Translate

giovedì 17 maggio 2018

TAR 2018: "..Ciò posto, in riferimento al procedimento disciplinare relativo ai dipendenti delle forze armate e di Polizia, da cui possono derivare sanzioni che incidono su beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di lavoro, che hanno rilievo costituzionale, la Corte Costituzionale ha ribadito la necessità di salvaguardare la possibilità di un contraddittorio che garantisca il nucleo essenziale di valori inerenti ai diritti inviolabili della persona (sentenza n. 356 del 1995), e ha concluso che, nell’ambito della sfera applicativa del diritto di difesa ai procedimenti amministrativi, non possa considerarsi irragionevole la decisione del legislatore di consentire che l'accusato ricorra a un difensore, ma di limitare, in considerazione della funzione svolta (tutela dell'ordine pubblico), la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione.."




Pubblicato il 09/05/2018

N. 03103/2018 REG.PROV.COLL.

N. 02589/2017 REG.RIC.

logo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2589 del 2017, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ippolito Matrone, con domicilio eletto presso lo studio Vincenzo Ferraiuolo in Napoli, Riviera di Chiaia, n. 276;

contro

Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato Napoli, presso la quale domicilia in Napoli, via Armando Diaz, n.11;

per l'annullamento

del decreto n. 333-D/xxx, emesso dal Ministero dell'Interno, Dipartimento di pubblica sicurezza il 09.03.2017 e notificato il 01.04.2017, a mezzo del quale il sig.-OMISSIS-, già Sovrintendente della Polizia di Stato, veniva-OMISSIS-, a decorrere dall'08.05.2003 ai sensi dell'art. 7, nn. 1 e 2 del D.P.R. n. 737/1981 “per le motivazioni contenuti nell'unita deliberazione del 26 gennaio 2017 che si intendono integralmente trascritti”.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2018 la dott.ssa Anna Corrado e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con il ricorso in esame l’odierno ricorrente, già Sovrintendente della Polizia di Stato, impugna il provvedimento del Capo della Polizia con cui gli è inflitta, essendo il ricorrente medio tempore già cessato dal servizio, la sanzione -OMISSIS-con decorrenza dall’8 maggio 2003. Il ricorrente, sospeso dal servizio in ragione del suo rinvio a giudizio per i reati di cui agli artt-OMISSIS-., era stato reintegrato al termine del periodo di sospensione cautelare, previo accertamento idoneità. La competente commissione ne dichiarava la non idoneità in attitudine ai servizi di polizia disponendo quindi la cessazione dal servizio, sopra ricordata, con decorrenza 20 ottobre 2011. Successivamente il procedimento penale si definiva, dopo una condanna in -OMISSIS-, oltre a quella accessoria dell’estinzione del rapporto di lavoro, con sentenza della Corte di Appello di Roma n. 4247 del 4 luglio 2016 che dichiarava non doversi procedere nei confronti del ricorrente per le condotte allo stesso addebitate per intervenuta prescrizione, revocando la pena accessoria comminata. Veniva dunque completato il procedimento disciplinare definito con la sanzione disciplinare del-OMISSIS-

Avverso detto provvedimento è quindi proposto il presente ricorso a sostegno del quale deduce, innanzitutto, il ricorrente che la sanzione irrogata è del tutto illegittima e anacronistica in quanto lo stesso era stato già collocato a riposo, al momento dell’adozione del provvedimento espulsivo, in quanto non idoneo in attitudine. In altri termini, ad avviso del ricorrente, l’intervenuto collocamento a riposo vanificherebbe il potere disciplinare dell’amministrazione. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art.-OMISSIS- avendo l’amministrazione eluso i termini di legge, sia con riguardo al momento della contestazione degli addebiti rispetto alla acquisizione della pronuncia di proscioglimento per prescrizione che con riguardo al termine di conclusione del procedimento avuto riguardo alla data di notifica del provvedimento -OMISSIS- rispetto alla contestazione degli addebiti. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta da parte ricorrente la violazione del principio di proporzionalità, essendo stata adottata la massima sanzione disciplinare, senza peraltro adeguata valutazione del proscioglimento del dipendente sia pure per intervenuta prescrizione e senza tener conto del lasso di tempo trascorso dai fatti di cui è questione, comunque in difetto di un autonomo accertamento della condotta del dipendente, anche successiva ai fatti in contestazione. Da ultimo, si deduce violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione nonché 20 del d.P.R. n. 737 del 1981 con riferimento alla circostanza per cui il ricorrente non ha potuto farsi assistere, in sede disciplinare, da procuratore in luogo, per come imposto dalla disciplina di settore, di un collega dipendente della medesima Amministrazione.

Si è costituita in giudizio l’intimata Amministrazione affermando la infondatezza del proposto ricorso e concludendo perché lo stesso venga respinto.

