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Cassazione Civile
Sez. lavoro, Sent. n. 22893 del 09 settembre 2008
Discriminazione per motivi sindacali e mobbing:Sez. lavoro, Sent. n. 22893 del 09 settembre 2008
- differenze
c.c. art. 2087
c.c. art. 2103
c.p.c. art. 437
L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15
La
condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di
lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto
lavorativo (cosiddetto "mobbing")
si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria
per motivi sindacali: richiedendosi, nel primo caso, una pluralità di
atti e comportamenti (eventualmente anche leciti in sé considerati)
unificati dall'intento di intimorire psicologicamente il dipendente e
funzionali alla sua emarginazione, attuandosi, invece, la
discriminazione per motivi sindacali, anche attraverso un unico atto o
comportamento e connotandosi di illiceità di per sé, in quanto diretta a
realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione
della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere
da un intento di emarginazione. Ne consegue che la domanda con cui si
deduca, quale autonomo motivo di illegittimità della condotta datoriale,
il "mobbing"
ha una "causa petendi" differente rispetto alla domanda diretta alla
repressione di atti discriminatori per ragioni sindacali e, ove venga
introdotta per la prima volta in appello, va dichiarata inammissibile.
(Rigetta, App. L'Aquila, 28 ottobre 2004)
Sez. lavoro, Sent. n. 22893 del 09-09-2008 (ud. del 18-06-2008), B.M.G. c. "Teatro Stabile Abruzzese" (rv. 605116)
ASSOCIAZIONI SINDACALI - LAVORO (RAPPORTO) - PROCEDIMENTO CIVILE - RESPONSABILITA' CIVILE
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-09-2008, n. 22893
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-09-2008, n. 22893
Svolgimento del processo
Con
ricorso depositato il 28/2/03, B.M.G. proponeva appello contro la
sentenza del Tribunale di L'Aquila, con la quale era stato respinto il
suo ricorso diretto ad ottenere la declaratoria della nullità degli atti
discriminatori posti in essere ai suoi danni dal datore di lavoro
Teatro Stabile (OMISSIS) e la condanna della controparte alla cessazione
di quel comportamento ed al risarcimento dei danni derivanti dalla
dequalificazione subita e dei danni morali. Lamentava che il Tribunale
aveva male interpretato la domanda da lei proposta ed aveva emesso
statuizioni ultronee sull'iniziale procura rilasciata dal direttore del
T.S.A. al proprio legale e affermazioni errate sulla seconda procura
rilasciata dal Vice Presidente dell'ente.
Deduceva
che il Giudice di primo grado aveva omesso l'esame della corposa
documentazione allegata al ricorso introduttivo e che da questa, nonchè
dai capitoli di prova testimoniale articolati nel ricorso ex art. 414 c.p.c. e non ammessi dal Tribunale, risultava provato il mobbing posto in essere dal datore di lavoro.
Insisteva, pertanto, nell'accoglimento della domanda proposta con il ricorso introduttivo.
Il
Teatro Stabile (OMISSIS) si costituiva ed eccepiva la nullità del
ricorso in appello e, in via subordinata, della notificazione dello
stesso perchè la copia notificata non era integra e, in particolare,
mancava delle pagine dalla n. 23 in poi. Assegnato un termine per
rinnovare la notificazione dell'atto di appello, il T.S.A. contestava
nel merito la fondatezza del gravame, di cui chiedeva il rigetto. Con
sentenza del 30 settembre-28 ottobre 2004, l'adita Corte d'appello,
ritenuto che la doglianza della B., e posta a fondamento del ricorso
introduttivo, concerneva una pretesa discriminazione sindacale alla
quale ella era stata soggetta, che tuttavia era rimasta sfornita di
prova, rigettava il gravame, escludendo che la questione potesse essere
esaminata sotto il profilo del mobbing, perchè nuova.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre B.M.G. con tre motivi.
Resiste il Teatro Stabile Abruzzese con controricorso. La B. ha anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c., con cui si eccepisce, tra l'altro, la nullità della procura speciale posta a margine del controricorso.
