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lunedì 30 novembre 2015

Cassazione: No alle battute pesanti contro militari del gentil sesso




 
ABUSO DI AUTORITA' MILITARE   -   CASSAZIONE PENALE   -   REATO MILITARE
Cass. pen. Sez. I, (ud. 14-01-2010) 03-02-2010, n. 4599
Fatto - Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con sentenza 08/07/2009 la Corte Militare di Appello confermava la sentenza 04/07/2008 del G.U.P. del Tribunale Militare di Roma con la quale M.D. era stato condannato alla pena di mesi sei di reclusione militare, perchè giudicato colpevole dei reati di cui all'art. 81 c.p., e art. 196 c.p.m.p., comma 2, e art. 199 c.p.m.p., (fatti commessi in (OMISSIS)).
La Corte territoriale perveniva alla sua decisione rilevando che l'istruttoria dibattimentale aveva adeguatamente provato che l'imputato, maresciallo impegnato in qualità di istruttore di nuoto e di educazione fisica presso la scuola di fanteria di (OMISSIS), durante il periodo di addestramento ivi svolto, aveva indirizzato alle inferiori in grado, caporal maggiore C.M. e caporale Ma.So., "espressioni e comportamenti assolutamente idonei a ledere il loro prestigio e la loro dignità", espressioni e comportamenti analiticamente descritti nel capo di imputazione.
Confutando poi le doglianze prospettate dall'appellante, la Corte di merito rilevava, quanto alla possibile esimente di cui all'art. 199 c.p.m.p., che i fatti avvennero mentre l'imputato era in servizio ed alla presenza di tutto il personale, che le parti offese ebbero a rendere testimonianze attendibili, confermate da testi presenti ( Mo. e V.), che il carattere offensivo delle frasi contestate e del gesto di calarsi i pantaloni e mostrare il di dietro era palese nell'in sè della condotta e per il senso letterale delle parole usate, in relazione, altresì, alla qualità delle persone offese, giovani donne all'inizio di una carriera militare, verso le quali frasi e comportamenti erano stati indirizzati.
Ricorre per cassazione avverso detta sentenza l'imputato, con l'assistenza del suo difensore di fiducia, denunciandone l'illegittimità con quattro motivi di impugnazione.
Lamenta in particolare la difesa ricorrente, col primo motivo di gravame, violazione dell'art. 199 c.p.m.p., sul rilievo che, diversamente da quanto affermato dal giudice di secondo grado: a) le condotte contestate al capo c) della rubrica si sono consumate cinque minuti dopo l'attività di addestramento ginnico - sportivo, quindi ormai al di fuori del servizio; b) nessun teste ha affermato che l'episodio era avvenuto alla presenza di altri militari, neppure indicati, peraltro, dalla parte offesa Ma..
Con il secondo motivo deduce che anche gli altri episodi, segnatamente quello del 29 novembre, in cui l'imputato affiancò l'autovettura ove si trovavano V. e C. per proferire la frase "quanto prendi?", ovvero l'altro, in cui alla Ma. venne detto "che occhi profondi che hai", sarebbero avvenuti al di fuori del servizio perchè ad addestramento ormai concluso.
Col terzo motivo di impugnazione censura la difesa ricorrente la sentenza di merito sotto il profilo della violazione di legge e del difetto di motivazione, giacchè le condotte contestate risultano consumate in un ambiente militare, ove non può distinguersi lo spirito militaresco tra militari donne e militari di sesso maschile, distinzione, viceversa, valorizzata dalla Corte di merito, che avrebbe altresì ghettizzato le posizioni delle due parti offese anche quando la condotta dell'imputato si rivolse a tutti i partecipanti all'addestramento, in particolare quando, in testa al gruppo e senza vedere chi fosse dietro di sè, ebbe a calarsi i pantaloni (di pochissimo, annota la difesa).
Col quarto motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente il difetto di motivazione in ordine alla interpretazione data dai giudici di merito alla frase indirizzata dal M. alla C.: "quanto prendi?". Deduce sul punto il ricorrente che la frase non fu rivolta alla C., che, anzi, proprio dal prosieguo di battute si evince che la frase scherzosa era rivolta al V., il quale accompagnava la C., e che il V. fu indicato dal M. con la successiva frase "a quello con i capelli corti". Di qui il dedotto difetto di motivazione, in quanto era stata privilegiata la versione della parte offesa, la quale, proprio per tale qualità, andava valutata con pregnante e particolare motivazione, nello specifico omessa.