Alla pubblica udienza del 18 aprile 2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Il ricorso non è fondato e va, pertanto, respinto.

Quanto al primo motivo di ricorso, osserva il Collegio che la tesi per cui l’attualità del rapporto di servizio è presupposto della permanenza del potere disciplinare, per come, ancorché in materia di impiego non contrattualizzato previsto dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, novellato dall’art. 13, comma 1, lett. b) del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 754, non leva che la stessa norma ora richiamata prevede che “La cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l'infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro”. Nella specie, infatti, per gli illeciti commessi era teoricamente comminabile la sanzione del-OMISSIS- per come in effetti avvenuto e comunque era stata medio tempore disposta la sospensione cautelare dal servizio, di qui la permanenza in capo all’amministrazione del potere di definire in sede disciplinare la condotta del dipendente, anche al fine di dare stabile assetto agli effetti interinalmente prodotti proprio dalla sospensione cautelare, indipendentemente dalla circostanza in fatto per cui il rapporto era estinto per precedente accertamento della non idoneità in attitudine del ricorrente (cfr. Cons. Stato, III Sezione, 25 gennaio 2018 n. 494). E, infatti, il decreto avversato, dopo aver disposto -OMISSIS-dal servizio del ricorrente con decorrenza 8 maggio 2003, data di adozione del suo provvedimento di sospensione dal servizio, ha pure disposto che “i periodi di sospensione cautelare sofferti….non sono validi né ai fini giuridici né a quelli di quiescenza, assistenza e previdenza fatta eccezione per l’irripetibilità delle somme corrisposte durante detti periodi a titolo di assegno alimentare”, con ciò confermandosi sul piano logico prima ancora che strettamente giuridico la permanenza in capo all’amministrazione di appartenenza, pur essendo il dipendente medio tempore cessato dal servizio a diverso titolo (comunque dopo il periodo di sospensione cautelare dal servizio), del potere della stessa amministrazione di definire in maniera certa l’assetto giuridico dei periodi di sospensione e dei connessi profili retributivi, previdenziali e assistenziali.

Per quanto concerne poi i termini del procedimento sanzionatorio, viene in evidenza la disciplina di cui all’art. 9, comma 6 del d.P.R. 737/198, rispetto a cui non risulta fondata la censura di parte ricorrente. A tal riguardo, deve, anzitutto, evidenziarsi che la pronuncia giurisdizionale rilevante, ai fini in questione, è solo quella assistita dal predicato indefettibile della definitività (cfr. C.d.S., Sez. VI, n. 3414 del 2011; Consiglio Stato , sez. VI, 13 luglio 2006, n. 4495). Tanto in ragione del fatto che l’attivazione del procedimento disciplinare in pendenza del termine per proporre ulteriori impugnazioni sarebbe del tutto illogica per la carenza di un accertamento penale certo ed incontrovertibile, che, viceversa, deve ritenersi necessario onde evitare possibili contrasti tra procedure. Appare, dunque, di tutta evidenza che, come ha già rilevato la Sezione, prima di tale momento, unico idoneo a cristallizzare l’accertamento di un fatto come dato incontrovertibile, non possa che restare inibita ogni attività dell’Amministrazione a livello disciplinare (cfr. T.A.R. Napoli, VI Sezione, 28 febbraio 2018 n. 1301). Del resto, sia pure con riferimento ad un contesto regolatorio diverso ma omologo al presente la Corte Costituzionale, con sentenza interpretativa di rigetto n. 51 del 21/03/2014, ha avuto modo di precisare che – premesso che risulta stabilizzata nell'ordinamento la riconduzione di tutte le sanzioni disciplinari, compresa -OMISSIS- nell'alveo del relativo procedimento amministrativo, in una prospettiva di autonomia dal processo penale, sicchè il buon andamento dell'azione amministrativa sollecita un'interpretazione che valorizzi l'intervenuta conoscenza da parte dell'amministrazione della sentenza di non doversi procedere poiché solo in tal modo, infatti, è possibile assicurare un corretto bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti che vengono in rilievo nel procedimento - con riferimento al caso della sentenza di improcedibilità dell'azione in forza di estinzione del reato per prescrizione, sussiste l'esigenza che il dies a quo per l'amministrazione decorra dalla conoscenza effettiva, così come effettive sono le garanzie procedimentali di cui si avvale il dipendente. Non può dunque dirsi intempestiva la contestazione degli addebiti, notificata il 14 novembre 2016, traendo origine il procedimento disciplinare dalla sentenza della Corte di Appello di Roma depositata il 4 luglio 2016 e pervenuta all’amministrazione il 24 agosto 2016. Per quanto concerne il termine finale, non essendo per l’ipotesi qui in esame stabilito un termine per la conclusione del procedimento disciplinare, va evidenziato che l’art. 120, 1° comma, del d.P.R. 10.1.1957, n. 3, applicabile alla specie in forza del rinvio disposto dall’art. 31 del menzionato d.P.R. n. 737/1981, prevede che “il procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi novanta giorni dall’ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto”. Nel caso che ci occupa il provvedimento -OMISSIS- è stato adottato il 9 marzo 2017 e non consta il superamento del detto termine di 90 giorni all’interno della sequenza procedimentale che interessa. L'art. 120 del d.P.R. 3 del 1957 richiede la totale assenza di un atto interruttivo della prescrizione, il che non potrebbe dirsi per il procedimento disciplinare a carico del ricorrente, atteso che certamente si registrano tutta una serie di atti infraprocedimentali idonei ad impedire la prescrizione (in primis, la delibera in data 27 gennaio 2017 con cui il Consiglio provinciale di disciplina proponeva l’irrogazione della sanzione del-OMISSIS-aReMiAF.