Motivi della decisione
Va preliminarmente disattesa l'eccezione, sollevata dalla B. nella memoria ex art. 378 c.p.c.,
di "nullità della procura speciale di controparte", sottoscritta
dall'avv. Alfonso Ciccozzi, a margine del controricorso prodotto in
giudizio. Invero, l'art. 365 c.p.c., richiamato dalla
ricorrente, si limita a prevedere che, affinchè possa instaurarsi un
valido giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione, devono sussistere
alcuni requisiti indefettibili tra cui, nel caso che qui interessa,
quello dell'iscrizione nell'apposito Albo speciale dei patrocinanti
dinanzi alle Magistrature Superiori.
Nella
specie, l'avv. Alfonso Ciccozzi, sottoscrittore del controricorso,
risulta pacificamente iscritto in detto Albo e, pertanto, nessuna
nullità può farsi derivare da siffatta situazione, a nulla rilevando il
conferimento della procura "congiuntamente e disgiuntamente" anche
all'avv. Ferdinando Paone, non iscritto nell'Albo, che non ha svolto,
quanto meno sul piano formale, alcuna attività difensiva.
Del
tutto inappropriati alla tesi sostenuta dalla ricorrente sono, del
resto i richiami, alle sentenze 9078/2003 e 11533/1998, le quali si
limitano a ribadire la inammissibilità del ricorso per cassazione
sottoscritto da un avvocato munito di procura speciale che non risulti
iscritto nell'albo speciale di cui al R.D. n. 1578 del 1933, art. 33,
contenente l'elenco degli avvocati ammessi al patrocinio innanzi alla
Corte di Cassazione ed altre giurisdizioni speciali.
Passando ai motivi di ricorso, con il primo di essi la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c.,
n. 5, in relazione alla L. 20 maggio n. 300, art. 15 inesatta e
contraddittoria motivazione nonchè mancata ed erronea valutazione di
fatti presupposti, lamenta che la Corte d'Appello di L'Aquila abbia
inteso l'atto di appello sotto profili di "discriminazione sindacale"
piuttosto che, come in effetti era ed è, come richiesta di declaratoria
di nullità di atti discriminatori nell'ambiente di lavoro e conseguente
richiesta di risarcimento danni.
I Giudici di
secondo grado - puntualizza la ricorrente - pur dando atto che il
ricorso introduttivo risultava "...intestato come ricorso L. n. 300 del 1970,
ex art. 15 ..." avrebbero trascurato di considerare che l'indicato
articolo, sotto la lettera a), specificamente prevede e sanziona
l'attività sindacale del datore di lavoro mentre, sotto la lettera b),
sanziona i cd. atti vessatori, e quindi anche quelli risolventisi nel
mobbing. Il motivo è infondato.
Invero, il Giudice d'appello, dopo aver chiarito che il ricorso ex art. 414 c.p.c., risultava intestato come "ricorso L. n. 300 del 1970,
ex art. 15", ha osservato che nelle sue conclusioni si leggeva la
richiesta della dichiarazione della "nullità degli atti discriminatori
dai quali era conseguita la dequalificazione" e che la domanda di
risarcimento dei danni era avanzata, testualmente, come conseguente alla
prima richiesta (cioè a quella di declaratoria di nullità degli atti
discriminatori). Nella narrativa dell'atto, i vari atti e comportamenti
denunziati dalla lavoratrice erano dalla stessa spiegati come tutti
basati su "un intento discriminatorio collegato a specifiche ragioni di
carattere sindacale" ed anche la dequalificazione "si caratterizza(va)
per lo stretto rapporto con tale motivo illecito della discriminazione
sindacale, discriminazione che aveva fatto sorgere nel Direttore del TSA
l'intento di nuocere alla lavoratrice per il solo fatto di essere "...
l'unica iscritta al Sindacato Autonomo Libersind ..." che, a giudizio
del Direttore del TSA avrebbe causato l'uscita dello stesso Ente dal
novero dei teatri Stabili".
Interpretando la
domanda, il Giudice d'appello ha quindi individuato causa petendi e
petitum, osservando che la B. aveva dedotto di essere discriminata per
motivi sindacali ed aveva chiesto, ai sensi della L. n. 300 1970, art. 15, la rimozione della discriminazione ed il risarcimento dei danni.
