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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
D.M.,
elettivamente domiciliato in , presso lo studio dell'avvocato che lo
rappresenta e difende unitamente all'avvocato , giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
BILLA
AKTIENGESELLSHAFT SEDE SECONDARIA IN ITALIA, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,
rappresentata e difesa dall'avvocato giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 777/05 della Corte d'Appello di MILANO, depositata il 22/11/05 - R.G.N. 391/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/12/07 dal Consigliere Dott.
udito l'Avvocato
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. , che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con
ricorso alla Corte d'appello di Milano la Sede secondaria in Italia
della Bilia Aktiengesellshaft ha proposto appello avverso la sentenza
del Tribunale che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta
causa da essa intimato a D.V. M., il quale prestava servizio presso il
reparto macelleria del supermercato Standa da essa gestito. La società
ha censurato la sentenza impugnata sia perchè l'addebito del 9 dicembre
2002, da cui era scaturito il licenziamento - diversamente da quanto
ritenuto dal Tribunale - non poteva considerarsi tardivo rispetto al
tempo in cui essa era venuta a conoscenza dei plurimi, scorretti
comportamenti di D.V. lamentati dalle tre dipendenti del reparto
macelleria a lui sottordinate, sia perchè non erano state adeguatamente
valutate, nel contesto gerarchico specifico, la posizione di supremazia
del dipendente licenziato a fronte dei suoi sottoposti e le connesse
responsabilità, anche di carattere fiduciario, in ambito aziendale.
Con
sentenza del 22 novembre 2005 la Corte d'appello ha affermato, in primo
luogo, che la lettera di contestazione non poteva ritenersi tardiva. Ha
osservato, inoltre, che le risultanze testimoniali avevano confermato
l'atteggiamento ed il lessico usati da D. V. nei confronti delle tre
addette al reparto, che essi non potevano considerarsi giustificati
dall'esercizio del potere gerarchico e che il datore di lavoro non
poteva, peraltro, consentire situazioni di sopraffazione o violenze,
fisiche o verbali, avendo egli l'obbligo di tutelare anche la
personalità morale dei dipendenti. Ed in riforma dell'impugnata sentenza
ha rigettato le domande proposte in primo grado.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione D.V., formulando due motivi di gravame, illustrati da memoria difensiva.
La società resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 c.c., e L. n. 604 del 1966, art. 1,
e L..n. 300 del 1970, artt. 7 e 18, con riferimento all'art. 151 del
c.c.n.l. del 27/2/2001, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), con particolare
riferimento alla riduzione ad uno solo degli addebiti, rispetto alle
plurime contestazioni originarie; alla valutazione della sua condotta a
fronte della situazione oggettiva; alla proporzionalità della sanzione
ed alla reattività giustificata dallo "scarso rendimento" delle
dipendenti; nonchè alla mancata previsione del fatto residuale
contestato da parte della norma collettiva sopra richiamata.
Con il secondo motivo di ricorso si sostiene la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., e L. n. 300 del 1970, art. 7; ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c.,
nn. 1 e 3). Si denunzia essenzialmente il ritardo nella contestazione
degli addebiti rispetto alla estrema evidenza di esse, le quali
avrebbero comportato una reazione datoriale più immediata ed improntata a
buona fede.
Il secondo motivo di ricorso, da
esaminare preliminarmente in ordine logico, è palesemente destituito di
fondamento. La sentenza impugnata ha richiamato anzitutto la
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il principio della
immediatezza va inteso in senso relativo (dovendosi tener conto della
specifica natura dell'illecito disciplinare e dei tempi occorrenti
all'imprenditore per le necessarie indagini). Ed ha quindi, affermato
che la lettera di contestazione era stata inviata a D.V. "a pochi giorni
di distanza" dalla denunzia scritta delle sue colleghe e che pertanto
non risultava "tardiva", neanche considerando il fatto che gli
atteggiamenti descritti nella denunzia sarebbero perdurati da un mese,
non essendovi peraltro prova che i singoli episodi fossero stati di
volta in volta riferiti all'azienda ed essendo piuttosto plausibile che
sia stata la loro ripetizione sistematica a determinare le colleghe del
capo - reparto a richiedere l'intervento dei superiori.
Premesso
che - per costante giurisprudenza - la valutazione relativa alla
tardività o meno della contestazione è rimessa al Giudice di merito e,
se adeguatamente motivata, incensurabile in questa sede, si osserva che
la Corte territoriale ha svolto una precisa analisi in ordine al tempo
intercorso tra l'acquisizione degli elementi indispensabili ai fini
della loro rilevanza disciplinare e la contestazione formulata nei
confronti di D.V., si che il giudizio da essa espresso in termini
esaurienti resiste ai rilievi del ricorrente.