Passando a considerare i profili di merito, il ricorrente fa valere l'illegittimità dell'atto disciplinare lamentando il vizio di eccesso di potere sotto più profili.

Si contesta, in particolare, l'appiattimento della p.a. sulle risultanze del giudizio penale: l'amministrazione non avrebbe condotto in via autonoma un'adeguata attività istruttoria, mancando conseguentemente di valutare in maniera critica le risultanze penali.

L’argomento non convince. Innanzitutto, nulla vieta all'amministrazione di tener in debita considerazione le risultanze probatorie emerse nel pregresso procedimento penale; ciò sia in un'ottica di economicità dell'attività amministrativa, sia perché è la stessa lettera della legge, l'art. 9, che lascia trapelare questa facoltà, collegando il procedimento disciplinare all'esito del giudizio penale. Certamente l'amministrazione è chiamata a valutare autonomamente il materiale acquisito, visto che è tenuta a valutare la condotta del dipendente in chiave disciplinare. Nel caso in esame non può ritenersi mancante una simile valutazione. La motivazione appare coerente ed esaustiva, dando atto il decreto dell'iter logico-giuridico che l'amministrazione ha seguito nell'addivenire alla determinazione finale.

La sanzione destitutoria appare peraltro proporzionata e graduata, visto che la p.a. reputa reciso - come specificamente indicato nel decreto impugnato - il rapporto di fiducia col dipendente; questi con la propria condotta avrebbe compromesso il rapporto fiduciario non solo con l'amministrazione, per il pregiudizio e il nocumento ad essa arrecato, ma anche con la stessa collettività. Del resto, la valutazione dell'adeguatezza della sanzione disciplinare rientra nella discrezionalità della p.a., il cui giudizio è insindacabile in sede giurisdizionale, salvo la manifesta sproporzione ed eccessività, che non sono ravvisabili nel caso in esame.

Nel caso in esame, anche ad un vaglio attento delle allegazioni difensive, non si rinvengono elementi atti a far ritenere errata la valutazione dell’amministrazione, né sotto il profilo della oggettiva esistenza di elementi tali da sostenere la responsabilità disciplinare del dipendente, nè quanto al profilo della asserita sproporzione della sanzione applicata avuto riguardo ai fatti accertati. Infatti, dalla ricostruzione dei comportamenti complessivi, emerge una obiettiva situazione di conflitto fra interessi privati ed attività pubblica, di strumentalizzazione della propria posizione rivestita nel contesto dell’attività della forza di polizia, ben suscettibile di poter essere considerata in contrasto con i fini istituzionali e quindi non tollerabile da parte della Polizia di Stato, senza che si possa affermare che le valutazioni svolte a livello di responsabilità disciplinare corrispondano a canoni e parametri contrastanti con gli accertamenti emersi in sede penale.

Ciò che emerge dalla valutazione istruttoria compiuta nel corso del procedimento è l’esistenza di condotte certamente gravi, di rilievo penale e parimenti disciplinare, idonee a dimostrare il venir meno del rapporto fiduciario tra amministrazione e dipendente, in ragione di comportamenti che con ogni evidenza non possono essere ricondotti tra gli obblighi e i doveri che un appartenente alle Forze dell’ordine, nell'esercizio di una pubblica funzione di particolare delicatezza, dovrebbe osservare.

