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venerdì 6 aprile 2012

Se 51 anni vi sembran pochi





Se 51 anni vi sembran pochi
E’ quanto dovrà lavorare prima di poter andare in pensione chi ha cominciato a 16 anni nel 1996; a chi ha iniziato nello stesso anno avendone 26 basteranno 40 anni. E’ una delle tante incongruenze di cui la riforma non ha tenuto conto. Favoriti docenti universitari e magistrati, niente per le categorie svantaggiate
Maurizio Benetti

(terzo di quattro articoli – qui il primo e il secondo)

Ho ricordato che tra i principali problemi ancora esistenti nel nostro sistema pensionistico vi erano il pensionamento di anzianità e la mancanza di flessibilità in uscita nel contributivo. La riforma ha affrontato il primo punto in modo drastico abolendo la pensione di anzianità. Niente più quote e 40 anni, quindi, a partire dal 2012, ma si potrà andare in pensione solo con il requisito di vecchiaia. L’accesso anticipato con pensione piena è concesso solo con il possesso di un requisito anagrafico di 62 anni e contributivo di 42 anni e un mese per gli uomini e di 41 anni e un mese per le donne. In assenza del requisito anagrafico la parte retributiva della pensione (gli anni a partire dal 2012 saranno calcolati con il contributivo) subirà una penalizzazione.

I nuovi limiti vanno letti tenendo conto che i requisiti contributivi, aumentati di un ulteriore mese nel 2013 e nel  2014, subiranno poi un ulteriore aumento determinato dall’adeguamento alla speranza di vita (applicato anche al limite anagrafico). Nel 2020, sulla base dello scenario demografico Istat 2007, il limite contributivo sarà salito di un anno e così il limite anagrafico per evitare le penalizzazioni. In assenza del requisito contributivo si potrà andare in pensione solo con 66 anni di età (67 dal 2021). Così il processo iniziato con la legge 335 è giunto al termine.

Come detto è stata una scelta drastica per un problema la cui soluzione avrebbe dovuto essere affrontata con differenze a seconda della tipologia di lavoro. Anche in questo caso il torto del sindacato è di non aver mai affrontato il problema distinguendo tra lavoratori: tra settore pubblico e privato, tra chi fa i turni e chi no, tra lavoro manuale e non, tra lavoratori precoci e laureati e quant’altro. La pesantezza del lavoro non è la stessa, il rischio della perdita del lavoro in tarda età non è stesso nei diversi settori. Non differenziare non ha alcun senso e certamente non è equo. Le norme possono essere eque se applicate a situazioni uguali, non lo sono se hanno esiti differenti perché applicate a situazioni differenti.

Costringere a lavorare fino a 66 anni ed oltre chi ha iniziato precocemente o chi fa lavori pesanti è molto diverso dal porre questo limite a un laureato o a chi fa lavori meno pesanti e spesso meglio pagati. Chi ha iniziato a lavorare a 16 anni nel 1996 potrà andare in pensione anticipata solo nel 2046 dopo 51 anni di lavoro, chi ha iniziato nello stesso anno avendone 26 potrà andare in pensione anticipata nel 2045 dopo 40 anni di lavoro (limiti di età in base allo scenario demografico Istat 2007).

Nel sistema contributivo la pensione anticipata sarà possibile con i vincoli dei 63 anni anagrafici, dei 20 anni di contribuzione e un ammontare di pensione non inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale. Escluso in partenza, quindi, che un precario o un lavoratore con retribuzione molto bassa possa usufruire di questa tipologia di funzionamento. Da sottolineare il fatto che i riferimenti alla soglia di 2,8 e a quella di 1,5 per la vecchiaia, sono indicati rispetto al valore attuale dell’assegno sociale. Successivamente questi valori soglia sono aumentati annualmente in base in base all’andamento del Pil nominale (media mobile degli ultimi 5 anni). Se, come oggi, l’assegno sociale resterà indicizzato ai prezzi i valori soglia cresceranno di più, mentre se accadesse il contrario, dice la norma, questi valori non potranno comunque superare gli stessi rapporti con l’assegno sociale.
Le ragioni del limite di 2,8 sono spiegate dettagliatamente nella Relazione tecnica: “la soglia di 2,8 volte l’assegno sociale sostituisce, di fatto, il requisito minimo di contribuzione dei 35 anni previsto dalla normativa precedente per l’accesso al pensionamento anticipato. Esso è stato determinato al fine di evitare, in media, un abbassamento dell’età di accesso alla pensione in via anticipata rispetto all’età di vecchiaia…”.

Questa spiegazione illustra molto bene lo scontro, o almeno uno dei tanti, che è avvenuto tra il ministro e la Ragioneria generale. La studiosa Fornero aveva sempre ipotizzato un range di pensionamento nel contributivo tra i 63 e i 68/70 anni, mantenendo come nella 335 l’abolizione della distinzione tra anzianità e vecchiaia. L’introduzione di una forma di pensione anticipata rispetto ad una soglia minima di 66 anni è chiaramente il frutto di un compromesso che ha visto una sostanziale vittoria della Rgs, ferma nel difendere di fatto il limite dei 35 anni introdotto nel 2004 per le motivazioni in precedenza ricordate. Questo vincolo aggiuntivo posto ai 63 anni è in aperta contraddizione con l’impianto retributivo, così come lo era il vincolo introdotto nel 2004.