Ha
aggiunto ancora il Giudice del gravame che solo nel ricorso in appello
la B. ha proposto, quale autonomo motivo di illegittimità della condotta
datoriale, il mobbing. In proposito, ha correttamente osservato che il
mobbing (vale a dire la condotta scientemente vessatoria nei confronti
di un lavoratore posta in essere dal datore di lavoro - o da altri
dipendenti - al fine di isolare od espellere il dipendente dal contesto
lavorativo) rappresenta una condotta diversa da quella discriminatoria
per motivi sindacali e che se può ben darsi che la condotta mobbizzante
comprenda anche atti o comportamenti lesivi dei diritti sindacali,
tuttavia le due fattispecie sono chiaramente distinte. Il mobbing
richiede che venga posta in essere una pluralità di atti e comportamenti
(eventualmente anche leciti, in sè e per sè considerati) unificati
dall'intento di "terrorizzare" psicologicamente il dipendente e
finalizzati alla sua emarginazione;
la
discriminazione per motivi sindacali, invece, si attua anche attraverso
un unico atto o comportamento, è illecita di per sè (cioè per lo stesso
fatto di operare una diversità di trattamento o di realizzare un
pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività
sindacali), è caratterizzata dal motivo (quello sindacale) e prescinde
dall'intento di emarginare il lavoratore.
Da
tali premesse ha fatto coerentemente discendere la conseguenza che una
domanda diretta alla repressione di atti discriminatori fondati su
motivi sindacali ha una causa petendi diversa rispetto a quella che
caratterizza un'azione proposta contro il mobbing posto in essere dalla
controparte datoriale. Ha, inoltre, opportunamente precisato che nel
ricorso di primo grado, pur essendo stato utilizzato il termine mobbing,
rimaneva, tuttavia, ferma la determinante ed esclusiva impostazione
della domanda sulla repressione di comportamenti discriminatori per
motivi sindacali; mentre, solamente nel ricorso in appello le richieste
trovavano fondamento sul mobbing in sè e per sè considerato, operando
tuttavia, in questa maniera, una inammissibile modificazione della
domanda, tenuto conto, tra l'altro, che, a tal fine, venivano
introdotte, per la prima volta nella vicenda processuale, tutta una
serie di vicissitudini processuali che avevano vista contrapposta la
ricorrente all'ente e che non erano state affatto citate nel ricorso di
primo grado.
Analoghe considerazioni andavano
fatte -sempre secondo la Corte di merito - a proposito del nuovo
incarico comunicato alla ricorrente con la lettera del 12.7.01 e
relativo alle mansioni di responsabile della gestione del personale del
Teatro, in quanto, mentre nel ricorso in appello la B. lamentava di non
svolgere in realtà alcun compito, nel ricorso di primo grado (depositato
ben cinque mesi dopo la predetta missiva), la B. aveva dedotto che, dal
16.7.01, si trovava "di fatto a svolgere le mansioni di responsabile di
gestione dei personale del teatro Comunale". Non consentita era,
dunque, una simile modificazione della versione dei fatti, giacchè -
come ancora puntualizzato dal Giudice a quo- nel ricorso di primo grado
motivi di illegittimità del mutamento di mansioni erano la
dequalificazione delle nuove mansioni ed il mutamento di sede e di
orario lavorativo, ma non l'inattività cui sarebbe stata costretta a
seguito della modifica delle mansioni che anzi, la B. affermava di
svolgere concretamente. Quanto, poi, alla pretesa dequalificazione non è
certo possibile -secondo la Corte territoriale-, in difetto di
qualsiasi specificazione da parte della ricorrente, sostenere che i
compiti di responsabile gestionale del personale fossero inferiori
rispetto a quelli precedentemente svolti, di natura amministrativa
contabile, mentre riguardo al mutamento della sede di lavoro e
dell'orario (quest'ultimo rimasto contenuto nei limiti del normale
orario di lavoro, essendo risultata modificata solamente la sua
articolazione), trattavasi delle inevitabili e lecite conseguenze del
provvedimento di mutamento di mansioni legittimamente adottato dal
datore di lavoro.
