quest'ultimo individuerà
quel prezzo che, moltiplicato per le quantità vendute, gli garantisce il massimo
profitto rispetto al capitale proprio. Se utilizza capitale di terzi
(finanziamento bancario) gli interessi da corrispondere saranno inglobati nei
costi. E' possibile - è anzi molto probabile - che il prezzo praticato, tenendo
conto delle forti economie di scala, risulti sensibilmente inferiore a quello di
una molteplicità di piccoli operatori, i quali non possono ovviamente scendere
al di sotto del profitto zero.
Con
l'approccio tipico di San Tommaso, la controprova empirica di questa tesi si
trova chiedendo alla casalinga di Voghera di rispondere alla seguente domanda:
quali sono i punti vendita dove i prezzi di una vasta gamma di prodotti sono
minori? Vi risponderà: supermercati e discount. Non si verificano neppure le
ipotesi della scuola nordamericana della "workable competition" (concorrenza tra
numerose imprese di dimensioni ottimali) perchè attraverso incroci finanziari
coperti da marchi diversi queste catene sono in realtà oligopolistiche a livello
europeo.
Tali
considerazioni consentono di confutare il mito delle liberalizzazioni come
panacea automatica per il consumatore. Esso potrebbe concretizzarsi solo se
accompagnato da una politica tesa a favorire, anche fiscalmente, il
conseguimento delle dimensioni economiche ottime dei produttori, o
individualmente o come partecipi di un sistema cosiddetto stellare: nel settore
commerciale, tipo catene di acquisti o Conad.
Una seconda
mitologia - che nasconde un'illusione finanziaria e cioè un inganno della classe
politica nei confronti dei cittadini - è quella della minore penosità fiscale
che risulterebbe, a parità di gettito, dallo spostamento del peso delle imposte
da quelle dirette a quelle indirette. Osserviamo, per incidens, che nel caso
italiano da qualche anno le seconde prevalgono già rispetto alle prime. E' vero
che questo spostamento dà una sensazione di minore onere perché l'imposta
diretta implica un obbligo, mentre quella indiretta, inglobata nel prezzo, ha un
aspetto volontaristico: pago perché lo voglio, ma potrei astenermi
dall'acquisto.
Occorre, in
materia, una riflessione. Innanzi tutto le imposte indirette non sono tutte
uguali. Le imposte suntuarie dell'antica Roma erano certamente progressive. Però
è difficile graduare le aliquote verso l'alto se non nell'ambito di intervalli
concordati a livello comunitario. Gli effetti inoltre sono diversi a seconda
delle strutture di mercato. L'onere impositivo può incorporarsi nel prezzo al
consumo (traslazione in avanti); ridurre i profitti dei produttori o degli
intermediari o spingere ad accorciare la filiera (traslazione all'indietro); o
propagarsi all'intero livello generale dei prezzi
(diffusione).
Nel primo e
nel terzo caso - i più probabili, secondo tutte le esperienze note - la manovra
risulterà regressiva: inciderà cioè maggiormente sui ceti economici inferiori,
mentre l'imposta diretta prevede aliquote più che proporzionali al crescere del
reddito. Appare piuttosto improbabile il caso in cui vengano colpiti
prevalentemente i produttori e/o gli intermediari (spesso piccole o piccolissime
aziende); ma allora vedremmo le folle dei lobbisti nelle stanze della Camera dei
deputati e del Senato.
Sempre
nell'ottica della valutazione oggettiva di questi miti economici o Fate Morgane,
occorre considerare, come abbiamo accennato in un precedente articolo, il
dibattito sul mercato del lavoro che sta assumendo aspetti surreali. Si tratta
infatti di una discussione bizantineggiante su di un oggetto che manca: appunto,
il lavoro. Sembrerebbe che una migliore organizzazione del lavoro possa favorire
la ripresa dello sviluppo. Condizione necessaria ma non sufficiente, ammette a
denti stretti (e che denti!) il ministro Fornero. Sembra dubbio che questa
riforma riduca il costo del lavoro per le imprese, a meno che non sia sottesa
l'ipotesi di contratti alla Marchionne, dove la produttività aumenterebbe
attraverso la riduzione delle pause per fare pipì. Sarebbe invece interessante
riflettere sulla possibilità di utilizzare ai fini dello sviluppo la cospicua
massa monetaria costituita dalla Cassa Integrazione in deroga. Questa opzione è
stata ventilata dal ministro sotto il profilo giuridico: come può ricadere nel
meccanismo proprio della Cassa Integrazione un sussidio a lavoratori le cui
imprese originarie sono defunte? Ancora una volta però si cercano soluzioni dal
lato dell'offerta (riqualificazione professionale, salario minimo garantito,
potenziamento delle agenzie per ricerca di lavoro).
Forse si
potrebbero riesumare progetti dal lato della domanda, come investimenti pubblici
nella manutenzione del territorio, contributi a settori ad alto tasso
occupazionale, creazione di zone franche. La Cassa garantirebbe una copertura
parziale, ma cospicua per quanto concerne il costo del lavoro. Probabilmente
occorrerebbe un abile dribbling fra i paletti comunitari in materia di aiuti di
Stato: se si trattasse prevalentemente di opere pubbliche, forse la soluzione si
troverebbe.
Si
risponderebbe così anche all'obiezione, da noi segnalata, secondo la quale è
iniquo un sistema nel quale si affiancano due categorie di disoccupati: quelli
privi di qualunque sussidio perché non riescono a entrare sul mercato del
lavoro, e quelli che pur non lavorando ricevono un salario, anche se
decurtato.
Si
richiederebbe, dunque, il coraggio di adottare soluzioni innovative: ma - come
sentenzia il Manzoni - se uno il coraggio non ce l'ha, non se lo può
dare.
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(08/03/2012) |
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venerdì 6 aprile 2012
La Fata Morgana ministro dell’Economia
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