La flessibilità è introdotta pertanto in via generale solo tra i 66 ed i 70 anni (in Svezia, spesso indicata come esempio, il range di uscita varia tra i 61 e i 67 anni). I lavoratori potranno posticipare il pensionamento fino ai 70 anni, sempre considerando questi limiti di età mobili nel tempo. Tuttavia la flessibilità non è introdotta per tutti i lavoratori e, unita al passaggio pro-rata al contributivo dal 2012, produce alcuni “curiosi” effetti.

Diversamente da quanto affermato nella nota apparsa sul sito di Palazzo Chigi “Misure sulla previdenza a cura del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali” ai lavoratori del pubblico impiego la fascia di flessibilità tra i 66 e i 70 anni non si applicherà. La norma varata, infatti, recita che “il seguimento dell'attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni”. Questo significa che nello Stato, dati i limiti ordinamentali di 65 anni, la flessibilità non potrà essere sfruttata da nessun lavoratore salvo coloro che hanno limiti ordinamentali più alti, ossia i professori universitari e i magistrati.

Anche dietro questa esclusione è facile intravvedere l’intervento della Rgs volto ad assicurare nei prossimi anni un elevato processo di pensionamento nel settore pubblico. Un’estensione della flessibilità al settore produrrebbe certamente una flessione nel numero dei pensionamenti.

I soli che potranno goderne, dunque, saranno i professori universitari e i magistrati che dall’agire comune di questa norma, che comporta il calcolo dei coefficienti di trasformazione fino ai 70 anni (attualmente lo sono solo fino ai 65), e del passaggio al contributivo pro-rata avranno un aumento della pensione. Andando in pensione a 70 o più anni (magistrati), questi soggetti maturano normalmente più di 40 anni di contribuzione. Nel regime retributivo gli anni sopra i 40 non influiscono sulla pensione; con il passaggio al contributivo pro-rata non solo gli anni sopra i 40 maturati dal 2012 hanno effetti positivi sulle pensioni, ma sul montante così cumulato verranno applicati i nuovi coefficienti, a differenza di quanto accade oggi. In definitiva le uniche categorie che possono sentirsi soddisfatte dalla riforma sono professori universitari e magistrati. Tra i principi ispiratori del provvedimento, Fornero indicava l’abbattimento delle posizioni di privilegio e la presenza di clausole derogative soltanto per le fasce più deboli e le categorie dei bisognosi.

In tema di privilegi le misure sono del tutto insoddisfacenti. Restano tutte le differenze esistenti nel calcolo della pensione tra pubblici e privati, differenze che favoriscono le categorie dei dirigenti; restano le disposizioni più favorevoli per militari e polizia; resta lo scandalo del trattamento previdenziale dei dipendenti degli organi costituzionali e della regione Sicilia, oltre a quello dei componenti l’assemblea siciliana; resta lo scandalo di pensioni e vitalizi accumulati senza adeguato versamento di contributi. Le Camere sono intervenute sulle pensioni di loro competenza, tuttavia i deputati con più di una legislatura potranno percepire la pensione a 60 anni e gli altri a 65, mentre i comuni cittadini dovranno aspettare i 66 anni. L’alibi in questo caso sta nell’autonomia degli organi, ma si potrebbero tagliare i loro trasferimenti. In ogni caso non vi è giustificazione per gli altri mancati interventi se non la difesa di specifici interessi o quantomeno l’incapacità di affrontarli.

Arduo trovare anche la presenza di clausole derogative per le fasce più deboli e le categorie dei bisognosi. Le nuove norme non si applicano ad una serie di lavoratori in mobilità o che hanno avuto accesso ai versamenti volontari, mentre deroghe sono previste per lavoratori che maturano determinati requisiti entro il 2012. Un’estensione di queste casistiche è in discussione nel mille proroghe. In ogni caso non si tratta di clausole derogative per le fasce più deboli e per le categorie dei bisognosi. Per questi ultimi non vi è nulla, semmai vi è l’aumento dell’età di accesso all’assegno sociale; per la fasce più deboli come i lavoratori in mobilità vi sono esclusioni momentanee, sempre carenti rispetto a qualche situazione, e non interventi strutturali che riguardino anche lavoratori che non godono delle tutele assicurate dagli ammortizzatori.

I punti ignorati dalla riforma sono le tutele per chi perde il lavoro in età avanzata e le tutele pensionistiche dei giovani. Si può concordare con Fornero quando afferma che questi problemi vanno risolti nel mercato del lavoro e che questo sistema pensionistico funziona se funziona bene il mercato del lavoro. Vedremo cosa cambierà con la riforma del mercato del lavoro.
                                                                                                                                                     (segue)
(08/03/2012)
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