Omicidio colposo e condotta omissiva dell’agente nelle
operazioni di soccorso
( Articolo di Stefano Cultrera 26.04.2004 )
Omicidio colposo e condotta omissiva colposa dell’agente di
polizia che interviene nel luogo dell’incidente in soccorso degli automobilisti
coinvolti.
dott. Stefano
Cultrera(specializzando presso la SSPL G.Scaduto di
Palermo)
Qualche tempo fa la Suprema Corte di Cassazione ha affermato con riferimento
ad un incidente stradale in cui rimanevano coinvolti più automobilisti “a
catena” che “qualora l’agente si trovi nella necessità di operare una scelta tra
due condotte, entrambe corrette, non è configurabile a suo carico qualsivoglia
ipotesi di responsabilità, risultandone mancanti i necessari presupposti
soggettivi” (Cass. pen., Sez. IV, 29 marzo 2001, n.12597, D’Amelio e altri).L’agente di polizia, imputato di concorso nel reato di omicidio colposo plurimo previsto e punito dagli artt.110 e 589 cod. pen., poteva assumere alternativamente una posizione di soccorso nei confronti di chi si trovava all’interno dei veicoli coinvolti ovvero una posizione di segnalazione nei confronti degli automobilisti che sopraggiungevano nel luogo dell’incidente, senza che ciò configurasse una sua responsabilità penale in caso di morte o lesioni degli automobilisti.
Nella specie, in una galleria autostradale si verificava un incidente a catena e un agente di polizia in transito su un’autovettura di servizio, avvedendosi del pericolo costituito dalle auto incidentate, si portava all’ingresso della galleria per segnalare adeguatamente l’ostacolo ai veicoli che via via sopraggiungevano. Alcuni transitavano senza danni, ad un certo punto l’agente si decideva ad abbandonare la sua posizione ed entrava nella galleria per sollecitare gli automobilisti coinvolti nell’incidente a spostare le vetture che bloccavano la carreggiata. Subito dopo, si verificavano altre collisioni con pregiudizio della vita e dell’incolumità dei soggetti interessati.
Integra il delitto di omicidio colposo sopraindicato, secondo la lettera dell’articolo che lo disciplina (art.589 cod. pen.), il comportamento colposo di chi cagiona la “morte di più persone, ovvero di una o più persone e di lesioni di una o più persone”, con l’aggravante della violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale.
E’ opportuno precisare che per rispondere di tale delitto occorre, tra le altre cose, che l’evento dannoso, da cui dipende la configurabilità della fattispecie, sia conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole. È da accertare, dunque, la sussistenza del nesso di causalità tra azione o omissione ed evento o, in altri termini, l’efficienza causale della condotta imputabile in relazione all’evento che si è verificato.
Se poi i comportamenti di più soggetti concorrono a determinare l’evento su un piano di reciproca equivalenza sono tutti considerati causa dell’evento medesimo, in quanto siano da soli sufficienti a determinare l’evento. Infatti, in tema di nesso di causalità il vigente codice penale ha accolto il principio dell’equivalenza delle cause o della “conditio sine qua non” (Cass. pen., sez.IV, 31 ottobre 1995, n.10763, Gavillucci).
Giova sottolineare che è possibile configurare una responsabilità penale non solo quando la condotta illecita dell’agente sia commissiva (o mediante azione), ma anche quando questa sia omissiva (o mediante omissione). Tale ultima ipotesi si configura tutte quelle volte in cui taluno avrebbe dovuto tenere in forza di un determinato obbligo giuridico una condotta impeditiva dell’evento, che poi si è verificato. Ciò si desume dal disposto dell’ultimo comma dell’art.40 cod. pen., norma di parte generale che, applicata alle fattispecie di reato previste dalla parte speciale (ipotesi-base di reato commissivo), introduce nel sistema penale autonome ipotesi criminose omissive che puniscono la realizzazione del medesimo evento lesivo da parte di “chi - per l’appunto - ha l’obbligo giuridico di impedire l’evento” e non si attiva in tal senso.