Insufficiente si appaleserebbe, altresì, la motivazione con riferimento all'elemento psicologico del reato, in quanto il M. trattò le ragazze come parte integrante del gruppo, tenendo atteggiamenti solitamente tollerati negli ambienti militari, di guisa che non si può pervenire all'affermazione circa la sussistenza del dolo senza tener conto di ciò ed esclusivamente valutando "la natura stessa delle frasi adoperate".
La Corte di merito, inoltre, avrebbe del tutto ignorato le dichiarazioni del ten. P., favorevoli all'imputato, e la circostanza che le stesse parti offese non avrebbero indicato riscontri per confermare le loro affermazioni.
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, in quanto i motivi di impugnazione costituiscono la pedissequa riproposizione delle doglianze di merito, puntualmente confutate dalla Corte territoriale con motivazione ampia, logica e giuridicamente corretta.
Ciò posto, giova qui ribadire che la funzione dell'indagine di legittimità sulla motivazione non è quella di sindacare l'intrinseca attendibilità dei risultati dell'interpretazione delle prove e di attingere il merito dell'analisi ricostruttiva dei fatti, bensì quella, del tutto diversa, di accertare se gli elementi probatori posti a base della decisione siano stati valutati seguendo le regole della logica e secondo linee argomentative adeguate, che rendano giustificate, sul piano della consequenzialità, le conclusioni tratte, verificando la congruenza dei passaggi logici. Di qui l'ulteriore principio di diritto affermato reiteratamente da questa Corte, secondo cui ad una logica valutazione dei fatti operata dal giudice di merito, non può quello di legittimità opporne un'altra, ancorchè altrettanto logica (Cass. 5.12.02 Schiavone; Cass. 6.05.03 Curcillo).
Palese, nel caso di specie, l'insistito tentativo difensivo di dare degli accadimenti di causa una versione diversa da quella motivatamente accreditata dai giudici territoriali, diversamente interpretando frasi, fatti, circostanze, si ribadisce, motivatamente valutati in chiave accusatoria dai giudici di primo e di secondo grado.
Nè possono ravvisarsi nel caso di specie gli estremi della esimente dedotta dal ricorrente, atteso che anche in relazione a tale punto la Corte di merito ha svolto una logica e puntuale motivazione, chiarendo da un lato che l'imputato commise i fatti mentre era impegnato nello specifico servizio di istruttore di nuoto e di educazione fisica in presenza di altri militari riuniti per servizio (vedi in particolare l'episodio dell'abbassamento dei pantaloni e delle mutande), dall'altro che l'atteggiamento offensivo era diretto proprio nei confronti delle due ragazze, in quanto appartenenti all'altro sesso (vedi la frase rivolta alla C. "quanto vuoi" oppure le mani poste sulla schiena della Ma. mentre la stessa svolgeva un esercizio di stretching accompagnando tale frase con le parole "ehh, sii..., sii"). Al riguardo appare corretta l'interpretazione operata dai giudici di merito, in quanto la circostanza che da cinque minuti fosse terminata l'attività ginnica dell'addestramento e che gli attori della vicenda in esame fossero ormai intenti ad esaurire il loro impegno istituzionale, non esclude affatto che essi si trovassero a pieno titolo ad operare in costanza del servizio stesso. Infatti le condotte immediatamente successive all'attività di addestramento, quali il tornare verso gli spogliatoi, ovvero prepararsi semplicemente ad abbandonare la palestra o il campo di addestramento, ovvero il semplice portare sacche ed attrezzi verso la propria autovettura per fare ritorno a casa, integrano modalità dell'agire strettamente ed immediatamente collegati al servizio prestato, nei termini richiesti dall'art. 199 c.p.m.p., contenente la clausola di esclusione del reato.
Pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma in favore della Cassa delle Ammende, che si stima equo determinare in Euro 1.000,00, non risultando assenza di colpa del ricorrente nella proposizione del ricorso (Corte Cost. sent. n. 186/2000).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 (mille) alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2010

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