Pubblicato il
09/05/2018
N. 03103/2018
REG.PROV.COLL.
N. 02589/2017
REG.RIC.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
Il Tribunale
Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Sesta)
ha pronunciato la
presente
SENTENZA
sul ricorso numero
di registro generale 2589 del 2017, proposto da:
-OMISSIS-,
rappresentato e difeso dall'avvocato Ippolito Matrone, con domicilio
eletto presso lo studio Vincenzo Ferraiuolo in Napoli, Riviera di
Chiaia, n. 276;
contro
Ministero
dell'Interno, in persona del legale rappresentante p.t.,
rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello
Stato Napoli, presso la quale domicilia in Napoli, via Armando Diaz,
n.11;
per l'annullamento
del decreto n.
333-D/xxx, emesso dal Ministero dell'Interno, Dipartimento di
pubblica sicurezza il 09.03.2017 e notificato il 01.04.2017, a mezzo
del quale il sig.-OMISSIS-, già Sovrintendente della Polizia di
Stato, veniva-OMISSIS-, a decorrere dall'08.05.2003 ai sensi
dell'art. 7, nn. 1 e 2 del D.P.R. n. 737/1981 “per le motivazioni
contenuti nell'unita deliberazione del 26 gennaio 2017 che si
intendono integralmente trascritti”.
Visti il ricorso e i
relativi allegati;
Visto l'atto di
costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;
Viste le memorie
difensive;
Visti tutti gli atti
della causa;
Relatore
nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2018 la dott.ssa Anna
Corrado e uditi per le parti i difensori come specificato nel
verbale;
Ritenuto e
considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con il ricorso in
esame l’odierno ricorrente, già Sovrintendente della Polizia di
Stato, impugna il provvedimento del Capo della Polizia con cui gli è
inflitta, essendo il ricorrente medio tempore già cessato dal
servizio, la sanzione -OMISSIS-con decorrenza dall’8 maggio 2003.
Il ricorrente, sospeso dal servizio in ragione del suo rinvio a
giudizio per i reati di cui agli artt-OMISSIS-., era stato
reintegrato al termine del periodo di sospensione cautelare, previo
accertamento idoneità. La competente commissione ne dichiarava la
non idoneità in attitudine ai servizi di polizia disponendo quindi
la cessazione dal servizio, sopra ricordata, con decorrenza 20
ottobre 2011. Successivamente il procedimento penale si definiva,
dopo una condanna in -OMISSIS-, oltre a quella accessoria
dell’estinzione del rapporto di lavoro, con sentenza della Corte di
Appello di Roma n. 4247 del 4 luglio 2016 che dichiarava non doversi
procedere nei confronti del ricorrente per le condotte allo stesso
addebitate per intervenuta prescrizione, revocando la pena accessoria
comminata. Veniva dunque completato il procedimento disciplinare
definito con la sanzione disciplinare del-OMISSIS-
Avverso detto
provvedimento è quindi proposto il presente ricorso a sostegno del
quale deduce, innanzitutto, il ricorrente che la sanzione irrogata è
del tutto illegittima e anacronistica in quanto lo stesso era stato
già collocato a riposo, al momento dell’adozione del provvedimento
espulsivo, in quanto non idoneo in attitudine. In altri termini, ad
avviso del ricorrente, l’intervenuto collocamento a riposo
vanificherebbe il potere disciplinare dell’amministrazione. Con il
secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione
dell’art.-OMISSIS- avendo l’amministrazione eluso i termini di
legge, sia con riguardo al momento della contestazione degli addebiti
rispetto alla acquisizione della pronuncia di proscioglimento per
prescrizione che con riguardo al termine di conclusione del
procedimento avuto riguardo alla data di notifica del provvedimento
-OMISSIS- rispetto alla contestazione degli addebiti. Con il terzo
motivo di ricorso si lamenta da parte ricorrente la violazione del
principio di proporzionalità, essendo stata adottata la massima
sanzione disciplinare, senza peraltro adeguata valutazione del
proscioglimento del dipendente sia pure per intervenuta prescrizione
e senza tener conto del lasso di tempo trascorso dai fatti di cui è
questione, comunque in difetto di un autonomo accertamento della
condotta del dipendente, anche successiva ai fatti in contestazione.
