Mobbing: Cassazione, ecco come ottenere il risarcimento del danno
INFORTUNI SUL LAVORO - RESPONSABILITA' CIVILE
Cass. civ. Sez. lavoro, 17-02-2009, n. 3785
Cass. civ. Sez. lavoro, 17-02-2009, n. 3785
Svolgimento del processo
Con
ricorso al Tribunale di Torino G.M. conveniva in giudizio Poste
Italiane s.p.a. e premesso di aver svolto le mansioni di portalettere
dal (OMISSIS) fino all'(OMISSIS), esponeva che il giorno (OMISSIS)
scendendo dall'autovettura di servizio era scivolato su una lastra di
ghiaccio battendo violente mente la testa e riportando lesioni personali
per le quali l'INAIL gli aveva riconosciuto una invalidità dell'11%.
Sosteneva il ricorrente che l'infortunio sul lavoro era da imputarsi a
colpa delle Poste che non lo avevano dotato di idonee scarpe
antiscivolo. Riferiva, altresì, che dal (OMISSIS) all'(OMISSIS) la
direttrice dell'ufficio postale di (OMISSIS), presso il quale prestava
servizio, non tenendo alcun conto delle sue condizioni di salute, lo
obbligava ad effettuare lavoro straordinario, gli imponeva di sollevare
pesanti pacchi di corrispondenza, lo poneva in cattiva luce nei
confronti dei colleghi di lavoro redarguendolo in loro presenza e lo
minacciava di licenziamento, così cagionandogli un profondo stato
depressivo.
Tanto premesso chiedeva la
condanna della società convenuta al pagamento di Euro 15.735,34 a titolo
di risarcimento del danno biologico conseguente all'infortunio del
(OMISSIS); chiedeva altresì la condanna della società al risarcimento
del danno biologico, da determinarsi tramite CTU, per il presunto
"mobbing" subito nell'ufficio di (OMISSIS).
La s.p.a. Poste Italiane si costituiva e resisteva alle domande.
Il
Tribunale di Torino, con sentenza depositata il 27.11.2003, respingeva
il ricorso. L'appello proposto dal lavoratore veniva respinto dalla
Corte di Appello di Torino con sentenza depositata il 1 luglio 2005
sulla base delle seguenti considerazioni: a) nessuna responsabilità ex art. 2087 c.c.,
era imputabile al datore di lavoro per l'infortunio del (OMISSIS)
perchè nessuna norma impone alla spa Poste Italiane di dotare i
portalettere di scarpe antiscivolo e perchè operando il portalettere in
condizioni ambientali variabili nell'arco delle ore lavorative,
calzature adatte ad un certo terreno e a determinate condizioni
climatiche non lo erano per luoghi e condizioni diverse, sicchè non si
poteva stabilire in anticipo quali calzature fossero adatte per tutte le
ore di lavoro; b) dalle testimonianze raccolte era emersa una
situazione di continua conflittualità tra la direttrice dell'Ufficio,
che esigeva prestazioni di lavoro straordinario, ed il G. che non
intendeva farle, mentre nulla era stato provato in ordine alla richiesta
di sollevare pacchi pesanti, per cui non era risultata provata una
condotta prevaricatrice e vessatoria della direttrice nei confronti
dell'appellante configurante il c.d. mobbing. Per la cassazione di tale
sentenza G.M. ha proposto ricorso sostenuto da due motivi. Poste
Italiane s.p.a. resiste con controricorso illustrato con memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell'art. 41 Cost. e art. 2087 c.c.,
nonchè vizi di motivazione, e sostiene: che l'obbligo del datore di
lavoro di adottare tutte le misure idonee ad impedire infortuni non si
esaurisce nella mera osservanza di norme di legge o contrattuali, ma si
estende all'adozione di tutte quelle misure che siano idonee a garantire
l'incolumità dei lavoratori in base alla comune esperienza ed alle
regole della tecnica; che sul lavoratore infortunato grava solo l'onere
di provare il danno e la sua derivazione dall'ambiente di lavoro, mentre
spetta al datore di lavoro l'onere di provare di aver adottato tutte le
misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dal
dipendente, si rendano necessarie per tutelarne l'integrità fisica;
che
dunque ha errato il giudice di appello non ravvisando alcuna
responsabilità delle Poste, malgrado queste non avessero assolto
all'onere probatorio su di loro incombente.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 2087, 2043 e 2049 c.c., violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
nonchè vizi di motivazione, e sostiene: che il giudice di appello non
ha fatto buon governo delle prove testimoniali raccolte omettendo di
prendere in esame quelle dalle quali emergeva il comportamento
vessatorio della direttrice dell'Ufficio (testimonianze di L. D., R.G.,
I.L. e T.C.) e fondando invece il suo giudizio su testimonianze, o su
passi di testimonianze, favorevoli alla società, peraltro senza motivare
in alcun modo tale scelta.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza di legittimità è costante nell'affermare che l'art. 2087 cod. civ.,
non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del
datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni
volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della
prestazione lavorativa, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre
riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento,
concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o
contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza, il cui
accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di
merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e
congruamente motivato (Cass. n. 6018/2000, n. 1579/2000). Quanto
all'onere della prova, al lavoratore che lamenti di aver subito un danno
alla salute a causa dell'attività lavorativa svolta incombe l'onere di
provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro e
il nesso causale fra questi due elementi; quando il lavoratore abbia
provato tali circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di
dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il
verificarsi del danno (Cass. n. 16881/2006, n. 7328/2004, n.