Va, a questo punto,
rammentato, in conformità alla consolidata giurisprudenza di questa
Corte regolatrice che nella specie deve, ulteriormente, confermarsi, che
la interpretazione della domanda giudiziale è operazione riservata al
giudice del merito.
Il giudizio espresso al
riguardo dal detto giudice, risolvendosi in un accertamento di fatto,
non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera
congrua e adeguata, avendo riguardo all'intero contesto dell'atto, senza
che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua
formulazione testuale nonchè del contenuto sostanziale, in relazione
alle finalità che la parte intende perseguire (v. Cass. 26 giugno 2007
n. 14751; Cass. 14 marzo 2006, n. 5491).
Contemporaneamente,
non può non ribadirsi, ulteriormente, che nell'indagine diretta alla
individuazione e qualificazione della domanda giudiziale, il giudice di
merito come di legittimità non è condizionato dalla formula adottata
dalla parte, dovendo egli tener presente essenzialmente il contenuto
sostanziale della pretesa, desumibile, oltre che dal tenore delle
deduzioni svolte nell'atto introduttivo e nei successivi scritti
difensivi, anche dallo scopo cui la parte mira con la sua richiesta
(Cass. 6 aprile 2006, n. 8107/Cass. 14 marzo 2006, n. 5442).
Pacifici,
in diritto, i principi sopra esposti si osserva che nella specie il
giudice del merito ha interpretato la domanda contenuta nell'atto
introduttivo del giudizio di primo grado esaminando i fatti e motivando
non in base alla qualificazione datane dall'interessato ma in base ai
fatti stessi, aggiungendo che nel ricorso in appello erano stati
indicati fatti nuovi. Quel giudice ha, altresì, indicato - puntualmente e
analiticamente - le ragioni alla luce delle quali è pervenuti alla
ricordata conclusione.
Con il secondo motivo
la ricorrente, denunciando mancata ed erronea valutazione delle prove
documentali prodotte ed omessa motivazione sulle prove richieste in
primo grado, muove inammissibilmente censure alla sentenza di primo
grado che parzialmente ed erroneamente avrebbe interpretato le stesse.
Omette, peraltro, la ricorrente, in ispregio del principio di
autosufficienza, la trascrizione del testo integrale del documento di
riferimento o della parte significativa dello stesso documento nonchè
dei capitoli di prova non ammessi, al fine di consentire il vaglio della
decisività (Cass. 1913 8/2004;
9711/2004).
Al
riguardo, si osserva, infatti, in una con una giurisprudenza pacifica
di questa Corte, che il ricorso per cassazione - in ragione del
principio di cosiddetta autosufficienza dello stesso - deve contenere in
se tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si
chiede la cassazione della sentenza di merito ed altresì a permettere la
valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far
rinvio ed accedere - particolarmente nel caso in cui si tratti di
interpretare il contenuto di una scrittura di parte - a fonti estranee
allo stesso ricorso e quindi ad elementi od atti attinenti al pregresso
giudizio di merito (Cass. 30 agosto 2004, n. 17369; Cass. 13 agosto
2004, n. 15867; Cass. 10 agosto 2004, n. 15412; Cass. 13 settembre 1999,
n. 9734, tra le tante).
Il ricorrente per
cassazione - pertanto - il quale deduca l'omessa o insufficiente
motivazione della sentenza impugnata in relazione alla valutazione di
una decisiva risultanza processuale ha l'onere di indicare in modo
adeguato e specifico la risultanza medesima, dato che per il principio
dell'autosufficienza del ricorso per cassazione il controllo deve essere
consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute
nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini
integrative (Cass. 13 maggio 1999, n. 4754).
In
analogo vizio incorre la B. in relazione al terzo motivo, con cui si
denuncia mancata ed errata interpretazione dello Statuto dell'ente
teatrale con riferimento alla legale rappresentanza in giudizio, non
avendo ottemperato all'onere di riprodurre nel ricorso il tenore esatto
del documento, il cui omesso o inadeguato esame è censurato.
Per quanto precede, il ricorso va rigettato.
Stimasi
compensare tra le parti le spese di questo giudizio, in considerazione
della peculiarità della situazione di fatto e delle difficoltà
interpretative della stessa.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 18 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2008
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