Da ultimo, si deduce violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione
nonché 20 del d.P.R. n. 737 del 1981 con riferimento alla
circostanza per cui il ricorrente non ha potuto farsi assistere, in
sede disciplinare, da procuratore in luogo, per come imposto dalla
disciplina di settore, di un collega dipendente della medesima
Amministrazione.
Si è costituita in
giudizio l’intimata Amministrazione affermando la infondatezza del
proposto ricorso e concludendo perché lo stesso venga respinto.
Alla pubblica
udienza del 18 aprile 2018 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
Il ricorso non è
fondato e va, pertanto, respinto.
Quanto al primo
motivo di ricorso, osserva il Collegio che la tesi per cui
l’attualità del rapporto di servizio è presupposto della
permanenza del potere disciplinare, per come, ancorché in materia di
impiego non contrattualizzato previsto dall’art. 55 bis del d.lgs.
n. 165 del 2001, novellato dall’art. 13, comma 1, lett. b) del
d.lgs. 25 maggio 2017, n. 754, non leva che la stessa norma ora
richiamata prevede che “La cessazione del rapporto di lavoro
estingue il procedimento disciplinare salvo che per l'infrazione
commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia
stata disposta la sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le
determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti
giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di
lavoro”. Nella specie, infatti, per gli illeciti commessi era
teoricamente comminabile la sanzione del-OMISSIS- per come in effetti
avvenuto e comunque era stata medio tempore disposta la sospensione
cautelare dal servizio, di qui la permanenza in capo
all’amministrazione del potere di definire in sede disciplinare la
condotta del dipendente, anche al fine di dare stabile assetto agli
effetti interinalmente prodotti proprio dalla sospensione cautelare,
indipendentemente dalla circostanza in fatto per cui il rapporto era
estinto per precedente accertamento della non idoneità in attitudine
del ricorrente (cfr. Cons. Stato, III Sezione, 25 gennaio 2018 n.
494). E, infatti, il decreto avversato, dopo aver disposto
-OMISSIS-dal servizio del ricorrente con decorrenza 8 maggio 2003,
data di adozione del suo provvedimento di sospensione dal servizio,
ha pure disposto che “i periodi di sospensione cautelare
sofferti….non sono validi né ai fini giuridici né a quelli di
quiescenza, assistenza e previdenza fatta eccezione per
l’irripetibilità delle somme corrisposte durante detti periodi a
titolo di assegno alimentare”, con ciò confermandosi sul piano
logico prima ancora che strettamente giuridico la permanenza in capo
all’amministrazione di appartenenza, pur essendo il dipendente
medio tempore cessato dal servizio a diverso titolo (comunque dopo il
periodo di sospensione cautelare dal servizio), del potere della
stessa amministrazione di definire in maniera certa l’assetto
giuridico dei periodi di sospensione e dei connessi profili
retributivi, previdenziali e assistenziali.
Per quanto concerne
poi i termini del procedimento sanzionatorio, viene in evidenza la
disciplina di cui all’art. 9, comma 6 del d.P.R. 737/198, rispetto
a cui non risulta fondata la censura di parte ricorrente. A tal
riguardo, deve, anzitutto, evidenziarsi che la pronuncia
giurisdizionale rilevante, ai fini in questione, è solo quella
assistita dal predicato indefettibile della definitività (cfr.
C.d.S., Sez. VI, n. 3414 del 2011; Consiglio Stato , sez. VI, 13
luglio 2006, n. 4495). Tanto in ragione del fatto che l’attivazione
del procedimento disciplinare in pendenza del termine per proporre
ulteriori impugnazioni sarebbe del tutto illogica per la carenza di
un accertamento penale certo ed incontrovertibile, che, viceversa,
deve ritenersi necessario onde evitare possibili contrasti tra
procedure. Appare, dunque, di tutta evidenza che, come ha già
rilevato la Sezione, prima di tale momento, unico idoneo a
cristallizzare l’accertamento di un fatto come dato
incontrovertibile, non possa che restare inibita ogni attività
dell’Amministrazione a livello disciplinare (cfr. T.A.R. Napoli, VI
Sezione, 28 febbraio 2018 n. 1301). Del resto, sia pure con
riferimento ad un contesto regolatorio diverso ma omologo al presente
la Corte Costituzionale, con sentenza interpretativa di rigetto n. 51
del 21/03/2014, ha avuto modo di precisare che – premesso che
risulta stabilizzata nell'ordinamento la riconduzione di tutte le
sanzioni disciplinari, compresa -OMISSIS- nell'alveo del relativo
procedimento amministrativo, in una prospettiva di autonomia dal
processo penale, sicchè il buon andamento dell'azione amministrativa
sollecita un'interpretazione che valorizzi l'intervenuta conoscenza
da parte dell'amministrazione della sentenza di non doversi procedere
poiché solo in tal modo, infatti, è possibile assicurare un
corretto bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti
che vengono in rilievo nel procedimento - con riferimento al caso
della sentenza di improcedibilità dell'azione in forza di estinzione
del reato per prescrizione, sussiste l'esigenza che il dies a quo per
l'amministrazione decorra dalla conoscenza effettiva, così come
effettive sono le garanzie procedimentali di cui si avvale il
dipendente. Non può dunque dirsi intempestiva la contestazione degli
addebiti, notificata il 14 novembre 2016, traendo origine il
procedimento disciplinare dalla sentenza della Corte di Appello di
Roma depositata il 4 luglio 2016 e pervenuta all’amministrazione il
24 agosto 2016. Per quanto concerne il termine finale, non essendo
per l’ipotesi qui in esame stabilito un termine per la conclusione
del procedimento disciplinare, va evidenziato che l’art. 120, 1°
comma, del d.P.R. 10.1.1957, n. 3, applicabile alla specie in forza
del rinvio disposto dall’art. 31 del menzionato d.P.R. n. 737/1981,
prevede che “il procedimento disciplinare si estingue quando siano
decorsi novanta giorni dall’ultimo atto senza che nessun ulteriore
atto sia stato compiuto”. Nel caso che ci occupa il provvedimento
-OMISSIS- è stato adottato il 9 marzo 2017 e non consta il
superamento del detto termine di 90 giorni all’interno della
sequenza procedimentale che interessa. L'art. 120 del d.P.R. 3 del
1957 richiede la totale assenza di un atto interruttivo della
prescrizione, il che non potrebbe dirsi per il procedimento
disciplinare a carico del ricorrente, atteso che certamente si
registrano tutta una serie di atti infraprocedimentali idonei ad
impedire la prescrizione (in primis, la delibera in data 27 gennaio
2017 con cui il Consiglio provinciale di disciplina proponeva
l’irrogazione della sanzione del-OMISSIS-aReMiAF.
Passando a
considerare i profili di merito, il ricorrente fa valere
l'illegittimità dell'atto disciplinare lamentando il vizio di
eccesso di potere sotto più profili.
Si contesta, in
particolare, l'appiattimento della p.a. sulle risultanze del giudizio
penale: l'amministrazione non avrebbe condotto in via autonoma
un'adeguata attività istruttoria, mancando conseguentemente di
valutare in maniera critica le risultanze penali.
L’argomento non
convince. Innanzitutto, nulla vieta all'amministrazione di tener in
debita considerazione le risultanze probatorie emerse nel pregresso
procedimento penale; ciò sia in un'ottica di economicità
dell'attività amministrativa, sia perché è la stessa lettera della
legge, l'art. 9, che lascia trapelare questa facoltà, collegando il
procedimento disciplinare all'esito del giudizio penale. Certamente
l'amministrazione è chiamata a valutare autonomamente il materiale
acquisito, visto che è tenuta a valutare la condotta del dipendente
in chiave disciplinare. Nel caso in esame non può ritenersi mancante
una simile valutazione. La motivazione appare coerente ed esaustiva,
dando atto il decreto dell'iter logico-giuridico che
l'amministrazione ha seguito nell'addivenire alla determinazione
finale.
La sanzione
destitutoria appare peraltro proporzionata e graduata, visto che la
p.a. reputa reciso - come specificamente indicato nel decreto
impugnato - il rapporto di fiducia col dipendente; questi con la
propria condotta avrebbe compromesso il rapporto fiduciario non solo
con l'amministrazione, per il pregiudizio e il nocumento ad essa
arrecato, ma anche con la stessa collettività. Del resto, la
valutazione dell'adeguatezza della sanzione disciplinare rientra
nella discrezionalità della p.a., il cui giudizio è insindacabile
in sede giurisdizionale, salvo la manifesta sproporzione ed
eccessività, che non sono ravvisabili nel caso in esame.
Nel caso in esame,
anche ad un vaglio attento delle allegazioni difensive, non si
rinvengono elementi atti a far ritenere errata la valutazione
dell’amministrazione, né sotto il profilo della oggettiva
esistenza di elementi tali da sostenere la responsabilità
disciplinare del dipendente, nè quanto al profilo della asserita
sproporzione della sanzione applicata avuto riguardo ai fatti
accertati. Infatti, dalla ricostruzione dei comportamenti
complessivi, emerge una obiettiva situazione di conflitto fra
interessi privati ed attività pubblica, di strumentalizzazione della
propria posizione rivestita nel contesto dell’attività della forza
di polizia, ben suscettibile di poter essere considerata in contrasto
con i fini istituzionali e quindi non tollerabile da parte della
Polizia di Stato, senza che si possa affermare che le valutazioni
svolte a livello di responsabilità disciplinare corrispondano a
canoni e parametri contrastanti con gli accertamenti emersi in sede
penale.
Ciò che emerge
dalla valutazione istruttoria compiuta nel corso del procedimento è
l’esistenza di condotte certamente gravi, di rilievo penale e
parimenti disciplinare, idonee a dimostrare il venir meno del
rapporto fiduciario tra amministrazione e dipendente, in ragione di
comportamenti che con ogni evidenza non possono essere ricondotti tra
gli obblighi e i doveri che un appartenente alle Forze dell’ordine,
nell'esercizio di una pubblica funzione di particolare delicatezza,
dovrebbe osservare.
Non emergono,
quindi, circostanze per ritenere la sproporzione o l’inadeguatezza
della sanzione comminata, posto che la gravità dei fatti attribuiti
al ricorrente non consente di ritenere che la valutazione della
pubblica amministrazione sia stata effettuata in violazione del
principio di ragionevolezza ovvero di proporzionalità. Sul punto, si
può precisare, che su di un piano generale, con riguardo ai limiti
che il sindacato del g.a. incontra in questa materia, la valutazione
dei fatti contestati ad un appartenente all'amministrazione della
pubblica sicurezza, ai fini della loro rilevanza disciplinare,
appartiene alla sfera di discrezionalità dell’amministrazione
stessa, sicché -fatte salve le ipotesi (nella specie non ricorrenti)
di manifesta irrazionalità o sproporzione- non vi è spazio per il
sindacato del giudice amministrativo in ordine alla scelta di
comminare una determinata sanzione disciplinare (T.a.r. Lombardia
Milano, IV, 3 aprile 2014, n. 877; v. inoltre, T.a.r. Campania
Napoli, VI, 9 gennaio 2008, n. 38; T.a.r. Umbria, I, 5 dicembre 2013,
n. n. 560).
Vi è stata,
peraltro, considerazione e valutazione della situazione fattuale
concreta e l’assunzione di una decisione che non è stata fondata
sulla mera violazione formale dei doveri del militare, ma che ne ha
apprezzato la gravità “in concreto”, tenendo conto della
specificità del fatto commesso.
Né può affermarsi
l’omessa considerazione di elementi favorevoli al dipendente,
risultando comunque gli stessi nella documentazione personale del
medesimo e da ritenersi presi in considerazione nel procedimento
disciplinare per cui è causa.
