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giovedì 21 marzo 2013

TAR: Legittimo il diniego del permesso di soggiorno se non correttamente istaurato il rapporto di lavoro



T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, Sent., 14-02-2013, n. 111
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo
sezione staccata di Pescara (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 420 del 2011, proposto da:
(Lpd), rappresentata e difesa dall'avv.-
contro
Ministero dell'Interno e Questura di Chieti, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in L'Aquila, -
per l'annullamento
del decreto 7 ottobre 2010, n. 944, con il quale il Questore della Provincia di Chieti ha respinto la richiesta di permesso di soggiorno presentata dalla ricorrente; nonché degli atti presupposti e connessi.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e della Questura di Chieti;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2013 il dott. -
Svolgimento del processo
L'attuale ricorrente, cittadina cinese, riferisce di aver fatto ingresso in Italia nell'anno 2009 a seguito del rilascio il 12 agosto 2008 da parte dello Sportello Unico per l'Immigrazione di Chieti del nulla osta al lavoro subordinato nell'ambito del c.d. "decreto flussi" in accoglimento della richiesta nominativa del datore di lavoro sig. (Lpd). Riferisce, altresì, di aver iniziato l'attività lavorativa e di essersi sottoposta il 31 luglio 2009 alla procedura di fotosegnalamento presso la Questura di Chieti.
Riferisce, infine, che si era recata nel giugno 2011 presso gli uffici della Questura per avere notizie circa lo stato della pratica e che in tale occasione le era stato notificato il decreto 7 ottobre 2010, n. 944, con il quale il Questore della Provincia di Chieti aveva respinto la sua richiesta di permesso di soggiorno in ragione della circostanza che il Servizio Ispezioni della Direzione provinciale del Lavoro aveva rilevato la natura meramente fittizia del rapporto di lavoro, che il datore di lavoro era stato denunciato l'11 giugno 2009 per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e che i contributi previdenziali relativi al periodo 1 maggio 2009-30 giugno 2009 erano stati versati dal datore di lavoro al solo fine alleggerire la propria responsabilità.
Con il ricorso in esame ha impugnato dinanzi questo Tribunale tale decreto deducendo le seguenti censure:
1) che non era stato rispettato il principio del contraddittorio e che non era stata data comunicazione del preavviso di rigetto, in quando, non essendo stata reperita all'indirizzo indicato nella domanda, l'Amministrazione avrebbe dovuto seguire il procedimento di cui all'art. 140 del c.p.c.;
2) che, in violazione dell'art. 5, n. 5, del D.Lgs. n. 286 del 1998, nell'adottare l'atto impugnato non si era tenuto conto della circostanza che la ricorrente vive e lavora regolarmente in Italia, cioè non erano stati considerati i nuovi elementi "sopraggiunti" dopo la presentazione della istanza;
3) che la mancata assunzione da parte del datore di lavoro non avrebbe potuto giustificare il diniego, tanto più in quanto la ricorrente ha sempre tenuto una condotta di vita onesta e dignitosa;
4) che era stata rigettata la richiesta sulla base di una "presunta" colpevolezza della ricorrente e senza tener conto degli interessi della stessa;
5) che era stato violato il principio di proporzionalità, in quanto era stata adottata la "misura" maggiormente penalizzante per gli interessi della ricorrente.
Il Ministero dell'Interno si è costituito in giudizio, depositando oltre a tutti gli atti del procedimento anche una analitica relazione del Dirigente dell'ufficio Immigrazione della Questura di Chieti in ordine alle censure dedotte.
Alla pubblica udienza del 7 febbraio 2013 la causa è stata trattenuta a decisione.
Motivi della decisione
1. - Con il ricorso in esame l'attuale ricorrente - che aveva fatto ingresso in Italia nell'anno 2009 a seguito del rilascio il 12 agosto 2008 da parte dello Sportello Unico per l'Immigrazione di Chieti del nulla osta al lavoro subordinato nell'ambito del c.d. "decreto flussi" in accoglimento della richiesta nominativa del datore di lavoro sig. (Lpd) - ha impugnato il decreto 7 ottobre 2010, n. 944, con il quale il Questore della Provincia di Chieti aveva respinto la sua richiesta di permesso di soggiorno in ragione della circostanza che era stata rilevata la natura meramente fittizia del rapporto di lavoro.
Con tale ricorso, proposto a distanza di oltre un anno dall'adozione dell'atto impugnato (che non le era stato notificato, poiché la ricorrente si era resa irreperibile), ha dedotto nella sostanza;
a) il mancato rispetto del principio del contraddittorio, in quanto non le era stata data comunicazione del preavviso di rigetto;
b) la mancata considerazione della circostanza che la ricorrente oggi vive e lavora regolarmente in Italia (cioè, non erano stati considerati i nuovi elementi "sopraggiunti" dopo la presentazione della istanza);
c) che la mancata assunzione non avrebbe potuto giustificare il diniego, tanto più in quanto la ricorrente ha sempre tenuto una condotta di vita onesta e dignitosa;
d) la mancanza di colpa;
e) la violazione del principio di proporzionalità.
