Nuova pagina 2
Guardie giurate armate per la "security" di un convegno? Il questore va informato |
È sua, infatti, la supervisione. Multa confermata per il titolare di un istituto di vigilanza che aveva "presidiato", senza notificarlo, un avvenimento pubblico cui era presente un uomo politico del quale era consigliere per il settore "guardie private" |
Cass. pen. Sez. I, (ud. 08-02-2008) 17-03-2008, n. 11822
Svolgimento del processo
1.
Con sentenza del 2 ottobre 2006 il Tribunale di Arezzo, in composizione
monocratica, dichiarava F.M. responsabile del reato di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 17, in relazione aL R.D.L. 12 novembre 1936, n. 2144, artt. 1 e 6 e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di Euro centocinquanta di ammenda.
A
F. era contestato di avere, nella sua qualità di rappresentante della
s.p.a. "Telecontrol", contravvenuto al regolamento di servizio per gli
istituti di vigilanza privata della provincia di Arezzo, emesso dal
Questore di Arezzo, omettendo di comunicare l'ordine di servizio del
personale appartenente all'istituto di vigilanza, con la specificazione
dei compiti assegnati ad ogni singolo, predisposto in occasione della
visita ad Arezzo del Ministro G..
Il Tribunale
riteneva provata la responsabilità dell'imputato - legale
rappresentante della s.p.a. "Telecontrol", nonchè consigliere, per i
problemi delle guardie giurate, dell'on.le G.M., all'epoca Ministro
delle telecomunicazioni, e responsabile nazionale del dipartimento
sicurezza del partito denominato "Alleanza Nazionale" - sulla base della
deposizione del dott. S., Vice-Questore in Arezzo, responsabile
dell'ordine pubblico in occasione della manifestazione svoltasi presso
il teatro Tetrarca alla presenza del Ministro G..
Il
funzionario riferiva della presenza di personale della predetta società
in divisa e armato sia all'interno che all'esterno del teatro al
dichiarato scopo di svolgere un servizio di ordine pubblico predisposto
da F..
Ad avviso del giudice di merito, ai
sensi del combinato disposto del R.D. n. 2144 del 1936, artt. 17, 6 e 1
gli istituti di vigilanza privata, costituiti ex R.D. n. 773 del 1973,
art. 134, che prestano opera per conto di privati e, come quello in
esame, abbiano alle loro dipendenze non meno di venti guardie giurate,
dipendono dal Questore che ne vigila pure l'ordinamento e a cui è
riservata, in via esclusiva, la tutela dell'ordine pubblico.
2.
Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso per Cassazione, tramite
il difensore di fiducia, F., il quale lamenta: 1) contraddittorietà e
illogicità della motivazione, tenuto conto: a) delle dichiarazioni rese
dall'imputato, dalle quali emergeva lo svolgimento di un semplice
servizio di rappresentanza; b) della valutazione solo di una parte della
testimonianza del Dott. S., che aveva escluso lo svolgimento di
qualsiasi forma effettiva di ordine pubblico da parte dei dipendenti
della società privata; c) della circostanza che la disponibilità del
porto d'armi consente agli agenti di portare con sè l'arma anche fuori
dal servizio; d) del contenuto della deposizione di F.M., il quale
riferiva che l'imputato era presente alla manifestazione in qualità di
coorganizzatore della stessa; 2) erronea applicazione della legge
penale, avuto riguardo alla facoltà dei dipendenti della società di
portare armi anche fuori dal servizio e al contenuto dell'art. 15 del
regolamento emesso dal Questore di Arezzo in base al quale i
responsabili di un istituto di vigilanza hanno solo l'obbligo di
comunicare al Questore l'ordine di servizio, ma non di chiedere la
preventiva autorizzazione; 3) violazione di legge per omessa assunzione
di una prova decisiva, quali le testimonianze degli on.li G. e A..
Motivi della decisione
Il ricorso è manifestamente infondato.
1.
Con riferimento al primo motivo e al terzo motivo di doglianza occorre
premettere che, alla luce della nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p.,
lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8,
il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del
provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la
motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente
apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il
giudicante ha posto a base della decisione adottata;
b)
non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi
punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori
nell'applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente
contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le
sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in
essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri
atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal
ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per Cassazione) in
termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il
profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Non è, dunque,
sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano
semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni
del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti
e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una
ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.
Ogni
giudizio, infatti, implica l'analisi di un complesso di elementi di
segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che -
per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e
convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del
giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e
comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del
provvedimento. E', invece, necessario che gli atti del processo
richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della
motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o
dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di
disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al
suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere
manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez.
6, 15 marzo 2006, Casula).