Il nostro codice penale, che recepisce agli articoli 40 e 41 cod. pen. la teoria condizionalistica (o dell’equivalenza delle cause), sancisce, come detto, un principio di equivalenza tra condotte, siano queste commissive ovvero omissive in presenza del suddetto obbligo giuridico di assicurare il bene protetto dalla norma incriminatrice di parte speciale. Inevitabilmente, ciò comporta l’estensione dell’area della punibilità e potrebbe mal conciliarsi coi principi di legalità, determinatezza delle fattispecie penali e della responsabilità personale, accentuando oltremisura il disvalore di una condotta che ha cagionato l’evento considerato “solo in termini probabilistici”. Infatti, la condotta omissiva non esiste nella realtà materiale e la sua efficienza causale sulla determinazione dell’evento è accertabile indirettamente e solo in termini ipotetici, riferendosi alla condotta alternativa doverosa, non realizzatasi in concreto e inserita in astratto nel processo causale ipoteticamente e logicamente ricostruito sulla base dell’evidenza disponibile e razionale.
Cautelativamente, dunque, l’obbligo giuridico, rilevante a rigore di legge, dovrebbe determinarsi nel pieno rispetto dei principi del diritto penale, contando a tal fine una fonte legale che lo sancisca in maniera eccezionale e specifica in capo a chi ricopra una posizione di garanzia e sempre in funzione dell’offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, che nel caso in esame - ricordiamo - è la vita o l’incolumità delle persone.
Merita pregio la precisazione che il nostro codice penale accoglie la teoria “formale” dell’obbligo, per cui la fonte di tale obbligo deve necessariamente esistere nell’ambito del nostro ordinamento. Sta di fatto che nell’esercizio di attività pericolose, solitamente, è possibile rinvenire regole cautelari normativamente sancite, sulla cui base individuare una finalità impeditiva rilevante ex art.40 cod. pen.; ma, al contempo, potrebbe individuarsi un obbligo, egualmente rilevante, pur in mancanza di una norma espressa, desunto dalla particolare posizione funzionale del soggetto (posizione di “garanzia”).
D’altro canto, e tale osservazione è sicuramente pertinente al caso in esame, tale obbligo deve essere interpretato necessariamente in termini solidaristici, avendo presenti gli articoli 2, 32 e 41 della Costituzione, come ha sottolineato parte della giurisprudenza, soprattutto ove si verta in una situazione di pericolo evidente che minacci “il bene della vita” con possibilità di percepirne l’imminenza da parte di chi assuma una posizione di garanzia (Cass. pen., sez.IV, n.4793 del 29/04/1991).
Ciò non toglie che si debba raggiungere la “certezza giuridica” della sussistenza del nesso di causalità, ferma restando la necessità di pervenire all’esito assolutorio del giudizio tutte le volte che non sia possibile accertare che l’evento non si sarebbe verificato se l’agente-garante avesse posto in essere la condotta impostagli dagli obblighi (Cass. pen., Sez. Un., 11 settembre 2002, n.30328, che parla di “ragionevole dubbio”).
Ciò premesso, occorre valutare la corrispondenza del comportamento dell’agente di polizia nel caso di specie alla fattispecie prevista e sanzionata dal codice penale all’art.589 cod. pen., al fine di verificare una sua eventuale responsabilità penale.
Egli ha sì abbandonato la sua posizione di segnalazione dell’incidente accaduto in galleria, incidente che concretizzava obiettivamente una situazione di pericolo per gli automobilisti, ma non può dirsi che abbia agito senza alcuna motivazione; egli ha fatto ciò allo scopo di sollecitare la rimozione delle autovetture incidentate dalla carreggiata, consentendo la ripresa dell’ordinaria circolazione stradale.
Come detto, la Suprema Corte di Cassazione ha significativamente precisato che nel caso in cui taluno si trovi nella necessità di operare una scelta tra due condotte entrambe corrette e dalla sua scelta “sia poi derivato un fatto lesivo in danno di terzi, di un tale evento egli non può in nessun modo essere ritenuto responsabile” (Cass. pen., Sez. IV, 29 marzo 2001, n.12597, D’Amelio e altri). Le due condotte potrebbero, infatti, considerarsi nelle contingenze del caso concreto equivalenti quanto a diligenza, perizia ed idoneità di scopo e, conseguentemente, secondo tale corrente di pensiero l’agente non dovrebbe incorrere in alcuna responsabilità penale.