Tali doglianze, va subito precisato, sono tutte prive di pregio.
2. - Ai fini del decidere deve partirsi dal rilievo che in materia di immigrazione dei cittadini extracomunitari, la scelta del legislatore è stata quella di individuare una strada intermedia tra l'apertura incondizionata al flusso migratorio e la chiusura totale; tale normativa italiana si ispira, infatti, al principio del c.d. flusso regolato, tendente cioè ad ammettere l'ingresso e il soggiorno degli stranieri nel limite di un numero massimo accoglibile, tale da assicurare loro un adeguato lavoro ed mezzi idonei di sostentamento, così da garantire un livello minimo di dignità e di diritti e, tra questi, quella alla casa e allo studio. Quale corollario alla decisione di porre un limite all'ingresso dei cittadini extracomunitari deriva l'obbligo di espulsione di quei soggetti che non sono in regola, sia in relazione all'ingresso, che al soggiorno
Tutta la legislazione nazionale adottata negli ultimi anni in materia di immigrazione muove, infatti, dalla premessa, frutto di una scelta comune a tutti i Paesi dell'Unione Europea, per la quale nessun soggetto extracomunitario può entrare nello Stato ed ivi stabilmente soggiornare se non sia munito di visto di ingresso e di permesso di soggiorno, e cioè di un titolo amministrativo che lo autorizzi allo stabilimento, alla circolazione e all'attività per le specifiche tassative ragioni indicate dalla legge stessa. Il permesso di soggiorno abilita, infatti, alla permanenza in Italia per i motivi per i quali è stato rilasciato, salva la possibilità di svolgere ulteriori attività, laddove ciò sia espressamente consentito dalla legge.
L'autorizzazione al lavoro ed il permesso di soggiorno sono titoli inscindibilmente collegati al datore di lavoro che ha presentato l'originaria istanza e non costituiscono, al momento dell'ingresso, una dote di cui il cittadino straniero può disporre a proprio piacimento, perché ammettere siffatta possibilità significherebbe vanificare la funzione fondamentale cui sono preordinati i controlli preliminari espletati e compromettere l'intero sistema delineato dal legislatore per regolamentare l'ingresso ed il soggiorno dei cittadini extracomunitari nel territorio dello Stato. La mancata effettiva instaurazione del rapporto di lavoro, oltre ad ingenerare legittimi dubbi in ordine alla serietà della proposta di assunzione che ha superato indenne tutti i controlli preliminari previsti ed a far sorgere il sospetto che possa essere stata avanzata da un datore, privo forse di tutti i requisiti richiesti, o addirittura per altri motivi, comporta, infatti, quale immediata e ben più grave conseguenza che non vi è alcuna certezza che lo straniero possa soggiornare in Italia in maniera dignitosa e mantenersi con i proventi leciti del proprio lavoro.
È per tali motivi, pertanto, che il sistema delineato dal legislatore porta ragionevolmente a ritenere che l'autorizzazione concessa non possa valere, al momento del primo ingresso, per instaurare un rapporto di lavoro diverso da quello per cui è stata rilasciata e che anzi la mancata instaurazione del rapporto autorizzato faccia venire meno in capo allo straniero quei requisiti stabiliti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato.
La formalizzazione del rapporto di lavoro con la ditta che ha attivato la procedura di cui all'art. 22, D.Lgs. n. 286 del 1998, intesa come effettiva instaurazione del rapporto di lavoro, è da ritenersi, pertanto, condizione legale di efficacia dell'autorizzazione stessa e requisito di validità del contratto di assunzione con quello specifico datore di lavoro, che ha regolarmente esperito la necessaria procedura preventiva di richiesta di ingresso nominativa, per un periodo, mansioni ed orario precedentemente indicati.
Si è, pertanto, affermato (T.A.R. Campania, sede Napoli, sez. VI, 25 settembre 2009, n. 5092, e da ultimo T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 15 novembre 2012, n. 418) che la determinazione amministrativa di diniego del permesso di soggiorno sull'assunto del mancato perfezionamento del rapporto di lavoro presso la ditta che ha attivato la procedura rientra, a pieno titolo, tra i poteri che competono all'Amministrazione, che è tenuta a verificare la sussistenza delle condizioni legali.
Fatta tale precisazione, deve in punto di fatto evidenziarsi che la ricorrente, entra in Italia nei primi mesi del 2009 non risulta che abbia svolto alcuna attività lavorativa con il datore di lavoro (il sig. (Lpd)) che aveva presentato la richiesta nominativa, il quale, peraltro, era stato denunciato per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
L'attuale ricorrente, dopo aver presentato la domanda di rilascio del permesso di soggiorno, ha, peraltro, abbandonato il domicilio indicato nella domanda e si è resa irreperibile.
Con decreto 7 ottobre 2010, n. 944, il Questore ha, pertanto, negato il richiesto permesso di soggiorno.
Nel giugno 2011 la straniera ha chiesto notizie del permesso richiesto ed, una volta ricevuta la notifica del diniego, ha proposto la seguente impugnativa.