Il giudice di
legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla
persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente
illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del
ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua
natura, è destinato a tradursi - anche a fronte di una pluralità di
deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata
pluralità di motivi di ricorso - in una valutazione, di carattere
necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della
motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del
ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti,
preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice
rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o
l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di
merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore
capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la
Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la
peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a
controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di
merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza)
rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di
rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere
alla decisione.
Esaminata in quest'ottica la
motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono
state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente
da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha illustrato, con
puntuale richiamo alle risultanze processuali le ragioni poste a
fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato. Ha,
infatti, evidenziato che dalla testimonianza del vice-Questore dott. S.
e dalle stesse ammissioni dell'imputato emerge in maniera indubbia che
F., legale rappresentante dell'istituto di vigilanza privata
"Telecontrol", composto da più di venti guardie giurate e, in quanto
tale, alle dipendenze del Questore per i profili attinenti al servizio
soggetto ebbe ad inviare personale in divisa e armato presso il teatro
(OMISSIS) di (OMISSIS), allo scopo di ivi svolgere un servizio di ordine
pubblico - di cui era stata omessa qualsiasi preventiva comunicazione
al Questore - in occasione di una manifestazione pubblica in cui era
previsto anche l'intervento del Ministro pro tempore delle
telecomunicazioni, on.le G. M..
La sentenza
ha, altresì, spiegato i motivi per i quali gli accertamenti svolti e la
testimonianza resa dal dott. S. non consentono di suffragare, pure alla
luce delle dichiarazioni rese da M.M., impiegata amministrativa della
s.p.a.
"Telecontrol", la versione difensiva
fornita dall'imputato, secondo cui il personale dell'istituto, il giorno
del fatto, svolgeva funzioni di mera rappresentanza ed era presente
presso il teatro (OMISSIS) per ragioni estranee al servizio. In questo
contesto appaiono irrilevanti le ulteriori deduzioni difensive circa la
legittimità della detenzione e del porto delle armi da parte delle
guardie giurate e le plurime motivazioni sottese alla presenza di F., in
occasione della manifestazione pubblica.
Non
sussiste neppure la dedotta violazione di legge per quanto attiene alla
revoca dell'ordinanza ammissiva delle prove (testimonianze degli on.li
G. e A.) richieste dalla difesa, avendo il giudice illustrato le ragioni
per le quali l'escussione dei predetti testi appariva superflua e
irrilevante, avuto riguardo alla natura del reato contestato, ai suoi
elementi costitutivi e alle risultanze delle numerose altre
dichiarazioni rese dai testi M., B., N., Me., No., tutte concernenti i
medesimi profili di fatto in ordine ai quali avrebbero dovuto essere
sentiti i due parlamentari, peraltro in grado di riferire unicamente de
relato in merito alle circostanze apprese da F..
2. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
Ai
sensi del R.D. 12 novembre 1938, n. 2144, art. 1, gli istituti di
vigilanza privata, costituiti ai sensi del (T.U.L.P.S.), R.D. n. 773 del
1973, art. 134, costituiti da un numero minimo di venti dipendenti e
deputati a svolgere attività di vigilanza o custodia di proprietà
mobiliari o immobiliari per conto di privati, sono posti, per quanto
riguarda il servizio, alle dipendenze del Questore, che ne vigila pure
l'ordinamento. Il Questore, quando lo ritenga opportuno, ha facoltà di
sottoporre alla disciplina di cui al R.D. n. 2144 del 1936 anche gli
istituti che abbiano meno di venti guardie giurate.
Il
citato R.D. n. 2144 del 1936, art. 6, stabilisce che le infrazioni al
decreto sono punite ai sensi del R.D. n. 773 del 1973, art. 17
(T.U.L.P.S.), approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773.
In
attuazione di tale rapporto organico di dipendenza, finalizzato al
doveroso coordinamento tra attività istituzionali di ordine pubblico e
forme di vigilanza privata, l'art. 15 del regolamento di servizio
emanato per gli istituti di vigilanza privata della provincia di Arezzo
prevede che i responsabili degli istituti di vigilanza comunichino
giornalmente al Questore l'ordine di servizio del personale impiegato
nei turni con la specificazione dei compiti assegnati a ciascuno.
Ne consegue che integra il reato previsto dal R.D. 12 novembre 1936, n. 2144, artt. 1 e 6 e R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 17
l'omessa comunicazione all'autorità di pubblica sicurezza; da parte del
responsabile di un istituto di vigilanza privata con almeno venti
dipendenti, dei turni di servizio del personale e dei rispettivi
compiti.
Alla dichiarazione di inammissibilità
del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l'assenza di
colpa nella proposizione dell'impugnazione (Corte Cost., sent. n. 186
del 2000), al versamento della somma di Euro mille alla cassa delle
ammende.
P.Q.M.
Dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di Euro mille alla cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 8 febbraio 2008.
Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2008
Nessun commento:
Posta un commento