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martedì 10 marzo 2015

Cassazione: Discriminazione per motivi sindacali e mobbing: - differenze



Nuova pagina 1
Cassazione Civile
Sez. lavoro, Sent. n. 22893 del 09 settembre 2008
Discriminazione per motivi sindacali e mobbing:
- differenze
 c.c. art. 2087
c.c. art. 2103
c.p.c. art. 437
L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15

La condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo (cosiddetto "mobbing") si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria per motivi sindacali: richiedendosi, nel primo caso, una pluralità di atti e comportamenti (eventualmente anche leciti in sé considerati) unificati dall'intento di intimorire psicologicamente il dipendente e funzionali alla sua emarginazione, attuandosi, invece, la discriminazione per motivi sindacali, anche attraverso un unico atto o comportamento e connotandosi di illiceità di per sé, in quanto diretta a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere da un intento di emarginazione. Ne consegue che la domanda con cui si deduca, quale autonomo motivo di illegittimità della condotta datoriale, il "mobbing" ha una "causa petendi" differente rispetto alla domanda diretta alla repressione di atti discriminatori per ragioni sindacali e, ove venga introdotta per la prima volta in appello, va dichiarata inammissibile. (Rigetta, App. L'Aquila, 28 ottobre 2004)
Sez. lavoro, Sent. n. 22893 del 09-09-2008 (ud. del 18-06-2008), B.M.G. c. "Teatro Stabile Abruzzese" (rv. 605116)
ASSOCIAZIONI SINDACALI   -   LAVORO (RAPPORTO)   -   PROCEDIMENTO CIVILE   -   RESPONSABILITA' CIVILE
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-09-2008, n. 22893
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 28/2/03, B.M.G. proponeva appello contro la sentenza del Tribunale di L'Aquila, con la quale era stato respinto il suo ricorso diretto ad ottenere la declaratoria della nullità degli atti discriminatori posti in essere ai suoi danni dal datore di lavoro Teatro Stabile (OMISSIS) e la condanna della controparte alla cessazione di quel comportamento ed al risarcimento dei danni derivanti dalla dequalificazione subita e dei danni morali. Lamentava che il Tribunale aveva male interpretato la domanda da lei proposta ed aveva emesso statuizioni ultronee sull'iniziale procura rilasciata dal direttore del T.S.A. al proprio legale e affermazioni errate sulla seconda procura rilasciata dal Vice Presidente dell'ente.
Deduceva che il Giudice di primo grado aveva omesso l'esame della corposa documentazione allegata al ricorso introduttivo e che da questa, nonchè dai capitoli di prova testimoniale articolati nel ricorso ex art. 414 c.p.c. e non ammessi dal Tribunale, risultava provato il mobbing posto in essere dal datore di lavoro.
Insisteva, pertanto, nell'accoglimento della domanda proposta con il ricorso introduttivo.
Il Teatro Stabile (OMISSIS) si costituiva ed eccepiva la nullità del ricorso in appello e, in via subordinata, della notificazione dello stesso perchè la copia notificata non era integra e, in particolare, mancava delle pagine dalla n. 23 in poi. Assegnato un termine per rinnovare la notificazione dell'atto di appello, il T.S.A. contestava nel merito la fondatezza del gravame, di cui chiedeva il rigetto. Con sentenza del 30 settembre-28 ottobre 2004, l'adita Corte d'appello, ritenuto che la doglianza della B., e posta a fondamento del ricorso introduttivo, concerneva una pretesa discriminazione sindacale alla quale ella era stata soggetta, che tuttavia era rimasta sfornita di prova, rigettava il gravame, escludendo che la questione potesse essere esaminata sotto il profilo del mobbing, perchè nuova.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre B.M.G. con tre motivi.
Resiste il Teatro Stabile Abruzzese con controricorso. La B. ha anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c., con cui si eccepisce, tra l'altro, la nullità della procura speciale posta a margine del controricorso.

Motivi della decisione

Va preliminarmente disattesa l'eccezione, sollevata dalla B. nella memoria ex art. 378 c.p.c., di "nullità della procura speciale di controparte", sottoscritta dall'avv. Alfonso Ciccozzi, a margine del controricorso prodotto in giudizio. Invero, l'art. 365 c.p.c., richiamato dalla ricorrente, si limita a prevedere che, affinchè possa instaurarsi un valido giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione, devono sussistere alcuni requisiti indefettibili tra cui, nel caso che qui interessa, quello dell'iscrizione nell'apposito Albo speciale dei patrocinanti dinanzi alle Magistrature Superiori.
Nella specie, l'avv. Alfonso Ciccozzi, sottoscrittore del controricorso, risulta pacificamente iscritto in detto Albo e, pertanto, nessuna nullità può farsi derivare da siffatta situazione, a nulla rilevando il conferimento della procura "congiuntamente e disgiuntamente" anche all'avv. Ferdinando Paone, non iscritto nell'Albo, che non ha svolto, quanto meno sul piano formale, alcuna attività difensiva.
Del tutto inappropriati alla tesi sostenuta dalla ricorrente sono, del resto i richiami, alle sentenze 9078/2003 e 11533/1998, le quali si limitano a ribadire la inammissibilità del ricorso per cassazione sottoscritto da un avvocato munito di procura speciale che non risulti iscritto nell'albo speciale di cui al R.D. n. 1578 del 1933, art. 33, contenente l'elenco degli avvocati ammessi al patrocinio innanzi alla Corte di Cassazione ed altre giurisdizioni speciali.
Passando ai motivi di ricorso, con il primo di essi la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione alla L. 20 maggio n. 300, art. 15 inesatta e contraddittoria motivazione nonchè mancata ed erronea valutazione di fatti presupposti, lamenta che la Corte d'Appello di L'Aquila abbia inteso l'atto di appello sotto profili di "discriminazione sindacale" piuttosto che, come in effetti era ed è, come richiesta di declaratoria di nullità di atti discriminatori nell'ambiente di lavoro e conseguente richiesta di risarcimento danni.
I Giudici di secondo grado - puntualizza la ricorrente - pur dando atto che il ricorso introduttivo risultava "...intestato come ricorso L. n. 300 del 1970, ex art. 15 ..." avrebbero trascurato di considerare che l'indicato articolo, sotto la lettera a), specificamente prevede e sanziona l'attività sindacale del datore di lavoro mentre, sotto la lettera b), sanziona i cd. atti vessatori, e quindi anche quelli risolventisi nel mobbing. Il motivo è infondato.
Invero, il Giudice d'appello, dopo aver chiarito che il ricorso ex art. 414 c.p.c., risultava intestato come "ricorso L. n. 300 del 1970, ex art. 15", ha osservato che nelle sue conclusioni si leggeva la richiesta della dichiarazione della "nullità degli atti discriminatori dai quali era conseguita la dequalificazione" e che la domanda di risarcimento dei danni era avanzata, testualmente, come conseguente alla prima richiesta (cioè a quella di declaratoria di nullità degli atti discriminatori). Nella narrativa dell'atto, i vari atti e comportamenti denunziati dalla lavoratrice erano dalla stessa spiegati come tutti basati su "un intento discriminatorio collegato a specifiche ragioni di carattere sindacale" ed anche la dequalificazione "si caratterizza(va) per lo stretto rapporto con tale motivo illecito della discriminazione sindacale, discriminazione che aveva fatto sorgere nel Direttore del TSA l'intento di nuocere alla lavoratrice per il solo fatto di essere "... l'unica iscritta al Sindacato Autonomo Libersind ..." che, a giudizio del Direttore del TSA avrebbe causato l'uscita dello stesso Ente dal novero dei teatri Stabili".
Interpretando la domanda, il Giudice d'appello ha quindi individuato causa petendi e petitum, osservando che la B. aveva dedotto di essere discriminata per motivi sindacali ed aveva chiesto, ai sensi della L. n. 300 1970, art. 15, la rimozione della discriminazione ed il risarcimento dei danni.
Ha aggiunto ancora il Giudice del gravame che solo nel ricorso in appello la B. ha proposto, quale autonomo motivo di illegittimità della condotta datoriale, il mobbing. In proposito, ha correttamente osservato che il mobbing (vale a dire la condotta scientemente vessatoria nei confronti di un lavoratore posta in essere dal datore di lavoro - o da altri dipendenti - al fine di isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo) rappresenta una condotta diversa da quella discriminatoria per motivi sindacali e che se può ben darsi che la condotta mobbizzante comprenda anche atti o comportamenti lesivi dei diritti sindacali, tuttavia le due fattispecie sono chiaramente distinte. Il mobbing richiede che venga posta in essere una pluralità di atti e comportamenti (eventualmente anche leciti, in sè e per sè considerati) unificati dall'intento di "terrorizzare" psicologicamente il dipendente e finalizzati alla sua emarginazione;
la discriminazione per motivi sindacali, invece, si attua anche attraverso un unico atto o comportamento, è illecita di per sè (cioè per lo stesso fatto di operare una diversità di trattamento o di realizzare un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali), è caratterizzata dal motivo (quello sindacale) e prescinde dall'intento di emarginare il lavoratore.
Da tali premesse ha fatto coerentemente discendere la conseguenza che una domanda diretta alla repressione di atti discriminatori fondati su motivi sindacali ha una causa petendi diversa rispetto a quella che caratterizza un'azione proposta contro il mobbing posto in essere dalla controparte datoriale. Ha, inoltre, opportunamente precisato che nel ricorso di primo grado, pur essendo stato utilizzato il termine mobbing, rimaneva, tuttavia, ferma la determinante ed esclusiva impostazione della domanda sulla repressione di comportamenti discriminatori per motivi sindacali; mentre, solamente nel ricorso in appello le richieste trovavano fondamento sul mobbing in sè e per sè considerato, operando tuttavia, in questa maniera, una inammissibile modificazione della domanda, tenuto conto, tra l'altro, che, a tal fine, venivano introdotte, per la prima volta nella vicenda processuale, tutta una serie di vicissitudini processuali che avevano vista contrapposta la ricorrente all'ente e che non erano state affatto citate nel ricorso di primo grado.