Anche il primo è motivo infondato.
La
sentenza impugnata, ritenendo evidentemente che alcuni degli illeciti
inizialmente contestati a D.V. (vendita di merce a prezzi inferiori di
quelli indicati, prelievo di merce dai rispettivi reparti, ecc.) non
fossero stati adeguatamente dimostrati attraverso gli elementi acquisiti
("Dalle risultanze testimoniali, seppure non univoche su tutti gli
addebiti contestati, ..."), ha affermato anzitutto che, viceversa, era
stato con sicurezza confermato l'atteggiamento assunto ed il lessico
adoperato da questi nei confronti delle tre addette al reparto,
atteggiamento e lessico che formavano, cioè, oggetto del primo degli
addebiti formulati nei suoi confronti e che è stato testualmente
riportato dal ricorrente (avere usato nei confronti delle tre donne
addette al suo reparto espressioni scurrili ("bastarde, figlie di
puttana, toglietevi dai c... io qui non vi voglio, vi faccio licenziare
tutte e tre, andate a lavorare altrimenti vi faccio un c... così"). Ha
osservato, quindi, che tale condotta non poteva certo ritenersi
giustificata dall'esercizio del potere gerarchico nei confronti dei
sottoposti, siccome oggettivamente sproporzionata, rilevando in
particolare che il Tribunale non aveva tenuto sufficientemente conto del
fatto che, per quanto l'ambiente di lavoro possa essere informale, nel
comportamento e nel lessico usato non ci si può spingere fino alle
maniere rozze ed eccessive e ad usare la voce alta, peraltro nelle
vicinanze degli spazi frequentati dalla clientela del negozio, per
richiamare i dipendenti ad una più esatta osservanza delle loro
obbligazioni. Ha aggiunto che - come ben osservato dall'appellante il
datore di lavoro non può consentire situazioni di sopraffazione o
violenze, fisiche o verbali, essendo a suo carico l'obbligo di tutela
anche della personalità morale dei dipendenti (art. 2087 c.c.).
Ed ha affermato in via conclusiva che tali considerazioni inducevano a
ritenere sussistenti le ragioni legittimanti il licenziamento in
discussione.
Contrariamente a quanto dedotto
dal ricorrente, il giudizio espresso dalla sentenza impugnata in ordine
alla gravità dei comportamenti presi in considerazione (sia pure in
numero più limitato rispetto a quelli originar) ed alla coerenza della
sanzione applicata appare adeguatamente condotto sotto il profilo sia
soggettivo sia oggettivo e, costituendo tipica valutazione di merito, si
sottrae pertanto alla sua censurabilità in sede di legittimità.
Quanto
al primo, la Corte territoriale ha invero sottolineato il carattere
"rozzo ed eccessivo" delle espressioni da D.V. rivolte alle tre
dipendenti, in violazione dei principi di civiltà che non ammettono
eccezione o attenuazione neppure nell'ambito delle relazioni
professionali allorchè ledono, per la forma scurrile e triviale, la
dignità e l'amor proprio del personale, oltretutto sottoposto a vincolo
di gerarchia nei confronti dell'autore di tali scorrettezze; la cui
inaccettabilità non può essere, poi, bilanciata dalla mancanza di
precedenti sanzioni disciplinari nei riguardi del ricorrente.
Sotto
il profilo oggettivo, poi, il Giudice di appello non ha mancato di
sottolineare il contesto nel quale quel comportamento si inscriveva (un
reparto commerciale a stretto contatto con la clientela, posta così in
grado di percepire le mortificanti espressioni profferite dal
ricorrente), nè la responsabilità cui sarebbe andato altrimenti incontro
il datore di lavoro se non avesse evitato che le sue dipendenti fossero
ulteriormente esposte agli atteggiamenti lesivi della loro dignità
posti in essere dal loro capo reparto.
Nè può,
infine, acquistare rilievo l'asserzione del ricorrente, secondo cui la
condotta contestata non sarebbe prevista quale causa di recesso per
giusta causa dal contratto collettivo applicabile nella fattispecie in
quanto, in disparte ogni considerazione sul carattere vincolante o meno
di tali previsioni, la normativa invocata, in violazione del principio
di autosufficienza, non è stata riportata nel testo dal ricorso per
cassazione.
In definitiva, il ricorso deve
essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese
processuali, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali, che liquida in euro 24,00, oltre Euro 2.000,00, per
onorari, oltre spese generali IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 17
dicembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2008
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