3. - Ciò detto, ritiene il Collegio che le predette doglianze, siano tutte prive di pregio.
Quanto, invero, al mancato rispetto del principio del contraddittorio, va, infatti, evidenziato che la straniera non aveva mai comunicato, come era suo onere, il cambio di residenza e la nuova attività lavorativa, rendendosi di fatto irreperibile per quasi due anni; né si era mai preoccupata di acquisire informazioni in ordine alla richiesta presentata di rilascio del permesso di soggiorno (T.A.R. Lombardia, sede Milano, sez. III, 20 gennaio 2011, n. 154); per cui la mancata partecipazione al procedimento e la mancata comunicazione del preavviso di rigetto sono da attribuirsi alla predetta irreperibilità, non essendo l'Amministrazione tenuta a svolgere ulteriori ricerche per individuare la straniera.
Ugualmente infondata è, poi, anche la doglianza con la quale l'istante ha lamentato la mancata considerazione della sua "attuale" attività lavorativa.
Deve al riguardo ricordarsi che l'art. 5 del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) prevede testualmente al n. 5 che "il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati ... sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili".
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza ha costantemente chiarito che se è vero che l'Amministrazione deve tenere conto di situazioni sopravvenute, ciò vale solo con riguardo a fatti o circostanze (ad esempio, il conseguimento di un posto di lavoro più remunerato o l'aggiunta di nuovi redditi familiari nel frattempo verificatasi) intervenuti fino al momento di adozione del provvedimento di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, mentre, se sopravvenute rispetto al provvedimento stesso, tali circostanze non sono in grado di minarne la legittimità, restando incerta la provenienza dei mezzi di sostentamento nel periodo precedente il provvedimento (Cons. St., sez. VI, 27 agosto 2010, n. 5994, e T.A.R. Lombardia, sede Milano, sez. III, 10 novembre 2011, n. 2709); con la conseguenza che l'interessato, in tale ipotesi, può solo sottoporre all'Amministrazione una nuova istanza di rilascio del permesso di soggiorno che dia rilievo ai "sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio", quale, ad esempio, il conseguimento di una situazione reddituale più elevata (Cons. St., sez. VI, 13 maggio 2010, n. 2952).
Tale art. 5, invero, non può essere inteso nel senso di consentire una indefinita introducibilità di fatti nuovi favorevoli all'interessato, ascrivibili a qualunque epoca successiva all'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, vigendo piuttosto un principio di serietà e correttezza nel circoscrivere la valenza temporale delle emergenze sopravvenute alla stessa scadenza del permesso, che devono essere procedimentali, cioè conoscibili dall'Amministrazione, e non quindi verificatesi al di fuori della rappresentazione operata dalla Amministrazione procedente (T.A.R. Liguria, sez. II, 17 febbraio 2011, n. 310).
Con riferimento a tali conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza - e già recepite da questa stessa Sezione con la sentenza 3 luglio 2012, n. 329 - ritiene il Collegio che possono assumere rilievo in questa sede, cioè ai fini dell'esame della legittimità dell'impugnato atto del 7 ottobre 2010 di rifiuto del permesso di soggiorno, i soli fatti "sopraggiunti" prima di tale data che erano stati portati a conoscenza dell'Amministrazione.
Ciò posto, deve ritenersi che non avendo la ricorrente dimostrato con una documentazione convincente di avere svolto attività lavorativa prima della data di adozione dell'atto impugnato (risultano agli atti, infatti, delle buste paga di un modestissimo importo del febbraio-aprile 2011), il provvedimento di diniego appare giustificato, anche in relazione a quello che è stato il comportamento della straniera, che, a fronte delle svolgimento di un'articolata attività istruttoria da parte della Questura di Chieti, si è nella sostanza resa irreperibile.
Né, ovviamente può oggi utilmente farsi riferimento all'attività lavorativa che si assume in atto alla data odierna, in quanto questa attività, come già detto, avrebbe potuto solo giustificare la presentazione di una nuova istanza di rilascio del permesso di soggiorno ai sensi, ad esempio, della normativa sopravvenuta contenuta nell'art. 5 del D.Lgs. 16 luglio 2012, n. 109 (domanda che il difensore della ricorrente ha escluso che sia stata presentata), ma non il rilascio del permesso di soggiorno richiesto nel 2009.
Quanto, poi, alla circostanza che la mancata assunzione non avrebbe potuto giustificare il diniego, già sopra si è ampiamente chiarita la normativa vigente, che non può tener conto, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno in questione, né della condotta di vita delle straniera, né della sua mancanza di colpa.
Risulta, infine, inapplicabile il principio di proporzionalità, dato che nella specie non possono per legge essere assunte delle "misure" diverse (e "più miti") da quella adottata dall'Amministrazione.
4. - Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame deve, conseguentemente, essere respinto.
Sussistono, tuttavia, in relazione alla complessità della normativa applicabile alla fattispecie e delle questioni interpretative che tale normativa pone, giuste ragioni per disporre la totale compensazione tra le parti delle spese e degli onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo sezione staccata di Pescara (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

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