Analoghe considerazioni andavano fatte -sempre secondo la Corte di merito - a proposito del nuovo incarico comunicato alla ricorrente con la lettera del 12.7.01 e relativo alle mansioni di responsabile della gestione del personale del Teatro, in quanto, mentre nel ricorso in appello la B. lamentava di non svolgere in realtà alcun compito, nel ricorso di primo grado (depositato ben cinque mesi dopo la predetta missiva), la B. aveva dedotto che, dal 16.7.01, si trovava "di fatto a svolgere le mansioni di responsabile di gestione dei personale del teatro Comunale". Non consentita era, dunque, una simile modificazione della versione dei fatti, giacchè - come ancora puntualizzato dal Giudice a quo- nel ricorso di primo grado motivi di illegittimità del mutamento di mansioni erano la dequalificazione delle nuove mansioni ed il mutamento di sede e di orario lavorativo, ma non l'inattività cui sarebbe stata costretta a seguito della modifica delle mansioni che anzi, la B. affermava di svolgere concretamente. Quanto, poi, alla pretesa dequalificazione non è certo possibile -secondo la Corte territoriale-, in difetto di qualsiasi specificazione da parte della ricorrente, sostenere che i compiti di responsabile gestionale del personale fossero inferiori rispetto a quelli precedentemente svolti, di natura amministrativa contabile, mentre riguardo al mutamento della sede di lavoro e dell'orario (quest'ultimo rimasto contenuto nei limiti del normale orario di lavoro, essendo risultata modificata solamente la sua articolazione), trattavasi delle inevitabili e lecite conseguenze del provvedimento di mutamento di mansioni legittimamente adottato dal datore di lavoro.
Va, a questo punto, rammentato, in conformità alla consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice che nella specie deve, ulteriormente, confermarsi, che la interpretazione della domanda giudiziale è operazione riservata al giudice del merito.
Il giudizio espresso al riguardo dal detto giudice, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua e adeguata, avendo riguardo all'intero contesto dell'atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonchè del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (v. Cass. 26 giugno 2007 n. 14751; Cass. 14 marzo 2006, n. 5491).
Contemporaneamente, non può non ribadirsi, ulteriormente, che nell'indagine diretta alla individuazione e qualificazione della domanda giudiziale, il giudice di merito come di legittimità non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tener presente essenzialmente il contenuto sostanziale della pretesa, desumibile, oltre che dal tenore delle deduzioni svolte nell'atto introduttivo e nei successivi scritti difensivi, anche dallo scopo cui la parte mira con la sua richiesta (Cass. 6 aprile 2006, n. 8107/Cass. 14 marzo 2006, n. 5442).
Pacifici, in diritto, i principi sopra esposti si osserva che nella specie il giudice del merito ha interpretato la domanda contenuta nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado esaminando i fatti e motivando non in base alla qualificazione datane dall'interessato ma in base ai fatti stessi, aggiungendo che nel ricorso in appello erano stati indicati fatti nuovi. Quel giudice ha, altresì, indicato - puntualmente e analiticamente - le ragioni alla luce delle quali è pervenuti alla ricordata conclusione.
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando mancata ed erronea valutazione delle prove documentali prodotte ed omessa motivazione sulle prove richieste in primo grado, muove inammissibilmente censure alla sentenza di primo grado che parzialmente ed erroneamente avrebbe interpretato le stesse. Omette, peraltro, la ricorrente, in ispregio del principio di autosufficienza, la trascrizione del testo integrale del documento di riferimento o della parte significativa dello stesso documento nonchè dei capitoli di prova non ammessi, al fine di consentire il vaglio della decisività (Cass. 1913 8/2004;
9711/2004).
Al riguardo, si osserva, infatti, in una con una giurisprudenza pacifica di questa Corte, che il ricorso per cassazione - in ragione del principio di cosiddetta autosufficienza dello stesso - deve contenere in se tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere - particolarmente nel caso in cui si tratti di interpretare il contenuto di una scrittura di parte - a fonti estranee allo stesso ricorso e quindi ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. 30 agosto 2004, n. 17369; Cass. 13 agosto 2004, n. 15867; Cass. 10 agosto 2004, n. 15412; Cass. 13 settembre 1999, n. 9734, tra le tante).
Il ricorrente per cassazione - pertanto - il quale deduca l'omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata in relazione alla valutazione di una decisiva risultanza processuale ha l'onere di indicare in modo adeguato e specifico la risultanza medesima, dato che per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 13 maggio 1999, n. 4754).
In analogo vizio incorre la B. in relazione al terzo motivo, con cui si denuncia mancata ed errata interpretazione dello Statuto dell'ente teatrale con riferimento alla legale rappresentanza in giudizio, non avendo ottemperato all'onere di riprodurre nel ricorso il tenore esatto del documento, il cui omesso o inadeguato esame è censurato.
Per quanto precede, il ricorso va rigettato.
Stimasi compensare tra le parti le spese di questo giudizio, in considerazione della peculiarità della situazione di fatto e delle difficoltà interpretative della stessa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 18 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2008

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