Vi è, dunque, che
la gravità del comportamento tenuto è stato ritenuto assorbente e
prevalente rispetto ad ogni altro elemento di segno favorevole, sì
da ritenere irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario tra
amministrazione e dipendente, così giustificandosi la sanzione
espulsiva
Conseguentemente, il
Collegio ritiene legittima la condotta dell’amministrazione,
escludendo che sussistano i profili di macroscopica illegittimità
denunziati.
Quanto infine alla
questione della difesa del dipendente incolpato in sede disciplinare,
con riferimento alla disciplina recata dall’art. 20 del D.P.R
737/81, che impone al dipendente della Polizia di Stato sottoposto a
procedimento disciplinare di essere assistito esclusivamente da un
difensore appartenente alla medesima Amministrazione, ricorda il
Collegio che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 182 del 2008,
ha ribadito che la garanzia costituzionale del diritto di difesa
(art. 24 Cost.) è limitata al procedimento giurisdizionale e non
può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare
che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento
non giurisdizionale (sentenze n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del
1974), e nel quale il diritto di difesa si riflette in maniera più
attenuata, imponendosi in esso, in compenso, e al più alto grado, le
garanzie di imparzialità e di trasparenza che circondano l'agire
amministrativo (sentenze n. 460 del 2000 e n. 505 del 1995). In tale
ambito, ha proseguito la Corte, secondo i principi che ispirano la
disciplina del “patrimonio costituzionale comune” relativo al
procedimento amministrativo (sentenza n. 104 del 2006), desumibili
dagli obblighi internazionali, dall'ordinamento comunitario e dalla
legislazione nazionale (art. 6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali,
resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848; art. 47 della Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea, firmata a Nizza il 7
dicembre 2000; legge 7 agosto 1990, n. 241) vanno garantiti
all’interessato alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la
conoscenza degli atti, la partecipazione alla loro formazione e la
facoltà di contestare il fondamento e di difendersi dagli addebiti
(sentenze n. 460 del 2000 e nn. 505 e 126 del 1995), tra cui quello,
mutuato dalla giurisprudenza comunitaria, di essere posto nelle
condizioni di far conoscere utilmente il suo punto di vista (Corte di
giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, C-32/95 P., Commissione Comunità
europea c. Lisrestal).
Ciò posto, in
riferimento al procedimento disciplinare relativo ai dipendenti delle
forze armate e di Polizia, da cui possono derivare sanzioni che
incidono su beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di
lavoro, che hanno rilievo costituzionale, la Corte Costituzionale ha
ribadito la necessità di salvaguardare la possibilità di un
contraddittorio che garantisca il nucleo essenziale di valori
inerenti ai diritti inviolabili della persona (sentenza n. 356 del
1995), e ha concluso che, nell’ambito della sfera applicativa del
diritto di difesa ai procedimenti amministrativi, non possa
considerarsi irragionevole la decisione del legislatore di consentire
che l'accusato ricorra a un difensore, ma di limitare, in
considerazione della funzione svolta (tutela dell'ordine pubblico),
la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione.
E ciò in quanto la
mancata previsione, nella norma censurata, della possibilità di
nominare quale difensore un avvocato, “anche se il legislatore
potrebbe nella sua discrezionalità prevederla seguendo un modello di
più elevata garanzia” (sentenza n. 356 del 1995), non viola né il
diritto di difesa, né il principio di ragionevolezza, considerato
che la stessa norma consente all'inquisito di partecipare al
procedimento e di difendere le proprie ragioni (cfr. T.A.R. Lazio, I
quater, 3 aprile 2018 n. 3642).
Conclusivamente,
ribadite le svolte considerazioni, il Collegio respinge il ricorso in
esame siccome infondato.
Tenuto conto della
peculiarità della controversia, si ravvisano i presupposti di legge
per dichiarare le spese del presente giudizio interamente compensate
tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale
Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Sesta),
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto,
lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la
presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che
sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30
giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte
interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle
generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare
-OMISSIS-.
Così deciso in
Napoli nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2018 con
l'intervento dei magistrati:
Paolo Passoni,
Presidente
Carlo Buonauro,
Consigliere
Anna Corrado,
Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Anna Corrado
Paolo Passoni
IL SEGRETARIO
In caso di
diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi
dei soggetti interessati nei termini indicati.
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