Invero, è opportuno evidenziare che le due condotte nel caso di specie non sembrano avere un’identità di scopo, almeno nell’imminenza del risultato, dal momento che mantenendo la sua posizione originaria l’agente si prefiggeva di evitare ulteriori collisioni e incidenti a coloro che sopravvenivano in galleria, mentre entrando in galleria nei pressi dell’incidente cercava di sollecitare la rimozione dei veicoli allo scopo di far riprendere nel più breve tempo possibile la circolazione stradale.
Bisogna allora chiedersi, al di là dell’astratta qualificazione della condotta tenuta dall’agente, pervenendo ad un giudizio di comparazione tra le due condotte riferito al caso concreto, se lo stesso abbia operato la scelta giusta con la diligenza, la prudenza e la perizia dello “homo eiusdem professionis et condicionis”, affidandosi peraltro al corretto comportamento di terzi. Occorre valutare, in altri termini, se è possibile rimproverare all’agente di aver tenuto quella condotta, sub specie di condotta omissiva colposa, che nella situazione di pericolo determinatasi avrebbe concorso a determinare l’evento lesivo del bene della vita e dell’incolumità degli automobilisti.
Soppesandosi ex post le finalità delle due condotte alternative, con ragionevolezza avrebbe agito correttamente l’agente che avesse adottato accorgimenti idonei a salvaguardare sia l’incolumità dei conducenti sopravvenienti, a tal fine adoperandosi ulteriormente per segnalare l’ostacolo, sia le ordinarie condizioni di viabilità della sede stradale. Non potendo fare tutto da solo, egli doveva decidere nell’immediato cosa fare e ad un certo punto ha optato per il ripristino della viabilità. Così, non si può dire che abbia agito in maniera conforme alle obiettive e doverose regole di condotta, in quanto ha riposto un eccessivo e improbabile affidamento nella guida degli automobilisti che sopravvenivano in galleria all‘insaputa dell’incidente. La situazione di pericolosità in cui si è andata ad inserire la sua condotta non può escludere in assoluto la sua colpa, l’evidenza del pericolo rendeva infatti prevedibili eventuali conseguenze dannose per gli utenti della strada e ciò doveva farlo desistere dall’abbandonare la sua posizione. Voler affrontare situazioni di tale tipo richiede maggiore accortezza e assunzione di notevole responsabilità. L’evento in tali casi non risulta certamente voluto dall’agente, ma è legato e si verifica anche a causa dell’inosservanza da parte sua di regole di perizia, prudenza e diligenza, che in ragione della prevedibilità delle conseguenze dannose sono da accertare con maggiore rigore (Cass. pen., sez.IV, n.8611 del 9/10/1981).
Non rileva il fatto che “l’evento si sarebbe comunque verificato se egli non fosse stato presente e non si fosse precedentemente fermato sul posto” (in Cass. cit.); egli era presente ed è in virtù di ciò che gli può essere imputata una responsabilità per la sua condotta omissiva colposa, che, sostituita in una ricostruzione logico-scientifica del fatto con la relativa e doverosa condotta attiva di impedimento dell’evento, ha sicuramente efficienza causale in relazione al fatto lesivo realizzatosi. La sua presenza sul posto rileva come presupposto di fatto del reato e non può escludersi un’eventuale responsabilità sulla base di un giudizio a posteriori che, sostituendo la condotta omissiva tenuta dall’agente con un’altra condotta omissiva precedente, non pertinente e irrilevante sul piano giuridico, ne escluda paradossalmente l’efficienza causale: non dovrebbe, infatti, rilevare l’efficienza causale della eventuale assenza dell’agente nel luogo dell’incidente.
Anche se astrattamente ha operato una scelta tra condotte legittime, dovrebbe considerarsi che in quelle contingenze incombeva sull’agente la prevedibilità del pericolo e una corretta lettura delle circostanze avrebbe dovuto spingerlo ad adottare determinate regole di prudenza, perizia e diligenza, ancorché non scritte né previste da alcun ordine o disciplina.