12467/2003).
A questi principi si è
correttamente attenuta la Corte di Appello laddove ha osservato che,
mentre nessuna norma, legale o contrattuale, impone alle Poste di dotare
i portalettere di scarpe antiscivolo, non è neppure ravvisabile la
responsabilità della società per violazione di norme di comune prudenza,
in quanto la presenza di ghiaccio sulla strada è una situazione legata a
particolari condizioni climatiche e ambientali non facilmente
prevedibili in anticipo, anche perchè il portalettere, dovendo spostarsi
sul territorio, può incontrare condizioni, sia atmosferiche che
ambientali, molto diverse e variabili nel corso della giornata
lavorativa. La Corte Territoriale ha così dato congrua spiegazione della
mancanza di colpa del datore di lavoro nella produzione dell'evento
dannoso subito dal dipendente e tale accertamento di fatto, per essere
congruamente e logicamente motivato, non è suscettibile di censura in
sede di legittimità.
Parimenti infondato è il
secondo motivo di ricorso. Per "mobbing" (nozione elaborata dalla
dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica) si intende comunemente
una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico,
sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore
nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione
o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione
morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo
equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini
della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono
pertanto rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei
comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se
considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento
vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del
dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o
del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica
del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento
persecutorio.
La Corte di Appello ha ritenuto
che le testimonianze raccolte, pur evidenziando l'esistenza di contrasti
tra la dirigente dell'ufficio ed il G. in ordine alle modalità di
svolgimento delle prestazioni di lavoro da parte del dipendente, non
sono tuttavia tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio
del dirigente dell'ufficio postale di (OMISSIS) nei confronti del
lavoratore.
Con la censure in esame il
ricorrente assume che il giudice del gravame non abbia valutato
correttamente le prove, trascurando le prove testimoniali o le parti
delle prove testimoniali favorevoli alle tesi del G. e privilegiando
invece quelle a questi contrarie. Una siffatta censura non tiene conto
però della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui il vizio
di omessa o insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per
Cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, non può
consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove
dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte. Al
riguardo è appena il caso di ricordare che secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte il compito di valutare le prove e di
controllarne l'attendibilità e la concludenza, di individuare le fonti
del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del
processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità
dei fatti e di dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova,
spetta in via esclusiva al giudice del merito; di conseguenza la
deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della
sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione
delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di
riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo
vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della
correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle
argomentazioni svolte dal giudice di merito (cfr. tra le tante Cass. n.
6064/2008, n. 17076/2007, n. 3994/2005, n. 11933/2003, n. 5231/2001).
Nella
specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal giudice
di appello sono congruamente motivate e l'iter logico- argomentativo che
sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando
alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Per
contro, le censure mosse dal ricorrente si risolvono sostanzialmente
nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e
delle stesse circostanze di fatto già valutate dal giudice di merito in
senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono
nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del
tutto inammissibile in sede di legittimità.
In
definitiva, il ricorso deve essere respinto con conseguente condanna
del ricorrente al pagamento, in favore del resistente, delle spese del
giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 22,00 per esborsi
ed in Euro duemila per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2009
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