Se 51 anni vi sembran pochi | |||
E’ quanto dovrà lavorare prima di poter andare in pensione chi ha cominciato a 16 anni nel 1996; a chi ha iniziato nello stesso anno avendone 26 basteranno 40 anni. E’ una delle tante incongruenze di cui la riforma non ha tenuto conto. Favoriti docenti universitari e magistrati, niente per le categorie svantaggiate | |||
Maurizio Benetti
(terzo di quattro articoli – qui il primo e
il
secondo)
Ho ricordato che
tra i principali problemi ancora esistenti nel nostro sistema pensionistico vi
erano il pensionamento di anzianità e la mancanza di flessibilità in uscita nel
contributivo. La riforma ha affrontato il primo punto in modo drastico abolendo
la pensione di anzianità. Niente più quote e 40 anni, quindi, a partire dal
2012, ma si potrà andare in pensione solo con il requisito di vecchiaia.
L’accesso anticipato con pensione piena è concesso solo con il possesso di un
requisito anagrafico di 62 anni e contributivo di 42 anni e un mese per gli
uomini e di 41 anni e un mese per le donne. In assenza del requisito anagrafico
la parte retributiva della pensione (gli anni a partire dal 2012 saranno
calcolati con il contributivo) subirà una penalizzazione.
I nuovi limiti
vanno letti tenendo conto che i requisiti contributivi, aumentati di un
ulteriore mese nel 2013 e nel 2014,
subiranno poi un ulteriore aumento determinato dall’adeguamento alla speranza di
vita (applicato anche al limite anagrafico). Nel 2020, sulla base dello scenario demografico Istat
2007, il limite contributivo sarà salito di un anno e così il limite anagrafico
per evitare le penalizzazioni. In assenza del requisito contributivo si
potrà andare in pensione solo con 66 anni di età (67 dal 2021). Così il processo
iniziato con la legge 335 è giunto al termine.
Come detto è stata
una scelta drastica per un problema la cui soluzione avrebbe dovuto essere
affrontata con differenze a seconda della tipologia di lavoro. Anche in questo
caso il torto del sindacato è di non aver mai affrontato il problema
distinguendo tra lavoratori: tra settore pubblico e privato, tra chi fa i turni
e chi no, tra lavoro manuale e non, tra lavoratori precoci e laureati e
quant’altro. La pesantezza del lavoro non è la stessa, il rischio della perdita
del lavoro in tarda età non è stesso nei diversi settori. Non differenziare non
ha alcun senso e certamente non è equo. Le norme possono essere eque se
applicate a situazioni uguali, non lo sono se hanno esiti differenti perché
applicate a situazioni differenti.
Costringere a lavorare fino a 66 anni ed
oltre chi ha iniziato precocemente o chi fa lavori pesanti è molto diverso dal
porre questo limite a un laureato o a chi fa lavori meno pesanti e spesso meglio
pagati. Chi ha iniziato a lavorare a 16 anni nel 1996 potrà andare in pensione
anticipata solo nel 2046 dopo 51 anni di lavoro, chi ha iniziato nello stesso
anno avendone 26 potrà andare in pensione anticipata nel 2045 dopo 40 anni di
lavoro (limiti di età in base allo scenario demografico Istat 2007).
Nel sistema
contributivo la pensione anticipata sarà possibile con i vincoli dei 63 anni
anagrafici, dei 20 anni di contribuzione e un ammontare di pensione non
inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale. Escluso in partenza, quindi, che un
precario o un lavoratore con retribuzione molto bassa possa usufruire di questa
tipologia di funzionamento. Da sottolineare il fatto che i riferimenti alla
soglia di 2,8 e a quella di 1,5 per la vecchiaia, sono indicati rispetto al
valore attuale dell’assegno sociale. Successivamente questi valori soglia sono
aumentati annualmente in base in base all’andamento del Pil nominale (media
mobile degli ultimi 5 anni). Se, come oggi, l’assegno sociale resterà
indicizzato ai prezzi i valori soglia cresceranno di più, mentre se accadesse il
contrario, dice la norma, questi valori non potranno comunque superare gli
stessi rapporti con l’assegno sociale.
Le ragioni del
limite di 2,8 sono spiegate dettagliatamente nella Relazione tecnica: “la soglia
di 2,8 volte l’assegno sociale sostituisce, di fatto, il requisito minimo di
contribuzione dei 35 anni previsto dalla normativa precedente per l’accesso al
pensionamento anticipato. Esso è stato determinato al fine di evitare, in media,
un abbassamento dell’età di accesso alla pensione in via anticipata rispetto
all’età di vecchiaia…”.
Questa spiegazione
illustra molto bene lo scontro, o almeno uno dei tanti, che è avvenuto tra il
ministro e la Ragioneria generale. La studiosa Fornero aveva sempre ipotizzato
un range di pensionamento nel contributivo tra i 63 e i 68/70 anni, mantenendo
come nella 335 l’abolizione della distinzione tra anzianità e vecchiaia.
L’introduzione di una forma di pensione anticipata rispetto ad una soglia minima
di 66 anni è chiaramente il frutto di un compromesso che ha visto una
sostanziale vittoria della Rgs, ferma nel difendere di fatto il limite dei 35
anni introdotto nel 2004 per le motivazioni in precedenza ricordate. Questo
vincolo aggiuntivo posto ai 63 anni è in aperta contraddizione con l’impianto
retributivo, così come lo era il vincolo introdotto nel
2004.
La
flessibilità è introdotta pertanto in via generale solo tra i 66 ed i 70 anni
(in Svezia, spesso indicata come esempio, il range di uscita varia tra i 61 e i
67 anni). I lavoratori potranno posticipare il pensionamento fino ai 70 anni,
sempre considerando questi limiti di età mobili nel tempo. Tuttavia la
flessibilità non è introdotta per tutti i lavoratori e, unita al passaggio
pro-rata al contributivo dal 2012, produce alcuni “curiosi” effetti.
Diversamente da quanto
affermato nella nota apparsa sul sito di Palazzo Chigi “Misure sulla previdenza
a cura del ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali” ai lavoratori del pubblico impiego la fascia di flessibilità
tra i 66 e i 70 anni non si applicherà. La norma varata, infatti, recita che “il
seguimento dell'attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti
ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall'operare dei
coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni”. Questo
significa che nello Stato, dati i limiti ordinamentali di 65 anni, la
flessibilità non potrà essere sfruttata da nessun lavoratore salvo coloro che
hanno limiti ordinamentali più alti, ossia i professori universitari e i
magistrati.
Anche dietro
questa esclusione è facile intravvedere l’intervento della Rgs volto ad
assicurare nei prossimi anni un elevato processo di pensionamento nel settore
pubblico. Un’estensione della flessibilità al settore produrrebbe certamente una
flessione nel numero dei pensionamenti.
I soli che
potranno goderne, dunque, saranno i professori universitari e i magistrati che
dall’agire comune di questa norma, che comporta il calcolo dei coefficienti di
trasformazione fino ai 70 anni (attualmente lo sono solo fino ai 65), e del
passaggio al contributivo pro-rata avranno un aumento della pensione. Andando in
pensione a 70 o più anni (magistrati), questi soggetti maturano normalmente più
di 40 anni di contribuzione. Nel regime retributivo gli anni sopra i 40 non
influiscono sulla pensione; con il passaggio al contributivo pro-rata non solo
gli anni sopra i 40 maturati dal 2012 hanno effetti positivi sulle pensioni, ma
sul montante così cumulato verranno applicati i nuovi coefficienti, a differenza
di quanto accade oggi. In definitiva le uniche categorie che possono sentirsi
soddisfatte dalla riforma sono professori universitari e magistrati. Tra i
principi ispiratori del provvedimento, Fornero indicava l’abbattimento delle
posizioni di privilegio e la presenza
di clausole derogative soltanto
per le fasce più deboli e le
categorie dei bisognosi.
In tema di privilegi le misure sono del
tutto insoddisfacenti. Restano tutte le differenze esistenti nel calcolo della
pensione tra pubblici e privati, differenze che favoriscono le categorie dei
dirigenti; restano le disposizioni più favorevoli per militari e polizia; resta
lo scandalo del trattamento previdenziale dei dipendenti degli organi
costituzionali e della regione Sicilia, oltre a quello dei componenti
l’assemblea siciliana; resta lo scandalo di pensioni e vitalizi accumulati senza
adeguato versamento di contributi. Le Camere sono intervenute sulle pensioni di
loro competenza, tuttavia i deputati con più di una legislatura potranno
percepire la pensione a 60 anni e gli altri a 65, mentre i comuni cittadini
dovranno aspettare i 66 anni. L’alibi in questo caso sta nell’autonomia degli
organi, ma si potrebbero tagliare i loro trasferimenti. In ogni caso non vi è
giustificazione per gli altri mancati interventi se non la difesa di specifici
interessi o quantomeno l’incapacità di affrontarli.
Arduo trovare anche la
presenza di clausole derogative per le
fasce più deboli e le categorie dei bisognosi. Le
nuove norme non si applicano ad una serie di lavoratori in mobilità o che hanno
avuto accesso ai versamenti volontari, mentre deroghe sono previste per
lavoratori che maturano determinati requisiti entro il 2012. Un’estensione di
queste casistiche è in discussione nel mille proroghe. In ogni caso non si
tratta di clausole
derogative per le fasce più deboli e per le categorie dei bisognosi. Per questi
ultimi non vi è nulla, semmai vi è l’aumento dell’età di accesso all’assegno
sociale; per la fasce più deboli come i lavoratori in mobilità vi sono
esclusioni momentanee, sempre carenti rispetto a qualche situazione, e non
interventi strutturali che riguardino anche lavoratori che non godono
delle tutele assicurate dagli ammortizzatori.
I punti ignorati dalla riforma sono le tutele per chi
perde il lavoro in età avanzata e le tutele pensionistiche dei giovani. Si può
concordare con Fornero quando afferma che questi problemi vanno risolti nel
mercato del lavoro e che questo sistema pensionistico
funziona se funziona bene il mercato del lavoro. Vedremo cosa cambierà con la
riforma del mercato del lavoro.
(segue)
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(08/03/2012) | |||
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venerdì 6 aprile 2012
Se 51 anni vi sembran pochi
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