Anche quando si volesse sostenere che la prevedibilità o l’imprevedibilità sono concetti estranei alla nozione di colpa accolta dal codice penale (Cass. pen., sez.IV, 6 novembre 1990, n.14434, Severino), la colpa generica (da ricondurre alle “comuni” regole di diligenza, prudenza e perizia) comprende anche la violazione di obblighi e prescrizioni non scritte, che hanno lo scopo di prevenire situazioni di pericolo o danno e che discendono dalla diligenza e dalla prudenza dell’uomo medio (Cass.pen., sez.IV, 10 gennaio 1985, n.316, Salerno); e l’adozione di tali accorgimenti non scritti potrebbe richiedersi, vieppiù, a chi è dotato di particolare perizia nel settore di riferimento.
Nel caso di specie, infatti, l’inosservanza delle comuni regole cautelari potrebbe anche prescindere dalla cristallizzazione in regole scritte, per mezzo di regolamenti o discipline, di modelli di comportamento degli agenti di polizia, ferma restando la loro eventuale rilevanza ai fini dell’accertamento della colpa specifica dell’agente (da ricondurre esclusivamente alla perizia media dell’agente di polizia).
La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, tra l’altro, non ha mancato di precisare, più volte, che fondamento della responsabilità colposa è la prevedibilità del pericolo, cioè la possibilità da parte dell’uomo coscienzioso ed avveduto di cogliere che un certo evento è legato alla violazione di un determinato dovere oggettivo di diligenza, che un certo evento è evitabile adottando determinate regole di diligenza in relazione alle particolari circostanze del caso concreto e al momento della realizzazione della condotta “de qua” (Cass. cit.; Cass. pen., sez.IV, 29 aprile 1991, n.4793, Sonetti e altri).
Per conseguenza, assumono notevole rilevanza anche l’evitabilità dell’evento dannoso e l’utilità della condotta alternativa corretta, per cui all’agente potrebbe rimproverarsi di non aver impedito l’evento, pur potendolo fare senza alcuno sforzo ulteriore.
Alla luce delle suesposte considerazioni, secondo l’orientamento giurisprudenziale appena citato l’agente che si trovi ad agire in situazioni analoghe a quella descritta, potendo prevedere la situazione di pericolo per la vita e l’incolumità degli automobilisti che sopraggiungano nel luogo dell’incidente, con prudenza, diligenza e perizia non dovrebbe abbandonare la posizione di segnalazione del pericolo. Dovrebbe, al più, adottare qualche altro espediente o accorgimento alternativo comunque idoneo allo scopo della segnalazione, non potendosi ritenere sussistente nella situazione concreta un interesse diverso e maggiormente rilevante rispetto alla tutela della vita e dell’incolumità delle persone. Vieppiù, l’agente potrebbe concorrere nel determinare l’evento anche mediante l’omissione, fermo restando l’accertamento dell’esistenza del nesso causale tra condotta omissiva ed evento nei termini sopraindicati.
A tal proposito, è possibile ravvisare il nesso causale laddove l’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento con alto grado di probabilità logica ovvero con elevata credibilità razionale, cioè con probabilità vicina alla certezza supponendo realizzata l‘azione doverosa omessa e chiedendosi se in tal caso l‘evento sarebbe venuto meno secondo la miglior scienza ed esperienza (Cass. pen., Sez. Un., 11 settembre 2002, n.30328, con riferimento alla condotta omissiva colposa del medico). Nel caso specifico dovrebbe dunque accertarsi l’utilità e l’efficienza causale della condotta attiva di segnalazione dell’incidente rispetto all’impedimento delle ulteriori collisioni avvenute con esito infausto.
Potrebbero, inoltre, rilevare nel caso specifico le disposizioni degli articoli 51 e 54 cod. pen., qualora si ritenesse che l’agente in transito, fermatosi per spirito di servizio, stava adempiendo il proprio dovere, come prescritto dalle norme che disciplinano lo svolgimento dell’attività di polizia ovvero si trovava in una situazione di necessità in cui il pericolo incombeva per ciascuna delle condotte alternative eleggibili. Ma una tale affermazione andrebbe rapportata al disposto dell’art.55 cod. pen.. Pertanto, la scriminante escluderebbe la responsabilità dell’agente solo in assenza di eccesso colposo.
Per quanto detto, nelle ipotesi trattate, potrebbe sussistere la responsabilità penale dell’agente per il reato di omicidio colposo o lesioni eventualmente verificatosi in danno degli automobilisti coinvolti nell’incidente anche a causa della sua condotta omissiva colposa in concorso con gli automobilisti che hanno ritardato la rimozione della auto dalla carreggiata.
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