Non emergono, quindi, circostanze per ritenere la sproporzione o l’inadeguatezza della sanzione comminata, posto che la gravità dei fatti attribuiti al ricorrente non consente di ritenere che la valutazione della pubblica amministrazione sia stata effettuata in violazione del principio di ragionevolezza ovvero di proporzionalità. Sul punto, si può precisare, che su di un piano generale, con riguardo ai limiti che il sindacato del g.a. incontra in questa materia, la valutazione dei fatti contestati ad un appartenente all'amministrazione della pubblica sicurezza, ai fini della loro rilevanza disciplinare, appartiene alla sfera di discrezionalità dell’amministrazione stessa, sicché -fatte salve le ipotesi (nella specie non ricorrenti) di manifesta irrazionalità o sproporzione- non vi è spazio per il sindacato del giudice amministrativo in ordine alla scelta di comminare una determinata sanzione disciplinare (T.a.r. Lombardia Milano, IV, 3 aprile 2014, n. 877; v. inoltre, T.a.r. Campania Napoli, VI, 9 gennaio 2008, n. 38; T.a.r. Umbria, I, 5 dicembre 2013, n. n. 560).

Vi è stata, peraltro, considerazione e valutazione della situazione fattuale concreta e l’assunzione di una decisione che non è stata fondata sulla mera violazione formale dei doveri del militare, ma che ne ha apprezzato la gravità “in concreto”, tenendo conto della specificità del fatto commesso.

Né può affermarsi l’omessa considerazione di elementi favorevoli al dipendente, risultando comunque gli stessi nella documentazione personale del medesimo e da ritenersi presi in considerazione nel procedimento disciplinare per cui è causa.

Vi è, dunque, che la gravità del comportamento tenuto è stato ritenuto assorbente e prevalente rispetto ad ogni altro elemento di segno favorevole, sì da ritenere irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario tra amministrazione e dipendente, così giustificandosi la sanzione espulsiva

Conseguentemente, il Collegio ritiene legittima la condotta dell’amministrazione, escludendo che sussistano i profili di macroscopica illegittimità denunziati.

Quanto infine alla questione della difesa del dipendente incolpato in sede disciplinare, con riferimento alla disciplina recata dall’art. 20 del D.P.R 737/81, che impone al dipendente della Polizia di Stato sottoposto a procedimento disciplinare di essere assistito esclusivamente da un difensore appartenente alla medesima Amministrazione, ricorda il Collegio che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 182 del 2008, ha ribadito che la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) è limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale (sentenze n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del 1974), e nel quale il diritto di difesa si riflette in maniera più attenuata, imponendosi in esso, in compenso, e al più alto grado, le garanzie di imparzialità e di trasparenza che circondano l'agire amministrativo (sentenze n. 460 del 2000 e n. 505 del 1995). In tale ambito, ha proseguito la Corte, secondo i principi che ispirano la disciplina del “patrimonio costituzionale comune” relativo al procedimento amministrativo (sentenza n. 104 del 2006), desumibili dagli obblighi internazionali, dall'ordinamento comunitario e dalla legislazione nazionale (art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848; art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000; legge 7 agosto 1990, n. 241) vanno garantiti all’interessato alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la conoscenza degli atti, la partecipazione alla loro formazione e la facoltà di contestare il fondamento e di difendersi dagli addebiti (sentenze n. 460 del 2000 e nn. 505 e 126 del 1995), tra cui quello, mutuato dalla giurisprudenza comunitaria, di essere posto nelle condizioni di far conoscere utilmente il suo punto di vista (Corte di giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, C-32/95 P., Commissione Comunità europea c. Lisrestal).

Ciò posto, in riferimento al procedimento disciplinare relativo ai dipendenti delle forze armate e di Polizia, da cui possono derivare sanzioni che incidono su beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di lavoro, che hanno rilievo costituzionale, la Corte Costituzionale ha ribadito la necessità di salvaguardare la possibilità di un contraddittorio che garantisca il nucleo essenziale di valori inerenti ai diritti inviolabili della persona (sentenza n. 356 del 1995), e ha concluso che, nell’ambito della sfera applicativa del diritto di difesa ai procedimenti amministrativi, non possa considerarsi irragionevole la decisione del legislatore di consentire che l'accusato ricorra a un difensore, ma di limitare, in considerazione della funzione svolta (tutela dell'ordine pubblico), la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione.

E ciò in quanto la mancata previsione, nella norma censurata, della possibilità di nominare quale difensore un avvocato, “anche se il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità prevederla seguendo un modello di più elevata garanzia” (sentenza n. 356 del 1995), non viola né il diritto di difesa, né il principio di ragionevolezza, considerato che la stessa norma consente all'inquisito di partecipare al procedimento e di difendere le proprie ragioni (cfr. T.A.R. Lazio, I quater, 3 aprile 2018 n. 3642).

Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il Collegio respinge il ricorso in esame siccome infondato.

Tenuto conto della peculiarità della controversia, si ravvisano i presupposti di legge per dichiarare le spese del presente giudizio interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare -OMISSIS-.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2018 con l'intervento dei magistrati:

Paolo Passoni, Presidente

Carlo Buonauro, Consigliere

Anna Corrado, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Anna Corrado
Paolo Passoni

IL SEGRETARIO


In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Nessun commento: